La vicenda è nota: Paolo Giordana, capo di gabinetto della sindaca di Torino Chiara Appendino (Cinque Stelle), ha dovuto dimettersi per avere sollecitato la cancellazione di una multa inflitta a un conoscente. Poca cosa ma indice di un costume assai diffuso dove l’esercizio del potere è sempre connesso all’eccezione privilegiata, spesso anche esibita. E’ significativo che l’episodio sia avvenuto a Torino e non – come ci si aspetterebbe – in una cittadina della provincia meridionale.

La purezza degli amministratori
Qualcuno ha pensato che la vicenda possa danneggiare l’immagine dei Cinque Stelle dimostrando la loro incapacità a scegliersi i collaboratori (confermando così l’impressione negativa della collega sindaca di Roma). Credo che non sia così.
L’elettorato dei Cinque Stelle è essenzialmente costituito da gente che si ribella al potere (politico e amministrativo) soprattutto per i privilegi che esibisce, per la corruzione diffusa ad ogni livello, per il clientelismo che domina incontrastato in ogni settore della pubblica amministrazione, e conseguentemente contesta il principio di delega considerando delegittimata la classe politica. Se così è l’episodio torinese si inquadra perfettamente nelle aspettative dei militanti del movimento e susciterà consenso e approvazione.
E’ davvero incredibile la resistenza che i politici degli altri schieramenti oppongono a qualsiasi intervento che ne limiti i privilegi, senza capire che il problema non è di valutare quanto essi siano giustificati da circostanze obiettive e quanto invece frutto di demagogia ma semplicemente di prendere atto che questi sono i sentimenti prevalenti nell’elettorato, e non soltanto in quello “grillino”. D’altronde i dati reali giustificano l’indignazione: trattamenti pensionistici che continuano ad essere privilegiati, auto blu due o tre volte più di quelle in dotazione alla classe politica di altri paesi comparabili, scambio di favoritismi (comprese le assunzioni), concorsi truccati, e chi più ne ha più ne metta. Demagogia? In parte forse sì, ma è quello che si merita una classe politica cieca e sorda a fronte del mugugno che sale dal Paese dove la classe media si trova alle prese con problemi inediti (come la disoccupazione giovanile) e aspettative tradite. Le ragioni delle difficoltà sono tante, complesse e in gran parte derivanti da fatti esterni ma ciò non toglie che l’opinione pubblica le attribuisca anche alla incapacità e all’incompetenza di chi ci governa.
Per questo forse l’asserita incompetenza dei Cinque Stelle diventa secondaria; forse che gli altri hanno dimostrato di essere più capaci?

Pagare le multe
Dobbiamo cominciare dal basso: pagare le multe invece di cercare l’amico che ce le cancella, fare la fila invece di saltarla, pagare il biglietto dell’autobus anche se il controllore non passa mai, e man mano salendo di livello, non pretendere dalla scuole promozioni non meritate, attuare la raccolta differenziata dei rifiuti, ecc. Ripristinare la legalità nei comportamenti quotidiani è un problema che riguarda tutti ed è la premessa per governare i cambiamenti che certamente si imporranno, ma l’esempio deve venire dall’alto, da chi pretende di rappresentarci. E’ veramente drammatico per la nostra democrazia che sia dovuto scendere in piazza un brillante comico per ricordarlo e per mobilitare il consenso su questi temi.
Naturalmente sappiamo tutti che per governare non basta essere onesti; lo sanno pure loro, i Cinque Stelle. E per questo, avendo messo in piedi un sistema di selezione della classe dirigente demagogico e inadeguato che apre l’esercizio del potere a dilettanti allo sbaraglio, stanno cercando di costituirsi un supporto di competenze tecniche che sia in grado di aiutarli. In realtà le cose non funzionano così: le competenze politiche non si acquisiscono “andando a scuola”, altrimenti avremmo tutti i docenti di scienze politiche al governo invece che in cattedra. Occorre macinare esperienze, cominciando dai circoli di quartiere e procedendo in responsabilità crescenti con responsabilità amministrative e politiche locali, regionali e infine nazionali. E’ questo il modello che dai tempi della repubblica romana ci tramandano le grandi democrazie occidentali. La politica è anche una professione, illudersi che consista soltanto nella registrazione degli umori popolari ha come unica conseguenza un rafforzamento del potere reale dei “tecnici” ai quali si finiscono per delegare quelle scelte e quelle mediazioni che ogni attività di governo comporta.

 

Franco Chiarenza
31 ottobre 2017

I referendum celebrati in Veneto e in Lombardia per chiedere maggiore autonomia non hanno evidentemente nulla a che fare con quello organizzato dagli indipendentisti catalani; li avvicina soltanto la coincidenza temporale e il fatto che sembrano entrambi segnalare un diffuso malcontento nei confronti degli stati nazionali.
C’è anche un altro aspetto che li accomuna: si tratta di regioni “ricche” che chiedono di separarsi da quelle più povere, e non è questione secondaria.

Gli “statuti speciali”
Ciò che in realtà chiedono veneti e lombardi (in parte) non è una indipendenza che sarebbe difficile e costosa da gestire e può essere pretesa soltanto sulla base di ragioni sentimentali, storiche, linguistiche che in Catalogna convivono con la convenienza economica, mentre non hanno serie motivazioni né in Lombardia né in Veneto, ma piuttosto il riconoscimento dello “status” di regioni a statuto speciale per i vantaggi economici che comporterebbe. La vicinanza con Regioni e Province a statuto speciale come il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino hanno giocato in questo senso un ruolo fondamentale. Perché a Trento tanti vantaggi economici e nell’adiacente provincia di Belluno no?
In effetti gli “statuti speciali” rappresentano nel nostro ordinamento una componente irrazionale di differente origine e diversissime motivazioni: il primo risale al 1945 e fu concesso alla Sicilia allora percorsa da un fremito indipendentista in cui confluivano velleità culturali, interessi poco limpidi, sentimenti autonomistici, nostalgie storiche variamente colorite e persino connivenze col brigantaggio. Al Trentino il riconoscimento “speciale” è arrivato come conseguenza di quello alto-atesino quando la minoranza di lingua tedesca ottenne a favore della Provincia lo svuotamento dei poteri della Regione Trentino/Alto Adige (che De Gasperi aveva voluto per mantenere la prevalenza italiana). L’autonomia sarda non poteva mancare in presenza di quella siciliana e aveva alle sue origini motivazioni culturali, storiche e linguistiche molto forti. Anche la Valle d’Aosta rappresentò un tributo pagato alla Francia a protezione della sua minoranza linguistica, mentre il Friuli/Venezia Giulia fu il frutto di una politica di convivenza nei confronti della Slovenia e della Croazia dopo la dolorosa amputazione dell’Istria e venne costruita a tavolino mettendo insieme realtà storiche e culturali assai diverse come Trieste e Gorizia da una parte e Udine dall’altra con Pordenone. Anche in questo caso la domanda dei veneti è: cosa c’è di diverso tra Conegliano e Pordenone che distano tra loro 30 km in un contesto sociale e culturale identico?
Un quesito che pongono naturalmente le Regioni più ricche perché si fa loro credere che la possibilità di disporre di tutte o quasi le risorse che producono le favorirebbe evitando di dovere in qualche misura “soccorrere” quelle del sud bisognose di assistenza. Atteggiamento immorale, egoistico, e, oltretutto, fondamentalmente sbagliato (se non altro perché al sud, alle sue risorse umane, al risparmio ivi raccolto, ai suoi mercati, lo sviluppo delle regioni settentrionali deve molto).
Ma, giusto o sbagliato che sia, il problema si pone.

