L’opinione pubblica italiana (me compreso) che aveva accolto con soddisfazione le esplicite aperture europeiste del nuovo presidente francese è rimasta senza parole. La tanto temuta Marine Le Pen non avrebbe potuto fare peggio: prima l’inutile sgambetto all’Italia convocando a Parigi i duellanti libici che si sono lasciati con un accordo sulla carta da attuarsi in primavera dell’anno prossimo e di difficilissima realizzazione, poi la nazionalizzazione dei cantieri navali di Saint Nazaire dopo che la Fincantieri ne aveva acquisito l’anno scorso il 67% delle azioni dal fallimento della sudcoreana STX (la quale le aveva comprate molti anni prima senza alcuna opposizione da parte del governo francese). Una nazionalizzazione che sarebbe stata più comprensibile se l’acquirente non fosse stato un partner europeo, ma che si tinge in questo caso di un protezionismo nazionalista in antitesi non soltanto alle dichiarazioni d’intenti di Macron ma anche alla politica di apertura ai capitali europei (e soprattutto francesi) che l’Italia ha perseguito nell’ultimo decennio.
Anche il brutale respingimento di poche decine di immigrati che avevano varcato il confine a Ventimiglia rientra in questo quadro di malcelata ostilità verso l’Italia di cui non si comprendono le ragioni rappresentando esso una vera e propria retromarcia rispetto alla carta d’identità che il presidente francese aveva esibito prima di essere eletto e che oltretutto rischia di provocare effetti collaterali di lunga durata anche per le future strategie europee. Se infatti tra la fine dell’anno e l’inizio del 2018 dovesse davvero avviarsi un processo di unificazione tra i paesi del “nocciolo duro” dell’Europa con cessioni di sovranità in campo militare e di coordinamento finanziario, attizzare un clima nazionalistico d’antan appare controproducente e porta acqua al mulino degli oppositori del progetto.

En attendant
E’ ancora presto per trarre da queste prime mosse maldestre conclusioni definitive sulla capacità di Macron di rappresentare una leadership di dimensioni europee; non sempre è vero (almeno in politica) che la giornata si vede dal mattino.
Il governo Gentiloni ha reagito bene: mentre i rispettivi ministri si scambiavano battute al vetriolo, il presidente del consiglio e il ministro dell’Economia, pur non nascondendo il fastidio e la delusione, si sono mantenuti su una prudente posizione di attesa; a loro spetterà in sostanza l’ultima parola se si cercherà un’intesa al massimo livello. La Commissione Europea, che pure in materia avrebbe qualcosa da dire, per ora tace; il segretario del partito democratico invece purtroppo parla cercando di mettersi in competizione nazional-demagogica con il governo francese minacciando la nazionalizzazione di Telecom (di cui virtualmente la francese Vivendi ha ormai assunto il controllo). Ancora una volta invadendo le competenze del governo e mettendo in difficoltà Gentiloni. Ma la politica non è una partita di “monopoli”; qualcuno dovrebbe spiegarlo al “segretario fiorentino” il quale potrebbe forse utilmente rileggere gli insegnamenti del suo lontano predecessore che si chiamava Machiavelli.

Intanto però la vecchia Unione burocratizzata e accusata di inefficienza e incapacità di rappresentare gli autentici valori europei si muove mettendo in discussione l’evoluzione giuridica e costituzionale della Polonia e dell’Ungheria, sempre più tentate ad avvicinarsi al modello di “democrazia autoritaria” di Putin, e insistendo per la ricollocazione dei profughi che affollano l’Italia e la Grecia. Anche con la Gran Bretagna le trattative continuano e la Commissione di Bruxelles non sembra voler lasciare spazio a iniziative bilaterali. La Corte di giustizia, da parte sua, nel respingere interpretazioni forzate della convenzione di Dublino ribadisce tuttavia che i cambiamenti, quando si rendono necessari, si fanno modificando i trattati non cercando di aggirarli; una conclusione che, se in apparenza mette in difficoltà l’Italia, in prospettiva potrebbe rafforzarne la posizione negoziale all’interno dell’Europa.

