Un indecoroso balletto sta accompagnando il triste tramonto della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia costituita da Giovanni Malagodi nel 1962 e presieduta negli anni da personalità prestigiose come Gaetano Martino, Vittorio Badini Confalonieri, Franco Mattei, Ruggiero Moscati, Giancarlo Lunati, Valerio Zanone e Roberto Einaudi.
Fino ad oggi sono rimasto testimone attento e silenzioso nella speranza che un’istituzione prestigiosa alla quale avevo dedicato molti anni della mia esistenza arrivasse a un definitivo chiarimento, qualunque fosse. Adesso, anche per rispondere ai tanti amici e conoscenti che me lo chiedono, ho deciso di esprimere pubblicamente il mio pensiero ricordando sinteticamente cosa la Fondazione è stata in passato e perché ogni soluzione diversa dal suo scioglimento sarebbe impropria e non auspicabile.
Posta in liquidazione con una delibera dell’assemblea dei soci alla fine del 2014, riesumata l’anno successivo da un consiglio d’amministrazione falcidiato dalle dimissioni, rilevata dalla Fondazione Lucio Piccolo nel 2016 in cambio di una patrimonializzazione mai avvenuta, la Fondazione Einaudi di Roma era stata finalmente dichiarata estinta dalla competente prefettura nel luglio di quest’anno. Ma dopo l’estate, accogliendo un ricorso, la prefettura è tornata sui suoi passi concedendo una proroga in attesa che le ipotesi di ricapitalizzazione – sempre annunciate e mai realizzate – trovino finalmente conferma. Nel frattempo, non essendo in condizione nemmeno di pagare l’affitto, la Fondazione è stata trasferita dalla sede storica di largo dei fiorentini in un appartamento a Monte Mario messo a disposizione da una loggia massonica, i dipendenti sono stati licenziati, gli archivi e la biblioteca non sono consultabili per mancanza di personale, le attività si limitano alla presentazione di libri. La “marcia indietro” della prefettura è quindi difficilmente comprensibile: vero è infatti che con una sede concessa ad uso gratuito e la completa mancanza di personale dipendente le spese sono state azzerate ma è altrettanto vero che tale stato di cose impedisce alla Fondazione di svolgere i suoi compiti istituzionali che non sono certo quelli di trasformarsi in un circolo di affiancamento massonico. Rimane inoltre la contraddizione della mancanza di un patrimonio in grado di rappresentarne il presupposto legale. Si resta in attesa, come in una telenovela di cattiva qualità, di conoscere come sarà finalmente effettuata la sospirata “ripatrimonializzazione” (su cui insiste anche la prefettura), quale sarà il progetto culturale su cui la Fondazione dovrà stabilire le priorità operative (sempreché continui l’attività) e chi saranno i nuovi soci sostenitori che dovrebbero consentirle di resuscitare. In ogni caso è triste constatare come intanto la Fondazione abbia compromesso il patrimonio di prestigio e di credibilità che l’aveva accompagnata in passato, aggirandosi ormai come un ingombrante fantasma nel labirinto delle tante istituzioni culturali che si richiamano al liberalismo.
Le origini
Il 30 ottobre 1961 moriva Luigi Einaudi. Pochi mesi dopo Giovanni Malagodi costituiva la Fondazione a lui intitolata con l’intento di raccoglierne e rilanciarne la testimonianza politica e fornire al contempo un robusto inquadramento ideologico al partito liberale, alla cui ricostituzione dopo la guerra Einaudi (come Croce) aveva contribuito.
L’eredità politica di Einaudi andava ben oltre la semplice riaffermazione di un generico liberalismo. Lo statista piemontese aveva elaborato negli anni, anche attraverso le proprie variegate esperienze personali, una concezione del liberalismo capace di tenere insieme la grande tradizione del liberismo anglosassone, gli insegnamenti della scuola austriaca di Mises e Hayek, e l’idealismo liberale italiano di Benedetto Croce. Per questo il suo pensiero, articolato in una quantità di scritti che attraversavano quasi un secolo di storia italiana, parve a Malagodi il più adatto a disegnare un modello di società che, tenendo conto delle specificità italiane, si ispirasse alle nuove sensibilità sociali emerse dal manifesto di Oxford sottoscritto nel 1948 dai partiti e movimenti liberali di tutto il mondo. Un liberalismo quindi lontano dalle asprezze di un capitalismo incontrollato e capace invece di regolare l’economia di mercato liberandolo da quei “lacci e lacciuoli” corporativi e burocratici che più volte anche Guido Carli aveva denunciato.
