Premesso che un terzo stadio a Roma non mi sembra francamente tra le priorità della Capitale, è molto significativo il modo in cui si è concluso il tormentone che per un anno ha angosciato la tifoseria romanista coinvolgendo in un crescendo inarrestabile larga parte dell’opinione pubblica nazionale. In un susseguirsi di stupefacenti contraddizioni (ci andremo a nuoto, sibila Grillo; le tribune del vecchio ippodromo vanno protette, scopre improvvisamente la Sovrintendenza; non consentiremo l’ennesimo regalo ai “noti” costruttori, affermano un paio delle cinque stelle, ecc.) lo psicodramma si è risolto con un tipico colpo di teatro all’italiana: ma come non pensarci prima? Basta dimezzare le cubature e il gioco è fatto. I Cinque Stelle possono dire (con un po’ di faccia tosta, ma quella non gli manca) che hanno impedito la “colata di cemento” in un’area che dal rischio di sommersione (vedi le dichiarazioni di Grillo) è improvvisamente diventata comunque edificabile per centinaia di migliaia di metri cubi, i romanisti portano a casa lo stadio, i costruttori sembrano anch’essi molto contenti malgrado il dimezzamento. E qui sta il punto, perché quando tutti sono soddisfatti c’è qualcosa che non torna.
Infatti è subito intervenuto l’ex-sindaco Marino, la cui giunta aveva approvato il progetto originario, a chiarire il mistero. Il nuovo progetto Raggi altro non è che la riedizione della prima proposta di Pallotta (presidente italo-americano della Roma) che la sua giunta aveva respinto per alcune inoppugnabili ragioni: la costruzione di uno stadio calcistico, tanto più se realizzata nella nuova formula di porlo al centro di un complesso multifunzionale (con negozi, mercati, uffici, parchi giochi, ecc. ) comporta spostamenti di ingenti masse di cittadini che richiedono adeguamenti strutturali rilevanti (metropolitana, strade, ponti sul Tevere, risanamento idro-geologico, messa in opera di parchi pubblici) che l’amministrazione comunale non ha le risorse sufficienti per realizzare. Il nuovo progetto Marino comportava sì un aumento rilevante delle cubature ma metteva a carico dei costruttori e della Roma la realizzazione di tutte le infrastrutture, e oltretutto prevedeva che le nuove cubature fossero prevalentemente concentrate sulle famose torri di Libeskind, un’opera urbanistica avveniristica firmata da uno degli architetti più famosi al mondo (è suo il progetto della bellissima Freedom Tower di New York) che avrebbe messo la città al centro dell’urbanistica contemporanea (insieme all’auditorium di Renzo Piano che mi pare l’ultima opera di pregio realizzata a Roma).
Ecco spiegato il perché del “tutti contenti”. Lo stadio sarà comunque costruito e i tifosi della Roma saranno contenti; come arrivarci sarà un problema ma basterà partire da casa qualche ora prima. La zona commerciale sarà fatta ma sulla natura dei negozi (non si parla pudicamente di centri commerciali per non urtare la suscettibilità dei “chilometrozeristi”) si pronunceranno gli abitanti; immagino un referendum se preferire una macelleria o un fruttivendolo. I costruttori sono contenti perché tutti gli oneri accessori che non producono reddito saranno a carico del Comune (almeno quei pochi che saranno realizzati). Gli appalti restano quelli previsti monopolizzati in gran parte con chiamata diretta da multinazionali edili americane. Il problema idrogeologico è scomparso come d’incanto, le perplessità della Sovrintendenza sembrano superate (e ci sarebbe da chiedersi come mai questa improvvisa attenzione per le cadenti tribune del vecchio ippodromo in una città dove il più grande patrimonio archeologico del mondo non trova tutela adeguata), e Grillo può “twittare” brava Raggi. Brava davvero, anche nel malore misterioso che l’ha colta e di cui nessuno è riuscito a conoscere le cause (con il marito che, intervistato all’ospedale, continuava a ripetere “ma sta bene, sta bene”), che probabilmente è servito a concordare l’ultimo accordo con il movimento da una parte e con la Roma dall’altra. Forse non ha ancora imparato ad amministrare ma sta imparando in fretta i trucchi della politica.