La riforma regionale
Messo in imbarazzo dalla convivenza con la Lega, Berlusconi ha fondamentalmente colto nel segno quando ha detto “facciamo tutte le Regioni a statuto speciale”. Un paradosso che contiene tuttavia l’unica soluzione del problema (già posto, ma in maniera confusa e grossolana, nella fallita riforma costituzionale di Renzi). Tutti “speciali”, nessuno speciale. Rivediamo le competenze, attribuiamo a tutte le Regioni una parziale autonomia fiscale, istituiamo una cassa comune di compensazione per finanziare i progetti infrastrutturali nel Mezzogiorno (che rappresentano una convenienza per l’intero Paese), diamo al Senato una visibilità regionale, possibilmente senza ricorrere ai consiglieri regionali itineranti partoriti dalla fervida fantasia di Renzi, e aboliamo di conseguenza i privilegi che oggi sono concessi alle Regioni a statuto speciale, compreso l’Alto Adige. Per la pace etnica e linguistica abbiamo già dato e molto; adesso la massima autonomia deve restare garantita per quanto attiene questioni culturali, linguistiche, organizzative, ma basta con vantaggi fiscali diversi da quelli di ogni altra Regione. Sono sicuro che una riforma siffatta, proposta senza altre aggiunte, chiaramente motivata e illustrata, troverebbe ampio consenso, soprattutto se nascesse da un’intesa trasversale per evitare che un partito o una maggioranza se l’attribuisca.

Franco Chiarenza
30 ottobre 2017

Siamo l’unico paese – tra quelli più importanti coi quali pretendiamo di confrontarci – che cambia spesso la legge elettorale. Il che è una componente non secondaria del distacco tra società civile e classe politica di cui, a parole, continuamente ci si lamenta.
E non soltanto perché da qualche tempo, col venir meno del voto di preferenza, il parlamento sia composto da “nominati” piuttosto che da “eletti” (problema tutto sommato secondario in un sistema proporzionale, come dirò) ma per la fondata impressione che importanti “regole del gioco”, quali certamente sono quelle che definiscono i sistemi elettorali, vengano di volta in volta modificate in funzione di veri o presunti interessi di parte.

L’elettorato non è stupido
Ma talvolta il gioco non riesce perché si fonda su previsioni che possono risultare errate; può così avvenire (ed è successo) che norme studiate per “punire” gli avversari si ritorcano contro chi le ha immaginate e imposte perché anche gli elettori (non tutti ma quanti bastano) qualche volta ragionano e cambiano voto proprio in funzione della legge elettorale. L’effetto tuttavia più dannoso della variabilità delle regole elettorali è proprio quello che riguarda l’immagine della classe politica, di qualunque colore, finendo per coinvolgere la credibilità dello stesso sistema democratico.
Non entro nel merito del cosiddetto “Rosatellum”, celermente approvato dal parlamento a colpi di mozioni di fiducia (altra grave scorrettezza istituzionale; il voto di fiducia dovrebbe sempre riguardare l’attività di governo non le regole istituzionali). Si tratta di un sistema elettorale né peggio né meglio di altri, essendo poi a conti fatti un “Mattarellum” modificato aumentando la quota proporzionale e in tal modo avvantaggiando le coalizioni; per questo il movimento di Grillo, notoriamente contrario a qualsiasi alleanza, lo considera uno strumento creato per precludergli la possibilità di andare al governo. In realtà ogni sistema proporzionale comporta la necessità di creare alleanze per costituire maggioranze di governo; non si capisce perché i Cinque Stelle fossero favorevoli al sistema tedesco che, essendo fondamentalmente proporzionale, rende necessarie le coalizioni di governo, come dimostra l’esperienza della Merkel che, pur avendo vinto le elezioni, è alle prese con una difficile trattativa per realizzare una nuova maggioranza. A meno che la differenza non consista nel fatto che il “Rosatellum” impone la scelta delle alleanze prima del voto mentre il sistema tedesco consente di affrontare il problema dopo le elezioni; ma in tal caso è legittimo il dubbio che la declamata trasparenza dei “grillini” altro non sia che un lasciare le mani libere ai propri capi. Perché – da sempre – in politica sono le alleanze che determinano la credibilità dei programmi sventolati in campagna elettorale.
Ma anche la “furbata” (come si direbbe a Roma) messa a segno dai partiti che si accingono a combattersi senza esclusione di colpi (almeno a parole) mettendo intanto fuori gioco il movimento di Grillo dimostra una debolezza che potrebbe rivelarsi pericolosa.
Accantonare mediante artifici istituzionali un problema di moralità politica, a torto o a ragione ritenuto fondamentale da ampie parti dell’elettorato (e in gran parte intercettato dal movimento di Grillo) invece di affrontarlo alla radice eliminando dal costume politico e amministrativo quelle forme di corruzione e di clientelismo che si sono diffuse nel corpo sociale come metastasi inarrestabili, serve soltanto a rafforzare la rappresentanza della protesta che ormai i Cinque Stelle si sono assunti (e sulla quale riescono a mantenersi uniti). Non vorrei che a forza di giocare ai quattro cantoni si finisca per arrivare al crollo dei cantoni e che chi sta in mezzo finisca per avere partita vinta.

