Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri, insieme ad altri (tra i quali spiccano Mario Monti, Francesco Rutelli ed Emma Bonino), hanno lanciato un appello per il rafforzamento dell’unità europea, denominato “Forza Europa”. A parte il dubbio gusto di scegliere uno slogan che ricorda troppo da vicino il berlusconiano “Forza Italia”, l’appello giunge in un momento in cui la popolarità dell’Unione Europea è scesa a livelli preoccupanti. In poco più di dieci anni l’Europa è passata nell’immaginario collettivo da un’aspirazione salvifica che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi a un’attribuzione di responsabilità per la crisi che stiamo vivendo, altrettanto irrazionale. Leggere su face-book le proteste, le dichiarazioni contrarie, e talvolta purtroppo anche gli insulti contro l’appello di Della Vedova suscita stupore prima che indignazione per l’inconsistenza degli argomenti addotti e per la percezione sbagliata che si ha dell’Unione Europea anche negli interventi più equilibrati.

Perché no
Le ragioni di tanta avversione possono essere riassunte in alcuni slogan ricorrenti:

  • “L’Europa salva le banche e i banchieri invece di occuparsi delle reali emergenze”. Si continua a pensare alle banche come istituti che fanno soltanto gli interessi dei banchieri (visti come orribili sfruttatori) e si dimentica che un sistema bancario efficiente e sicuro rappresenta una garanzia per i risparmiatori, per gli investitori e quindi per la creazione di posti di lavoro. Se il nostro sistema bancario, in alcune sue parti, non corrispondeva a questi criteri, la colpa è nostra non dell’Europa.
  • “L’Europa fa solo gli interessi della Germania”. Il che in parte può essere vero ma si dimentica che la Germania già da anni ha fatto quei “compiti a casa” che le hanno consentito di crescere e di guadagnare credibilità mentre noi ci siamo fermati ogni qualvolta si trattava di fare riforme incisive, continuando così ad aumentare il debito pubblico che è tra i più elevati del mondo. In queste condizioni sono i tedeschi che vogliono liberarsi della nostra zavorra e se ce ne andassimo molti a Berlino accenderebbero fuochi d’artificio per festeggiare. Dopodiché i conti con la Germania dovremo continuare a farli ma in condizioni molto più deboli che non all’interno di un partenariato europeo dove, almeno formalmente, il nostro voto conta quanto quello tedesco.
  • “L’Europa ci toglie la sovranità”. Come dire che da soli risolveremmo meglio i nostri problemi. A prescindere dal fatto che l’Europa toglie sovranità a noi nella stessa misura in cui la toglie agli altri e che i trattati che lo prevedono li abbiamo sottoscritti perché far parte di un mercato ampio e senza dogane era molto conveniente per un paese come il nostro fondamentalmente esportatore, quello che è criticabile (ed è largamente condiviso) è il fatto che la perdita di sovranità sia avvenuta a vantaggio di organismi sostanzialmente intergovernativi (come la Commissione e il Consiglio) senza un significativo controllo democratico (affidato soltanto in parte al Parlamento Europeo). Il che dovrebbe spingere a completare la costruzione dell’unità europea, non a smantellarla. Ma poi: vogliamo tornare al protezionismo? Non conviene a nessuno, men che meno all’Italia.
  • “Bisogna uscire dall’euro e tornare alla lira manovrando sul cambio per facilitare le esportazioni”.
    Restare o uscire dall’Eurozona è motivo di dibattito, ma è cosa diversa dall’uscita dall’Unione. Tuttavia sono abbastanza vecchio per ricordare cosa significavano le “svalutazioni competitive”: necessità di confrontarsi con altre monete anch’esse soggette a variazioni di cambio, tornare alle transazioni in dollari americani, e, soprattutto, alimentare l’inflazione (che infatti, negli anni “felici” delle svalutazioni arrivava a superare il 10% l’anno). L’adozione dell’euro ci ha consentito un decennio di stabilità dei prezzi, ci ha obbligato a contenere la spesa pubblica, ha costretto l’industria a puntare sull’innovazione di prodotto, ha facilitato gli scambi internazionali. Ci sono delle criticità? Certamente sì, lo riconoscono anche i banchieri centrali. Ma anche in questo caso si tratta di andare avanti, per esempio armonizzando i sistemi fiscali. Il che significa che il nostro Paese, allineandosi alla media europea degli oneri fiscali, avrà meno gettito disponibile da spendere e il nodo delle mancate riforme di struttura (che ci fanno perdere decine di miliardi l’anno) tornerebbe ad essere fondamentale. Perché le riforme vanno fatte e non è colpa dell’Europa se non le abbiamo fatte; al contrario, è l’Europa che ce le chiede da molti anni.

