Smettiamola di denominare le leggi elettorali con la desinenza latina “um”: mattarellum, porcellum, italicum. Un uso invalso a seguito di una battuta di spirito (quale fu all’origine nella versione di Sartori) che, se ripetuta all’infinito, diventa noiosa e volgare.
Parliamo di legge elettorale e basta.
I fatti sono noti. La legge vigente è stata dichiarata dalla Corte Costituzionale legittima e praticabile salvo il previsto ballottaggio tra le prime due liste che non abbiano raggiunto il 40% e il criterio per le candidature multiple. Considerato che – al momento attuale – la percentuale del 40% sembra irraggiungibile da qualsiasi partito ne deriva di fatto una legge proporzionale corretta da un modesto sbarramento del 3%. Si tornerebbe quindi a privilegiare la rappresentanza rispetto alla governabilità con un’inversione di tendenza stupefacente.
In realtà, poiché la legge è stata comunque modificata dalla Corte, un nuovo passaggio parlamentare pare inevitabile non soltanto dal punto di vista giuridico ma anche semplicemente per motivi di correttezza. E a questo punto sarà impossibile evitare una riapertura dei giochi a tutto campo perché in effetti un ritorno alla proporzionale nelle attuali condizioni non lo vuole nessuno (salvo forse il movimento cinque stelle che ha tutto da guadagnare da una situazione di instabilità di governo).
Inoltre c’è il problema del Senato. Immaginata dal partito renziano come un corollario alla riforma istituzionale che prevedeva la soppressione del Senato elettivo, la nuova legge elettorale non teneva conto del bicameralismo. Bocciata la riforma non vi è dubbio che alle prossime elezioni si voterà anche per i senatori e difficilmente si potrà conservare per esso una legge elettorale tanto difforme da quella che regolerà l’elezione della Camera dei deputati. Un accordo rapido e bi-partisan – come vorrebbe Renzi – trova quindi molti ostacoli sul suo cammino e la chiave del gioco – ancora una volta – passa nelle mani di Berlusconi, il quale non sembra interessato ad elezioni anticipate anche perché spera entro l’anno di ottenere alla corte di giustizia di Strasburgo un verdetto favorevole che gli consenta di rimettersi in gioco.

Forse sbaglio, ma ho l’impressione che Gentiloni possa dormire sonni tranquilli; si arriverà alla fine dell’anno senza un accordo definitivo, e da lì alla scadenza naturale del 2018 il passo sarà breve. Anche perché il presidente Mattarella non sembra entusiasta di sciogliere le Camere senza una visione chiara del “dopo”, soprattutto in un momento in cui l’Italia ha la presidenza di turno del G7 e la politica internazionale, già scossa dalla Brexit e dall’elezione di Trump, dovrà fare i conti con le elezioni in Olanda, Francia e Germania. A proposito della quale va detto che la candidatura di Schulz per i socialisti apre nuove prospettive, sia nel caso che la Merkel superi la difficile prova elettorale sia nell’eventualità di una nuova grande coalizione con i socialisti; se c’è un personaggio capace di imprimere un nuovo slancio all’unificazione politica dell’Europa questi è l’ex presidente del Parlamento europeo Martin Schulz.

Chi vivrà vedrà.

Franco Chiarenza
26 gennaio 2017

Ho la brutta abitudine di leggere sempre in ritardo i nuovi libri; così ho finito soltanto adesso la lettura di questo scritto di Luigi Compagna pubblicato nel 2015. Un bel libro in cui l’autore ricostruisce con intelligenza le vicende dell’”Italietta” post-risorgimentale, con particolare attenzione al decennio giolittiano, sfociate poi nello scontro tra neutralisti e interventisti che portò l’Italia a partecipare alla prima guerra mondiale sul fronte opposto alle alleanze in cui fino a quel momento si era riconosciuta.
Compagna giustamente, nel ricostruire con grande attenzione le vicende delle “radiose giornate” del maggio 1915, colloca la decisione del governo italiano in un ambito esclusivamente circoscritto alla politica interna, a sua volta condizionata dallo scontro, politico e culturale, tra l’empirismo giolittiano e le diverse componenti che convergevano soltanto nell’avversione a Giolitti e al suo sistema di governo. L’entrata in guerra con l’Intesa fu sostanzialmente un modo per eliminare Giolitti dalla scena politica, obiettivo su cui con diverse motivazioni e assai differenti obiettivi, si ritrovarono insieme il nazionalismo sentimentale e irrazionale di D’Annunzio (ma anche di Prezzolini, Marinetti e di altri precursori del fascismo), l’opposizione democratica degli “onesti” che denunciavano come criminali i sistemi di governo di Giolitti (come Salvemini e Albertini), e le ambizioni di Vittorio Emanuele III che forse voleva passare alla storia come il re che aveva completato l’unità d’Italia perseguita dai suoi avi (o forse soltanto già stanco dei vuoti riti parlamentari e preoccupato delle incognite politiche e sociali che l’allargamento del suffragio stava determinando).
Compagna riprende bene il filo rosso che attraversa il liberalismo italiano di quegli anni con una particolare attenzione a Croce il quale proprio alla vigilia della “grande guerra” diventa più attento alla politica contingente e salda quel rapporto con Giolitti che lo porterà al ministero della pubblica istruzione nel breve governo che lo statista di Dronero presiedette nel 1920. Nella spaccatura che attraversa il liberalismo italiano passa la linea di frontiera tra le due concezioni politiche e ideologiche che si confrontano in quegli anni; e si tratta di divisioni talmente profonde che anche a fronte di fenomeni nuovi che irrompono sulla scena politica come gli sviluppi del partito socialista e l’emergere di un partito di massa di ispirazione cattolica non cessano di combattersi e facilitano in tal modo la presa del potere da parte del fanatismo nazionalista che trova in Mussolini il suo interprete.