Come uscirne
La sinistra pone la questione delle preferenze come discriminante per una “accettabilità democratica” di qualsiasi sistema elettorale. Ma tale affermazione è quanto meno ingenua. Chiunque ricorda le elezioni delle prime legislature repubblicane quando si votava con un sistema proporzionale (leggermente corretto) sa benissimo che gli eletti erano quasi sempre i primi delle liste predisposte dai partiti, anche quando non si ricorreva alla diffusa prassi fraudolenta di aggiungere le preferenze alle schede che ne erano prive (sono stato rappresentante di lista in ancor tenera età e lo ricordo bene). In un sistema proporzionale per liste quindi le preferenze sono poco più di una formalità che peraltro comporta gravi rischi di voto di scambio, pressioni clientelari, costi non indifferenti; abbiamo dimenticato che il referendum vinto da Mario Segni nel 1991 (vinto col 96% dei voti e 63% di partecipazione) riguardava proprio la soppressione delle preferenze.
L’unico modo per uscirne è ancora quello proposto in quegli anni dal “manifesto dei 31” in cui si chiedeva l’adozione di una legge elettorale uninominale a doppio turno (come quella sostanzialmente adottata con successo per l’elezione dei sindaci). E’ il solo sistema che rende gli eletti responsabili davanti ai loro elettori, garantisce la governabilità e se anche talvolta può discostare la composizione del parlamento da una puntuale rappresentanza dell’elettorato ha il vantaggio di determinare con certezza chi vince, con quali alleati, con quali programmi. Viene da molti anni adottato in Francia e da sempre e senza nemmeno il ballottaggio in paesi di antica tradizione liberale come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. In Germania il sistema è misto ma la presenza di tre forti partiti tradizionali (democristiani, socialisti e liberali) ha sempre impedito una frammentazione parlamentare; quest’anno alcune “new entry” hanno già messo in crisi la governabilità e la Merkel sta incontrando molte difficoltà a formare un nuovo governo stabile.

Se da noi si vuole cercare un compromesso si potrebbe approfittare dell’esistenza di due camere per adottare per esempio un sistema proporzionale (corretto da una consistente soglia di sbarramento) per la Camera e eleggere i senatori in collegi uninominali su base regionale.
Ma tutto ciò, in un paese come il nostro, non basta. Occorre rendere definitivi i sistemi adottati costituzionalizzandone i contenuti, per evitare ad ogni elezione di tornare a discuterne.
E, con l’occasione, riformare alcune competenze del Senato su cui non sarebbe difficile trovare un accordo ampiamente condiviso se si rinuncia all’idea bislacca di renderlo non elettivo e costituito da consiglieri regionali in trasferta. Se proprio se ne vuole evitare l’elezione diretta si può adottare con qualche modifica il modello del Senato francese.

Franco Chiarenza
28 ottobre 2017

La crisi in Catalogna ha riacceso l’attenzione su un vecchio tema, già sollevato a suo tempo da Altiero Spinelli, poi riproposto sempre più debolmente in diverse occasioni, fino a scomparire dall’agenda europea negli ultimi anni: quello della cosiddetta Europa delle Regioni. L’idea su cui si fonda la proposta nasceva – non a caso subito dopo la seconda guerra mondiale – partendo dalla constatazione dei danni prodotti dall’esasperazione dei nazionalismi sfociata in due conflitti che avevano sostanzialmente emarginato l’Europa rispetto alle nuove egemonie mondiali. Ci si chiedeva se l’Europa da rifondare non dovesse articolarsi in forme diverse dagli antichi stati nazionali che in fondo altro non erano che costruzioni, talvolta arbitrarie, prodotte dalla cultura statocentrica che il Vecchio Continente aveva ereditato dalla rivoluzione francese. Una nuova Europa quindi formata da grandi entità regionali omogenee per storia, cultura, condizioni economiche, unite tra loro da una federazione modellata sostanzialmente sull’esempio americano. Il tutto però – come appunto negli Stati Uniti – accompagnato da un potere federale forte espresso da un presidente eletto direttamente dal popolo e da un parlamento strutturato in una camera che rappresenti l’elettorato e una seconda costituita dagli stati federati. Un’idea che privilegia le autonomie e che trovò accoglienza nella costituzione che gli anglo-americani imposero alla Germania (per l’evidente preoccupazione che rinascesse il nazionalismo) con la quale vennero di fatto ricostituite entità regionali (lander) in gran parte corrispondenti agli antichi stati esistenti prima dell’unificazione realizzata nel XIX secolo dalla monarchia prussiana, dotate di poteri di governo che trovano il loro limite soltanto in quelli esplicitamente attribuiti al parlamento e al governo federali.
La tendenza a trasformarsi in stati indipendenti è emersa negli anni successivi in diverse parti d’Europa: non soltanto in Spagna (Catalogna e Paesi Baschi), ma anche in Francia (Corsica), in Belgio (Fiandra), in Gran Bretagna (Scozia, Galles e Ulster). Alcuni stati come la Jugoslavia creati – per la verità un po’ artificialmente – dopo la prima guerra mondiale, sono implosi scatenando sanguinose guerre civili e dando luogo a una frammentazione che ha trovato la conclusione di secolari conflitti inter-etnici rendendo indipendenti Slovenia, Croazia, Serbia, Kossovo, Bosnia, Macedonia, Montenegro. Anche la Cecoslovacchia ha visto separarsi (per fortuna consensualmente) la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Pure l’Italia non è stata risparmiata, cominciando dai tentativi separatistici della Sicilia e dell’Alto Adige fino alle fantasiose creazioni “padane” della Lega di Bossi.
La crisi catalana sembra dimostrare che l’argomento è ancora attuale. Ma lo è davvero?

Stati-nazione, realtà ineliminabili
In realtà, malgrado le spinte separatiste, quasi ovunque (almeno in Europa occidentale) gli stati nazionali hanno risolto i problemi delle minoranze ricorrendo ad autonomie anche molto accentuate ma senza mai compromettere le competenze nazionali in politica estera, militare e di controllo sull’economia e la finanza (che, semmai, sono state devolute in parte a strutture sovra-nazionali come l’Unione Europea); anche regioni di comprovate tradizioni storiche, linguistiche, religiose, giunte molto vicine dalla secessione dagli stati in cui la storia li aveva collocati, hanno, alla fine, fatto un passo indietro.
Perché le cose sono andate così? (e andranno così probabilmente anche in Catalogna?)
Perché le motivazioni di orgoglio identitario diventano prevalenti solo quando si associano a meno nobili ragioni economiche, soprattutto quando queste ultime sono manipolate da pochi o molti demagoghi scaltri; non a caso le regioni con velleità secessioniste sono quasi sempre le più ricche. Basta far credere che chiudersi nei propri confini significhi disporre liberamente delle risorse prodotte in loco evitando che vengano utilizzate altrove o per finalità non immediatamente corrispondenti agli interessi della propria comunità. Il che è palesemente falso perché in tempi di globalizzazione non conta soltanto la ricchezza prodotta, ma anche – e forse di più – le norme che regolano gli scambi commerciali e la certezza del diritto per gli attori (sempre più mobili) dell’economia e della finanza internazionale. Nella partita che si gioca per stabilire le regole conta molto la dimensione (fisica, economica, politica, militare) dei soggetti che vi partecipano ed è inevitabile che gli equilibri vengano misurati sulla forza complessiva degli stati, formalmente tutti uguali ma dove qualcuno è più uguale degli altri. Potrebbe – per esempio – la Germania svolgere il suo ruolo egemonico in Europa se ai tavoli che contano invece della Repubblica federale sedessero come entità indipendenti la Sassonia, la Baviera, e gli altri 14 lander che la costituiscono? Qualcuno può pensare che nel direttorio della BCE il governatore della banca centrale slovacca conti quanto quello della Francia? Quanto potrebbe fare la Catalogna indipendente per difendere da sola la propria agricoltura rispetto alle possibilità di essere parte importante di un paese come la Spagna senza il cui accordo nessuna decisione può essere presa? Il mondo degli affari, la finanza, gli imprenditori, l’hanno capito da un pezzo: meglio contare all’interno di uno stato forte e autorevole che non rischiare di restare isolati e impotenti per un riguardo a tradizioni localistiche rispettabili ma oggi politicamente insignificanti ed economicamente motivate soltanto da un egoismo sociale tanto immorale quanto impraticabile. Fiscalità di vantaggio? E’ un’arma a doppio taglio se praticata in paesi che devono investire molte risorse in infrastrutture e deve fare i conti con l’Unione Europea (salvo chiamarsene fuori con tutti i problemi che ciò comporta).