Conclusioni amare
L’ondata di fango sull’Europa, ampiamente alimentata dai mass-media (penso soprattutto ad alcuni talk-show superficiali e demagogici), non è giustificata. Capisco che dipende in gran parte da pulsioni incontrollabili che riflettono la preoccupazione di una crisi che non finisce mai e che produce disoccupazione, compressione dei ceti medi, aumento della povertà. Molti pensano che la strada imboccata sessant’anni fa con l’apertura dei mercati, la globalizzazione, le istituzioni sovranazionali, fosse sbagliata. I liberali degni di questo nome sono convinti del contrario: se non avessimo scelto quella strada staremmo molto peggio. I non liberali, liberi cittadini comunque, hanno il diritto di pensare diversamente, ma quel che emerge dalle reazioni all’appello di Della Vedova è ben altro, molto più preoccupante:

  • ignoranza diffusa sull’Unione Europea: come funziona, quali sono i suoi organismi, qual è il livello di partecipazione italiana.
  • scarsa conoscenza delle più elementari leggi dell’economia e anche della reale composizione della struttura sociale del nostro Paese.
  • completa disinformazione sui benefici che provengono dall’Europa (libertà di circolazione, sovvenzioni di progetti, scambi culturali, coordinamento delle politiche commerciali, ecc.)
  • nostalgia del passato (peraltro ignorato nella sua realtà) e ritorno al protezionismo, anche quando (o soprattutto perché) esso protegge l’inefficienza, la mediocrità, la corruzione.
  • rifiuto della globalizzazione immaginata come causa dell’immigrazione incontrollata, della disoccupazione e dei cambiamenti sociali che hanno modificato il tenore di vita di parti consistenti della popolazione.

Al netto degli insulti, che servono soltanto a mascherare l’incompetenza e l’ignoranza, c’è davvero da preoccuparsi. Conoscere per deliberare, diceva Luigi Einaudi. Non è che la scuola, estraniandosi da qualsiasi insegnamento di educazione civica, ha per caso qualche responsabilità?

 

Franco Chiarenza
21 marzo 2017

Ho finito faticosamente di leggere “il regno” di Emmanuel Carrère. Faticosamente perché si tratta di un viaggio nei tormenti spirituali dell’autore che si contorce per 428 pagine in cerca di una risposta al fondamentale quesito se essere un cattolico credente o no. Le ultime parole del libro sono: “non lo so”. C’è tempo per un altro libro.
Potrò sembrare eccessivamente caustico, ma devo ammettere che gli esami di coscienza hanno sempre avuto per me scarsa attrazione, sin da quando adolescente in un collegio di Barnabiti mi toccava farli ogni quaresima; non mi interessavano i miei, figurarsi quelli degli altri.
Naturalmente il libro di Carrère, scrittore e autore di testi cinematografici e televisivi, è scritto bene, in alcune parti riesce a catturare l’attenzione sul protagonista che, come in tutte le autobiografie (perché di questo essenzialmente si tratta), è l’autore stesso.
Le parti più interessanti di questo testo sono però a mio avviso quelle che ricostruiscono la genesi dei Vangeli (in particolare quelli di Luca e Matteo) e la ricostruzione della figura di Paolo di Tarso che incombe nel lungo viaggio che l’autore compie alla ricerca di se stesso. Quando emerge lo storico il racconto prende quota e l’enigma del successo bimillenario del cristianesimo appare in tutte le sue contraddizioni. In queste parti ci sono pagine straordinarie che valgono tutto il libro e che hanno il pregio per un liberale appassionato di storia come me di semplificare senza distorcere il grande affresco che nei secoli – nel bene e nel male – il messaggio evangelico, rilanciato e “organizzato” da Paolo, ha avvolto la cultura europea. Alcune ricostruzioni sono parto della fantasia accattivante di Carrère, il quale non esita a immaginarsi come un Luca narrante, ma anche in questi casi l’umanizzazione dei comportamenti resta correttamente separata dal rigore storico documentato. Un libro dunque che il “liberale qualunque” consiglia a chi ha un po’ di tempo e altrettanta pazienza.