Col fascismo, nella fase iniziale, tutti i liberali svolgono un ruolo ambiguo. Quelli che si rifacevano all’empirismo giolittiano (e tra essi Croce) pensavano a un possibile riassorbimento del fascismo nell’ordine costituzionale dopo avergli lasciato il “lavoro sporco” di restaurare l’autorità dello Stato fortemente compromessa dal “biennio rosso” e dalle velleità rivoluzionarie che l’avevano accompagnato. I liberali democratici duri e puri come Gobetti e Salvemini da parte loro dicevano apertamente di preferire Mussolini (visto come un rivoluzionario “riassorbibile” nella prassi democratica) al corrotto notabilato parlamentare del giolittismo. Quando fu chiaro che il fascismo era cosa diversa, assai più strutturato (anche culturalmente) di quanto essi ritenessero e che non era possibile utilizzarlo per poi disfarsene ma, al contrario, erano i liberali che erano stati utilizzati dal fascismo nascente per legittimarsi di fronte a quei “poteri forti” (monarchia, grande industria, esercito) che sarebbero ancora stati in grado di arrestarne l’avanzata, il dietro-front fu rapido e unanime ma tardivo; la saldatura tra lo Stato borghese monarchico e la dittatura fascista era ormai avvenuta e solo l’ingenuità di Giovanni Amendola poteva immaginare che la Corona sarebbe intervenuta a impedirla.

Nonostante gli errori certamente imputabili a Giolitti e ai suoi metodi di governo (peraltro non molto diversi da quelli utilizzati dai suoi oppositori) la simpatia dell’autore va senza dubbio allo statista piemontese; partendo da una riflessione di Rosario Romeo sulla sostanziale delegittimazione dei parlamenti post-unitari egemonizzati da una borghesia che non riconosceva neanche indirettamente diritti di rappresentanza ai nuovi ceti sociali cittadini e rurali emergenti, Compagna osserva giustamente che questa appunto era la preoccupazione di Giolitti e che si deve al suo pragmatismo e alla sua sottile “dittatura” se tramite un parlamento così poco rappresentativo egli sia riuscito ad allargare progressivamente il suffragio, consentendo così a socialisti e cattolici di entrare nel gioco politico attraverso le istituzioni e non fuori di esse. Così, senza interrompere un processo graduale ma la cui direzione era chiara (e dichiarata) Giolitti poté svolgere un’azione riformatrice profonda anche se silenziosa, fondata su un corretto funzionamento delle strutture ordinarie dello Stato, che portò a grandi miglioramenti nella salute della popolazione, nella lotta all’analfabetismo, nei diritti sindacali, nel tenore di vita delle plebi meridionali, come ebbe a ricordare Benedetto Croce in un famoso discorso alla Consulta nel 1945 (opportunamente riproposto nel libro di Compagna) e in cui – finalmente – il filosofo napoletano accoglie definitivamente il principio che nella realtà delle cose concrete il liberalismo non era possibile senza democrazia (non meno di quanto la democrazia abbia bisogno di fondamenti liberali per sopravvivere alle tentazioni totalitarie).

Molto interessante, anche se suscettibile di ulteriori approfondimenti, il capitolo in cui si analizza il rapporto intercorso in sede di giudizio storico tra i leader comunisti italiani e l’esperienza giolittiana; problematico ma sostanzialmente positivo in Togliatti, negativo invece per Gramsci ma con motivazioni che, da un punto di vista liberale portano invece a riconoscere la funzione stabilizzatrice ma non inerte dei governi di Giolitti.
Corre in tutto il libro il confronto tra i diversi modi – non solo astrattamente culturali – di praticare il liberalismo nel lungo periodo in cui i liberali hanno governato l’Italia: dall’idealismo crociano che gradualmente si incrocia e si incontra col pragmatismo della borghesia piemontese (di cui Giolitti rappresenta la più completa espressione) all’insofferenza morale (che diventa moralistica) per la mancata rivoluzione delle coscienze che è l’essenza del giacobinismo mazziniano di Salvemini (e del suo odio per Croce oltreché naturalmente per Giolitti) fatalmente destinato ad incrociarsi col fanatismo nazionalista e con le forme più estreme dell’irrazionalismo che ha accompagnato la crisi dei valori borghesi all’inizio del XX secolo. Il drammatico risultato che ne è conseguito è consistito in due conflitti mondiali che hanno distrutto l’Europa non soltanto materialmente ma anche facendo venir meno l’egemonia culturale che nel bene e nel male essa aveva esercitato nei secoli precedenti.