 

Franco Chiarenza
31 luglio 2017

Personaggio complesso, indecifrabile se non si tiene conto delle sue origini, Enzo Bettiza ha svolto un ruolo importante nel liberalismo italiano del dopoguerra. Era nato a Spalato in Dalmazia e la sua famiglia faceva parte della ricca borghesia di origine veneta che per diversi secoli ha convissuto con la maggioranza serbo-croata di quella tormentata regione adriatica. Esiliato in Italia dopo la nascita della repubblica comunista in Jugoslavia, è stato giornalista, scrittore, deputato del partito liberale. In sintonia con Indro Montanelli, col quale condivideva un anti-comunismo senza sconti, nel 1973 lasciò il Corriere della Sera per fondare “Il Giornale”.
Laico convinto sostenne nel partito liberale la linea “lib-lab” portata avanti da Altissimo per contenere il pericolo di un compromesso storico tra cattolici e comunisti, ma al sorgere della Lega non nascose la sua simpatia per il secessionismo lombardo-veneto che ne rappresentava il fondamento. Contraddizioni che vanno lette appunto nella cultura mitteleuropea adriatica che rappresentò sempre una caratteristica del suo impegno letterario e giornalistico, nel quale è sempre presente una grande attenzione per le trasformazioni del mondo dell’Europa orientale dove le distinzioni linguistiche e culturali si sono mescolate per secoli senza corrispondere quasi mai ai confini politici.
Testimone lucido e attento del suo tempo – che è anche il mio – fu liberale più per istinto e per cultura che non per convinta adesione alle teorie economiche e giuridiche del liberalismo; un personaggio peraltro da iscrivere senza esitazione nel “pantheon” dei liberali del XX secolo.

 

Franco Chiarenza
28 luglio 2017

La cosiddetta “roulette russa” è, come è noto, un tragico gioco che consiste nello spararsi alla tempia con una pistola a tamburo a sei colpi e un solo proiettile; se si è sfortunati e parte il colpo è la fine. L’elezione di Trump presentava per i repubblicani rischi analoghi; bisognava solo capire delle tante vulnerabilità del nuovo presidente quale sarebbe esplosa prima: l’imprevedibilità del personaggio, il suo “entourage” (anche familiare), le posizioni ambigue e contraddittorie che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale, l’ostilità dei mezzi di informazione in un paese dove la stampa indipendente ha sempre esercitato un forte controllo sul potere esecutivo non lasciavano molti margini. Ma il colpo è partito dove meno era prevedibile, il cosiddetto “Russiagate”.

