La politica italiana dà l’ennesima prova della propria inconcludenza; si spacca – dividendosi come sempre in tifoserie irragionevoli – su un problema che davvero non rientra nelle nostre priorità: il cosiddetto ius soli, il diritto cioè ad acquisire la cittadinanza in maniera automatica se si nasce sul territorio italiano, a prescindere dalla nazionalità dei genitori. Una storia vecchia che mi riporta alla mente tempi antichi quando i rampolli della buona borghesia venivano fatti nascere in Svizzera (dove appunto vigeva lo ius soli) perché non si sa mai: coi tempi che correvano e i comunisti alle porte una cittadinanza svizzera poteva sempre servire (soprattutto se accompagnata da adeguati conti bancari).

Il dibattito italiano
La questione ha assunto improvvisamente in Italia una connotazione politica perché collegata col problema dell’immigrazione irregolare. La sinistra “buonista” e comprensiva ha voluto sfidare la destra “cattiva” e discriminatoria sul suo terreno trasformando un problema che andava risolto col semplice buonsenso in una battaglia ideologica che restituisse finalmente alla sinistra “dura e pura” caratteri inconfondibili e condannasse definitivamente Salvini alla riprovazione morale dell’esercito crociato (che, abbandonando antiche diffidenze “laiciste”, ha trovato in papa Francesco un leader carismatico ben più significativo di D’Alema). Salvini naturalmente non aspettava altro; messo in difficoltà su argomenti seri come la gestione dell’immigrazione, i rapporti con l’Europa (soprattutto dopo la sconfitta della Le Pen in Francia), le politiche di bilancio, la crescente impopolarità delle Regioni (anche di quelle governate dalla Lega), è subito saltato sulla zattera che la sinistra gli offriva per riproporsi come difensore dei valori nazionali, srenuo combattente che si oppone all’invasione di negri e musulmani in nome dell’imprescindibile identità italiana. Poveri noi, in che trappola meschina ci siamo lasciati trascinare!

I diritti dei bambini
Quali conclusioni deve trarne un “liberale qualunque”? Una sola: lasciate stare i bambini, non caricateli di scelte che non sono in grado di compiere in modo libero e autonomo. Vale per il battesimo imposto subito dopo la nascita (una volta, nel cristianesimo primitivo, non era così: si veniva battezzati da adulti), vale per le madri fanatiche che trascinano i figli nelle manifestazioni, vale anche per la nazionalità che, fino al conseguimento della maggiore età, non può che essere quella dei genitori. Create piuttosto i presupposti culturali per rendere facile la scelta di nazionalità al conseguimento dei 18 anni di età, facendo di tale decisione un momento solenne di riconoscimento e di partecipazione alla comunità (come avviene, per esempio, negli Stati Uniti).
Diverso è il discorso dei diritti che devono essere collegati alla residenza e non alla cittadinanza: diritto all’assistenza sanitaria, all’istruzione gratuita, e accesso a tutti gli strumenti che lo Stato mette a disposizione dei giovani italiani. Non sarebbe ragionevole?

Ma poiché il buonsenso è diventato merce rara so già come andrà a finire: i pasdran di destra e di sinistra seppelliranno il liberale qualunque di contumelie più o meno eleganti. Ed io mi troverò additato come complice di Salvini.
Non abbiamo davvero cose più serie di cui occuparci nell’ultimo squarcio di legislatura?

P.S. Segnalo il rischio che un allargamento incontrollato ed automatico della nazionalità possa produrre una cittadinanza di serie A collegata ad una regolare residenza la quale perciò può usufruire delle molte possibilità che l’Unione Europea (e lo stesso Stato) prevede per i cittadini europei “regolari”, e una cittadinanza di serie B praticamente inutile che serve soltanto a stabilire una questione di principio.

Franco Chiarenza
20 giugno 2017

Quando mi è stato chiesto di chiudere il corso di Napoli della Scuola di liberalismo l’Europa sembrava scivolare pericolosamente verso un populismo nazionalista diffuso, variamente motivato ma comunque tale da indicare una chiara linea di tendenza ostile non soltanto al disegno di unificazione del Vecchio Continente ma anche connotata dal rifiuto del liberalismo. Lo scetticismo sembrava d’obbligo.
Ma da allora molte cose imprevedibili sono avvenute e tra tutte la vittoria dei liberali in Olanda e quella di Macron in Francia. L’ondata populista pare arginata e un vento nuovo sembra soffiare in Europa.