Un bel libro dunque che consiglio agli amici di leggere anche per la sua imprevedibile attualità. Arrivati alla fine ci si chiede: non avremmo bisogno di un nuovo Giolitti non solo per la sua intelligenza strategica ma anche e forse soprattutto per la capacità di tradurre i grandi obiettivi nella politica quotidiana, quella che arriva in tutte le case, “senza più riscontro nella legislazione attuale (farraginosa e irta di piccole misure inutili e dannose) dove si riconosceva una formazione svoltasi alla scuola di una magistratura e di una burocrazia intelligenti, ordinate”. Parole di Togliatti in una conferenza su Giolitti negli anni ’50. Il quale così concludeva: “La chiara legislazione e la ordinaria amministrazione giolittiana sono l’ultimo bagliore di un passato”.

 

Franco Chiarenza

 

Luigi Compagna – Italia 1915. In guerra contro Giolitti. – Rubbettino (Soveria Mannelli, 2015) Pag. 187 – euro 14,00

Dal discorso di insediamento di Trump c’erano poche sorprese da attendersi e infatti così è stato.
Il nuovo presidente ha confermato – nei suoi tratti essenziali – la sua linea politica tutta orientata sui problemi interni della sicurezza, sia intesa come difesa dalle minacce del terrorismo sia come mantenimento dei posti di lavoro e della centralità della classe media (prevalentemente ma non soltanto bianca). “America first” non è soltanto uno slogan ma una precisa strategia che comporta alcune rilevanti conseguenze.

La prima – di cui si sono già viste le prime avvisaglie – è una forte pressione sui produttori industriali a non delocalizzare gli impianti anche attraverso disincentivi fiscali penalizzanti che rappresenterebbero una prima grave violazione della filosofia dei mercati aperti che gli Stati Uniti hanno perseguito sin da dopo la seconda guerra mondiale. Ciò si lega perfettamente al blocco dell’immigrazione per impedire che il dumping sul costo del lavoro, bloccato all’estero si riproduca in patria.
La seconda parte della strategia di Trump è fondata su una riduzione drastica della pressione fiscale soprattutto al fine di favorire i grandi capitali i quali verrebbero indotti attraverso misure incentivanti di vario genere a effettuare nuovi investimenti produttivi in patria. Ciò comporta tuttavia una riduzione degli introiti federali che andrà in parte a incidere sulla riforma sanitaria di Obama (che infatti si vuole sopprimere o comunque ridimensionare) ma resta in contraddizione con la politica di espansione della spesa per il rinnovamento delle infrastrutture.
Gli investimenti sulle infrastrutture (di cui gli Stati Uniti hanno certamente bisogno) rappresentano infatti il terzo pilastro della strategia di Trump. Per effettuarli senza aumentare il debito pubblico Trump conta su un massiccio afflusso di risorse private da reperire sui mercati anche tramite l’offerta di titoli di Stato a tassi convenienti e opportune riduzioni fiscali.
La quarta conseguenza di tale filosofia produttivistica e protezionista è il “via libera” alla eliminazione dei vincoli ecologici e alla riduzione di ogni ingombrante obbligo sociale per le imprese.

“America first” significa anche che le scelte di politica estera dovranno essere rigorosamente subordinate agli interessi americani, non considerati in una prospettiva di lungo raggio ma nel calcolo di convenienza a breve termine. In termini concreti ciò comporta un rovesciamento dei fondamenti che hanno caratterizzato (sia pure con evidenti variazioni) la continuità della politica estera di tutti i predecessori di Trump, da Truman in poi (compreso Reagan, a cui spesso Trump si riferisce) in quanto di fatto essa diventa esplicitamente subalterna alle esigenze di politica interna. Quindi:

  • dichiarazione delle ostilità alla Cina, considerata pericolosa per gli interessi dell’industria americana e denunciata per le manipolazioni valutarie (che peraltro avevano già suscitato preoccupazione nell’amministrazione Obama).
  • ricerca di un accordo globale con la Russia, vista come un mercato potenzialmente rilevante per le esportazioni americane, anche se ciò può comportare un sostanziale abbandono delle posizioni finora sostenute in Medio Oriente e nell’Europa orientale.
  • decisa avversione a ogni forma di integrazione europea, considerata pericolosa per gli interessi economici americani. Quindi non soltanto blocco definitivo del TTIP (già in crisi per l’opposizione che aveva suscitato in alcuni settori dell’opinione pubblica europea) ma pure incoraggiamento alle spinte disgregatrici dei movimenti populisti europei (in piena consonanza con le ambizioni strategiche della Russia di Putin). Trump preferisce un’Europa divisa e priva di sostanziale potere contrattuale per motivi prevalentemente economici, Putin per ragioni politiche (riaffermare l’egemonia russa sull’Europa orientale).
  • attenuazione del deterrente militare e strategico della NATO, ritenuto costoso e sovrabbondante rispetto alle esigenze di difesa del territorio americano e delle ricadute sulla politica interna.
  • rinuncia a qualsiasi pretesa di guida politica e ideologica del mondo occidentale. Il gigante americano imporrà la sua volontà in base alla forza che saprà esprimere attraverso un’economia rafforzata senza alcuna condivisione collegiale che abbia altro significato di quella di certi consigli d’amministrazione aziendali dove ci si scambiano opinioni ma chi decide è l’azionista di maggioranza.