La guerriglia fredda
Il fatto che il governo russo avesse influito sulle elezioni presidenziali sviluppando un sistema di fakenews in grado di delegittimare la candidata democratica era stato inizialmente percepito come possibile, anche fastidioso, ma non determinante. Ma gli sviluppi delle inchieste che si sono susseguite sugli stretti rapporti tra alcuni collaboratori di Trump e personaggi dell’amministrazione russa sono andate a toccare un nervo sempre scoperto dell’opinione pubblica americana, quello di contenere le pretese egemoniche del Cremlino in Europa e in Oriente; una “guerriglia fredda” che ha continuato a trascinarsi dopo la fine del sistema sovietico e che ha trovato nuovo alimento nell’arbitraria annessione della Crimea e nei tentativi di limitare la sovranità dell’Ucraina. Se davvero la Russia ha aiutato Trump (anche finanziando alcuni suoi collaboratori) quale sarebbe stato il prezzo da pagare?
Trump aveva ingenuamente pensato, mal consigliato forse da Bannon, che gli Stati Uniti avrebbero potuto facilmente ritirarsi dal ruolo di “gendarme della democrazia” nel mondo praticando una politica di spartizione delle rispettive egemonie con la Russia. Ciò avrebbe permesso a Trump di realizzare quel sogno isolazionistico che dovrebbe consentire all’America di “fare da sé” risolvendo tutti i problemi economici attraverso politiche protezionistiche variamente calibrate. A Putin, che dalla globalizzazione ha tutto da temere, una linea politica siffatta sarebbe andata benissimo, anche perché lasciando scoperta un’Europa debole e divisa riapriva le possibilità di creare un’egemonia sul Vecchio Continente o almeno su una parte di esso.
Ma questa strategia, al di là di ogni valutazione ideologica, presentava due incognite che non hanno tardato a manifestarsi: l’ostilità di una larga parte dei repubblicani eredi dell’antica politica kissingeriana del contenimento della potenza russa, e la nuova realtà della Cina la quale, forte di uno sviluppo capitalistico senza precedenti, al contrario della Russia ha puntato tutte le sue carte sulla globalizzazione. C’erano poi, nella strategia di Trump, altri effetti collaterali che non avrebbero mancato di fare sentire la loro influenza: i rapporti col Giappone, le reazioni europee, le divergenze col Canadà (oltrechè naturalmente col Messico).

Il birillo
E’ cominciata allora la continua oscillazione del presidente dilettante. Il rapporto preferenziale con Putin si è rotto e il Congresso lo ha obbligato a firmare l’inasprimento delle sanzioni alla Russia, la tanto disprezzata Europa è stata improvvisamente richiamata alla sua funzione di partnership all’interno dell’alleanza atlantica, la politica prudente di Obama in Medio Oriente è stata sostituita da un interventismo che ricorda i precedenti di Bush in Iraq, i componenti del suo staff salgono e scendono senza una chiara direttiva strategica, il segretario di Stato Tillerson sembra muoversi in totale autonomia, e perfino sulla revoca della contestata riforma sanitaria promossa dai democratici non si è trovato un accordo e l’Obamacare potrebbe restare in funzione ancora a lungo.
Quanto Trump riuscirà a resistere in queste condizioni è difficile prevedere; ma potrebbe arrivare prima del previsto il giorno in cui, ripetendo la celebre frase di Cicerone, qualcuno si leverà nel Campidoglio americano domandando: quousque tandem abutere, Donald, patientia nostra?

 

