Taormina potrebbe passare alla storia per avere ospitato un vertice delle sette maggiori potenze industriali dell’Occidente che ha segnato l’inizio della fine dell’alleanza euro-americana, almeno nei modi in cui essa si è realizzata a partire dalla seconda guerra mondiale. Naturalmente tutto si svolgerà in tempi e modalità ancora da definire e non senza difficoltà per le resistenze che comunque la nuova politica produrrà anche all’interno degli Stati Uniti e dello stesso partito del presidente Trump. Ma che comunque qualcosa si sia spezzato per sempre non è soltanto una sensazione.

L’alleanza atlantica
Prima di Taormina il presidente americano ha compiuto due visite significative: a Roma in Vaticano per incontrare papa Francesco, a Bruxelles per partecipare al vertice dell’Alleanza Atlantica. Le due tappe servivano a chiudere (almeno nelle intenzioni di Trump) due fronti che rischiavano di creargli problemi in America, dove le difficoltà che sta incontrando sono già fortissime; il primo col mondo cattolico che, dopo essere rimasto sostanzialmente neutrale nella campagna elettorale, sembrava non avere gradito alcune arroganti contrapposizioni della nuova amministrazione. Il secondo per rassicurare l’opinione pubblica del suo Paese sulla vigilanza anti-russa in un momento in cui proprio su tale questione il suo staff è sotto tiro; le riserve sulla NATO si sono quindi ridotte a una richiesta di maggiore partecipazione finanziaria agli oneri che il suo apparato militare comporta.
Ma in realtà anche l’alleanza atlantica potrebbe restare compromessa dalla nuova politica americana non tanto per le intenzioni riduttive di Trump quanto perché, a fronte della Brexit e del neo-isolazionismo USA, la Germania sarà certamente tentata di rilanciare un riarmo europeo continentale su cui troverebbe orecchie attente nella Francia di Macron.

Il commercio internazionale
Il terreno su cui Trump troverà le maggiori difficoltà è la contestazione di ogni forma di multilateralismo commerciale che mette in crisi un aspetto fondamentale della globalizzazione. Negli Stati Uniti il mondo della finanza e l’industria tecnologica d’avanguardia non nascondono le loro perplessità le quali non mancano di riflettersi sul partito repubblicano e quindi sul governo.
A Taormina infatti qualche segnale di ripensamento è emerso, anche se la linea di tendenza isolazionista su cui Trump ha fondato la sua popolarità non potrà essere facilmente ribaltata. Questo è il punto più dolente su cui tutte le potenze dentro il G7 e fuori di esso (Cina e India soprattutto) sono in stand by in attesa di riorientare le proprie politiche economiche; anche se gli Stati Uniti costituiscono il mercato di consumo più grande del mondo il rifiuto di regolamentazioni internazionali potrebbe comportare una moltiplicazioni di guerre commerciali che si ripercuoterebbe sugli investimenti e sugli assetti finanziari fino ad oggi controllati in gran parte dagli Stati Uniti.

Il clima
I media europei hanno insistito molto nel rilevare l’isolamento in cui si è trovato Trump sul problema degli accordi di riduzione delle emissioni inquinanti. Ma il problema è in realtà più apparente che reale: si tratta di un debito elettorale che il presidente americano ha voluto onorare nei confronti dei minatori. Ma tutti sanno che le miniere di carbone sono in crisi per ragioni che prescindono dall’inquinamento, a cominciare dalla concorrenza delle scisti bituminose che lo stesso Trump intende favorire, e per terminare coi progressi dell’automazione nell’attività di estrazione che – a dire degli stessi imprenditori – ridurranno ulteriormente i posti di lavoro nelle miniere. Quando anche Trump si renderà conto del grande business rappresentato dalle energie alternative la marcia indietro, sia pure al di fuori di quei vincoli multilaterali che gli sono culturalmente indigesti, sarà inevitabile.