P.S. Le torri di Libeskind a Tor di Valle non si faranno; in compenso è già partita la costruzione della torre Libeskind a Milano nell’area dell’ex-fiera. Roma continua la sua lenta marcia verso l’impaludamento provinciale, Milano si muove velocemente in competizione con le metropoli europee. Il liberale qualunque vorrebbe invece un rilancio strategico della Capitale, anche con la realizzazione di grandi infrastrutture urbanistiche d’avanguardia; ma i romani hanno votato i Cinque Stelle (con qualche ragione) e dobbiamo accontentarci della loro filosofia minimalista: meglio le strade senza buche e la spazzatura riciclata con la differenziata che i grattacieli di Libeskind. Il fatto è che le strade continuano a somigliare a percorsi di guerra e la spazzatura domina incontrastata in cassonetti debordanti e indifferenziati.

 

Franco Chiarenza
28 febbraio 2017

L’hanno scritto in molti e lo confermo: la scissione del partito democratico si è consumata in modo freddo e un po’ squallido, come una separazione consensuale di coniugi che da anni non si parlavano più. Sarebbe stato meglio farlo in congresso sulla base di un confronto politico serio da cui emergessero le reali differenze tra le parti in causa. Si è preferito percorrere una strada più ambigua, un po’ perché le antipatie personali, le insofferenze caratteriali vi hanno giocato un ruolo inconfessabile e talmente evidente da suscitare fastidio, ma anche perché sia la maggioranza “renziana” che la minoranza scissionista contengono al loro interno visioni diverse e sulle quali si preferisce in questo momento non dividersi. Tuttavia le ambiguità tattiche non possono nascondere una domanda di fondo, non a caso ampiamente trattata nel dibattito mediatico: ci sono ragioni vere e profonde che rendevano ineluttabile la divisione del partito?

La risposta è sì; ma per capire meglio occorre fare un passo indietro. Torino, Lingotto 2007. Valter Veltroni celebra il suo trionfo realizzando il sogno di costituire dalle ceneri della prima repubblica un nuovo partito il quale, prendendo atto definitivamente della fine delle contrapposizioni ideologiche, disegnasse una vasta area riformista di ispirazione liberal-socialista con l’apporto anche di tutti coloro che erano disposti a rigettare vecchi fondamentalismi ormai improponibili. Un compromesso storico moderno in grado di adeguare il nostro sistema politico alla prassi europea e occidentale senza egemonie precostituite e senza la pretesa di costituire un modello ideologico come la “terza via” che avevano avuto in mente Moro e Berlinguer vent’anni prima; un partito nuovo quindi che nasceva anche per far fronte al bipolarismo che andava prendendo piede con il ricompattamento delle destre e di ampi settori liberal-conservatori in un partito anti-ideologico come quello che si era formato intorno alla figura carismatica di Berlusconi. Una prospettiva a lungo termine mirata a catturare vaste aree di consenso anche nel centro dello schieramento e il cui modello era evidentemente – anche nella scelta del nome – il partito democratico americano di Kennedy e di Clinton (Obama non era ancora arrivato).
Il progetto trovò sulla sua strada l’opposizione di D’Alema il quale, al di là della presunzione autoreferenziale che lo porta istintivamente a respingere ogni idea che non sia scaturita da lui, rappresentava comunque lo zoccolo duro del vecchio partito comunista (sia pure riformato dopo la svolta della Bolognina) e un apparato costituito (almeno in parte) da una frangia minoritaria ancora ideologicamente motivata, ostile a una svolta che si annunciava liberale anche nelle scelte economiche. Erano gli anni della globalizzazione ancora vissuta come evoluzione positiva e il vento soffiava in Occidente in favore della “società aperta” di popperiana memoria. Contestando la strategia veltroniana dei tempi lunghi che rischiava di confinare la sinistra all’opposizione D’Alema riuscì già due anni dopo a sbarazzarsi di Veltroni ma non fu in grado di proporre alcuna strategia realmente alternativa. Da quel momento il partito democratico ha cominciato ad annaspare giorno per giorno alla continua ricerca di un compromesso tra i reduci della sinistra marxista e i sostenitori di una forza di governo riformista aperta al centro; divisi su tutto ma uniti dal potere che esercitavano in pezzi importanti della realtà sociale e politica (soprattutto del settore pubblico allargato: enti locali, società partecipate, televisione, sanità, ecc.).