Franco Chiarenza
25 luglio 2017

La difficile questione degli immigrati non si risolve a colpi di cannone né verbali né sparati da navi da guerra; la partita va giocata con attenzione e tenendo conto dei rapporti di forza, delle coincidenze elettorali, delle sensibilità identitarie (talvolta minoritarie ma esibite con grande vigore contando sulla complicità dei media). Gentiloni e Minniti la stanno giocando bene, forti anche del fatto che Renzi in questo caso non li disturba più di tanto, ben felice se sarà questo governo di transizione ad accollarsene onori ed oneri (soprattutto questi ultimi).
Minniti sta cercando di mettere ordine nel caos delle prime accoglienze, delle ong, delle identificazioni, che rappresentano l’impegno italiano più importante e su cui il governo si gioca la propria credibilità nelle altre capitali europee.
Gentiloni da parte sua con una serie di mosse azzeccate ha ottenuto due risultati molto importanti: rimettere in primo piano la questione e condizionare l’adesione italiana a future integrazioni alla “europeizzazione” del problema della ricollocazione (a questo sono serviti gli incontri trilaterali con Merkel e Macron). Di più: il problema della Libia è tornato in evidenza con un significativo cambiamento di rotta. Non si parla più di improbabili governi libici unitari ma si tratta con chi c’è, rafforzando Serraj a Tripoli e cercando di comprare la collaborazione delle tribù che controllano il Fezzan da dove transitano in gran parte i profughi provenienti dai paesi sub-sahariani. Anche in questo caso l’intesa con Francia e Germania è necessaria per evitare che il sostanziale “protettorato” che si cerca di realizzare non venga percepito come un’azione unilaterale dell’ex-potenza coloniale.
In questa situazione in movimento la minaccia di respingere dai nostri porti le navi che non battono bandiera italiana (come la maggioranza delle ong) ha una valenza più psicologica e mediatica che realistica ma serve ad allarmare le opinioni pubbliche del resto d’Europa e spingerle a un’attenzione che finora era mancata. La vecchia idea di Renzi – riproposta forse per non sentirsi escluso – di non pagare più i contributi all’Europa se non verranno effettuati i ricollocamenti deliberati dalla Commissione Europea, appare semplicistica e irrealizzabile considerando i tempi e le procedure che i trattati prevedono per sanzionare i paesi inadempienti; peraltro le procedure di infrazione nei confronti di alcuni stati sono partite e suscitano il dovuto allarme in Ungheria, Cechia, Slovacchia, anche perché il crescente clima di ostilità tra le istituzioni comunitarie e la Turchia, ormai avviata sulla strada di un autoritarismo che lascerà sempre meno spazio alla libertà di espressione e all’attività politica degli oppositori, potrebbe preludere al venir meno del contenitore turco che fino ad oggi ha salvato l’Europa balcanica da una massiccia immigrazione da est.
In questo quadro si inserisce l’improvvisa richiesta americana all’Italia affinché svolga un ruolo più attivo – anche militare – per riportare l’ordine in Libia; sicuramente improvvisata e approssimativa come ormai ci sta abituando l’amministrazione Trump, essa significa tuttavia che il supporto strategico americano non verrà meno se, in altri modi e con altri mezzi, i paesi europei interessati alla stabilizzazione del Mediterraneo condurranno fino in fondo un’azione comune per fermare in Africa i flussi migratori. E soprattutto per riportare il problema dell’Africa e del suo sviluppo al centro della nostra attenzione perché – al di là di ogni ragione morale – è nel nostro interesse.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2017

La morte di Liu Xiaobo, prigioniero politico del regime cinese, ha riacceso i riflettori sulla questione dei diritti civili in Cina che l’Occidente inutilmente ripropone – anche se debolmente e inutilmente – da quando il grande gigante d’Oriente ha deciso di abbandonare le utopie sanguinarie di Mao Zedong e di confrontarsi apertamente con i paesi democratici che impropriamente chiamiamo occidentali (perché dobbiamo comprendervi – soprattutto in questo caso – il Giappone, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’India, la Corea del Sud ed altri). La Cina – sin dalla svolta di Deng Xiaoping – ha sfidato l’Occidente proponendo una formula che accetta le logiche internazionali dell’economia di mercato ma rifiuta le regole del pluralismo politico e dei diritti civili; la repressione di piazza Tienanmen ne rappresentò la dimostrazione più evidente.
Ma il liberalismo – politico prima che economico – ha il fiato lungo e sa attendere. Di questa certezza ha vissuto i suoi ultimi anni in carcere Liu Xiaobo, eroe di una resistenza pacifica ma risoluta che scorre sotterranea manifestandosi di tanto in tanto attraverso l’insofferenza dei giovani e degli studenti dove può e come può.
La carica eversiva del personaggio consisteva nel messaggio contenuto nel suo manifesto “Carta 08” che – tra tante affermazioni più o meno condivisibili – sosteneva la tesi che la libertà dei cinesi non poteva arrivare dall’alto, né dai vertici del partito né dalle pressioni occidentali, ma soltanto da una costante e crescente domanda che scaturisse dalla società civile. Il premio Nobel che gli venne assegnato nel 2010 forse rappresentò – da questo punto di vista – al di là delle nobili intenzioni che lo motivarono, un segnale che poteva essere percepito come un’interferenza straniera. La difesa del regime infatti affidata al “Global Times” (giornale cinese in lingua inglese) ricorda che “Liu ha vissuto in un’era in cui la Cina ha visto la crescita più rapida nella storia recente ma ha cercato di mettersi contro la maggioranza della società con l’aiuto dell’Occidente e questo ha determinato la sua tragica fine.”
Ma il liberalismo ha sempre coinciso con la difesa delle minoranze contro maggioranze ottuse e attente soltanto alle convenienze più immediate; per questo Liu Xiaobo entra a far parte a pieno titolo del pantheon dei liberali. Cessate le lacrime di coccodrillo che inondano i media e le dichiarazioni degli esponenti politici, più attenti – come è ovvio – alle esigenze della real politik piuttosto che alle questioni di principio, bisognerebbe ora monitorare con attenzione cosa avverrà a Hong Kong, dove si gioca il futuro nella cruciale partita tra la democrazia e la cultura orientale.
Non lasciamo soli gli studenti di Demosisto e cerchiamo di evitare che il prossimo Liu sia il giovane Joshua Wong che si batte per il mantenimento delle garanzie politiche e civili che la Cina ha promesso al momento di rientrare in possesso dell’ex-colonia britannica. Hong Kong rappresenta una cartina di tornasole importante: può anticipare il futuro di tutta la Cina in senso liberale se sarà la Cina – con la necessaria gradualità – ad accoglierne il modello, in senso autoritario e dittatoriale se invece Hong Kong sarà costretta ad adeguarsi al sistema comunista cinese.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2017