Nacque con tali finalità ed obiettivi la Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia con sede in Roma; da non confondere con quella quasi omonima di Torino costituita poco tempo dopo per gestire la grande biblioteca di Luigi Einaudi e che aveva trovato ospitalità nel prestigioso palazzo d’Azeglio messo a disposizione dalla Fiat.
Nel 1984 la Fondazione modificò il proprio statuto sciogliendo i legami (peraltro già molto attenuati) di affiancamento al partito liberale, assumendo una connotazione indipendente da ogni militanza politica, ulteriormente ribadita e rafforzata nel 2002.
Le iniziative
Molto ha fatto la Fondazione nei suoi cinquant’anni di vita per diffondere la cultura liberale, guadagnandosi un meritato prestigio; negli ambiti più diversi essa si è confrontata con i ritardi e le inerzie delle nostre istituzioni mediante iniziative che sono sempre state riconosciute di livello elevato e per questo meritevoli di attenzione da parte di ogni settore della cultura politica ed economica.
Il suo Comitato Scientifico è stato per molti anni presieduto dall’economista Domenico Da Empoli e si deve anche al suo impulso il conseguimento di successi importanti, a partire dall’assegnazione di molte borse di studio a studenti meritevoli che hanno poi svolto ruoli importanti nell’economia, nella politica, nell’università e nel mondo della comunicazione.
Particolare attenzione fu dedicata sin da principio ai problemi dell’economia a partire, negli anni ottanta, dalla prima presentazione in Italia della teoria della public choise (con la prestigiosa partecipazione del suo ispiratore, il premio Nobel James Buchanan) cui hanno fatto seguito altre iniziative che hanno approfondito le trasformazioni dell’economia di mercato man mano che la globalizzazione andava dispiegandosi risolvendo problemi secolari ma anche sollevando perplessità per le conseguenze di taluni effetti collaterali. Convegni, seminari, ricerche, in cui si sono impegnati molti giovani studiosi che alla Fondazione hanno legato i loro primi successi: tra gli altri Salvatore Carrubba, Angelo Maria Petroni, Giuseppe Vegas.
Nel 1995 la Fondazione, precipitata in uno stato di inerzia per vicissitudini finanziarie ormai lontane persino nel ricordo, stava per essere cancellata anche dai contributi pubblici. Poi, col decisivo impulso di Valerio Zanone che ne era divenuto presidente, gradualmente ma con decisione essa si è rimessa in piedi realizzando nuovi progetti, trasferendo la sede dai locali prestigiosi ma angusti di palazzo Fiano a San Lorenzo in Lucina in un appartamento più comodo in un edificio che fa parte del complesso edilizio dei Sacchetti in largo dei fiorentini, rivitalizzando la direzione scientifica con l’apporto decisivo di Giovanni Orsina, al quale va riconosciuto il grande merito di avere valorizzato gli archivi storici (e in particolare quello di Malagodi), stabilendo rapporti di collaborazione con altre associazioni e fondazioni liberali (tra cui la Fondazione Cortese di Napoli e il Centro Einaudi di Torino), favorendo la creazione e le attività dell’Associazione Amici della Fondazione nella speranza che per suo tramite si potessero convogliare nuove risorse umane e finanziarie.
Le tematiche affrontate negli anni successivi sono state numerose e non è questa la sede per enumerarle dettagliatamente. Ne ricordo alcune particolarmente importanti, cominciando dalla questione della compatibilità del federalismo (tanto popolare in quegli anni) con la tradizione politica del liberalismo italiano, trattata nel 1999 con ricerche che per la prima volta ne hanno analizzato costi e benefici al di là di pregiudiziali ideologiche che trasformavano un problema storico che risaliva al Risorgimento in una rissa caratterizzata da luoghi comuni e approssimazioni. Le presentazioni della ricerca di base a Torino e a Roma costituirono un vero successo con la partecipazione di personaggi importanti dell’economia, delle imprese e delle istituzioni. La ricerca fu seguita da una significativa integrazione in cui venne approfondito il ruolo che veniva ad assumere la Capitale con il suo hinterland in un eventuale contesto federale; anche la sua presentazione fu occasione di serrato dibattito a cui parteciparono il Sindaco, i presidenti della Regione e della Provincia e molti rappresentanti della politica e della società civile.