Ciò nonostante il seme buttato da Veltroni non si era completamente disperso.
All’orizzonte comparve un intrepido boy scout, certo Matteo Renzi. Un corpo estraneo per la nomenklatura il quale però ne aveva compreso tutte le debolezze, e in particolare la trappola in cui si era cacciata consentendo le “primarie” aperte a tutti (un’altra imitazione americana che però non teneva conto delle profonde differenze dei due contesti) mediante le quali personaggi estranei al partito erano riusciti utilizzando un populismo di sinistra a buon mercato a farsi riconoscere candidati vincenti al vertice di enti locali dove altrimenti non sarebbero mai giunti: De Magistris a Napoli, Emiliano a Bari, Doria a Genova, Pisapia a Milano, Orlando a Palermo, Marino a Roma, lui stesso a Firenze. Tutti personaggi non indicati dal partito e in gran parte ostili al vecchio gruppo dirigente catto-comunista. Applicando a livello nazionale la lezione che aveva imparato a Firenze (e che comprendeva anche la necessità di unire alla spregiudicatezza tattica contenuti strategici seriamente riformisti e fortemente aggreganti), Renzi avviò la sua marcia su Roma che, dopo un fallimento iniziale (quando l’apparato fece quadrato su Bersani), lo portò in tempi brevi alla segreteria del partito e, poco dopo, malgrado le perplessità del presidente Napolitano, da via del Nazareno a palazzo Chigi dove arrivò congedando bruscamente Enrico Letta con modalità che violavano tutte le regole del bon ton istituzionale. Il “ragazzo” apparve subito per quel che era: un po’ villano, sicuro di sé, circondato da molti yes men (e soprattutto yes women), ancorato a slogan populisti come la “rottamazione” che facevano pensare alla “giovinezza” fascista; ma proprio per questa discontinuità dalla vecchia classe dirigente forse in grado di far breccia in un elettorato confuso e preoccupato che cominciava a sentire sulla pelle gli effetti della crisi e ne addebitava la colpa a chi aveva governato fino a quel momento.
A questo punto la minoranza del PD dovette fare buon viso a cattivo gioco ma la dissidenza – che era politica e non soltanto personale – covava sotto la cenere. La vera partita si giocava sulla realizzazione del programma della “Leopolda” che, con toni e contenuti certamente più grezzi, rilanciava nella sostanza il progetto veltroniano del Lingotto.