Decidere da sé
A queste obiezioni gli “indipendentisti” rispondono che vogliono decidere da sé il loro destino pur ammettendo che i poteri nazionali sono ormai alquanto diluiti per effetto della globalizzazione e del decentramento, e (almeno in Catalogna), anche per questo, dicono di volere in ogni caso restare in Europa e continuare a far parte dell’Eurozona. Doversi far carico delle funzioni nazionali più impegnative e costose (politica estera, rete diplomatica, spese militari) renderebbe assai meno conveniente l’indipendenza; ignorarle contando sulla propria marginalità nella certezza che altri comunque provvederanno alla loro sicurezza toglierebbe a questi nuovi mini-stati qualsiasi credibilità (e possibilità di contare nelle sedi dove si decidono le strategie internazionali). Se, alla fin dei conti, ciò che dovrebbe cambiare riguarda l’istruzione, la giustizia, la sicurezza interna, l’ordinaria amministrazione, si tratta di materie che possono essere regolate nell’ambito di statuti regionali (come oggi già avviene).
A questo punto l’indipendenza diventa poco più che una soddisfazione sentimentale, perseguita in maniera convinta soltanto da gruppi (minoritari spesso anche all’interno degli schieramenti indipendentisti) che ritengono in una dimensione più ridotta di potere più facilmente effettuare esperimenti istituzionalmente innovativi, in senso autoritario o “socialmente avanzati”; premessa inevitabile di conflitti che possono rapidamente precipitare in un caos di cui le guerre balcaniche ci hanno dato un terrificante esempio.

Catalogna divisa
Un’ultima osservazione. I referendum hanno sempre dimostrato che le secessioni spaccano i paesi pressappoco a metà: creare un’indipendenza condivisa è in tali condizioni un’impresa assai ardua. Decenni (e qualche volta secoli) di unità statuale hanno prodotto inevitabilmente mescolanze, interessi, contaminazioni, strutture burocratiche, legislazioni comuni che è molto difficile dissolvere; il che, se l’indipendenza va in porto, determina tensioni, complicazioni, creazione di nuove minoranze dissenzienti. Lo dimostra quanto sta avvenendo in Catalogna, ma anche le vicende della Brexit; dove lo scioglimento di legami assai meno forti rispetto a quelli consolidati all’interno di stati nazionali secolari, si sta dimostrando difficile e pieno di incognite. Gli osservatori politici sono in proposito concordi: alla fine del percorso ne usciranno tutti più deboli, il Regno Unito ma anche le istituzioni di Bruxelles.

 

Franco Chiarenza
25 ottobre 2017

Un indecoroso balletto sta accompagnando il triste tramonto della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia costituita da Giovanni Malagodi nel 1962 e presieduta negli anni da personalità prestigiose come Gaetano Martino, Vittorio Badini Confalonieri, Franco Mattei, Ruggiero Moscati, Giancarlo Lunati, Valerio Zanone e Roberto Einaudi.
Fino ad oggi sono rimasto testimone attento e silenzioso nella speranza che un’istituzione prestigiosa alla quale avevo dedicato molti anni della mia esistenza arrivasse a un definitivo chiarimento, qualunque fosse. Adesso, anche per rispondere ai tanti amici e conoscenti che me lo chiedono, ho deciso di esprimere pubblicamente il mio pensiero ricordando sinteticamente cosa la Fondazione è stata in passato e perché ogni soluzione diversa dal suo scioglimento sarebbe impropria e non auspicabile.

Posta in liquidazione con una delibera dell’assemblea dei soci alla fine del 2014, riesumata l’anno successivo da un consiglio d’amministrazione falcidiato dalle dimissioni, rilevata dalla Fondazione Lucio Piccolo nel 2016 in cambio di una patrimonializzazione mai avvenuta, la Fondazione Einaudi di Roma era stata finalmente dichiarata estinta dalla competente prefettura nel luglio di quest’anno. Ma dopo l’estate, accogliendo un ricorso, la prefettura è tornata sui suoi passi concedendo una proroga in attesa che le ipotesi di ricapitalizzazione – sempre annunciate e mai realizzate – trovino finalmente conferma. Nel frattempo, non essendo in condizione nemmeno di pagare l’affitto, la Fondazione è stata trasferita dalla sede storica di largo dei fiorentini in un appartamento a Monte Mario messo a disposizione da una loggia massonica, i dipendenti sono stati licenziati, gli archivi e la biblioteca non sono consultabili per mancanza di personale, le attività si limitano alla presentazione di libri. La “marcia indietro” della prefettura è quindi difficilmente comprensibile: vero è infatti che con una sede concessa ad uso gratuito e la completa mancanza di personale dipendente le spese sono state azzerate ma è altrettanto vero che tale stato di cose impedisce alla Fondazione di svolgere i suoi compiti istituzionali che non sono certo quelli di trasformarsi in un circolo di affiancamento massonico. Rimane inoltre la contraddizione della mancanza di un patrimonio in grado di rappresentarne il presupposto legale. Si resta in attesa, come in una telenovela di cattiva qualità, di conoscere come sarà finalmente effettuata la sospirata “ripatrimonializzazione” (su cui insiste anche la prefettura), quale sarà il progetto culturale su cui la Fondazione dovrà stabilire le priorità operative (sempreché continui l’attività) e chi saranno i nuovi soci sostenitori che dovrebbero consentirle di resuscitare. In ogni caso è triste constatare come intanto la Fondazione abbia compromesso il patrimonio di prestigio e di credibilità che l’aveva accompagnata in passato, aggirandosi ormai come un ingombrante fantasma nel labirinto delle tante istituzioni culturali che si richiamano al liberalismo.