Naturalmente questi propositi (che hanno peraltro una loro coerenza intrinseca) non sono facili da realizzare per le resistenze che incontreranno ovunque e soprattutto negli Stati Uniti.
Trump sconta infatti una realtà inoppugnabile: quella di essere un presidente eletto da una minoranza della popolazione (arrivato alla Casa Bianca per le caratteristiche particolari delle norme costituzionali che regolano le elezioni presidenziali) e di avere contro, o, nel migliore dei casi in posizione di attesa, una parte consistente dell’”establishment” e dell’apparato militare e industriale che hanno sempre avuto come punti fermi la solidarietà atlantica e il contenimento della potenza russa.
Trump inoltre si troverà contro un’opposizione molto agguerrita consapevole di rappresentare la metà maggioritaria del paese (e comunque la parte più urbanizzata e culturalmente avanzata) che ha già dato segni di insofferenza e di rifiuto della presidenza Trump, e sarà guidata per di più dallo stesso presidente uscente Obama, il quale, forte di una popolarità ancora rilevante, non sembra avere alcuna intenzione di ritirarsi nelle “riserve” dorate che fino ad oggi hanno ospitato gli ex-presidenti. Una presenza ingombrante che probabilmente prelude a una candidatura di Michelle Obama alle prossime elezioni presidenziali.
Trump inoltre sconta un’avversione (peraltro ricambiata) della maggior parte dei mass media, cosa che negli Stati Uniti non è mai stata senza conseguenze. Il rapporto con l’opinione pubblica, anche con la sua parte più rozza, non può limitarsi ai tweet.
Trump infine sa di avere i suoi peggiori avversari (perché meno visibili) nel suo stesso partito. Alcune posizioni – soprattutto di politica estera – saranno fortemente contestate nel Congresso.

Le nomine effettuate da Trump sono assai contraddittorie. Non soltanto perché sembrano riflettere concezioni politiche tra loro non compatibili e spesso non riconducibili alle affermazioni del nuovo presidente ma soprattutto per l’ambiguità di molti dei prescelti.
Rex Tilleson, designato Segretario di Stato, è un “top manager” attualmente amministratore delegato della Exxon dove ha svolto tutta la sua carriera di lavoro; in tale veste, come presidente della Exxon Neftegas (attraverso la quale vengono gestiti gli interessi energetici della compagnia in Russia e nel mar Caspio), ha avuto intensi rapporti con l’establishment russo. La sua formazione giovanile “politica” si è concentrata nei Boy Scouts (in America assai influenti nelle politiche giovanili) di cui è stato dirigente nazionale.
Steven Mnuchin è il nuovo Segretario del Tesoro, in pratica il ministro dell’Economia. E’ stato un banchiere di Goldman Sachs, ha raccolto i fondi per la campagna di Trump ma è stato legato in passato al finanziere Soros (nemico acerrimo di Trump) e ha avuto intensi rapporti con economisti più legati al mondo democratico. Si deve a lui tuttavia il piano sulla “deregulation” e sui tagli fiscali che è alla base del consenso raccolto da Trump. Negli ultimi anni ha lavorato nel complesso mondo finanziario che sostiene la produzione cinematografica di Hollywood, dove – ironia della sorte – ha prodotto film di contenuto ecologico molto apprezzati dagli ecologisti apocalittici (come quelli di Clint Eastwood). E’ considerato una persona senza scrupoli, perfetto “servitore” dei diversi “padroni” che via via hanno costellato la sua carriera. Uomo per tutte le stagioni, ormai miliardario per effetto delle speculazioni edilizie che – ancora ironia della sorte – in passato lo hanno visto anche in dura contrapposizione di interessi con lo stesso Trump.
Alla Difesa, altro settore centrale del governo, Trump ha nominato James Mattis, un generale dei “Marine” in pensione che ha partecipato a tutti gli interventi bellici in Medio Oriente, è stato comandante militare della NATO, di cui, a quanto risulta, è un fervente sostenitore.
Ce n’è quanto basta, tralasciando altre nomine significative nel suo staff anch’esse apparentemente contraddittorie, per restare perplessi. Nel migliore dei casi si può pensare a un team in grado di seguire e di correggere i cambiamenti di direzione che di volta in volta potrebbero rendersi necessari anche in considerazione del pragmatismo e del cinismo che il nuovo presidente ha ampiamente esibito (e talvolta persino rivendicato).