Che cosa non ha funzionato? Premesso che non è vero che nulla sia stato fatto e riconoscendo anzi che in alcuni settori (lavoro, scuola, pubblica amministrazione, diritti civili) il governo si è mosso con decisione sfidando le resistenze corporative e il potere di interdizione dei sindacati che tanto a lungo avevano prodotto i loro effetti negativi, la macchina bellica di Renzi si è inceppata sulle riforme istituzionali. Le quali erano sì previste da tempo (Lingotto, Leopolda, ecc.) ma dovevano essere affrontate con intelligenza e cautela, stando attenti – almeno in quel caso – a non cadere nella trappola del “fare a qualunque costo” nella quale è precipitata invece Maria Elena Boschi, inopportunamente incaricata di tenere le fila di una materia così delicata, dove l’opposizione (esterna ma anche interna) non avrebbe mancato di far sentire il suo peso. La strada giusta era quella imboccata da Renzi col “patto del Nazareno” che prevedeva due percorsi tra loro indipendenti, quello della condivisione della cornice istituzionale da riformare ed aggiornare (c’era anche da eleggere il nuovo Capo dello Stato dopo le dimissioni irrevocabili di Napolitano), l’altro delle scelte di governo dove maggioranza e opposizione si sarebbero normalmente confrontati in parlamento. L’incubo mediatico dell’”inciucio”, alimentato dalla convinzione largamente diffusa da Grillo e dai suoi complici che la politica debba sempre essere trasparente e controllabile non da strumenti istituzionali ma da una base popolare spesso incompetente e esposta alla più smaccata disinformazione, è stata forse la ragione principale che ha indotto Renzi e Berlusconi ad abbandonare il progetto, timorosi entrambi di perdere il consenso delle proprie basi e di alimentare il successo dei Cinque Stelle. Fu un grave errore che fece sentire i suoi effetti col referendum che doveva decidere di una riforma istituzionale pasticciata, obiettivamente impresentabile, e che ha finito invece per rappresentare un plebiscito su Renzi in cui non era difficile mettere insieme gli oppositori politici e i contestatori dei contenuti.

Conosciamo il seguito: le dimissioni di Renzi, il governo fotocopia di Gentiloni, la scissione fredda del partito democratico. La frammentazione della sinistra e quella non troppo diversa della destra (anch’essa tutt’altro che priva di validi motivi) rischiano di gettare l’Italia nell’ingovernabilità, considerato anche che un quarto dell’elettorato sembra orientato a sostenere il movimento di Grillo sostanzialmente privo di un’ideologia di riferimento e compatto soltanto nella contestazione dell’attuale classe dirigente, pronto quindi a dividersi a sua volta di fronte a concrete scelte di governo (come dimostra il caso di Roma).
Perché il problema è un altro, ed è molto antico: il modello di società che vogliamo realizzare e su cui passa la vera divisione del paese reale (e che, non a caso, si presenta molto simile in tutti i paesi occidentali). Se andare avanti nella costruzione di una società aperta con tutti i rischi che ciò comporta o tornare indietro a chiuderci nelle nostre presunte sicurezze; la prima ipotesi è quella di un’Europa politicamente unita per affrontare da posizioni di forza gli inevitabili cambiamenti che la globalizzazione produce, di una liberalizzazione che abbatta le gabbie protettive delle corporazioni che ostacolano la meritocrazia e l’innovazione, ecc. La seconda è quella dell’affermazione delle sovranità nazionali, del ritorno ai protezionismi con tanto di dogane e passaporti, come nel passato. Due strade che hanno entrambe le loro motivazioni ma che richiedono scelte chiare senza cercare impossibili compromessi. Si possono studiare correttivi ma non si deve cercare di confonderle facendo credere che si possono percorrere contemporaneamente: esse vanno in direzioni diverse.

Di questo bisogna discutere. Su questo il liberale qualunque vuol giudicare la credibilità delle forze politiche e la loro capacità di portare avanti un progetto coerente. Sul fatto che chi ha pubbliche responsabilità debba essere onesto e che i marciapiedi debbano essere puliti sono tutti d’accordo, ma non è su questo che ci si deve confrontare. La vittoria di Trump in America, l’affermazione di personaggi come Marina Le Pen in Francia, sembrano segnare una svolta verso la distruzione di quanto si è realizzato – proprio su spinta americana – nel secolo scorso in direzione del multilateralismo e della globalizzazione non soltanto economica ma anche culturale; con benefici immensi per tutta l’umanità anche nella legittimazione della democrazia liberale come forma di governo ottimale. Ma la paura di perdere i propri privilegi sta spingendo in Occidente ampi settori dei ceti medi a tornare indietro: si sentono insicuri e sono quindi disposti ad appoggiare chiunque proponga di smantellare quelle che – complici molti media – ritengono essere le cause del loro (giustificato) disagio. Marcia indietro, subito, senza stare troppo a pensare alla sua fattibilità concreta e alle conseguenze che potrebbero derivarne.
Ne parleremo.