Le origini
Il 30 ottobre 1961 moriva Luigi Einaudi. Pochi mesi dopo Giovanni Malagodi costituiva la Fondazione a lui intitolata con l’intento di raccoglierne e rilanciarne la testimonianza politica e fornire al contempo un robusto inquadramento ideologico al partito liberale, alla cui ricostituzione dopo la guerra Einaudi (come Croce) aveva contribuito.
L’eredità politica di Einaudi andava ben oltre la semplice riaffermazione di un generico liberalismo. Lo statista piemontese aveva elaborato negli anni, anche attraverso le proprie variegate esperienze personali, una concezione del liberalismo capace di tenere insieme la grande tradizione del liberismo anglosassone, gli insegnamenti della scuola austriaca di Mises e Hayek, e l’idealismo liberale italiano di Benedetto Croce. Per questo il suo pensiero, articolato in una quantità di scritti che attraversavano quasi un secolo di storia italiana, parve a Malagodi il più adatto a disegnare un modello di società che, tenendo conto delle specificità italiane, si ispirasse alle nuove sensibilità sociali emerse dal manifesto di Oxford sottoscritto nel 1948 dai partiti e movimenti liberali di tutto il mondo. Un liberalismo quindi lontano dalle asprezze di un capitalismo incontrollato e capace invece di regolare l’economia di mercato liberandolo da quei “lacci e lacciuoli” corporativi e burocratici che più volte anche Guido Carli aveva denunciato.
Nacque con tali finalità ed obiettivi la Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia con sede in Roma; da non confondere con quella quasi omonima di Torino costituita poco tempo dopo per gestire la grande biblioteca di Luigi Einaudi e che aveva trovato ospitalità nel prestigioso palazzo d’Azeglio messo a disposizione dalla Fiat.
Nel 1984 la Fondazione modificò il proprio statuto sciogliendo i legami (peraltro già molto attenuati) di affiancamento al partito liberale, assumendo una connotazione indipendente da ogni militanza politica, ulteriormente ribadita e rafforzata nel 2002.

Le iniziative
Molto ha fatto la Fondazione nei suoi cinquant’anni di vita per diffondere la cultura liberale, guadagnandosi un meritato prestigio; negli ambiti più diversi essa si è confrontata con i ritardi e le inerzie delle nostre istituzioni mediante iniziative che sono sempre state riconosciute di livello elevato e per questo meritevoli di attenzione da parte di ogni settore della cultura politica ed economica.
Il suo Comitato Scientifico è stato per molti anni presieduto dall’economista Domenico Da Empoli e si deve anche al suo impulso il conseguimento di successi importanti, a partire dall’assegnazione di molte borse di studio a studenti meritevoli che hanno poi svolto ruoli importanti nell’economia, nella politica, nell’università e nel mondo della comunicazione.
Particolare attenzione fu dedicata sin da principio ai problemi dell’economia a partire, negli anni ottanta, dalla prima presentazione in Italia della teoria della public choise (con la prestigiosa partecipazione del suo ispiratore, il premio Nobel James Buchanan) cui hanno fatto seguito altre iniziative che hanno approfondito le trasformazioni dell’economia di mercato man mano che la globalizzazione andava dispiegandosi risolvendo problemi secolari ma anche sollevando perplessità per le conseguenze di taluni effetti collaterali. Convegni, seminari, ricerche, in cui si sono impegnati molti giovani studiosi che alla Fondazione hanno legato i loro primi successi: tra gli altri Salvatore Carrubba, Angelo Maria Petroni, Giuseppe Vegas.
Nel 1995 la Fondazione, precipitata in uno stato di inerzia per vicissitudini finanziarie ormai lontane persino nel ricordo, stava per essere cancellata anche dai contributi pubblici. Poi, col decisivo impulso di Valerio Zanone che ne era divenuto presidente, gradualmente ma con decisione essa si è rimessa in piedi realizzando nuovi progetti, trasferendo la sede dai locali prestigiosi ma angusti di palazzo Fiano a San Lorenzo in Lucina in un appartamento più comodo in un edificio che fa parte del complesso edilizio dei Sacchetti in largo dei fiorentini, rivitalizzando la direzione scientifica con l’apporto decisivo di Giovanni Orsina, al quale va riconosciuto il grande merito di avere valorizzato gli archivi storici (e in particolare quello di Malagodi), stabilendo rapporti di collaborazione con altre associazioni e fondazioni liberali (tra cui la Fondazione Cortese di Napoli e il Centro Einaudi di Torino), favorendo la creazione e le attività dell’Associazione Amici della Fondazione nella speranza che per suo tramite si potessero convogliare nuove risorse umane e finanziarie.
Le tematiche affrontate negli anni successivi sono state numerose e non è questa la sede per enumerarle dettagliatamente. Ne ricordo alcune particolarmente importanti, cominciando dalla questione della compatibilità del federalismo (tanto popolare in quegli anni) con la tradizione politica del liberalismo italiano, trattata nel 1999 con ricerche che per la prima volta ne hanno analizzato costi e benefici al di là di pregiudiziali ideologiche che trasformavano un problema storico che risaliva al Risorgimento in una rissa caratterizzata da luoghi comuni e approssimazioni. Le presentazioni della ricerca di base a Torino e a Roma costituirono un vero successo con la partecipazione di personaggi importanti dell’economia, delle imprese e delle istituzioni. La ricerca fu seguita da una significativa integrazione in cui venne approfondito il ruolo che veniva ad assumere la Capitale con il suo hinterland in un eventuale contesto federale; anche la sua presentazione fu occasione di serrato dibattito a cui parteciparono il Sindaco, i presidenti della Regione e della Provincia e molti rappresentanti della politica e della società civile.
I problemi della comunicazione e dell’informazione, cruciali per la cultura liberale in un momento in cui trasformazioni spettacolari ne cambiavano radicalmente le modalità di impiego e di diffusione, sono stati affrontati alla fine degli anni ’90 con varie iniziative culminate nei primi anni del 2000 con un ciclo triennale di seminari realizzati a Napoli in collaborazione con la Fondazione Cortese e l’Università Suor Orsola Benincasa. Incontri assai diversi dai consueti convegni-passarella dove gli invitati arrivano, dicono frettolosamente la loro, e se ne vanno spesso senza nemmeno ascoltare opinioni diverse; i seminari infatti, intitolati “L’informazione come condizione di libertà”, erano preparati da linee-guida elaborate da un ristretto gruppo di lavoro (costituito da docenti ed esperti della storia e della comunicazione) che nelle sessioni pubbliche venivano sottoposte a un ampio confronto cui partecipavano interlocutori impegnati direttamente nella gestione dei mass-media. Si superavano in tal modo le generiche asserzioni di principio sulla libertà di informazione e sul suo ruolo portante nelle democrazie liberali per affrontare i problemi concreti del sistema di informazione nel nostro Paese.
Sarebbe stato un campo immenso su cui attuare altri percorsi di ricerca (che furono anche tentati con la costituzione a Firenze di un gruppo di lavoro interdisciplinare coordinato da Gilberto Tinacci Mannelli) ma purtroppo mancarono le risorse e negli anni successivi non si andò oltre l’organizzazione di un convegno annuale – peraltro molto apprezzato – in cui veniva presentato un rapporto di aggiornamento sull’evoluzione delle tecnologie digitali realizzato dagli amici di Italmedia Consulting; un appuntamento ospitato non casualmente dalla Federazione Nazionale della Stampa al quale partecipavano sempre i massimi rappresentanti dei principali mass-media pubblici e privati e dove non mancava mai un intervento dell’ Authority della Comunicazione (AGCOM) e di un rappresentante del Governo al massimo livello.
Dei problemi della scuola in senso specifico la Fondazione non si è occupata molto, con mio grande rammarico; vanno comunque ricordate alcune iniziative culminate nel 1997 in un grande convegno dove venne riesumata (inutilmente) la proposta di Einaudi di sopprimere il valore legale dei titoli di studio.