In conclusione: Trump ha intercettato le preoccupazioni di una parte importante dell’elettorato americano ma le sue “ricette” appaiono semplicistiche e trovano la decisa opposizione di un’altra parte dell’America che non intende rinunciare al ruolo di guida non soltanto economica ma anche politica e morale dell’intero Occidente democratico. Trump peraltro è figlio dell’ondata populistica provocata anche in Europa dalla globalizzazione che ha messo in moto flussi di emigrazione, di trasferimenti industriali e finanziari inarrestabili ma percepiti come un pericolo per il tenore di vita acquisito nell’ultimo secolo dalla “middle class”. I populismi appaiono sempre all’orizzonte della storia quando equilibri consolidati vengono modificati: ma non hanno mai prodotto risultati positivi, anzi hanno contribuito a peggiorarli. Determinano isolazionismo e protezionismo che però, essendo reciproci, finiscono per danneggiare tutte le parti in causa, come hanno dimostrato le frequenti guerre commerciali degli albori dell’industrializzazione. Inoltre spesso finiscono per sfociare in conflitti armati in base al principio – enunciato da Frederic Bastiat – che “dove non passano le merci passano gli eserciti”. Dietro i grandi conflitti militari dell’ultimo secolo ci sono quasi sempre ondate di emozioni popolari fortemente irrazionali che li hanno spinti e incoraggiati: basti pensare alle due guerre mondiali, agli interventi americani in Medio Oriente dopo l’abbattimento delle “twin towers”, ecc.
La presidenza di Trump quindi, almeno a giudicare dalle prime mosse, non preoccupa tanto noi liberali per ciò che potrebbe avvenire all’interno degli Stati Uniti (una sterzata protezionista potrebbe anche produrre risultati positivi, almeno in un primo momento) ma piuttosto per la scossa che imprime agli equilibri internazionali: tutti conoscono l’apologo dell’apprendista stregone.

Franco Chiarenza
22 gennaio 2017

E parliamone possibilmente in maniera non ideologica.
Archiviata la richiesta di reintrodurre la versione originaria dell’articolo 18 per l’evidente tentativo di estenderne l’applicazione, la Corte costituzionale ha correttamente ammesso gli altri due quesiti referendari promossi dalla CGIL, dei quali il più sentito dalla pubblica opinione è certamente quello che riguarda i voucher.
Cosa sono i voucher ? Buoni lavoro rilasciati dall’INPS acquistabili in modo molto semplice e utilizzabili per retribuire lavori accessori effettuati con prestazioni saltuarie per prestazioni che non superino l’importo massimo di 7.000 euro l’anno; per contrastare alcuni possibili abusi nel 2016 il governo Renzi ha introdotto obblighi più rigorosi per i datori di lavoro che se ne servono (nome del beneficiario, giorno e orario dell’utilizzo).
Essi sono stati introdotti per la prima volta dal governo Prodi nel 2008 per rendere più elastiche rispetto ai contratti di categoria le tante prestazioni occasionali che si rendono necessarie in una moderna società di servizi (soprattutto nel commercio ma anche in altri settori del terziario) cercando così di fare emergere e di contrastare il lavoro nero ampiamente diffuso nel lavoro occasionale.
Sono serviti ? Sicuramente sì, come affermano a gran voce commercianti e organizzazioni di servizi (a cominciare dai sindacati che oggi ne propongono la soppressione; soltanto CGIL e CISL li hanno utilizzati per un ammontare complessivo di 2.250.000 euro nel 2016).
Se ne è fatto un abuso utilizzandoli anche dove avrebbero potuto essere sostituiti da forme contrattuali più regolamentate ? Forse in alcuni casi sì, come sembra dimostrare il loro aumento vertiginoso anche in settori “ambigui” come l’agricoltura e soprattutto l’edilizia.
Hanno fatto emergere il lavoro nero ? Questo è forse l’aspetto più controverso del dibattito in corso. Secondo i sindacati non soltanto la risposta è no, ma addirittura lo avrebbero incentivato col trucco del “voucher a metà” (parte del lavoro in voucher, parte in contanti e in nero, in modo da vanificare eventuali controlli). Secondo i commercianti l’emersione del nero c’è stata riducendo lo svantaggio fiscale degli esercizi che rispettano la legge; gli abusi sarebbero marginali e facilmente eliminabili senza sopprimere uno strumento che ha ridato fiato alle imprese. Secondo l’INPS (Tito Boeri) i voucher sono uno strumento utile anche se spesso è stato utilizzato in settori per i quali non era stato immaginato e il lavoro nero è rimasto elevato proprio là dove si voleva contrastarlo (collaboratori domestici e agricoltura). Si possono riformare (per esempio stabilendo tetti mensili e con una vigilanza più attenta) ma sarebbe un errore sopprimerli.

In conclusione:

  1. Dietro tanta agitazione c’è la legittima aspirazione dei disoccupati di accedere a un lavoro stabile; da qui il rifiuto di ogni forma di “precariato”. Ma la mancanza di lavoro stabile non dipende da leggi e contratti piuttosto invece dalla scarsa attrattività del sistema-Paese per nuovi investimenti produttivi. Le cause sono molte e spesso ripetute, ma si tratta di un discorso che i sindacati fingono di non capire perché molte rigidità che ostacolano gli investimenti dipendono anche da loro.
  2. Il dilemma tra più lavoro e meno diritti è deviante. L’attenuazione delle garanzie è il risultato di una crisi prodotta dalla globalizzazione nei cui confronti l’Europa e in particolare l’Italia non hanno saputo attrezzarsi in tempo; chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati non serve a nulla e si finisce per cadere nella trappola autarchica e isolazionista dei movimenti populisti.
  3. Il referendum probabilmente non si farà perché la stessa CGIL che lo ha promosso preferirà concordare alcune modifiche che le consentano di salvare la faccia chiudendo una vicenda che comincia ad essere imbarazzante. Oltre tutto essendo impossibile dimostrare che la soppressione dei voucher incrementi posti stabili di lavoro, mentre è certo che farebbe di nuovo aumentare il lavoro nero, non metterei la mano sul fuoco sull’esito referendario.
  4. Ringraziamo Dio (e il popolo italiano) che non siano passate le riforme costituzionali di Renzi che, tra le altre cose, prevedevano l’introduzione di referendum popolari propositivi; vi immaginate quali e quanti danni all’economia avrebbe prodotto le reintroduzione e l’allargamento dell’art. 18 ? Fuga all’estero delle imprese, chiusura di piccoli esercizi (al di sotto di 18 dipendenti) che non vogliono essere condannati a mantenere a vita i propri collaboratori, aumento esponenziale di lunghissime e costose controversie giudiziarie per dimostrare l’esistenza di una “giusta causa”, ecc.