P.S. – A chi non lo avesse ancora fatto consiglio la lettura dell’ottimo articolo di Alesina e Giavazzi sul Corriere della sera del 22 febbraio.

 

Franco Chiarenza
24 febbraio 2017

Prima la magistratura gli si mette di traverso sul decreto che blocca gli ingressi agli immigrati di alcuni paesi musulmani, poi lo convincono a nominare ambasciatore in Cina Branstad, molto amico dei cinesi (dopo le dichiarazioni roboanti di sfida di pochi giorni fà), poi deve precipitosamente rassicurare il premier giapponese Abe e il primo ministro canadese Trudeau che nulla cambierà, infine le turbolenze sui rapporti con la Russia di Putin e le conseguenti dimissioni del consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn. Sono passati poco più di venti giorni dall’insediamento e Trump è molto arrabbiato; la sua presidenza ondeggia pericolosamente e il partito repubblicano non può che esserne preoccupato mentre i democratici lo attendono al varco delle prossime scadenze: G8, G20, NATO, Ucraina. La monarchia comunista nord-coreana intanto continua a giocare pericolosamente con i missili e Trump è stato forse informato che senza l’aiuto della Cina sarà difficile fermare Kim Jong-un. Insomma governare la più grande potenza del mondo non è come fare i discorsi alle convention.

Naturalmente siamo soltanto agli esordi e le ingenuità dei primi giorni, l’insicurezza nella successione dei tempi, uno staff che appare inadeguato e confuso, sono tutti elementi che accomunano i dilettanti quando di colpo si trovano proiettati al vertice del potere; per noi italiani il paragone con le vicende di Virginia Raggi al Comune di Roma appare inevitabile.
Ma per l’Europa quanto accade in America dovrebbe servire da lezione; se la precaria alleanza anti-sistema di Le Pen, Salvini, Iglesias dovesse prevalere, trovando sponda negli estremismi di Orban in Ungheria e nella svolta autoritaria in atto in Polonia, tutto il mondo occidentale con i suoi valori e le sue certezze si troverebbe in serio pericolo. Se gli elettori che nei prossimi mesi andranno a votare se ne renderanno conto forse un giorno dovremo ringraziare “The Donald”.

 