 

Franco Chiarenza
20 marzo 2017

 

Emmanuel Carrère – Il Regno – Adelphi (Milano 2015) – pag. 428, euro 22

Perché siamo contenti
Un liberale non può che essere contento se i liberali (seppure divisi in due partiti come si conviene a liberali che si rispettino) vincono le elezioni in Olanda respingendo l’offensiva populistica anti-europeista e razzista del partito di Wilders. Si tratta di un secondo segnale (dopo quello delle elezioni presidenziali austriache) di una controffensiva dei movimenti che nell’Europa vedono un’opportunità e non un ostacolo.

La partecipazione
Ma in entrambi i casi il voto ha presentato alcune caratteristiche comuni che devono farci riflettere. La prima è la partecipazione al voto. L’ondata xenofoba e nazionalista si sconfigge andando a votare in massa, non importa per chi; l’astensione è come un voto regalato agli estremisti. Una constatazione che riguarda anche il referendum che ha sancito la Brexit e l’elezione di Trump negli Stati Uniti dove il populismo ha potuto prevalere anche per la bassa partecipazione al voto soprattutto dei giovani e dei “disincantati” (quelli che dicono: è inutile andare a votare tanto chiunque vinca non cambia nulla; se ne accorgeranno i giovani libertari londinesi e le minoranze etniche americane).

Il sistema elettorale
La seconda riflessione riguarda il sistema elettorale. L’esempio olandese dimostra che un sistema proporzionale o uninominale senza ballottaggio (all’inglese) rappresenta certamente un freno al prevalere di ondate di protesta irrazionali e comunque minoritarie strumentalizzate da leader populisti. I sistemi maggioritari infatti se per un verso favoriscono la governabilità d’altra parte rischiano, soprattutto se caratterizzati dal ballottaggio, di consegnare il potere ai movimenti che meglio sono in grado di intercettare le paure e le reazioni dei settori più disorientati della pubblica opinione. Questa è la ragione per cui l’esito delle elezioni francesi preoccupa di più di quelle olandesi (a prescindere dal diverso peso politico ed economico dei due paesi). Perché in Olanda anche se Wilders fosse arrivato in testa non avrebbe mai potuto disporre di una maggioranza parlamentare e ne sarebbe conseguito un governo di coalizione tra forze anti-populiste che comunque avrebbe potuto ottenere la fiducia del parlamento. In Francia invece – a parità di consensi con Wilders in Olanda – Marina Le Pen arrivando in testa costringerà quote rilevanti di elettori a scegliere tra due candidati ugualmente sgraditi; non tutti cercheranno razionalmente il male minore, molti sceglieranno l’astensione e ciò potrebbe consentire al Front National di approdare all’Eliseo col suo seguito razzista e populista. Vero è che i conti potrebbero non tornare in Assemblea Nazionale costringendo la Le Pen a costituire un governo più possibilista ma comunque la presenza al vertice dello Stato francese di un’estremista anti-europea, considerati i poteri di cui disporrebbe soprattutto in politica estera, rappresenterebbe un rischio davvero mortale per le istituzioni comunitarie.

E in Italia? Pensiamoci
Tutto ciò dimostra l’importanza dei sistemi elettorali che molti tendono a sottovalutare. Quando esiste nel Paese una maggioranza che si riconosce in valori condivisi che vanno oltre la maggioranza di governo (come in Gran Bretagna e – prima di Trump – negli Stati Uniti) un sistema maggioritario è preferibile perché consente esecutivi stabili e una più facile alternanza di governo. Quando invece lo scontro avviene su valori fondanti della democrazia liberale (come accadde in Italia dopo la guerra) il sistema proporzionale impedisce comunque alle forze antagoniste di prevalere. Se i comunisti fossero anche arrivati primi alle elezioni nella prima repubblica, non potendo in ogni caso raggiungere la maggioranza assoluta, cosa sarebbe cambiato ? Cosa avrebbe impedito ai partiti anti-comunisti, comunque prevalenti, di formare una maggioranza di governo escludendo il partito comunista ?
Ci avviamo alle elezioni tra un anno anche in Italia. Anche per noi si pone una riflessione: forse, a conti fatti, un sistema proporzionale come quello che in sostanza ci ha consegnato la corte costituzionale, potrebbe rappresentare nella situazione attuale la soluzione migliore, consentendo anche, come dimostra l’esempio olandese, una affluenza alle urne più consistente. Pensiamoci. Ci pensa anche il liberale qualunque la cui cultura politica ha sempre diffidato dei sistemi proporzionali preferendogli sistemi uninominali che accrescono il collegamento tra rappresentati e rappresentanti. Ma uninominale (senza ballottaggio) o proporzionale, quel che bisogna davvero evitare sono i “premi di maggioranza”; potrebbero premiare i nemici della democrazia liberale e dell’integrazione europea.