Personalmente non sarei contrario a una disciplina anche severa sui licenziamenti perché sono contrario ai licenziamenti arbitrari. Prima però rivediamo seriamente i motivi di “giusta causa” e stabiliamo procedure giudiziarie rapide e inappellabili. Per come stanno oggi le cose pretendere che il rapporto di lavoro si trasformi in un matrimonio indissolubile finché pensione non sopraggiunga, mi sembra dannoso e controproducente ai fini di un aumento dell’occupazione. Introducendo un congruo indennizzo economico per i licenziamenti immotivati il “job act”rappresenta un giusto compromesso tra i diritti del lavoratore e quelli, altrettanto importanti, della responsabilità di chi dirige l’impresa anche nella scelta dei collaboratori.
A proposito: “job act” si pronuncia “giob act”. Ma quand’è che la smetteremo di usare termini inglesi anche quando non sarebbero necessari ?

 

Franco Chiarenza
12 gennaio 2017

Se c’è una cosa bella della politica è che non ci si annoia mai; molto meglio del campionato di calcio dove, comunque vadano le cose, vince sempre la Juventus. Il doppio colpo di scena Grillo – ALDE e ritorno – ne è la dimostrazione.
I fatti sono noti: su spinta di Roberto Casaleggio il leader pentastellato annuncia il divorzio dall’oltranzista nazionalista inglese Farage nel parlamento europeo e chiama elettronicamente a raccolta i decisori del movimento sulla possibilità di un’alleanza coi liberali europei dell’ALDE (in realtà già negoziata tra Beppe Grillo e Guy Verhofstadt). C’è qualche malumore nella base ma i disegni del fondatore sono imperscrutabili come quelli di Dio e quindi non si discutono: approvati col 78%. Ma – sorpresa! – chi non è d’accordo a questo punto è il gruppo parlamentare dell’ALDE nel quale pesano in maniera determinante i liberali tedeschi. Un pasticcio incomprensibile come non se ne erano visti da tempo e una seconda dimostrazione dell’incapacità e del dilettantismo politico di Grillo dopo la vicenda ancora aperta della sindaca di Roma.

Poche cose sono chiare dell’ideologia politica dei Cinque Stelle, ma tra quelle più accertate ci sono sempre state un’avversione ad ogni forma di federalismo europeo (in particolare nei confronti della moneta unica), una predilezione per la democrazia diretta rispetto al parlamentarismo liberale, un estremismo ecologico che si spinge fino alla messa in discussione di alcuni diritti individuali; tutte cose che con il liberalismo non soltanto hanno poco a che fare ma talvolta ne rappresentano l’esatto contrario.
Come possono Grillo e Casaleggio avere pensato di entrare a far parte del club (anche se un po’ decaduto) dei liberali europei? E come può Verhofstadt avere considerato possibile un matrimonio così male assortito?
Le risposte più probabili non fanno onore a nessuna delle due parti in commedia se è vero – come sembra – che nelle intenzioni dei due leader ci fosse un’alleanza tecnica fondata su uno scambio per cui i cinque stelle avrebbero appoggiato la candidatura dello statista belga alla presidenza del Parlamento europeo (per la quale Verhofstadt dovrà confrontarsi col socialista Pittella e col popolare Tajani) mentre Grillo avrebbe salvato i consistenti finanziamenti al gruppo (che avrebbe perso dopo il divorzio da Farange). Non si sa per chi dei due provare più vergogna.

Una postilla. Forse in questa vicenda mal condotta e per certi aspetti ridicola c’è – almeno per quanto riguarda il movimento cinque stelle – qualcosa di più. Sembra evidenziarsi una divaricazione sempre più avvertibile tra una linea moderata in cerca di una “normalità” politica (soprattutto nell’articolazione delle alleanze) e un’anima populista più rozza e spregiudicata che Casaleggio stenta a tenere a freno. Grillo media ma somiglia sempre di più a un prestigioso vaso di coccio tra vasi di ferro.