Renzi ha faticosamente conquistato il controllo quasi assoluto del partito democratico ma si trova in mano una macchina che non sa bene come guidare e verso quali obiettivi indirizzare; né serve a dare qualche indicazione in proposito il suo libro che si presenta più come una resa dei conti rancorosa ed egocentrica piuttosto che un serio progetto per la nazione come ci si sarebbe aspettati.
Dispiace dirlo ma Renzi continua a deludere e mostrare purtroppo una mediocrità forse congenita ad alcuni tratti negativi della sua personalità e quindi difficilmente correggibile; lo dico con angoscia perché il fallimento di Renzi è una sciagura per il Paese, un’occasione perduta che non cesso di rimpiangere.

I modelli circostanti
La vittoria di Macron in Francia, anche per le dimensioni che l’ha caratterizzata, lo ha disorientato; convinto che il vento anti-europeo fosse irresistibile si trova davanti a una reazione orgogliosa che attraversa il Vecchio Continente e che si esprime attraverso le difficoltà della Brexit, le elezioni olandesi e francesi, il riposizionamento dell’Austria, l’attesa di una probabile vittoria della Merkel in Germania che rimetterebbe in moto il processo di integrazione europea.
Il successo, anche in termini di consenso mediatico e diplomatico, del governo del suo successore a palazzo Chigi, ha rappresentato un altro elemento di sorpresa; Gentiloni dimostra che si può fare molto senza eccitazioni esibizionistiche, senza roboanti annunci in dimensioni twitter, senza atteggiamenti “mussoliniani” (certamente inconsapevoli ma purtroppo frequenti) del genere “noi contro tutti, li ridurremo a pezzi, dovranno venire a patti”, tanto più ridicoli provenendo da un partito lacerato che stenta a governare un paese in gravissime difficoltà.
L’arresto (anche se non ancora il ridimensionamento) del successo dei Cinque Stelle, certamente non per merito del PD ma piuttosto per demerito di alcuni improvvisati governanti che Grillo ha portato ad amministrare importanti città, dimostra che un movimento senza una chiara strategia alternativa sulle grandi scelte che attendono il Paese (integrazione europea, fisco, giustizia, investimenti infrastrutturali, scuola e università, riduzione dei “lacci e lacciuoli” che strangolano l’economia, autonomia degli enti locali, riforme istituzionali) non riesce a trasformare un consenso basato sul discredito della classe politica in proposta di governo.
La possibilità di un Macron italiano è improbabile. Ma le incertezze di Renzi potrebbero aprire al centro dello schieramento politico uno spazio (equivalente almeno a quello che coprì Monti con la sua sciagurata decisione di partecipare alla gara elettorale) sufficiente a determinare le future alleanze di governo, soprattutto se si voterà con un sistema sostanzialmente proporzionale. Uno spazio che sarebbe in gran parte ottenuto a spese del PD.