A fare la differenza è stato il voto giovanile. Quando è mancato le elezioni hanno prodotto la Brexit, la presidenza Trump, regimi conservatori nazionalisti in Ungheria e in Polonia; quando si è mobilitato ha mostrato il vero volto dell’Europa di domani, quello di chi non ha paura dei cambiamenti, delle generazioni che hanno vissuto l’esperienza Erasmus e non vogliono tornare indietro, di quanti pensano che l’immigrazione è una sfida che può essere affrontata e vinta con vantaggio per tutti e non una sciagura da criminalizzare. Per questi giovani l’Europa non è un problema ma la soluzione dei problemi.

Occorre andare avanti dunque non tornare indietro ripercorrendo una strada che troppi europei percorsero nella prima metà del secolo scorso e che è costata milioni di morti, distruzioni spaventose e si è conclusa con la perdita dell’egemonia mondiale che le nazioni europee avevano esercitato fino ad allora. L’Europa, culla del liberalismo e della democrazia, ha generato in quegli anni il totalitarismo, antitesi radicale del pensiero liberale e del socialismo democratico nelle loro diverse accezioni. Come è stato possibile?

E’ stato possibile perché l’insicurezza genera i mostri dell’intolleranza. La paura delle differenze culturali di razza, religione, e quant’altro, è stata usata dai nemici della democrazia liberale come arma psicologica per chiudere i cancelli e, all’ombra di rassicuranti muri di cinta, giustificare la creazione di regimi autoritari. Da questa schiavitù che ci ha portato ad obbedire a chi ci conduceva ad aggredire altri popoli ed etnie differenti siamo stati liberati dai figli d’Europa che alcuni secoli prima erano emigrati in un continente sconosciuto e là avevano gradualmente costruito sistemi politici e sociali che mettevano al centro i diritti e i doveri dei cittadini; è agli americani che dobbiamo la libertà di scelta di cui oggi disponiamo.

Insieme agli americani, al sicuro sotto il loro scudo militare, abbiamo costruito un nuovo ordine mondiale fondato su tre pilastri: i diritti individuali, il “rule of law” (cioè il primato della legge), e la libertà di scambio di persone e merci (cioè l’economia di mercato). Da questo asse atlantico euro-americano abbiamo affrontato e vinto la grande sfida contro l’unico sistema alternativo che possedeva la dignità e la grandezza dei grandi ideali ma che era segnato irrimediabilmente dall’utopia paternalistica dello “stato buono” e che puntualmente conduce a trasformare i cittadini in sudditi.

Dopo il crollo dell’alternativa comunista Stati Uniti ed Europa con un articolato sistema di trattati multilaterali hanno guidato la globalizzazione e per vent’anni hanno assicurato – pur tra tanti errori – un lungo periodo di pace e prosperità, riducendo la fame nel mondo, favorendo lo sviluppo dei paesi orientali e africani meno sviluppati. Certo, non sono mancate guerre locali, non si è riusciti ad impedire che il Medio Oriente si trasformasse in un perpetuo incendio destabilizzante, ma nel complesso bisogna ammettere che il rischio di una terza guerra mondiale è stato evitato e che è poco probabile che si avveri la profezia di Einstein (“non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale; so che quella successiva si farà con archi e frecce”).

Ma adesso siamo giunti a una svolta: nuovi soggetti si candidano alla guida dei processi di globalizzazione e le carte del “grande gioco” non le daranno più soltanto gli Stati Uniti e l’Europa. Lo stesso asse atlantico appare irrimediabilmente incrinato – a prescindere da Trump – e, come dice Angela Merkel, l’Europa, se vuole restare tra i decisori mondiali, deve unirsi e fare da sé.
Può farlo soltanto se: 1) elimina le resistenze nazionalistiche e corporative che ancora vi sono radicate, 2) riesce a comporre le culture politiche e sociali mediterranee con quelle dell’Europa del nord, 3) riesce ad assorbire le inevitabili immigrazioni attraverso un progetto unitario, 4) crea le condizioni per essere competitiva, e non soltanto dal punto di vista produttivo.