 

Franco Chiarenza
11 gennaio 2017

Il giovane Renzi, coerente con l’immagine che si è costruita di impavido rottamatore della vecchia politica, ha cercato la sfida a tutti i costi mettendo alla prova la composita galassia dei suoi avversari, sicuro che la sua strategia offensiva avrebbe alla fine prevalso; per questo – immagino – ha trasformato un referendum su alcune modifiche costituzionali in una chiamata plebiscitaria, senza tenere conto che proprio il referendum è il tipico strumento che consente alle opposizioni di aggregarsi senza la necessità di proporre alcunché di alternativo, uno strumento quindi da non utilizzare se non si ha la certezza di vincere.
In sostanza Renzi, al quale non mancano doti di leadership e coraggio innovativo (anche nei confronti dei riti consunti del suo partito), ha peccato di superficialità sottovalutando gli avversari. L’ha fatto una prima volta quando ha deciso, per ricompattare il proprio partito, di candidare Mattarella al Quirinale, consentendo così agli estremisti di Forza Italia di liquidare il patto del Nazareno; l’ha fatto di nuovo forzando una legge elettorale e una riforma costituzionale che andavano diversamente costruite e su cui era possibile trovare probabilmente un’intesa più ampia della maggioranza di governo. Ma in politica il metodo conta quanto e forse più della sostanza; caduta la possibilità di trovare sulle riforme un’intesa con almeno una parte dell’opposizione ha scelto lo scontro frontale ma così facendo ha spostato il dibattito dai contenuti istituzionali a una sorta di plebiscito sulla sua leadership andando inevitabilmente a fracassarsi sugli scogli referendari. Eppure la storia della nostra Costituzione, strattonata da tutte le parti, modificata spesso e male, doveva insegnargli che senza un accordo bipartisan largamente maggioritario in parlamento le riforme istituzionali finiscono per abortire (e anche quando sono approvate, soprattutto se malfatte e improvvisate come è avvenuto col titolo V, vanno incontro a un difficile assestamento costellato da contestazioni infinite). Bisognava prenderne atto: con questo parlamento il consenso di Berlusconi era imprescindibile per qualsiasi riforma strutturale, aver pensato di poterne fare a meno è stato un atto di presunzione che Renzi ha pagato caro; le volpi – diceva Craxi (riferendosi ad Andreotti) – prima o poi finiscono in pellicceria. E’ avvenuto infatti che essendo stata trasformata la consultazione in una richiesta di fiducia “coram populo” le opposizioni si sono compattate potendo contare sui tanti e diversi motivi di malumore che con i quesiti referendari nulla avevano a che fare (a cui si sono aggiunti quelli di quanti – pochi o molti che siano – hanno votato no per fermare una riforma pasticciata, incompleta e potenzialmente pericolosa). In momenti di difficoltà prudenza vuole che non si sfidi la pubblica opinione.

Tutto negativo quindi il bilancio del governo Renzi? Non direi. L’impostazione iniziale del programma di governo era corretta e le prime applicazioni, pur tra molti compromessi che ne hanno limitato l’efficacia, andavano nella direzione giusta: liberalizzare nei limiti del possibile il mercato del lavoro, introdurre nella scuola criteri meritocratici in grado di restituirle il prestigio perduto, semplificare la legislazione in materia civile e amministrativa, contenere i poteri di interdizione che negli ultimi vent’anni i sindacati e la magistratura si sono ritagliati a spese delle istituzioni politiche. In politica estera, a prescindere da qualche estrosità dell’ultimo periodo, vanno apprezzati il disimpegno da interventi non ben preparati (come in Libia), e l’energica spinta per un maggiore impegno europeo nei confronti dell’immigrazione incontrollata che mette in crisi le nostre strutture di accoglienza, anche e soprattutto cercando di modificare l’infausto trattato di Dublino. Per il resto non c’era altro da fare che attendere sperando che le elezioni in Francia, in Olanda e in Germania non ci riservino sorprese sgradite come è avvenuto per quelle americane. A proposito delle quali non bisogna dimenticare che il 2017 è anche l’anno dei primi cento giorni del nuovo presidente, essenziali come sempre per comprendere quanta parte del Trump elettorale farà parte del programma del nuovo inquilino della Casa Bianca: per ora tutto fa pensare al peggio. Un anno quindi cruciale in cui, per di più, l’Italia si troverà a svolgere compiti istituzionali internazionali rilevanti come la presidenza del G7 e l’entrata pro-tempore nel consiglio di sicurezza dell’ONU.

Ma i bilanci – si sa – vanno fatti anche tenendo conto delle partite passive; e sull’altro piatto del governo Renzi le criticità non sono poche, spesso per difficoltà oggettive talvolta per la tendenza dell’ex-presidente del consiglio a cercare consensi facili nell’immediato rinunciando a misure più efficaci (anche se meno avvertibili in prima battuta) tali da modificare in profondità gli elementi strutturali che frenano lo sviluppo. Cominciando dalla disoccupazione che continua a restare alta specialmente tra i giovani. E poiché per avere occupazione occorrono investimenti se questi non arrivano non è colpa del destino (cinico e baro) ma vuol dire semplicemente che le imprese ritengono poco conveniente avviare nuove attività in Italia. Non si tratta soltanto del costo del lavoro, certo non superiore al resto d’Europa; quel che occorre – tutti lo ripetono da anni – è da un lato la rimozione dei vincoli burocratici e delle protezioni corporative che scoraggiano le nuove iniziative, dall’altro la costruzione di infrastrutture che contribuiscano alla modernizzazione del Paese: strade, porti, aeroporti, mobilità urbana, ma anche giustizia lenta, scuole scadenti, sanità e pensioni fuori controllo, e quant’altro funziona poco e male in tutto il Paese e soprattutto nel Mezzogiorno che resta il grande malato d’Europa.
Non sarebbe stato meglio utilizzare i modesti margini di flessibilità consentiti dal gigantesco debito pubblico che ci trasciniamo da decenni per ridurre gli oneri fiscali delle imprese invece di disperderli in modo maldestro distribuendo la famosa “mancia” di 80 euro che (come era prevedibile), non ha risolto alcun problema ai beneficiari e men che meno ha prodotto significativi incrementi dei consumi? E’ completamente mancata una strategia di largo respiro mentre il ministro Padoan è apparso spesso frastornato e condizionato dalla difficoltà di mettere insieme le esigenze elettorali del premier e le compatibilità che l’Europa giustamente ci chiede.