Le alleanze
Il problema delle alleanze, infine, viene gestito in maniera approssimativa e personalistica. Vale come esempio la ricostruzione che Renzi fa nel suo libro sulla fine del “patto del Nazareno”. Racconta infatti Renzi che la scelta di Mattarella per la successione di Napolitano al Quirinale fu una reazione rabbiosa al fatto che Berlusconi e D’Alema avessero trovato un accordo sul nome di Amato. Uno statista non misura i fatti in relazione a problemi di suscettibilità ma valutandoli per quel che rappresentano in rapporto alla strategia che si vuole attuare; la scelta di Amato, per varie ragioni (competenza giuridica, esperienza di governo, capacità di mediazione, formazione politica laica e socialista), sarebbe stata più compatibile con il progetto di riforma istituzionale che lo stesso Renzi aveva immaginato (vedi il programma della Leopolda) e che rappresentava l’obiettivo del patto tra maggioranza e opposizione. Non è da escludere inoltre che avrebbe facilitato e migliorato il testo della nuova Costituzione.
Oggi il problema si ripropone perché – a numeri invariati – nessuno avrà la maggioranza per governare con l’attuale legge elettorale. Bisognerà quindi nuovamente fare i conti con l’oppositore più disponibile che – per molte ragioni – continua ad essere Berlusconi. Tutti l’hanno capito, sarebbe meglio esporsi proponendo un patto di unità nazionale con pochi ma chiari obiettivi per la prossima legislatura, piuttosto che ripetere il gioco – ormai consunto – di chiedere all’elettorato un mandato in bianco da utilizzare secondo le convenienze.

Che fare?
Il vero problema di Renzi è l’anti-renzismo. I suoi atteggiamenti, la sua arroganza, invece di attirargli consensi lo hanno messo nelle stesse condizioni in cui si trovò a suo tempo Berlusconi: costringere la politica italiana a misurarsi sulla sua persona invece che sui problemi del Paese. Per cui già vediamo che il cemento che tiene insieme le sinistre (da Pisapia a Bersani con i relativi seguiti) è soltanto l’anti-renzismo, i sindacati hanno ritrovato una precaria unità sulla pregiudiziale anti-renziana, una possibile alleanza tra l’estrema sinistra e Grillo sarebbe anch’essa fondata sostanzialmente su un’avversione condivisa nei confronti del leader del PD, il centro-destra non avrebbe alcun interesse a spezzare tale condizione di isolamento, e all’interno della stessa maggioranza renziana si avvertirebbero inevitabilmente i primi scricchiolii.
Naturalmente in tale contesto il coinvolgimento del padre di Renzi nello scandalo CONSIP e la questione Boschi – al di là dell’effettiva consistenza degli addebiti e dei sospetti – non contribuisce a risollevare l’immagine dell’ex-premier e rende facile l’azione di delegittimazione portata avanti con spregiudicatezza dai Cinque Stelle.
Per salvarsi Renzi dovrebbe fare il contrario di quello che fa. A cominciare dal sostegno al governo Gentiloni che – al di là delle parole – tutti percepiscono come forzato e condizionato da una voglia di tornare a palazzo Chigi per imporre le “sue” soluzioni; nessuno ha dimenticato l’”Enrico stai sereno” che preannunciò la brutale liquidazione di Letta. Questa volta però sarebbe diverso e non è detto che finirebbe come allora. La proposta di risolvere il deficit strutturale del nostro bilancio modificando il trattato di Maastricht, al di là dei suoi discutibili contenuti (perché ancora una volta sposta il problema sugli altri invece di fare i conti con noi stessi), per il modo in cui è stato espresso e per provenire dal capo della maggioranza che sostiene il governo, è servita soltanto a mettere in difficoltà Gentiloni e Padoan (del quale va sottolineata la gelida risposta: “riguarderà il futuro governo”). Anche le forzature sul cosiddetto “ius soli”, un problema davvero trascurabile per le sue reali conseguenze ma indecorosamente ammantato da ragioni di civiltà assolutamente indimostrabili, rientrano nel disegno di mettere in difficoltà Gentiloni. Forse anche nella speranza di costringerlo alle dimissioni e anticipare le elezioni. Un disegno che però potrebbe trovare proprio al Quirinale ostacoli prevedibili.
L’unica cosa quindi che Renzi dovrebbe fare è proprio quella che per il suo temperamento non sa fare: stare fermo. Quando ero giovane circolava una battuta molto volgare: se stanno per mettertelo nel di dietro meglio restare immobili; ogni movimento facilita il compito di chi ci sta provando.