Opef
Una delle iniziative più originali, anche se apparentemente estranea agli ambiti di ricerca che la Fondazione si era data, è stata la costituzione di un osservatorio per le politiche energetiche ed ambientali (OPEF). Ambiente ed energia non hanno mai rappresentato in passato un punto centrale della sensibilità dei liberali storici (come non lo fu per altre culture politiche del secolo scorso). Soltanto da pochi decenni i problemi della tutela ambientale, strettamente associati alla questione energetica, sono apparsi determinanti per il futuro dell’umanità, anche se certe tendenze estremiste di alcuni movimenti “verdi” allarmavano i liberali che hanno visto in esse emergere un pericoloso integralismo che, prendendo a pretesto l’emergenza ambientale, potrebbe facilmente degenerare nella negazione di alcuni fondamentali diritti individuali. Che tuttavia il problema di una più consapevole tutela ambientale fosse reale non era più da mettere in dubbio e che con esso la cultura liberale dovesse fare i conti era un fatto incontestabile. Da questa constatazione, da una felice intuizione di Marcello Inghilesi e dal sostegno di Massimo Romano, nacque l’OPEF il quale nel corso di un decennio ha sviluppato molti temi specifici soprattutto attraverso l’organizzazione di “laboratori” che hanno consentito, lontano da clamori mediatici e speculazioni elettoralistiche, a tutti i soggetti interessati di confrontarsi senza contrapposizioni strumentali e sbandieramenti ideologici. Intorno al tavolo (quasi sempre nella splendida sede dell’ABI in palazzo Altieri) si sedevano amministratori pubblici, esperti, banchieri, imprenditori pubblici e privati, rappresentanti delle Autorità di garanzia dei diversi settori. Una formula che permetteva scambi di informazioni e l’allacciamento di sinergie lasciando la politica politicienne fuori dalla porta, salvo confrontarsi con essa in occasione di convegni pubblici che per la concretezza delle proposte hanno registrato sempre grande interesse e ai quali hanno partecipato i protagonisti del settore energetico italiano ed europeo (in uno di essi intervenne il commissario per l’energia dell’Unione Europea). Ma quando – essendo divenuto presidente della Fondazione Mario Lupo – si tentò il “colpo grosso” di trasferire questa attività in una iniziativa di ancor maggiore visibilità da realizzare con la LUISS, facendola finanziare dall’industria petrolifera ed elettrica, si commise l’errore di abbandonare l’esperienza precedente col risultato inevitabile che i sogni di grandezza rimanessero tali mentre vennero meno i più modesti “laboratori” che pure si erano dimostrati utili e costruttivi.

L’associazione degli amici
L’Associazione degli amici della Fondazione venne costituita nel 1997 con tre principali finalità: innanzi tutto aprire la partecipazione a singole persone (va ricordato infatti che i soci della Fondazione erano prevalentemente enti privati e pubblici, come la Banca d’Italia, e fondazioni bancarie come la Compagnia di San Paolo di Torino e la Fondazione Banco di Sicilia, imprese e comunque soggetti collettivi). In secondo luogo per raccogliere risorse finanziarie crowdfunding che potessero in qualche misura compensare la riduzione dei contributi pubblici. Infine per gestire iniziative sul territorio come corsi di formazione, convegni su problemi d’attualità, e presentazioni di libri.
In tale contesto l’Associazione ha organizzato – anche per conto della Fondazione – moltissime presentazioni e incontri tra cui vanno ricordati quelli che, con grande successo, si sono svolti nello splendido Oratorio del Gonfalone su temi di attualità con la partecipazione di personalità di primo piano del mondo politico ed economico.
Un’altra importante funzione affidata all’Associazione, che operava in piena autonomia e aveva propri organi dirigenti, era quella di sostenere le “scuole di liberalismo” che da tempo venivano organizzate da Enrico Morbelli, e che hanno coinvolto centinaia di giovani in diverse città (Roma, Milano, Torino, Parma, Bologna, Napoli, Bari, Lecce, Sulmona, Catanzaro, Messina, Palermo).
La formula era (ed è tuttora) molto semplice: ogni corso consisteva mediamente in una quindicina di lezioni tenute da personalità della cultura liberale (talvolta anche prestigiose); i frequentanti che lo desideravano potevano concorrere attraverso l’elaborazione di tesine scritte all’assegnazione di modesti premi in danaro messi a disposizione da sponsor volontari (tra cui in passato la stessa Fondazione Einaudi) oppure fruire della possibilità di frequentare i corsi estivi dell’IES in alcune università europee (per esempio Aix en Provence, Gummersbach). Le scuole di liberalismo hanno consentito – soprattutto nel periodo che seguì la contestazione studentesca degli anni ‘60 – una diffusione dei principi liberali al di fuori dei canali istituzionali (scuole, università) troppo spesso egemonizzati da culture politiche ed economiche ostili al liberalismo. Per questo è sembrato opportuno ad alcuni di noi mantenerle in vita sottraendole alle recenti e inquietanti vicissitudini della Fondazione trasformando l’Associazione degli Amici della Fondazione Einaudi in Associazione Scuola di Liberalismo. In tal modo le scuole di liberalismo, sotto la direzione del “sempregiovane” Enrico Morbelli, continuano a svolgere la loro attività.