Eccoci dunque al nuovo governo. Perchè Gentiloni ? Da un punto di vista rigorosamente costituzionale il governo Renzi, non essendo stato sfiduciato dal parlamento, avrebbe potuto restare in carica; ma hanno prevalso considerazioni politiche e la stessa credibilità di un leader che aveva esplicitamente legato ai risultati del referendum la sua permanenza alla guida del governo. La scelta di Mattarella è stata quindi corretta e nulla avrebbe giustificato sul piano istituzionale uno scioglimento anticipato delle Camere, tanto più in presenza di una vistosa carenza di regole applicabili per lo svolgimento di nuove elezioni.
Un governo fotocopia? In parte sì, e volutamente, per segnare appunto la continuità con un governo espresso dalla stessa maggioranza; ma attenzione, Paolo Gentiloni non è una fotocopia di Renzi. Proveniente da quella componente cattolica – la Margherita – che aveva contribuito nel 2007 a costituire il partito democratico sulle ceneri del vecchio partito comunista (variamente ridenominato), il discendente di quel conte Vincenzo Ottorino Gentiloni che nel lontano 1913 aveva siglato per i cattolici un’alleanza elettorale con Giolitti, sostituisce all’immagine arrembante di Renzi quella di più basso profilo di chi conosce le regole della politica e sa gestire il compromesso. E’ come se la campanella strappata bruscamente di mano a Enrico Letta nel 2015 fosse tornata al punto di partenza.
Andare ad elezioni anticipate in estate con questo governo ? E’ possibile ma non è probabile.

Il compito a cui è chiamato Gentiloni in questa fase è di completare dove possibile le riforme in cantiere e non attuate (alcune delle quali urgenti e necessarie), avviare in sordina qualche riforma costituzionale condivisa (per esempio la soppressione del CNEL e delle Province), occuparsi in maniera prioritaria di sicurezza interna e di politica estera. Affidare il ministero degli interni a Marco Minniti è apparsa una scelta opportuna che premia la competenza e l’esperienza acquisita negli ultimi anni dal ministro in materia di sicurezza; meno felice pare la sostituzione della Giannini al ministero della pubblica istruzione con Valeria Fedeli, ex-sindacalista della CGIL. Le sue prime mosse appaiono infatti tese non a migliorare la riforma della “buona scuola” (che nella sua prima attuazione ha mostrato molte criticità) ma a rovesciarne le priorità: tornano a farla da padroni i sindacati della scuola, viene rimesso in discussione un percorso di meritocrazia e di responsabilità gerarchica e ci ritroveremo a settembre col consueto balletto dei trasferimenti da nord (dove mancano gli insegnanti) a sud (dove abbondano), coi presidi delegittimati a intervenire sulle carenze didattiche degli insegnanti, con cattedre mescolate in funzione delle esigenze dei docenti e non degli allievi. Con buona pace di quanti – come me – speravano che si fosse imboccata la strada giusta per fare risalire l’Italia dagli ultimi posti nelle classifiche OCDE a un livello più compatibile con le tradizioni culturali del Paese.
Pure sui “vaucher” i sindacati preparano la loro vendetta chiedendo un referendum che non solo li sopprima ma faccia tornare in vita l’articolo 18 sui licenziamenti in una versione ancor più rigida di quella originaria (con buona pace per i nuovi investimenti), sempre in base al principio che sia meglio avere meno occupati ma garantiti al 100% piuttosto che tollerare offerte più elastiche di lavoro (subito bollate come forme di sfruttamento) anche quando possono alleviare almeno in parte la disoccupazione o quanto meno fare emergere in parte il lavoro nero. Del quale nessuno si occupa e si preoccupa: si depreca a parole, lo si tollera nei fatti (sapendo che senza il suo supporto l’economia – soprattutto in alcune aree meridionali – ne sarebbe ulteriormente danneggiata). In sostanza ci si volta dall’altra parte e si ripetono gli anatemi contro l’evasione fiscale come se il lavoro nero non ne rappresentasse una componente fondamentale. L’importante – per i sindacati – è tornare a sedersi col governo al tavolo della sala gialla di palazzo Chigi per ritrovare quel ruolo quasi istituzionale di interlocutori obbligatori che con Renzi temevano di avere perduto.

Dovremo rimpiangere Renzi?

 

Franco Chiarenza
10 gennaio 2017