P.S. Sto leggendo una interessante biografia dell’ultima imperatrice della Cina, la famosa Cixi. Di fronte alle ingiunzioni arroganti e offensive dei plenipotenziari inglesi e francesi in cui però erano contenute precise richieste sull’apertura della Cina alla libertà di commercio e misure per la modernizzazione del Paese, rispondendo alle reazioni indignate dei suoi cortigiani l’imperatrice replicò che gli occidentali “non avevano tutti i torti. Quando Hart (un inglese che lei stessa aveva posto a capo delle dogane con grandi vantaggi) suggerisce di adottare i metodi occidentali per l’estrazione mineraria, la cantieristica navale, la produzione di armi e l’addestramento militare” ha sostanzialmente ragione. La forma poco importava perché “rendere forte la Cina è il solo modo per garantire che i Paesi stranieri non entrino in conflitto e ci guardino dall’alto in basso”.
Chi ha orecchie per intendere

 

Franco Chiarenza
10 luglio 2017

Il dibattito politico italiano è ossessionato dalla ricerca di una presunta purezza originaria che si sarebbe perduta. A sinistra si invoca il dire “qualcosa di sinistra”, a destra si lamenta la mancanza di una destra apertamente reazionaria; ed entrambi gli estremismi attribuiscono gli insuccessi elettorali, l’aumento dell’astensionismo, il successo di un movimento moralistico ideologicamente neutrale come quello di Grillo, al fatto che destra e sinistra non sono più chiaramente identificabili.
In realtà le cose non stanno come gli irriducibili reduci di antiche contrapposizioni di sistema vorrebbero. E, da un punto di vista liberale, non si tratta di un’evoluzione negativa ma, al contrario, di un processo di evoluzione che rimette il sistema di governo al servizio dell’individuo e delle sue scelte; riduce gli spazi di militanza e di delega fiduciaria e aumenta la variabilità dei risultati elettorali in funzione della maggiore o minore capacità di intercettare i punti di vista delle diverse componenti della popolazione. Si tratta di un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali ma che in Italia sta soltanto adesso manifestandosi in misura massiccia per il discredito che i partiti sono riusciti ad accumulare nel tempo.
L’errore che le maggiori forze politiche italiane (di centro sinistra e di centro destra) commettono consiste nella convinzione che per contrastare questa tendenza sia sufficiente inseguire affannosamente le preoccupazioni più rumorosamente evidenti che emergono (magari attraverso discutibili talk show che pretendono di rappresentarle) proponendo soluzioni confuse e demagogiche, spesso espresse da slogan ingenui ed infantili (quando non addirittura bizzarri), i quali dovrebbero indurre masse di elettori sprovveduti ad affidarsi ancora una volta alle loro cure. Una strategia perdente che non tiene conto dei cambiamenti avvenuti nella società e della più elevata capacità critica di settori crescenti della pubblica opinione, spesso silenziosi ma in attesa soltanto di qualche ancoraggio affidabile come quello che in circostanze assai simili si è prodotto in Francia con Macron.
Bisognerebbe fare il contrario: una forza politica che si candida al governo dovrebbe presentare un progetto complessivo ispirato da finalità ultime in cui sia ancora possibile scorgere origini storiche e culturali differenziate ma dove la soluzione dei problemi più immediati trovi una proposta convincente e concretamente realizzabile, tenendo conto dei limiti oggettivi entro i quali può effettivamente svolgersi oggi l’attività di governo (qualunque sia il soggetto politico chiamato a svolgerla).