I problemi della comunicazione e dell’informazione, cruciali per la cultura liberale in un momento in cui trasformazioni spettacolari ne cambiavano radicalmente le modalità di impiego e di diffusione, sono stati affrontati alla fine degli anni ’90 con varie iniziative culminate nei primi anni del 2000 con un ciclo triennale di seminari realizzati a Napoli in collaborazione con la Fondazione Cortese e l’Università Suor Orsola Benincasa. Incontri assai diversi dai consueti convegni-passarella dove gli invitati arrivano, dicono frettolosamente la loro, e se ne vanno spesso senza nemmeno ascoltare opinioni diverse; i seminari infatti, intitolati “L’informazione come condizione di libertà”, erano preparati da linee-guida elaborate da un ristretto gruppo di lavoro (costituito da docenti ed esperti della storia e della comunicazione) che nelle sessioni pubbliche venivano sottoposte a un ampio confronto cui partecipavano interlocutori impegnati direttamente nella gestione dei mass-media. Si superavano in tal modo le generiche asserzioni di principio sulla libertà di informazione e sul suo ruolo portante nelle democrazie liberali per affrontare i problemi concreti del sistema di informazione nel nostro Paese.
Sarebbe stato un campo immenso su cui attuare altri percorsi di ricerca (che furono anche tentati con la costituzione a Firenze di un gruppo di lavoro interdisciplinare coordinato da Gilberto Tinacci Mannelli) ma purtroppo mancarono le risorse e negli anni successivi non si andò oltre l’organizzazione di un convegno annuale – peraltro molto apprezzato – in cui veniva presentato un rapporto di aggiornamento sull’evoluzione delle tecnologie digitali realizzato dagli amici di Italmedia Consulting; un appuntamento ospitato non casualmente dalla Federazione Nazionale della Stampa al quale partecipavano sempre i massimi rappresentanti dei principali mass-media pubblici e privati e dove non mancava mai un intervento dell’ Authority della Comunicazione (AGCOM) e di un rappresentante del Governo al massimo livello.
Dei problemi della scuola in senso specifico la Fondazione non si è occupata molto, con mio grande rammarico; vanno comunque ricordate alcune iniziative culminate nel 1997 in un grande convegno dove venne riesumata (inutilmente) la proposta di Einaudi di sopprimere il valore legale dei titoli di studio.
Opef
Una delle iniziative più originali, anche se apparentemente estranea agli ambiti di ricerca che la Fondazione si era data, è stata la costituzione di un osservatorio per le politiche energetiche ed ambientali (OPEF). Ambiente ed energia non hanno mai rappresentato in passato un punto centrale della sensibilità dei liberali storici (come non lo fu per altre culture politiche del secolo scorso). Soltanto da pochi decenni i problemi della tutela ambientale, strettamente associati alla questione energetica, sono apparsi determinanti per il futuro dell’umanità, anche se certe tendenze estremiste di alcuni movimenti “verdi” allarmavano i liberali che hanno visto in esse emergere un pericoloso integralismo che, prendendo a pretesto l’emergenza ambientale, potrebbe facilmente degenerare nella negazione di alcuni fondamentali diritti individuali. Che tuttavia il problema di una più consapevole tutela ambientale fosse reale non era più da mettere in dubbio e che con esso la cultura liberale dovesse fare i conti era un fatto incontestabile. Da questa constatazione, da una felice intuizione di Marcello Inghilesi e dal sostegno di Massimo Romano, nacque l’OPEF il quale nel corso di un decennio ha sviluppato molti temi specifici soprattutto attraverso l’organizzazione di “laboratori” che hanno consentito, lontano da clamori mediatici e speculazioni elettoralistiche, a tutti i soggetti interessati di confrontarsi senza contrapposizioni strumentali e sbandieramenti ideologici. Intorno al tavolo (quasi sempre nella splendida sede dell’ABI in palazzo Altieri) si sedevano amministratori pubblici, esperti, banchieri, imprenditori pubblici e privati, rappresentanti delle Autorità di garanzia dei diversi settori. Una formula che permetteva scambi di informazioni e l’allacciamento di sinergie lasciando la politica politicienne fuori dalla porta, salvo confrontarsi con essa in occasione di convegni pubblici che per la concretezza delle proposte hanno registrato sempre grande interesse e ai quali hanno partecipato i protagonisti del settore energetico italiano ed europeo (in uno di essi intervenne il commissario per l’energia dell’Unione Europea). Ma quando – essendo divenuto presidente della Fondazione Mario Lupo – si tentò il “colpo grosso” di trasferire questa attività in una iniziativa di ancor maggiore visibilità da realizzare con la LUISS, facendola finanziare dall’industria petrolifera ed elettrica, si commise l’errore di abbandonare l’esperienza precedente col risultato inevitabile che i sogni di grandezza rimanessero tali mentre vennero meno i più modesti “laboratori” che pure si erano dimostrati utili e costruttivi.