La reazione tedesca
Sulla strada del ritorno da Taormina la cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto tappa a Monaco di Baviera per intervenire a una manifestazione dell’Unione Cristiano Sociale, storico partito bavarese federato con la CDU, dove ha tenuto un discorso dai toni molto duri nei confronti di Trump. Una reazione attesa ma non nei tempi e nei modi in cui si è realizzata.
Non nei tempi perché si pensava che in piena campagna elettorale la Merkel avrebbe aspettato di misurare sul suo successo elettorale la risposta alla duplice sfida che arriva all’Europa dalla Brexit e da Trump. Non nei modi perché l’UCS rappresenta l’ala più conservatrice dell’alleanza di governo, quella, per intenderci, più aperta a suggestioni di tipo nazionalistico; la combattiva cancelliera ha preferito lanciare la sua provocazione proprio dove la sua proposta poteva trovare maggiori perplessità.
Adesso nessuno in Europa ha più alibi: Taormina ha significato anche questo, dalle parole e dalle generiche intenzioni si dovrà passare ai fatti. L’Europa – ha detto la Merkel – dovrà imparare a fare da sé, rinunciando alla protezione americana; a cominciare dalla copertura militare finora assicurata da una NATO a guida americana.

Theresa May, toccata e fuga
Infine la grande assente: la Gran Bretagna. L’orribile strage di Manchester ha consentito al primo ministro britannico di fare a Taormina soltanto una rapida apparizione. Il vertice infatti si è svolto nel pieno di una campagna elettorale da lei stessa voluta che sta mostrando inattese difficoltà per l’emergere di preoccupazioni diffuse (non soltanto in Scozia e in Irlanda del nord) sulle conseguenze di una uscita dall’Europa brusca e conflittuale. I laburisti cavalcano con decisione tali preoccupazioni sul versante dei diritti sociali, i liberali sulla convenienza economica, i sondaggi vanno riducendo i margini della maggioranza della May.

L’impressione che si ricava da queste convulse settimane è che la decisione di cambiare gioco da parte di chi fino ad oggi dava le carte sta producendo un momento di confusione in cui nessuno sa bene come comportarsi. Noi, come sempre, abbiamo offerto uno splendido palcoscenico per recitare la commedia (o la tragedia?), ma gli attori protagonisti sono altri.

 

Franco Chiarenza
31 maggio 2017

L’intesa per una legge elettorale proporzionale “alla tedesca” sembra essere stata raggiunta tra i principali partiti; l’accordo è stato trovato sacrificando la governabilità alla rappresentatività.
Allo stato attuale delle cose è in effetti l’unica soluzione possibile.

Perché il proporzionale
La presenza di un partito indecifrabile come i “Cinque Stelle” è stata la ragione principale della riesumazione del sistema proporzionale. Anche Renzi si è reso conto che a fronte di un populismo “liquido” e fondato su un astratta domanda di moralità politica più che su progetti di governo, e proprio per questo capace di raccogliere consensi su generiche proposte demagogiche, ogni forma di ballottaggio presenta gravi rischi (come ha dimostrato il referendum). I sistemi maggioritari potrebbero infatti favorire movimenti come i Cinque Stelle, che, non dimentichiamo, mantengono un consenso tra il 25% e il 30%, nonostante le pessime prove di governo nelle amministrazioni locali, a cominciare da Roma. L’esperienza ha dimostrato che soltanto un sistema proporzionale impedisce a formazioni populiste tendenzialmente anti-sistema di arrivare al potere: le elezioni olandesi e quelle spagnole lo dimostrano. Se Wilders e i Podemos sono stati fermati ciò è dovuto alla loro allergia a qualsiasi alleanza; può conseguirne (come è avvenuto) una instabilità di governo, ma si tratta comunque di un rischio minore rispetto a quello rappresentato da un sistema maggioritario che avrebbe potuto consegnare il potere a movimenti non integrati nelle istituzioni. Il caso francese è diverso perché il semi-presidenzialismo della quinta repubblica responsabilizza maggiormente l’elettorato, fa accantonare nel secondo turno differenze anche sostanziali, non consente mai al voto di protesta di trasformarsi in un programma eversivo.