Su generiche propensioni alla solidarietà sociale piuttosto che alla conservazione degli equilibri esistenti non si possono fondare scelte credibili di governo. Le priorità che incidono sulle preoccupazioni più diffuse sono in realtà tra loro conflittuali. Il contrasto alla disoccupazione non passa attraverso generiche e fumose “politiche del lavoro”, ma piuttosto nel realizzare riforme strutturali che rendano attrattivi gli investimenti nei settori produttivi. Tali riforme però comportano un ridimensionamento e una maggiore efficienza della burocrazia, l’eliminazione di vincoli corporativi ancora massicciamente presenti, investimenti pubblici nelle infrastrutture, diminuzione della litigiosità nella giustizia amministrativa, razionalizzazione degli apparati di sicurezza, distinzione dei ruoli e delle carriere nella giustizia penale, riforma degli studi superiori e universitari che riporti il nostro sistema formativo a livelli di credibilità in Italia e all’estero. Lo sappiamo da tempo che queste sono le priorità; perché non vengono mai affrontate o – peggio – quando lo sono con risultati così mediocri? E’ semplice (ma non si vuole dire). Perché qualsiasi soluzione davvero radicale e risolutiva comporta “morti e feriti”, cioè urta contro interessi diffusi, resistenze sindacali, privilegi acquisiti, indolenze inconfessabili. Ognuno vorrebbe cambiamenti radicali per gli “altri” ma nessuno è disposto ad accettarne per se stesso. Le dirigenze dei partiti quindi, pur consapevoli della necessità di compiere cambiamenti radicali, ne temono le conseguenze elettorali e affrontano i problemi con provvedimenti parziali, attenuati, sostanzialmente inidonei alla loro soluzione. Vale per la destra come per la sinistra.

Occorre fare come Macron. Dire con chiarezza (talvolta persino con spavalderia) cosa si vuole fare, senza alcuna concessione a chi la pensa diversamente, e sulla propria “agenda” di governo chiedere il consenso; le mediazioni – se saranno necessarie – verranno dopo e comunque saranno realizzate partendo da una posizione di forza incontestabile. Se non si fa così non se ne esce, in Italia come in Europa. Un’Europa che deve affrontare – possibilmente unita – grandi sfide planetarie che si chiamano Africa, Medio Oriente, rapporti commerciali con il Nord America, regolamentazione dei flussi finanziari che provengono dalla Cina e dai paesi produttori di petrolio.
Il problema dell’immigrazione – infine – va affrontato tenendo conto dell’evoluzione demografica, guardando al futuro, stabilendo con fermezza modi e tempi dei processi di integrazione che dovranno servire a mantenere l’identità culturale (non etnica) del nostro Paese e dell’Europa.
La paura, come sempre, non è una buona consigliera. Ma per battere la paura bisogna ragionare. Per ragionare bisogna conoscere i problemi e evitare di prospettare soluzioni semplicistiche e quasi sempre irrealizzabili. Bisogna guardare lontano, anche a costo di perdere qualche voto.

Solo i grandi statisti sono presbiti; i politicanti sono miopi. Servono urgentemente lenti multifocali.

Franco Chiarenza
2 luglio 2017