L’associazione degli amici
L’Associazione degli amici della Fondazione venne costituita nel 1997 con tre principali finalità: innanzi tutto aprire la partecipazione a singole persone (va ricordato infatti che i soci della Fondazione erano prevalentemente enti privati e pubblici, come la Banca d’Italia, e fondazioni bancarie come la Compagnia di San Paolo di Torino e la Fondazione Banco di Sicilia, imprese e comunque soggetti collettivi). In secondo luogo per raccogliere risorse finanziarie crowdfunding che potessero in qualche misura compensare la riduzione dei contributi pubblici. Infine per gestire iniziative sul territorio come corsi di formazione, convegni su problemi d’attualità, e presentazioni di libri.
In tale contesto l’Associazione ha organizzato – anche per conto della Fondazione – moltissime presentazioni e incontri tra cui vanno ricordati quelli che, con grande successo, si sono svolti nello splendido Oratorio del Gonfalone su temi di attualità con la partecipazione di personalità di primo piano del mondo politico ed economico.
Un’altra importante funzione affidata all’Associazione, che operava in piena autonomia e aveva propri organi dirigenti, era quella di sostenere le “scuole di liberalismo” che da tempo venivano organizzate da Enrico Morbelli, e che hanno coinvolto centinaia di giovani in diverse città (Roma, Milano, Torino, Parma, Bologna, Napoli, Bari, Lecce, Sulmona, Catanzaro, Messina, Palermo).
La formula era (ed è tuttora) molto semplice: ogni corso consisteva mediamente in una quindicina di lezioni tenute da personalità della cultura liberale (talvolta anche prestigiose); i frequentanti che lo desideravano potevano concorrere attraverso l’elaborazione di tesine scritte all’assegnazione di modesti premi in danaro messi a disposizione da sponsor volontari (tra cui in passato la stessa Fondazione Einaudi) oppure fruire della possibilità di frequentare i corsi estivi dell’IES in alcune università europee (per esempio Aix en Provence, Gummersbach). Le scuole di liberalismo hanno consentito – soprattutto nel periodo che seguì la contestazione studentesca degli anni ‘60 – una diffusione dei principi liberali al di fuori dei canali istituzionali (scuole, università) troppo spesso egemonizzati da culture politiche ed economiche ostili al liberalismo. Per questo è sembrato opportuno ad alcuni di noi mantenerle in vita sottraendole alle recenti e inquietanti vicissitudini della Fondazione trasformando l’Associazione degli Amici della Fondazione Einaudi in Associazione Scuola di Liberalismo. In tal modo le scuole di liberalismo, sotto la direzione del “sempregiovane” Enrico Morbelli, continuano a svolgere la loro attività.
Imparzialità
Dopo avere definitivamente reciso nel 1984 i legami col partito liberale la Fondazione ha sempre rifiutato di appoggiare schieramenti politici ed elettorali pure quando in qualche modo si richiamavano alle dottrine liberali. Così fu per il centro-destra, dove pure militavano personalità importanti del mondo liberale come Antonio Martino, Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, e per il centro-sinistra in cui per un certo periodo si riconobbero Valerio Zanone, Raffaello Morelli, il gruppo di Critica Liberale. La barra della Fondazione rimase sempre ancorata al centro, non tra i diversi schieramenti ma al di sopra di essi, “una scelta – come recita una solenne dichiarazione del suo consiglio d’amministrazione del 2002 – non di neutralità ma di imparzialità: non di neutralità perché la Fondazione ha il suo fondamento ed orientamento nella cultura liberale, ma di imparzialità perché la cultura liberale, per gli stessi connotati che la distinguono, non conduce ad opzioni partitiche predeterminate”.