Cinque Stelle
Poiché queste considerazioni sono ovvie e alla portata di tutti, è lecito chiedersi come mai Grillo abbia promosso un accordo che di fatto esclude il suo movimento dal governo, almeno se mantiene la promessa sempre ribadita di non fare alleanze organiche di maggioranza.
Le ipotesi sono tre: la prima è quella che la maggior parte degli osservatori condivide. Con un terzo dei deputati che rifiutano alleanze il movimento costringe il partito democratico ad allearsi con la destra in una sorta di union sacrée in un momento difficilissimo e alla vigilia di scelte fondamentali (come quella europea); gridando all’inciucio potrebbe così raccogliere ulteriori consensi e conseguire in successive elezioni quel 51% che gli permetterebbe di governare da solo. La seconda ipotesi è più maliziosa, ma forse più realistica: Grillo e la ditta Casaleggio si rendono conto di avere creato un movimento di massa ingestibile perché fondato su tanti malesseri intrinsecamente contraddittori; il loro problema è quindi di non far parte di nessuna maggioranza e di mantenere nei confronti di chi governa un potere di ricatto che non li esponga mai all’assunzione di responsabilità dirette. L’esperimento Raggi a Roma, dove Grillo si è trovato completamente spiazzato, potrebbe avvalorare tale ipotesi.
C’è una terza interpretazione, improbabile ma possibile: che Grillo cerchi di uscire dall’impasse cercando di costruire gradualmente un’alleanza organica con il partito democratico. Una strategia che troverebbe nella sinistra importanti appoggi e adeguate “sistemazioni” per i suoi colonnelli; basterebbe inserire il “reddito di cittadinanza” (che sembra l’unica proposta programmatica caratterizzante) nel programma del PD e il gioco sarebbe fatto. Certo, una parte della base pentastellare non gradirebbe. Ma c’è un altro dato di fatto: Grillo è stanco, ha messo in piedi una macchina che senza di lui andrebbe subito a sbattere, ma forse non sa in quale direzione guidarla.

La variabile “Mattarella”
Ma anche se l’accordo sulla legge elettorale sembra raggiunto, non è detto che le elezioni si facciano subito. Da un lato c’è l’esigenza di uscire dal clima di provvisorietà che caratterizza l’attuale governo, anche in vista di una situazione europea che nei prossimi mesi subirà probabilmente accelerazioni imprevedibili. D’altra parte c’è un bilancio da approvare con una manovra correttiva molto pesante che Renzi farebbe volentieri a meno di sottoscrivere ma che il presidente della Repubblica ritiene imprescindibile portare a compimento prima dello scioglimento delle Camere. La tentazione di lasciare la “patata bollente” nelle mani di Gentiloni e Padoan potrebbe essere irresistibile; in tal caso si arriverebbe alla scadenza naturale di febbraio.
C’è poi da registrare l’”effetto Macron”. Negli ambienti imprenditoriali e tra gli orfani del centrismo di Monti e di Oscar Giannino si cerca disperatamente un personaggio che possa rappresentare un punto di riferimento liberale. Non certo per ripetere il miracolo francese che, nelle condizioni date (e soprattutto col sistema proporzionale), non sarebbe possibile; ma con la speranza di portare in parlamento un gruppo abbastanza numeroso da condizionare le scelte di governo. Il riferimento a Calenda e a Parisi è d’obbligo.

Franco Chiarenza
25 maggio 2017

Bisogna dare atto a Stefano De Luca di avere saputo mantenere in questi anni viva e sventolante (anche se talvolta un po’ strapazzata) l’antica bandiera del PLI, lo storico partito di Croce, Einaudi, Malagodi, Zanone, che nella prima repubblica ha svolto un ruolo limitato ma non marginale.
Il PLI, anche nei suoi tempi migliori, non è mai stato il raccoglitore esclusivo di quanto la cultura politica liberal-democratica aveva prodotto in Italia; al contrario, ne ha sempre rappresentato soltanto una parte, quella più moderata e conservatrice, erede legittima peraltro del riformismo giolittiano del primo ventennio del secolo scorso. La tradizione liberal-radicale ha trovato altri sbocchi soprattutto nel partito radicale di Pannella, mentre la variante azionista-repubblicana si esprimeva con Ugo La Malfa nel PRI.

Trentesimo congresso
Nei giorni scorsi il vecchio PLI (o quanto ne è rimasto dopo le vicissitudini berlusconiane) ha quindi celebrato il suo XXX congresso riunendo i suoi fedeli seguaci, ma con una marcia in più: la convinzione che il rimescolamento delle carte in atto nello scenario politico potrebbe fornire al partito un’occasione per tornare in parlamento, seppure con numeri limitati. Da qui l’appello alla diaspora liberale perché torni sotto la vecchia bandiera e contribuisca alla rinascita e al rilancio di una presenza dichiaratamente liberale; il successo elettorale di Macron in Francia e di Rutte in Olanda, entrambi espressioni della cultura liberale, ha certamente contribuito ad alimentare questa speranza.
Il sottoscritto, che partecipa sempre alle riunioni liberali (quando viene invitato), un po’ per rivedere vecchi amici un po’ per spiare se qualcosa di nuovo e di diverso si muove nel liberalismo italiano, è andato all’hotel Pamphilj di Roma e ne ha ricavato queste impressioni: troppe contraddizioni, poche specificità, alleanze discutibili.