Non si tratta di annegare le identità nazionali in un coacervo burocratico indifferenziato (come per alcuni aspetti è avvenuto nell’Unione) ma di prendere atto che vi è una convenienza comune a stare insieme, a procedere uniti per contare di più, ed essere quindi disposti a mettere da parte le differenze che provengono dal passato.
Il nostro continente ha caratteristiche comuni che lo rendono riconoscibile: il liberalismo dei diritti (allargato ai diritti sociali), l’economia di mercato regolata (lontana tanto dagli eccessi dello spontaneismo liberista quanto dal dirigismo statalista), una grande varietà di modelli sociali ereditati dalla storia, una cultura linguisticamente differenziata ma omogenea nelle manifestazioni e nelle interrelazioni artistiche, nella filosofia, nella scienza, e infine nell’assenza di una qualsivoglia egemonia religiosa che possa mettere in pericolo il principio di laicità.

Il passo successivo da compiere è quello di creare una federazione in cui le distinzioni tra competenze nazionali e federali siano chiare e senza ambiguità e nella quale gli “stati che ci stanno” mettano insieme: – la politica estera.
– la moneta e la politica economica.
– la politica di difesa militare.
Esiste già oggi probabilmente un nucleo ristretto di paesi disposti a compiere queste rinunce alla propria sovranità. Se l’esperimento riesce “l’intendence suivrà”, gli altri, prima o poi, si accoderanno.

C’è però un problema di legittimità democratica senza la cui soluzione ogni costruzione istituzionale mostrerebbe le stesse debolezze dell’Unione Europea come la conosciamo. Il processo di legittimazione democratica deve partire dai cittadini, non a colpi di referendum – spesso emotivi, divisivi e distorsivi – ma avendo il coraggio di eleggere un’assemblea costituente europea a suffragio universale diretto.
Il trattato costituzionale elaborato faticosamente nel 2005 e poi affondato dai referendum in Francia e in Olanda, si apriva nel preambolo con la formula: “Noi, Capi di Stato di ……(segue l’elenco dei paesi aderenti) promulghiamo ecc.” ripetendo lo schema delle costituzioni europee ottocentesche octroyés (cioè concesse dai sovrani). La costituzione europea che bisogna disegnare dovrebbe invece aprirsi con la stessa dizione di quella americana del 1787: “Noi, popoli europei, promulghiamo la seguente Costituzione ….”

 

Franco Chiarenza
16 giugno 2017

Con la scomparsa di Stefano Rodotà la cultura giuridica e politica del nostro Paese subisce una grave perdita, comunque si possano condividerne o meno le idee.
Di formazione liberale (era politicamente cresciuto nella Gioventù Liberale) aveva abbandonato il PLI insieme a Giovanni Ferrara nel corso della lunga storia di divisioni e ricomposizioni che ha caratterizzato la storia del partito di via Frattina prima della sua definitiva scomparsa come soggetto politico e parlamentare negli anni ’90.
L’ho conosciuto, ho avuto occasione di discutere con lui e di apprezzarne la sottile intelligenza giuridica che ne accompagnava l’impegno politico, dalla militanza radicale fino all’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del partito comunista. Malgrado tale discutibile approdo la sua ideologia era quanto di più lontano si possa immaginare dal modello comunista, almeno nella dimensione storica che ha assunto nelle sue principali realizzazioni in Unione Sovietica e in Cina. Come molti altri (a cominciare da Gobetti) Rodotà immaginava che ogni autentica rigenerazione liberale non potesse prescindere dalla concreta estensione dei diritti di cittadinanza (che egli immaginava assai vasti e concretamente ancorati a condizioni economiche soddisfacenti) a tutti coloro che non erano in grado di esercitarli. Da qui la sua attenzione per i partiti che – a suo giudizio – meglio ne rappresentavano gli interessi (e quindi per i comunisti, soprattutto dopo il crollo dei regimi autoritari coi quali si erano identificati).