In piena coerenza con tali principi nel 2007, quando decise di impegnarsi politicamente nell’Ulivo (centro-sinistra), Valerio Zanone lasciò la presidenza della Fondazione che aveva mantenuto per diciassette anni. Gli succedette Roberto Einaudi, nipote diretto di Luigi. La sua presidenza fu caratterizzata da un’impresa straordinaria, quella di realizzare e portare in giro per l’Italia una grande mostra sulla figura di suo nonno, attraverso la cui vita era possibile ripercorrere la storia del nostro Paese nella prima metà del secolo XX. Il suo successo fu significativo dimostrando l’esistenza di una sensibilità liberale diffusa che andava ben oltre le contrapposizioni strumentali cui il liberalismo era stato sottoposto nel contesto italiano. La mostra fu inizialmente allestita al palazzo del Quirinale e inaugurata dal presidente Napolitano con un discorso molto importante perché segnò la definitiva presa di distanza dal suo passato comunista e il pieno riconoscimento della validità del pensiero liberale che negli scritti e nelle azioni di Luigi Einaudi trovava la sua migliore configurazione; un atto di onestà intellettuale che va riconosciuto. La mostra fu poi riallestita a Milano, Torino, Napoli e Ravenna. Difficoltà finanziarie e organizzative impedirono che continuasse il suo itinerario, ma comunque il segno che essa ha lasciato, soprattutto tra i giovani che l’hanno visitata in numero sorprendente, è stato importante.
La crisi
Da un certo momento in poi la Fondazione aveva cominciato ad avere serie difficoltà economiche. Il problema non era soltanto suo ma, quale più quale meno, di tutte le associazioni e fondazioni culturali, malgrado esse rappresentino in uno stato moderno quel tessuto connettivo della partecipazione che sin dai tempi di Tocqueville è considerato il fondamento di una democrazia liberale. Le cause di questa progressiva asfissia sono molte e tra queste possiamo menzionare innanzi tutto la diminuzione drastica dei finanziamenti pubblici (perché quando si tratta di tagliare le spese le prime vittime sono sempre le entità culturali). Il che di per sé non sarebbe un male se fosse accompagnato dal varo di una legislazione in grado di incoraggiare soggetti privati a finanziare la cultura (anche quella politica ed economica) attraverso adeguati vantaggi fiscali; ma diventa esiziale quando ciò non avviene.
Un’altra ragione – forse anche più importante – è legata al venir meno delle identità ideologiche su cui le fondazioni di cultura politica si erano prevalentemente costituite. Le loro specificità sono venute attenuandosi e il brodo, a forza di allungarsi, è diventato troppo omogeneo ed insipido, per cui molte di esse hanno finito per rappresentare soltanto strumenti di ricerca storica delle proprie matrici originarie e di conservazione degli archivi provenienti soprattutto dai protagonisti della prima repubblica. In questo quadro si comprende perché – in assenza di progetti di ricerca autenticamente innovativi e proiettati sul futuro – venisse meno l’interesse delle imprese e delle banche a impegnarsi finanziariamente nei confronti di strutture che avevano perso la capacità di analizzare i cambiamenti sociali e di proporre soluzioni innovative da immettere nel circuito del confronto politico. In un paese – come il nostro – disinteressato alla propria storia e in cui la politica procede con aggiustamenti di basso profilo senza essere mai in grado di superare l’ordinaria amministrazione, ogni tentativo di andare oltre la contingenza e di prospettare scenari di lungo termine è destinato a perdersi in una prassi riduttiva, miope quanto cinica, dove la regola dominante sembra essere quella attribuita a Luigi XV: après moi le dèluge.