Troppe contraddizioni
Il liberalismo può essere declinato in modi diversi. Non è una religione (per quanto anch’esse possano essere interpretate in maniere differenti), non presuppone testi sacri frutto di rivelazioni ultraterrene (pur disponendo di testi di riferimento collaudati), si propone soltanto di garantire la libertà di ciascuno nella misura compatibile con quella degli altri. A tal fine ha elaborato alcuni principi etici (solidarietà), economici (mercato regolato), e politici (costituzionalismo) che rappresentano i paletti di un campo assai ampio in cui si possono sviluppare competizioni di vario genere. Per questo un “partito” liberale rappresenta una contraddizione in termini (come già aveva evidenziato Benedetto Croce) che si giustifica soltanto in momenti di particolare difficoltà per la libertà dei cittadini (come fu dopo le due guerre mondiali) oppure se si fa portatore di contenuti specifici che dell’ampio schermo liberale metta in rilievo alcuni aspetti piuttosto che altri. Non a caso la storia del PLI è densa di scissioni e divisioni, non scandalose perché implicite in modi differenti di stabilire le priorità. Così i radicali misero l’accento sui diritti civili e sulla laicità dello Stato, Malagodi puntò a condizionare la politica economica in senso liberista, Zanone e Altissimo si attennero a un liberalismo democratico più attento al principio di solidarietà, e così via. Le contraddizioni sono quindi lecite ma se si esprimono all’interno di uno stesso partito generano risse e confusione, tanto più gravi se il contenitore è di modeste dimensioni, come nel caso dell’attuale PLI.

Poche specificità
Un piccolo partito non può pretendere di rappresentare tutti gli aspetti di una ideologia complessa come il liberalismo; né può affidarsi ai simboli (nome, bandiera, richiamo alla tradizione) per reclamare una sorta di “denominazione di origine controllata”. Anche perché sotto la generica denominazione di “liberale” convivono oggi in Europa formazioni il cui tasso di liberalismo è assai dubbio, pur in un ambito di genere tanto largo. Si chiama “partito per la libertà” quello guidato dal populista razzista Wilders in Olanda, si richiama a principi liberali il partito di estrema destra che governa la Polonia (“Diritto e Giustizia”), è stato sospettato di simpatie naziste il “partito della libertà” austriaco, ecc. Ma anche restando nell’ambito dei partiti liberali più accreditati (per esempio quelli di Gran Bretagna e Germania) le differenze sono molte e ciascuno di essi ha assunto specificità che, in un quadro istituzionale liberale generalmente accettato, li rendono molto diversi. Una cacofonia positiva che però rende sempre difficili decisioni comuni, come ben sanno quanti frequentano il gruppo parlamentare liberale all’Assemblea di Strasburgo o le periodiche riunioni dell’Internazionale Liberale.
Un piccolo partito come quello diretto da De Luca e Morandi deve fare delle scelte, specificare “quale” liberalismo intende privilegiare nel contesto italiano, e su di esso concentrare le proprie risorse umane e organizzative. Altrimenti è destinato al folklore.
Nella bella relazione introduttiva di Giancarlo Morandi ho sentito una visione ampia e al tempo stesso mirata sugli aspetti di compatibilità tra liberalismo e ricadute della globalizzazione, e in qualche intervento ho colto il tentativo di dissociarsi dalla prevalente retorica “reducistica” e di individuare alcuni, pochi temi su cui stabilire le priorità; ma mi sono sembrati in minoranza.