Franco Chiarenza
15 febbraio 2017

La riunione – molto attesa – della direzione del partito democratico si è conclusa con la convocazione del congresso, sia pure attraverso un passaggio scontato in assemblea nazionale. Un congresso celebrato in queste condizioni, senza un preventivo approfondimento dei motivi della contestazione interna e senza un programma di governo in qualche modo verificato almeno nei punti di convergenza, significa che Renzi non intende dialogare con le correnti di minoranza. Il congresso servirà soltanto a consolidare la sua posizione nel partito e ad aprire le porte a chi vuole uscire: cacciati forse no ma accompagnati alla porta sì. La soluzione scelta da Renzi corrisponde del resto a una sua vecchia convinzione che i diversi pezzi della sinistra del suo partito, anche messi insieme, abbiano una modesta incidenza elettorale. Per questo il leader preferisce correre da solo, sicuro ancora una volta di farcela.
Ma sulla sua strada ci sono ostacoli che non provengono dai nemici dichiarati (D’Alema, Bersani, Cuperlo, Civati, Emiliano) ma piuttosto dagli “amici” che, pur non seguendo la sinistra, sembrano prendere le distanze da lui; e non si tratta di personaggi secondari. Franceschini, Orlando, De Luca, pur molto diversi tra loro, non nascondono la loro insofferenza e cercheranno di impedire a Renzi di divenire, dopo l’eliminazione della sinistra, dominus incontrastato del partito.
Ciò però che è più grave, e si evince da molte reazioni esterne, è che l’opinione pubblica – anche quella orientata a sinistra – non è ancora riuscita a comprendere le ragioni del contendere, a parte quelle evidentissime di carattere personale. Il programma originario di Renzi – quello della “Leopolda” per intenderci – appare piuttosto ammaccato e, per sua stessa ammissione, richiede qualche aggiustamento, ma l’opposizione, se si escludono alcuni generici richiami alle “radici di sinistra” e altri confusi segnali di fumo, non sembra offrire un progetto davvero alternativo. In tali condizioni il P.D. corre diritto verso il disastro elettorale, non per emorragia verso altri ma per un crescente astensionismo che potrebbe minare la sua credibilità.
In questa situazione si inserisce il tentativo di Pisapia di creare una non ben definita “area” di sinistra in cui comprendere tutte le differenze che la agitano. Probabilmente convinto dell’ineluttabilità della scissione l’ex-sindaco di Milano sembra pensare a una sorta di rete di sicurezza, un’”area” appunto, dalla quale far scaturire un minimo comune denominatore in grado di affrontare la campagna elettorale in una convergenza almeno parziale. L’operazione mi pare troppo cerebrale e intellettualistica per riuscire, e comunque resta condizionata da quella che sarà la legge elettorale, ma potrebbe rappresentare l’ultima spiaggia prima che Renzi e i suoi imbocchino la strada di una divaricazione che riporterebbe il leader fiorentino verso quelle posizioni di centro alle quali, pur tra molte ambiguità, ha forse sempre mirato.
E’ davvero curioso che nella riunione della direzione del P.D. non si sia parlato di legge elettorale, e cioè del vero nodo da sciogliere se davvero si vuole andare ad elezioni anticipate (seppure di pochi mesi). A questa stranezza si aggiunge il silenzio di Gentiloni e Padoan che hanno assistito alla riunione senza prendere la parola, creando un precedente; mai era avvenuto che in una direzione di partito il presidente del consiglio e il ministro dell’economia (che di quel partito sono espressione) non parlino delle scadenze che attendono il Paese, a cominciare da tre punti fondamentali che sono quelli che davvero interessano agli italiani: i rapporti con Bruxelles in vista di una possibile procedura di infrazione, il controllo dell’immigrazione (e quindi la questione libica) e la situazione economica (in particolare per quanto riguarda la disoccupazione). L’unico che ha proposto qualcosa di concreto denunciando con accenti drammatici la continua decrescita del Mezzogiorno dimostrando come la disoccupazione stia raggiungendo nelle regioni meridionali dimensioni inaccettabili (compensate di fatto dall’aumento del lavoro nero e dalla preoccupante emigrazione giovanile) è stato De Luca, il contestato governatore della Campania.
Resta da capire se De Luca deve essere considerato un rottamato (era comunista quando Renzi aveva i calzoni corti e faceva lo scout), un rottamando (come vorrebbe la sinistra), o un rottame ancora utilizzabile ma da mettere in disparte alla prima occasione. Non lo so, ma ascoltarlo è per lo meno divertente (per l’ironia sprezzante con cui condisce i suoi discorsi) e istruttivo (per i contenuti concreti che propone). E’ davvero incredibile che per sentire un intervento che esca dall’opprimente atmosfera dei messaggi cifrati, del detto-non detto, delle “convergenze parallele” che furono tipici della prima repubblica, si debba attendere uno che di essa fu attivo testimone!

Franco Chiarenza
14 febbraio 2017

Inutile girarci intorno: questo è il problema. Oggi come mai in precedenza, perché l’inattesa svolta americana ci rivela che l’Europa, di cui – piaccia o meno – rappresentiamo una componente importante, è il re nudo della famosa favola di Andersen.