Eppure non mancavano i grandi temi su cui la cultura liberale – soprattutto nel nostro Paese – doveva confrontarsi e cercare convergenze orizzontali che prescindessero dagli schieramenti politici tradizionali. Era su questi che la Fondazione doveva focalizzare i suoi sforzi anche per connotarsi come laboratorio prestigioso dell’evoluzione del pensiero liberale. Penso, per esempio, a una riforma liberale della giustizia che elimini i tribunali amministrativi o quanto meno ne riduca le competenze e soprattutto attui finalmente la separazione delle carriere e delle funzioni nella giustizia penale, alla delegificazione e alla riduzione della presenza pubblica per allineare la nostra società ai modelli funzionali delle democrazie nordiche e anglosassoni. Problemi da risolvere anche attraverso una coraggiosa riforma della Costituzione legittimata da un’assemblea costituente eletta esclusivamente a questo fine in modo da non confondere la normale dialettica politica tra maggioranza e opposizione con la ricerca di intese condivise sulle regole del gioco. Sembrava che su ognuno di questi temi le convergenze non mancassero ma ogni volta che la Fondazione cercava di affrontarli senza le cautele dovute alle corporazioni che presidiano lo status quo, quegli stessi amici che ci avevano incoraggiato hanno prudentemente preferito restare nel vago o addirittura scomparire. E senza convergenze e mezzi finanziari ogni iniziativa rischiava di trasformarsi in una giostra donchisciottesca contro i mulini a vento.
Lupus in fabula
Di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie, dopo le dimissioni di Roberto Einaudi dalla presidenza, il consiglio d’amministrazione decise nel 2011 di affidare la Fondazione a Mario Lupo, un manager di lungo corso il quale, proprio per l’esperienza acquisita, pareva in grado di raccogliere le risorse necessarie per rilanciarla o quanto meno consentirne la sopravvivenza. Purtroppo, malgrado l’impegno profuso dal nuovo presidente, l’obiettivo non venne raggiunto e non è questa la sede per ricordare le ragioni del dissenso che portò me e Marcello Inghilesi a dimetterci dalla vice-presidenza; ma va detto che, al di là dei metodi di gestione, la questione di fondo restava la mancanza di una strategia in grado di creare un’immagine identitaria chiaramente percepibile mentre si procedeva invece nell’accattonaggio di qualche inutile ricerca su cui lucrare modesti margini. Sta di fatto che gli SOS della Fondazione cadevano regolarmente nel vuoto; finché si parlava di teoria e si facevano aulici appelli alla carenza di una cultura liberale tutto andava bene, quando si passava agli aspetti più concreti, tutti si voltavano dall’altra parte.
Fu allora – nel 2014 – che si profilò un possibile “salvataggio” da parte di un “cavaliere bianco”, che peraltro nel caso specifico assumeva indubbie tonalità azzurre; si trattava infatti di Silvio Berlusconi il quale, consapevole del deficit di cultura politica che caratterizza ancora oggi una parte rilevante della dirigenza di centro-destra, con evidenti conseguenze di dilettantismo, incompetenza, subordinazione agli inganni burocratici, debolezza nei confronti internazionali, e chi più ne ha più ne metta, deluso come può esserlo chi ha avuto in mano le carte migliori e non ha saputo giocarle, aveva “scoperto” tardivamente che la destra vince le elezioni ma non ha la cultura politica per governare. Su tale ipotesi di salvataggio, perseguita da Mario Lupo pur sapendo come essa avrebbe trasformato radicalmente la natura stessa della Fondazione (destinata probabilmente a diventare una scuola di formazione per quadri dirigenti di Forza Italia), i consiglieri d’amministrazione e i soci più importanti si divisero. Per alcuni di noi (Zanone,Einaudi, Inghilesi, Ortis, e altri) la Fondazione, con cinquant’anni di storia alle spalle, non poteva prestarsi a questa manovra; non soltanto perché contravveniva palesemente a un indirizzo che essa aveva posto a fondamento della sua stessa ragion d’essere ma anche perché – a nostro avviso – Berlusconi e il suo movimento politico non potevano essere considerati parte del pur variegato contesto culturale che si richiama al liberalismo: populismo, demagogia, culto del leader, rifiuto dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, ambiguità sulla laicità delle istituzioni, non appartengono alla cultura liberale, ma semmai al conservatorismo nazional-popolare. Il progetto comunque fallì perché Berlusconi si tirò indietro, forse anche per l’opposizione di alcuni importanti esponenti del centro-destra come Paolo Romani e Renato Brunetta. Pare che Giorgia Meloni, allora ancora nel berlusconiano “Popolo della libertà”, abbia esclamato: “Ma che c’entriamo noi con Einaudi?”.