 

Franco Chiarenza
17 marzo 2017

Si chiamano Angela (Merkel), Francesco (Hollande), Mariano (Rajoy) e Paolo (Gentiloni). Hanno stretto un patto di ferro: andare avanti nell’integrazione europea come unica risposta possibile all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione e alle turbolenze del nuovo presidente americano che investono a fasi alterne anche l’Europa. Un primo forte segnale di discontinuità lo hanno dato al consiglio europeo imponendo la riconferma alla presidenza del polacco Tusk malgrado l’opposizione del governo polacco oggi guidato dai suoi avversari conservatori e nazionalisti. Ma l’impegno più significativo è atteso dal vertice straordinario convocato a Roma per celebrare i 60 anni della nascita della Comunità Europea dal quale dovrebbe scaturire l’atto di nascita di un’Europa a due (o più) velocità. Resta però il fatto che tutti e quattro i “moschettieri” potrebbero non essere più al loro posto di qui a pochi mesi.
Il caso della Merkel è quello che preoccupa meno: la competizione elettorale di ottobre in Germania non dovrebbe dare grandi sorprese, e anche nel caso che vincesse il socialista Schultz l’impegno per l’Europa non verrebbe certamente meno (Schultz è stato per molti anni presidente del parlamento europeo).
Hollande non sarà invece sicuramente più presidente e le elezioni francesi rappresentano la maggiore incognita per il futuro dell’Europa; se dovesse vincere Marina Le Pen il discorso si chiuderebbe prima ancora di cominciare, anche con Fillon è lecito qualche dubbio sulla sua tenuta europeista, i socialisti sembrano fuori dai giochi. Soltanto una miracolosa vittoria di Macron darebbe garanzie certe per un rilancio dell’unità europea.
Rajoy è un presidente precario senza una maggioranza certa; da un momento all’altro i socialisti potrebbero rovesciarlo e anche in Spagna nuove elezioni presentano forti rischi di instabilità. Se dovessero aumentare i consensi dei “podemos” (una variante iberica dei “cinque stelle”) il discorso europeo sarebbe seriamente compromesso.
Quanto a Gentiloni lo sappiamo bene; arriverà fino alla scadenza della legislatura ma dopo le elezioni è molto improbabile che sarà ancora lui a guidare il governo. Se gli succederà Renzi dobbiamo prendere atto che nel suo discorso congressuale al Lingotto l’unificazione europea è tornata al centro dell’attenzione, e in generale tutto il PD è su posizioni europeiste. Se invece i “cinque stelle” o l’estrema destra di Salvini e Meloni divenissero determinanti il primo siluro partirebbe certamente per affondare i progetti di rafforzamento delle istituzioni europee.

Mi pare di essere seduto su un vulcano che conosco bene, l’Etna. Quando comincia a brontolare si sa che sta per eruttare ma non si sa mai a quale altezza e in quale direzione. Se apre le sue bocche sulla valle del bove tutti tirano un respiro di sollievo: non farà danni e dopo essersi sfogato tornerà in letargo. Ma quando le lingue di fuoco escono dalla parte dei paesi e della stessa città eretta sotto la montagna la lava può distruggere tutto ciò che è stato costruito e ci vogliono decenni per ricominciare. E’ già successo; al centro della piazza del Duomo a Catania un antico elefantino in pietra lavica sta lì a ricordarcelo.

Franco Chiarenza
14 marzo 2017