Alleanze discutibili
Dice un vecchio proverbio sempre valido “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”; tanto più valido nella politica italiana dove tutti dicono le stesse cose (abbastanza generiche per essere puntualmente disattese) e l’unico modo per orizzontarsi è quello di vedere con chi ci si allea per realizzarle.
Il PLI alle elezioni amministrative di Roma si è alleato con “Fratelli d’Italia” e la Lega di Salvini; una scelta obiettivamente sconcertante che ha fornito a due partiti illiberali per definizione una copertura di rispettabilità liberale che – a mio avviso – non meritavano. Però, trattandosi di elezioni amministrative, si può sostenere che ciò che conta è il programma, e che sui problemi complessi di Roma convergenze irrituali e paradossali possono anche essere tollerate.
Ma la standing ovation tributata a Giorgia Meloni dopo il suo “saluto” va ben oltre. Anche perché la leader di “Fratelli d’Italia” ha svolto un vero e proprio intervento su temi di attualità politica nazionale prefigurando intese che superano i confini amministrativi. Allora delle due l’una: o i delegati non hanno colto la stridente contraddizione tra la relazione del segretario Morandi e l’intervento di Giorgia Meloni, o è vero che il loro cuore batte in direzione di un nazionalismo protezionista anti-europeo che con il liberalismo ha francamente poco a che vedere.
Basti pensare che Morandi ha aperto la sua relazione ricordando l’emigrazione italiana del passato, un’emigrazione che non era certamente di “profughi” ma di gente che fuggiva dalla fame e dalla miseria, per capire quanto diversa sia la sua concezione – liberale – di accoglienza regolamentata, dalla distinzione tra “profughi” (poche migliaia) da accogliere, e “Immigrati” da respingere (non si sa come), sostenuta tra applausi scroscianti dalla Meloni.

Conclusioni
Un piccolo partito non può essere “né carne né pesce”; non può raccogliere le firme per la separazione delle carriere in magistratura facendo proprie preoccupazioni garantiste che appartengono alla cultura liberale, e contemporaneamente inneggiare a visioni “sovraniste” e stataliste come quelle che provengono dalla storia e dalla cultura politica di Giorgia Meloni.
“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

 

Franco Chiarenza
14 maggio 2017

Pensavo si trattasse di una riedizione, seppure rivista e aggiornata, di un testo che già avevo letto per essere stato pubblicato dalla Fondazione Einaudi di Roma nel 1995, ho dovuto invece constatare che il libro di Ernesto Paolozzi è qualcosa di diverso, molto di più. In esso infatti emergono le inquietudini del presente, le incertezze (molto liberali) della validità delle ricette in cui abbiamo sempre creduto.
In questa raccolta di saggi (in qualche momento un po’ disomogenea) emerge infatti con chiarezza la difficoltà – in qualche momento angosciosa – di mettere in qualche modo d’accordo i vecchi canoni del liberalismo (e nel caso specifico di quello crociano, di cui Paolozzi è sempre stato attento conoscitore) che la nostra generazione riteneva in certa misura inviolabili, con le nuove trasformazioni sociali indotte dalla globalizzazione (mondializzazione preferisce chiamarla l’autore, dandogli un significato differente) che con fatica si adattano alle procedure delle democrazie liberali.
Il testo è molto contenuto, considerata la difficoltà dei temi trattati, ma non è di facile lettura e non appartiene alla letteratura politica divulgativa di cui sono inutilmente pieni gli scaffali delle nostre librerie. Ogni riga presuppone conoscenze basilari, ogni capitolo induce a riflessioni profonde e propone dubbi non risolti nella più pura tradizione popperiana (che ne è stato della feroce avversione a Popper che ricordo nelle nostre conversazioni di tanti anni fa?).

Molte cose che Paolozzi descrive e commenta sono ampiamente condivisibili, almeno nel contesto culturale liberale in cui ci riconosciamo. Anche se avrei alcune obiezioni sull’utilizzo di certe affermazioni di Tocqueville che non corrispondono affatto alla realtà americana di oggi ancora basata, come ai tempi in cui il visconte Alexis de Clérel andava scoprendola, su un’etica civile diffusa e condivisa che rappresenta il cemento capace di tenere insieme le sue contraddizioni laceranti; non ho conosciuto critici più feroci della società statunitense degli americani stessi, ma al contempo sono loro che ancora ci indicano in una costruzione politica e sociale come quella che hanno eretto e consolidato in oltre due secoli l’unica strada percorribile per salvare il liberalismo, e con esso la libertà “tout court”: quella “balance of powers” che resiste a tutte le spinte omogeneizzanti, anche le più recenti indotte dalla globalizzazione dell’economia e dalla diffusione planetaria delle nuove tecnologie digitali (su cui Paolozzi esprime condivisibili preoccupazioni).