L’importanza di Rodotà tuttavia non era connessa alla sua disponibilità a porre il suo impegno politico al servizio di chiunque in qualche misura ne condividesse gli obiettivi (variamente strumentalizzato, in ultimo anche dal movimento Cinque Stelle) ma nel ruolo che egli ha svolto nella filosofia dei diritti. Ha speso la vita a studiarne le infinite connessioni allargandone la sfera oltre il limite in cui – almeno da un punto di vista liberale – la loro tutela comporta per le libertà individuali rischi non commensurati ai diritti che si intendono garantire; e ciò per l’evidente allargamento dell’intervento pubblico che tale tutela comporta. Né vale la distinzione tra lo Stato e altre forme di organizzazione collettiva che comunque aumenterebbe lo spazio comunitario a spese di quello dell’iniziativa privata fino a sfiorare pericolosamente la riproposizione di uno stato etico. Leggendo i suoi libri più recenti – sempre acutamente argomentati – non si può sfuggire all’impressione che le soluzioni proposte da Rodotà comportino inevitabilmente un dirigismo statale onnipotente, sia pure riorganizzato attraverso complicate formule di partecipazione democratica elaborate essenzialmente al fine di sanare la contraddizione di cui egli stesso si rendeva perfettamente conto.
Tutto ciò comportava alcune conseguenze che uno studioso della sua intelligenza non poteva mancare di cogliere: a cominciare da un sostanziale ridimensionamento del sistema rappresentativo parlamentare ereditato dalla tradizione liberale fino alla messa in discussione del diritto di proprietà. Si finisce così per ricadere in un utopico comunismo liberale (che d’altronde è facile rintracciare anche in alcuni scritti di Marx e di Engels, fino a risalire a Saint Simon). Un utopismo che di fatto finisce per essere utilizzato per strangolare le libertà concrete di oggi – in via transitoria, naturalmente – in attesa di renderle più complete domani.
Ma – come scriveva Isaac Berlin – per troppo tempo si è giustificata la rottura delle uova per realizzare una meravigliosa frittata; di uova se ne sono rotte tante ma la frittata non si è vista, o meglio, quella che si è vista non valeva certo – nemmeno in minima parte – le sofferenze e gli stermini che aveva prodotto.

 

Franco Chiarenza
15 giugno 2017

Le elezioni politiche in Gran Bretagna hanno prodotto un risultato opposto a quanto aveva previsto e sperato il primo ministro May al momento di sciogliere la Camera dei Comuni. I giovani hanno votato in massa per il partito laburista consentendo al suo discusso leader Jeremy Corbyn di riemergere proprio quando la sua leadership pareva a rischio dopo le incertezze che avevano accompagnato il referendum sulla Brexit. Theresa May dal canto suo si ritrova senza una chiara maggioranza in parlamento e di fronte a una probabile resa dei conti all’interno del partito conservatore. Tutto ciò alla vigilia dell’apertura ufficiale delle trattative con l’Unione Europea per negoziare tempi e modi dell’uscita della Gran Bretagna.

Perché May ha voluto le elezioni
Contrariamente a quel che molti pensano la sconfitta della May non rappresenta una vittoria degli europeisti e men che meno un compito facile per i negoziatori dell’Unione. Vero è che probabilmente molti di coloro che hanno votato contro i conservatori lo hanno fatto anche per un tardivo pentimento nei confronti di un’uscita che si prospetta sempre più traumatica. Ma è anche cosa nota che la debolezza induce a comportamenti intransigenti proprio per far fronte agli inevitabili contraccolpi che potrebbero derivarne nell’opinione pubblica del proprio paese.
Se è vero – come pare – che la May sperava in un’ampia maggioranza per consentirle di gestire la trattativa con una sorta di mandato in bianco, ciò non serviva a strappare concessioni all’Unione ma piuttosto a far digerire i bocconi amari che vasti settori dell’economia, della finanza, e delle protezioni sociali inglesi dovranno trangugiare. La posizione forte era necessaria per ragioni di politica interna non per modificare i termini di un accordo che comunque si prospetta difficile soprattutto per la Gran Bretagna.

Cosa succederà adesso
La situazione si presenta adesso molto ingarbugliata. Se Theresa May formerà una maggioranza con gli estremisti protestanti dell’Ulster, le reazioni in Irlanda saranno durissime. Dopo la lunga guerra civile tra cattolici e protestanti l’Irlanda aveva vissuto negli ultimi anni un periodo di pace e di prosperità anche grazie all’Unione Europea che aveva consentito l’abbattimento delle barriere tra l’Eire e l’Irlanda del Nord; non a caso gli irlandesi del nord avevano votato a grande maggioranza per la permanenza nell’Unione Europea). Ricreare ostacoli alla libera circolazione delle persone e delle merci ricondurrebbe il processo di pacificazione (e di potenziale unificazione) al punto di partenza e complicherebbe ulteriormente la trattativa tra Bruxelles e Londra.
A questo punto un cambiamento alla testa del governo britannico non è improbabile. Senza il fardello degli errori (anche di comunicazione) compiuti dalla May e con una maggioranza transitoria che preluda a nuove elezioni, sarebbe possibile forse per la Gran Bretagna presentarsi al tavolo con le mani più libere di quanto non siano quelle dell’attuale premier.

Franco Chiarenza
15 giugno 2017