E aveva ragione.
Epilogo (provvisorio)
La storia della Fondazione ha avuto un epilogo sconcertante di cui molti portano la responsabilità. Dopo il fallimento dell’ipotesi berlusconiana tutta la vecchia guardia (Zanone, Einaudi, Da Empoli, Inghilesi) e i soci più prestigiosi (Banca d’Italia, Compagnia di San Paolo ed altri minori) sostennero che l’unica soluzione onorevole fosse ormai rappresentata dallo scioglimento della Fondazione che infatti fu deliberato dall’assemblea dei soci alla fine del 2014. Ma Mario Lupo, e con lui la maggioranza di un consiglio d’amministrazione decimato dalle dimissioni, pur di evitarne la chiusura ritenne invece di dovere accettare l’offerta di una fondazione siciliana intitolata al poeta Lucio Piccolo; offerta che sin dall’inizio si presentava quanto meno discutibile considerando che la fondazione proponente non si occupava di problematiche affini, non aveva disponibilità liquide certe per onorare gli impegni che andava assumendo e non forniva alcuna adeguata garanzia. In breve l’avvocato Giuseppe Benedetto si trasferì dalla presidenza della Fondazione Piccolo a quella della Fondazione Einaudi, un’assemblea improvvisata avallò l’operazione, i soci più prestigiosi uscirono, Roberto Einaudi si dimise protestando (Valerio Zanone era nel frattempo morto, non senza esprimere pochi giorni prima la sua contrarietà).
I nuovi dirigenti, malgrado l’immissione di quadri giovani che apportarono inizialmente un interessante contributo di idee (senza peraltro risolvere i problemi di fondo della Fondazione), tentarono un rilancio che non andò lontano in assenza di una patrimonializzazione (o anche soltanto di adeguati finanziamenti). Il rifiuto di Giuseppe Benedetto di mettere a disposizione la presidenza per consentire su nuove basi il rilancio della Fondazione con il sostegno di una cordata di imprenditori e professionisti milanesi ha provocato uno scontro interno tra gli “occupanti” provenienti dalla Fondazione Piccolo (Benedetto, Giacalone, Pruiti Ciarello) e i fautori della “svolta” (tra i quali lo stesso Lupo, presidente onorario per norma statutaria); ne è conseguita un’epurazione dei dissenzienti (con modalità abbastanza sconcertanti) e l’abbandono di molti tra quanti avevano sperato di fare rivivere la Fondazione (tra gli altri Giovanni Orsina, che aveva accettato di presiedere il Comitato Scientifico, Lorenzo Castellani, che era stato nominato segretario generale, Piero Paganini, Enrico Morbelli, Saro Freni, Gianmarco Brenelli).
Una danza macabra sullo scheletro di un’istituzione che meritava di concludere i suoi giorni in maniera più dignitosa.
Mi sono chiesto il perché di tanto accanimento che certo non può essere attribuito a uno sviscerato amore per la Fondazione e la sua storia essendone il presidente Benedetto, il vice-presidente Giacalone (di chiare origini lamalfiane), l’avvocato Priuti Ciarello, rimasti in passato sempre estranei; la sola risposta che ho trovato è che gli attuali occupanti intendano trasformare la Fondazione in un soggetto partitico, perno di improbabili avventure elettorali. A confermare le mie supposizioni è giunta puntualmente la costituzione di un mini-partito, LiberItalia, – appoggiato formalmente dalla Fondazione – che si propone di affrontare la competizione elettorale.
Cui prodest?
Franco Chiarenza
20 ottobre 2017
P.S. Cinquant’anni di storia non si possono ridurre in poche pagine. Chiedo scusa quindi per le tante omissioni – specialmente per quanto riguarda le iniziative della Fondazione – che in questo scritto sono state inevitabili. Esse peraltro, insieme a inesattezze che molti dei protagonisti potranno contestarmi, non tolgono valore all’insieme del quadro che ho voluto tracciare per dare, soprattutto a chi non ha vissuto la nostra esperienza, il senso complessivo di ciò che ha rappresentato nel contesto delle culture politiche del dopoguerra la Fondazione Luigi Einaudi di Roma. E perché, nell’impossibilità di mantenerne il livello qualitativo, sia preferibile sancirne la definitiva cessazione. Parce sepulto.