Europa sì
Uno dei luoghi comuni ricorrenti è che l’Europa è nata male perché concepita soltanto sulla dimensione dell’economia di mercato, senza una “testa” politicamente responsabile e senza sensibilità sociale. La verità è che l’Unione Europea non poteva probabilmente che nascere così; nella storia nulla è casuale e ci sono motivazioni reali e profonde perché le cose siano andate nel modo in cui sono accadute malgrado gli sforzi di una classe dirigente che nei principali paesi del continente non mancava occasione per dichiararsi europeista. Ma anche così, con regole cogenti per regolamentarne i mercati e certamente sbilanciata sul piano politico e militare a favore dell’ombrello protettivo americano, la Comunità Europea ci ha consentito di crescere come mai in precedenza, di assicurare alla maggioranza della popolazione un tenore di vita tra i più elevati al mondo, di creare una rete complessa di rapporti interdipendenti che hanno permesso ai giovani di sentirsi europei a prescindere dalle differenze di lingua, di culture, di religioni. Non succedeva dai tempi dell’illuminismo quando sulla spinta del rinnovamento umanistico e rinascimentale l’Europa riaffermò la propria egemonia culturale sostanzialmente unitaria, al di là dei conflitti militari e dei conflitti politici che la dividevano.
Il trattato di Schengen ha aperto i confini di molti paesi consentendo a uomini e merci di muoversi liberamente senza visti e passaporti, come in una sola nazione; il progetto Erasmus ha permesso a centinaia di migliaia di giovani di viaggiare e fare esperienze in paesi diversi dal proprio.
L’unificazione monetaria ha assicurato ai paesi che hanno aderito all’Eurozona anni di stabilità nei prezzi eliminando le crescite fittizie fondate sulle manovre del cambio e costringendo la nostra industria manifatturiera a realizzare innovazioni di prodotto che l’hanno resa più competitiva; se non ha conseguito a pieno gli effetti positivi che ha avuto in altri paesi la colpa è soltanto nostra. Abbiamo sottovalutato l’importanza delle infrastrutture in una economia globalizzata dove i fattori della competizione non riguardano soltanto il costo del lavoro ma anche (e forse soprattutto) le infrastrutture: siano esse quelle culturali (scuole e università), dei servizi (soprattutto giustizia e servizi legali), dei trasporti (ferrovie, porti, autostrade), del credito (banche e strutture di sostegno agli investimenti), della pubblica amministrazione, della sicurezza; tutti settori in cui siamo rimasti indietro, condizionati dai ricatti elettorali di corporazioni variamente costituite che hanno sempre ostacolato qualsiasi cambiamento radicale. Con chi ce la vogliamo prendere? Siamo arrivati al punto di perdere cospicui finanziamenti pur di non adeguarci alle rigorose regole anti-corruzione pretese da Bruxelles, mentre in altri paesi (vedi Spagna) si rimettevano a nuovo coi soldi europei (e quindi anche nostri). Colpa della Merkel, brutta (il che è vero) e cattiva (il che non è vero)?