Imparzialità
Dopo avere definitivamente reciso nel 1984 i legami col partito liberale la Fondazione ha sempre rifiutato di appoggiare schieramenti politici ed elettorali pure quando in qualche modo si richiamavano alle dottrine liberali. Così fu per il centro-destra, dove pure militavano personalità importanti del mondo liberale come Antonio Martino, Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, e per il centro-sinistra in cui per un certo periodo si riconobbero Valerio Zanone, Raffaello Morelli, il gruppo di Critica Liberale. La barra della Fondazione rimase sempre ancorata al centro, non tra i diversi schieramenti ma al di sopra di essi, “una scelta – come recita una solenne dichiarazione del suo consiglio d’amministrazione del 2002 – non di neutralità ma di imparzialità: non di neutralità perché la Fondazione ha il suo fondamento ed orientamento nella cultura liberale, ma di imparzialità perché la cultura liberale, per gli stessi connotati che la distinguono, non conduce ad opzioni partitiche predeterminate”.
In piena coerenza con tali principi nel 2007, quando decise di impegnarsi politicamente nell’Ulivo (centro-sinistra), Valerio Zanone lasciò la presidenza della Fondazione che aveva mantenuto per diciassette anni. Gli succedette Roberto Einaudi, nipote diretto di Luigi. La sua presidenza fu caratterizzata da un’impresa straordinaria, quella di realizzare e portare in giro per l’Italia una grande mostra sulla figura di suo nonno, attraverso la cui vita era possibile ripercorrere la storia del nostro Paese nella prima metà del secolo XX. Il suo successo fu significativo dimostrando l’esistenza di una sensibilità liberale diffusa che andava ben oltre le contrapposizioni strumentali cui il liberalismo era stato sottoposto nel contesto italiano. La mostra fu inizialmente allestita al palazzo del Quirinale e inaugurata dal presidente Napolitano con un discorso molto importante perché segnò la definitiva presa di distanza dal suo passato comunista e il pieno riconoscimento della validità del pensiero liberale che negli scritti e nelle azioni di Luigi Einaudi trovava la sua migliore configurazione; un atto di onestà intellettuale che va riconosciuto. La mostra fu poi riallestita a Milano, Torino, Napoli e Ravenna. Difficoltà finanziarie e organizzative impedirono che continuasse il suo itinerario, ma comunque il segno che essa ha lasciato, soprattutto tra i giovani che l’hanno visitata in numero sorprendente, è stato importante.

La crisi
Da un certo momento in poi la Fondazione aveva cominciato ad avere serie difficoltà economiche. Il problema non era soltanto suo ma, quale più quale meno, di tutte le associazioni e fondazioni culturali, malgrado esse rappresentino in uno stato moderno quel tessuto connettivo della partecipazione che sin dai tempi di Tocqueville è considerato il fondamento di una democrazia liberale. Le cause di questa progressiva asfissia sono molte e tra queste possiamo menzionare innanzi tutto la diminuzione drastica dei finanziamenti pubblici (perché quando si tratta di tagliare le spese le prime vittime sono sempre le entità culturali). Il che di per sé non sarebbe un male se fosse accompagnato dal varo di una legislazione in grado di incoraggiare soggetti privati a finanziare la cultura (anche quella politica ed economica) attraverso adeguati vantaggi fiscali; ma diventa esiziale quando ciò non avviene.
Un’altra ragione – forse anche più importante – è legata al venir meno delle identità ideologiche su cui le fondazioni di cultura politica si erano prevalentemente costituite. Le loro specificità sono venute attenuandosi e il brodo, a forza di allungarsi, è diventato troppo omogeneo ed insipido, per cui molte di esse hanno finito per rappresentare soltanto strumenti di ricerca storica delle proprie matrici originarie e di conservazione degli archivi provenienti soprattutto dai protagonisti della prima repubblica. In questo quadro si comprende perché – in assenza di progetti di ricerca autenticamente innovativi e proiettati sul futuro – venisse meno l’interesse delle imprese e delle banche a impegnarsi finanziariamente nei confronti di strutture che avevano perso la capacità di analizzare i cambiamenti sociali e di proporre soluzioni innovative da immettere nel circuito del confronto politico. In un paese – come il nostro – disinteressato alla propria storia e in cui la politica procede con aggiustamenti di basso profilo senza essere mai in grado di superare l’ordinaria amministrazione, ogni tentativo di andare oltre la contingenza e di prospettare scenari di lungo termine è destinato a perdersi in una prassi riduttiva, miope quanto cinica, dove la regola dominante sembra essere quella attribuita a Luigi XV: après moi le dèluge.

Eppure non mancavano i grandi temi su cui la cultura liberale – soprattutto nel nostro Paese – doveva confrontarsi e cercare convergenze orizzontali che prescindessero dagli schieramenti politici tradizionali. Era su questi che la Fondazione doveva focalizzare i suoi sforzi anche per connotarsi come laboratorio prestigioso dell’evoluzione del pensiero liberale. Penso, per esempio, a una riforma liberale della giustizia che elimini i tribunali amministrativi o quanto meno ne riduca le competenze e soprattutto attui finalmente la separazione delle carriere e delle funzioni nella giustizia penale, alla delegificazione e alla riduzione della presenza pubblica per allineare la nostra società ai modelli funzionali delle democrazie nordiche e anglosassoni. Problemi da risolvere anche attraverso una coraggiosa riforma della Costituzione legittimata da un’assemblea costituente eletta esclusivamente a questo fine in modo da non confondere la normale dialettica politica tra maggioranza e opposizione con la ricerca di intese condivise sulle regole del gioco. Sembrava che su ognuno di questi temi le convergenze non mancassero ma ogni volta che la Fondazione cercava di affrontarli senza le cautele dovute alle corporazioni che presidiano lo status quo, quegli stessi amici che ci avevano incoraggiato hanno prudentemente preferito restare nel vago o addirittura scomparire. E senza convergenze e mezzi finanziari ogni iniziativa rischiava di trasformarsi in una giostra donchisciottesca contro i mulini a vento.