Ma altro è a mio avviso il punto fondamentale che emerge dalla lettura dei diversi saggi contenuti nel libro di Paolozzi: il rapporto tra liberalismo e relativismo e quindi l’inevitabile riflessione sui limiti del principio di tolleranza che di ogni concezione liberale rappresenta un evidente presupposto, quel rispetto del pensare e dell’agire di ogni individuo altro da sé, senza il quale il liberalismo perde ogni significato; e come mettere d’accordo questa esigenza – tanto più importante in un’epoca come la nostra in cui le intolleranze e i settarismi sembrano segnare una nuova preoccupante emersione – con l’idealismo crociano tanto avverso ad ogni forma di relativismo e sempre alla ricerca di principi assoluti su cui connotare la “religione della libertà”.
La risposta Paolozzi la trova in una lettura originale delle ultime opere del filosofo napoletano rilanciando un’evoluzione “movimentista” del suo pensiero, distante ma componibile con il liberalismo della “Critica”, ancora influenzato dall’idealismo hegeliano anche quando ne prendeva le distanze (“Ciò che è vivo e ciò che è morto…..”). E dunque Paolozzi dedica al principio di “vitalità”, incardinato nella categoria dell’utile, alcuni spunti molto stimolanti restituendoci un’immagine di don Benedetto diversamente “vitale” (mi si perdoni il gioco di parole) e imprevedibilmente moderna.

Naturalmente non è questa la sede per approfondire il tema e per condividerne o contestarne alcuni passaggi ma in ogni caso va riconosciuto al libro di Paolozzi il merito di cercare di mettere insieme in una piattaforma costruita su fondamenti comuni quel che resta valido del pensiero liberale contemporaneo. Tentativo tanto più apprezzabile in quanto si misura con la questione davvero dirimente del nostro tempo che è quella della complessità, e della domanda che ne scaturisce logicamente: se gli strumenti offerti dalla democrazia liberale sono ancora in grado – anche con gli inevitabili adattamenti – di governarne i tanti aspetti di un mondo in transizione di cui sappiamo da dove viene ma non riusciamo a capire dove va.
C’ è nel libro un passaggio molto bello, quando Paolozzi scrive: “Il liberale può e deve svolgere un ruolo che potremmo definire di movimento, che non è l’incoerenza o l’opportunismo, ma l’intelligenza di chi sa che il bene non è un feticcio da adorare. Il bene si conquista giorno dopo giorno solo nella concreta azione politica la quale si trova a fronteggiare problemi sempre nuovi e quindi a proporre soluzioni sempre nuove, di ripensare e rimodulare il rapporto tra lo Stato e l’individuo nello svolgimento della storia.”

 

Franco Chiarenza
5 maggio 2017

 

Ernesto Paolozzi – Il liberalismo come metodo – Kairos edizioni – Napoli 2015 – pag. 126

Che il coinvolgimento massiccio delle organizzazioni non governative (ONG) nelle operazioni di salvataggio dei barconi di fuggitivi che approdano quotidianamente in Italia potesse esserci del marcio era possibile. Bene fa quindi la magistratura a indagare in tale direzione, anche se, non sollecitata dal governo, essa va certamente oltre i limiti che dovrebbero accompagnare l’azione inquisitoria dei pubblici ministeri. D’altronde è interesse delle stesse organizzazioni di volontariato distinguere il grano dal loglio per evitare che nella benemerita collaborazione delle ONG possa esserci qualcuno che ci specula. Dove ha sbagliato dunque il procuratore di Catania Carmelo Zuccari?