Europa no
In Europa contiamo sempre meno. L’asse franco-tedesco, perno essenziale degli equilibri continentali, è sempre più inclinato verso Berlino mentre i problemi del Mediterraneo (non ultimo quello dell’immigrazione selvaggia) sono vergognosamente trascurati. Il trattato di Schengen andava bene quando riguardava essenzialmente gli europei, è diventato un disastro quando ha consentito a centinaia di migliaia di immigrati clandestini di sfuggire a qualsiasi controllo. E infatti è stato precipitosamente sospeso da molti paesi quando l’invasione ha assunto dimensioni senza precedenti.
L’euro forte favorisce la Germania e le sue esportazioni, e se anche fosse vero che il suo surplus commerciale è il risultato di scelte di politica economica virtuose (al contrario delle nostre) come faremo a risalire la china senza concrete misure di sostegno incompatibili con i severi vincoli del trattato di Maastricht?
Per queste ragioni i sostenitori del ritorno alle piene “sovranità nazionali” ritengono che la flessibilità necessaria ai paesi mediterranei (Italia, Grecia, Spagna) si possa ottenere soltanto abbandonando l’Eurozona e tornando al controllo nazionale dei cambi. Politiche sociali di sostegno per il lavoro possono essere realizzate soltanto tramite politiche protezionistiche variamente calibrate in base ad accordi bilaterali, come Trump si propone di fare per correggere gli squilibri commerciali con la Cina, il Giappone e la Germania responsabili delle delocalizzazioni industriali e dei problemi sociali connessi. I vantaggi di un’Europa unita sono stati reali ma rappresentano un’eredità del passato che oggi non corrisponde più alle convenienze di paesi come il nostro. La Brexit e la vittoria di Trump in America hanno contribuito a rafforzare queste tesi; è sempre più difficile convincere le opinioni pubbliche (una volta prevalentemente europeiste) della convenienza a restare in un’Unione Europea fondata sull’asse Berlino – Francoforte. Il fatto che per ora – ma non ancora per molto – la Banca Centrale Europea sia governata da un italiano attutisce ma non elimina il problema.

Europa forse
Il fatto è che la costruzione europea rappresenta una sfida. Vere o sbagliate che siano le ragioni dell’exit o del remain occorre esaminare il problema adottando ottiche diverse, se non si vogliono compiere errori irrimediabili.
Innanzi tutto bisogna considerare realisticamente se tornare indietro sia possibile, quanto ci costerebbe e se sarebbe davvero conveniente; aspetterei di vedere cosa succederà con la Gran Bretagna che pure era assai meno integrata di noi nell’Unione.
Poi occorre capire se le svalutazioni competitive rappresenterebbero davvero quella panacea che alcuni immaginano per risolvere i problemi dell’occupazione mantenendo tutte le nostre cattive abitudini (che è il vero sogno di tanti italiani). Perché le condizioni del mercato internazionale non sono più quelle di tanti anni fa e perché il rischio delle ritorsioni protezionistiche è assai più elevato.
Se riavere il controllo sulla propria moneta significa – come mi pare pensino molti fautori dell’Italexit – aumentare la spesa pubblica per sostenere i bisogni sociali, occorre capire se ciò comporterebbe una ripresa dell’inflazione come già la conoscemmo in passato. L’inflazione – insegnava Einaudi – è la più ingiusta delle tasse perché grava in maniera inversamente proporzionale su ricchi e poveri.
Se però restare in Europa significa lasciare le cose come stanno gli svantaggi per l’Italia potrebbero aumentare e rischieremmo, come la Grecia, un avvitamento verso il basso che ci renderebbe sempre più periferici negli equilibri continentali. Bisogna quindi restare in Europa e cambiarla. Questa è la vera sfida.
Trump forse ci aiuterà; ritirando l’ombrello a stelle e strisce ci costringerà a fare i conti con noi stessi. E i conti sono presto fatti: ci conviene essere una piccola parte di un’Europa grande e potente in grado di fare valere le sue (e nostre) ragioni, piuttosto che restare soli a cercare alleanze bilaterali che somiglierebbero pericolosamente a quelle tra un topo e un leone ?
Ma perché l’opinione pubblica si convinca di questo occorre fare sul serio; il passo compiuto dalla cancelliera Merkel in direzione di un’Europa forte tra chi ci sta, va nella giusta direzione.
Ma resta da definire come, in quali tempi, con quali passaggi, verso quali conclusioni. Dovremo attendere le elezioni francesi e tedesche per capire meglio? Forse sì; un’Europa senza la Francia e la Germania non è nemmeno immaginabile.

Franco Chiarenza
13 febbraio 2017