Lupus in fabula
Di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie, dopo le dimissioni di Roberto Einaudi dalla presidenza, il consiglio d’amministrazione decise nel 2011 di affidare la Fondazione a Mario Lupo, un manager di lungo corso il quale, proprio per l’esperienza acquisita, pareva in grado di raccogliere le risorse necessarie per rilanciarla o quanto meno consentirne la sopravvivenza. Purtroppo, malgrado l’impegno profuso dal nuovo presidente, l’obiettivo non venne raggiunto e non è questa la sede per ricordare le ragioni del dissenso che portò me e Marcello Inghilesi a dimetterci dalla vice-presidenza; ma va detto che, al di là dei metodi di gestione, la questione di fondo restava la mancanza di una strategia in grado di creare un’immagine identitaria chiaramente percepibile mentre si procedeva invece nell’accattonaggio di qualche inutile ricerca su cui lucrare modesti margini. Sta di fatto che gli SOS della Fondazione cadevano regolarmente nel vuoto; finché si parlava di teoria e si facevano aulici appelli alla carenza di una cultura liberale tutto andava bene, quando si passava agli aspetti più concreti, tutti si voltavano dall’altra parte.
Fu allora – nel 2014 – che si profilò un possibile “salvataggio” da parte di un “cavaliere bianco”, che peraltro nel caso specifico assumeva indubbie tonalità azzurre; si trattava infatti di Silvio Berlusconi il quale, consapevole del deficit di cultura politica che caratterizza ancora oggi una parte rilevante della dirigenza di centro-destra, con evidenti conseguenze di dilettantismo, incompetenza, subordinazione agli inganni burocratici, debolezza nei confronti internazionali, e chi più ne ha più ne metta, deluso come può esserlo chi ha avuto in mano le carte migliori e non ha saputo giocarle, aveva “scoperto” tardivamente che la destra vince le elezioni ma non ha la cultura politica per governare. Su tale ipotesi di salvataggio, perseguita da Mario Lupo pur sapendo come essa avrebbe trasformato radicalmente la natura stessa della Fondazione (destinata probabilmente a diventare una scuola di formazione per quadri dirigenti di Forza Italia), i consiglieri d’amministrazione e i soci più importanti si divisero. Per alcuni di noi (Zanone,Einaudi, Inghilesi, Ortis, e altri) la Fondazione, con cinquant’anni di storia alle spalle, non poteva prestarsi a questa manovra; non soltanto perché contravveniva palesemente a un indirizzo che essa aveva posto a fondamento della sua stessa ragion d’essere ma anche perché – a nostro avviso – Berlusconi e il suo movimento politico non potevano essere considerati parte del pur variegato contesto culturale che si richiama al liberalismo: populismo, demagogia, culto del leader, rifiuto dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, ambiguità sulla laicità delle istituzioni, non appartengono alla cultura liberale, ma semmai al conservatorismo nazional-popolare. Il progetto comunque fallì perché Berlusconi si tirò indietro, forse anche per l’opposizione di alcuni importanti esponenti del centro-destra come Paolo Romani e Renato Brunetta. Pare che Giorgia Meloni, allora ancora nel berlusconiano “Popolo della libertà”, abbia esclamato: “Ma che c’entriamo noi con Einaudi?”.
E aveva ragione.

Epilogo (provvisorio)
La storia della Fondazione ha avuto un epilogo sconcertante di cui molti portano la responsabilità. Dopo il fallimento dell’ipotesi berlusconiana tutta la vecchia guardia (Zanone, Einaudi, Da Empoli, Inghilesi) e i soci più prestigiosi (Banca d’Italia, Compagnia di San Paolo ed altri minori) sostennero che l’unica soluzione onorevole fosse ormai rappresentata dallo scioglimento della Fondazione che infatti fu deliberato dall’assemblea dei soci alla fine del 2014. Ma Mario Lupo, e con lui la maggioranza di un consiglio d’amministrazione decimato dalle dimissioni, pur di evitarne la chiusura ritenne invece di dovere accettare l’offerta di una fondazione siciliana intitolata al poeta Lucio Piccolo; offerta che sin dall’inizio si presentava quanto meno discutibile considerando che la fondazione proponente non si occupava di problematiche affini, non aveva disponibilità liquide certe per onorare gli impegni che andava assumendo e non forniva alcuna adeguata garanzia. In breve l’avvocato Giuseppe Benedetto si trasferì dalla presidenza della Fondazione Piccolo a quella della Fondazione Einaudi, un’assemblea improvvisata avallò l’operazione, i soci più prestigiosi uscirono, Roberto Einaudi si dimise protestando (Valerio Zanone era nel frattempo morto, non senza esprimere pochi giorni prima la sua contrarietà).
I nuovi dirigenti, malgrado l’immissione di quadri giovani che apportarono inizialmente un interessante contributo di idee (senza peraltro risolvere i problemi di fondo della Fondazione), tentarono un rilancio che non andò lontano in assenza di una patrimonializzazione (o anche soltanto di adeguati finanziamenti). Il rifiuto di Giuseppe Benedetto di mettere a disposizione la presidenza per consentire su nuove basi il rilancio della Fondazione con il sostegno di una cordata di imprenditori e professionisti milanesi ha provocato uno scontro interno tra gli “occupanti” provenienti dalla Fondazione Piccolo (Benedetto, Giacalone, Pruiti Ciarello) e i fautori della “svolta” (tra i quali lo stesso Lupo, presidente onorario per norma statutaria); ne è conseguita un’epurazione dei dissenzienti (con modalità abbastanza sconcertanti) e l’abbandono di molti tra quanti avevano sperato di fare rivivere la Fondazione (tra gli altri Giovanni Orsina, che aveva accettato di presiedere il Comitato Scientifico, Lorenzo Castellani, che era stato nominato segretario generale, Piero Paganini, Enrico Morbelli, Saro Freni, Gianmarco Brenelli).
Una danza macabra sullo scheletro di un’istituzione che meritava di concludere i suoi giorni in maniera più dignitosa.

Mi sono chiesto il perché di tanto accanimento che certo non può essere attribuito a uno sviscerato amore per la Fondazione e la sua storia essendone il presidente Benedetto, il vice-presidente Giacalone (di chiare origini lamalfiane), l’avvocato Priuti Ciarello, rimasti in passato sempre estranei; la sola risposta che ho trovato è che gli attuali occupanti intendano trasformare la Fondazione in un soggetto partitico, perno di improbabili avventure elettorali. A confermare le mie supposizioni è giunta puntualmente la costituzione di un mini-partito, LiberItalia, – appoggiato formalmente dalla Fondazione – che si propone di affrontare la competizione elettorale.
Cui prodest?

Franco Chiarenza
20 ottobre 2017

P.S. Cinquant’anni di storia non si possono ridurre in poche pagine. Chiedo scusa quindi per le tante omissioni – specialmente per quanto riguarda le iniziative della Fondazione – che in questo scritto sono state inevitabili. Esse peraltro, insieme a inesattezze che molti dei protagonisti potranno contestarmi, non tolgono valore all’insieme del quadro che ho voluto tracciare per dare, soprattutto a chi non ha vissuto la nostra esperienza, il senso complessivo di ciò che ha rappresentato nel contesto delle culture politiche del dopoguerra la Fondazione Luigi Einaudi di Roma. E perché, nell’impossibilità di mantenerne il livello qualitativo, sia preferibile sancirne la definitiva cessazione. Parce sepulto.