Dove ha sbagliato
Nella comunicazione. Il caso Zuccari è in proposito emblematico. Sin dai tempi ormai lontani di “Mani pulite” si è instaurato un rapporto perverso tra la magistratura inquirente e i mezzi di informazione che ha dato luogo al ben noto fenomeno dei processi mediatici che anticipano e spesso svuotano di credibilità i veri processi celebrati nelle aule di giustizia con tutte le garanzie che la legge prevede quando si tratta di mettere in gioco la vita stessa di un cittadino. Si tratta di un fenomeno gravissimo che scardina uno dei pilastri fondamentali dello stato di diritto e alimenta il giustizialismo populista, e che si è aggravato man mano che i nuovi mezzi di comunicazione hanno aumentato la loro pervasività mentre si sono attenuati i controlli e i richiami al principio di responsabilità.
I magistrati hanno in questa degenerazione una parte di responsabilità, messa recentemente in evidenza anche nella relazione annuale del Procuratore generale della Corte di Cassazione. Le ragioni sono probabilmente molte (desiderio di visibilità, eccesso di autostima, visioni politiche, pretesa di sorvegliare e intimorire una classe dirigente potenzialmente corrotta, ecc.) ma il fatto è che è giunto il momento di fare un passo indietro. Carmelo Zuccari invece ha fatto un passo avanti: è andato in un talk show televisivo a raccontare la sua verità, senza ancora che vi sia non soltanto una sentenza ma nemmeno – come lui stesso ha ammesso – uno straccio di prova.

Cosa fare
Occorre tornare alle origini. Innanzi tutto spegnere i riflettori sull’attività della magistratura inquirente e tornare a una prassi di riservatezza che sarebbe utile anche per la raccolta delle prove. Poi bisogna tornare a ragionare sulla separazione delle carriere dei magistrati: come sostiene molta parte della dottrina giuridica (ma lo affermava anche Giovanni Falcone) inquirenti e giudicanti hanno non soltanto funzioni diverse e potenzialmente conflittuali ma anche differente sensibilità giuridica e dovrebbero percorrere itinerari formativi differenziati. Con l’adozione del processo accusatorio il pubblico ministero è a tutti gli effetti una “parte” (l’accusa) che si contrappone all’altra (difesa), mentre il giudice deve mantenere una posizione di terzietà sancita anche dalla Costituzione. Confonderne le carriere contribuisce soltanto a rafforzare lo spirito di casta della magistratura e indebolisce oggettivamente l’indipendenza dei giudici rispetto alle divisioni interne dell’Associazione Magistrati (ANM).
I magistrati inquirenti non sono dei moderni inquisitori chiamati a far trionfare la giustizia, come invece taluno di essi interpreta il proprio ruolo; sono soltanto dei funzionari dello Stato che hanno vinto un concorso (si spera non condizionato da pregiudizi ideologici) chiamati a raccogliere le denunce su possibili violazioni della legge e avviare le indagini preliminari dalle quali un giudice (il GIP) stabilisce se e come avviare un processo penale. Spetterà poi alla procura procedere agli accertamenti e sostenere l’accusa nel processo, confrontandosi con la difesa degli imputati.
L’avviso di garanzia fu introdotto a suo tempo – come dice il nome stesso – per avvertire un libero cittadino che la magistratura inquirente stava indagando sul suo conto e per quali ragioni, in modo che egli avesse tempo e modo di organizzare la sua difesa. Reso pubblico si è trasformato in un avviso ai mezzi di comunicazione sull’avvio di un’azione penale nei confronti di uno o più cittadini che la procura riteneva già probabilmente colpevoli. Il resto lo fanno i giornalisti (talvolta con la complicità di magistrati compiacenti che fanno accedere a documenti che dovrebbero restare riservati) e se poi il disgraziato incappato in questa macchina infernale verrà assolto (come è avvenuto spessissimo) tutta l’enfasi accusatoria dei mezzi di informazione si ridurrà a una breve notizia marginale.
Non si tratta soltanto di arginare il protagonismo di magistrati e poliziotti (che dire, a proposito, delle conferenze stampa in cui si denunciano persone non ancora condannate e spesso nemmeno rinviate a giudizio?) ma di capire perché queste violazioni della correttezza giuridica non suscitino nell’opinione pubblica la riprovazione che ci aspetterebbe e anzi spesso sono accettate acriticamente. La ragione è – a mio avviso – che la classe politica e coloro che sono ad essa adiacenti hanno talmente compromesso la propria credibilità da rendere possibile una legittimazione della funzione salvifica della magistratura, anche a prescindere dalle garanzie che dovrebbero caratterizzare uno stato di diritto (per le quali, per esempio, non si è colpevoli fino a sentenza definitiva). Come dire che la democrazia per salvare se stessa si affida a strumenti che democratici non sono; se poi un Carmelo Zuccari si sente in dovere di proclamare la sua verità in televisione e senza contraddittorio, non bisogna stupirsi.

Franco Chiarenza
1 maggio 2017