Non si era visto mai, almeno negli ultimi tempi, un governo così conflittuale al suo interno. Lega e Cinque Stelle in realtà condividono poche cose ma sono obbligati a stare insieme come fratelli siamesi perché a nessuno dei due conviene rompere la coalizione. Di conseguenza assistiamo su ogni questione a un “avant’indrè” che sarebbe anche divertente se non si traducesse in un continuo logoramento dell’immagine del nostro Paese, già molto compromessa. L’effetto annuncio fa premio su ogni altra considerazione, l’occhio è fisso ai vari barometri che segnalano l’aumento o la perdita di qualche punto di consenso (ivi compresi i “social” che dovrebbero indicare la temperatura delle rispettive basi militanti). Una fibrillazione in parte spiegabile con l’imminenza delle elezioni europee, ma anche probabilmente con l’incertezza per il futuro del governo il quale, partito con l’intento condivisibile di superare la crisi con una manovra espansiva in grado di rilanciare la produzione e l’occupazione, ha finito per arroccarsi su misure assistenziali costose e di difficile realizzazione.

Cinque Stelle
Il movimento guidato da Di Maio punta tutte le sue carte sul cosiddetto “reddito di cittadinanza”, molto atteso – soprattutto al sud – ma che incontra, al di là dei costi, due ostacoli difficilmente superabili nei tempi brevi richiesti dall’emergenza politica prodotta dal calo dei consensi: l’identificazione di una piattaforma dei “bisognosi” realmente corrispondente a condizioni di povertà, e la creazione di centri per l’impiego efficienti in grado di utilizzare le nuove tecnologie per incrociare con esiti positivi la domanda e l’offerta di lavoro (a cui si aggiunge, secondo la proposta, il compito di guidare quei processi di formazione professionale che fino ad oggi hanno contribuito alla crisi occupazionale). Due condizioni essenziali, in assenza delle quali si rischia di favorire e incrementare l’economia sommersa già tanto consistente (soprattutto al sud). L’altro “cavallo di battaglia” dei Cinque Stelle – il blocco delle grandi opere infrastrutturali, considerate inutili e fonte primaria di corruzione – sta incontrando crescenti difficoltà vuoi per gli impegni già assunti dai governi precedenti ma anche per il manifestarsi di un’opinione pubblica ostile alla visione “recessiva” della filosofia grillina. Restano le solite “pensioni d’oro” da falcidiare ma è ormai chiaro a tutti che si tratta soprattutto di un’operazione di immagine (di dubbia costituzionalità) che apporta un contributo trascurabile al reperimento delle risorse necessarie.

Lega
Matteo Salvini gode oggi di un consenso quasi doppio rispetto ai voti conseguiti alle elezioni del 4 marzo, ma ciò non significa che la situazione in cui si trova sia facile e possa comunque indurlo a “passare all’incasso” con elezioni anticipate, come un po’ frettolosamente si era detto. In realtà anche in un nuovo parlamento che riflettesse le percentuali oggi indicate dai sondaggi la Lega si troverebbe obbligata all’unica alleanza possibile – quella con i Cinque Stelle – stante l’impossibilità per Berlusconi di raggiungere il numero di seggi che sarebbe necessario per costituire una maggioranza alternativa. Salvini quindi non ha alcun interesse a rompere l’alleanza – anche personale – con Di Maio, non soltanto per le ragioni dette ma pure perché se l’attuale leader dei Cinque Stelle venisse sostituito aumenterebbero le incognite sulla tenuta di una maggioranza già tanto eterogenea. Il problema della Lega peraltro è soprattutto un altro: archiviata la questione degli immigrati, altre sono le preoccupazioni che si fanno sentire nel suo elettorato. Le manifestazioni spontanee contro il blocco delle grandi opere, la richiesta di aumentare le risorse per il rilancio delle attività produttive (a svantaggio ovviamente di quelle pretese dai Cinque Stelle per le sue misure assistenziali) portata avanti da tutto il mondo imprenditoriale senza eccezioni (grande e piccola industria, artigianato, commercio), suonano all’orecchio di Salvini come altrettanti campanelli d’allarme. Se, come qualcuno ipotizza, questo malcontento prendesse la forma di un nuovo partito (che non faccia riferimento né a Renzi né a Berlusconi) una parte dei consensi acquisiti nel semestre di governo potrebbe scivolare via.

Istantanea
Per queste ragioni, se si dovesse fotografare la situazione di oggi, credo che i due protagonisti della scena politica siano condannati a stare insieme e che quindi l’attività di governo proseguirà non soltanto a vista ma anche a sbalzi, dovendo entrambi rassicurare i rispettivi elettorati su questioni che li vedono divisi. E’ difficile capire per quanto tempo ciò potrà durare e se l’asse di mediazione che Conte, Tria e Mattarella hanno di fatto costituito riuscirà a reggere. Molto dipenderà non tanto dalle elezioni europee ma da quanto avverrà fuori dall’area di governo: se e come nascerà una forza centrista di orientamento liberale, e l’assetto definitivo che uscirà dalle convulsioni che hanno attraversato il partito democratico.
In politica come nella vita le istantanee fissano un momento di passaggio.

 

Franco Chiarenza
16 dicembre 2018

E’ fastidioso per chi concepisce la politica come confronto di idee e di proposte di governo doversi calare in vicende personali e generazionali che nulla dovrebbero avere a che fare con le valutazioni politiche. Però nella vicenda Di Maio va fatta chiarezza, anche per le presunte analogie con quella della Boschi che ha influito non poco sul discredito che ha travolto Renzi.

Se l’uso di prestazioni in nero (o addirittura sottopagate) secondo una prassi purtroppo assai diffusa nelle piccole imprese meridionali riguarda soltanto il padre di Luigi Di Maio, nulla quaestio, si tratta di uno spiacevole incidente familiare che non tocca la credibilità morale del leader dei Cinque Stelle, e quindi la sua legittimità politica. Ma se invece si dimostra che il giovane Luigi era a conoscenza e connivente delle pratiche paterne, il discorso cambia. Tanto più che il movimento Cinque Stelle ha fondato sull’onestà personale della classe politica tutta la sua strategia comunicativa coi risultati elettorali che conosciamo. E non c’è altro d’ aggiungere.

La questione Boschi a suo tempo fu diversa e somiglia a quella di Di Maio soltanto perché in entrambe emerge il problema di quanto e come le responsabilità dei padri possano coinvolgere i figli in politica (ma non soltanto). Elena Boschi fu a suo tempo accusata di avere avuto contatti finalizzati al salvataggio della banca di cui il padre era uno degli amministratori mentre ricopriva una carica di governo (oltretutto di un certo rilievo, anche per il rapporto privilegiato che notoriamente la legava al presidente del consiglio). Si tratta dunque di vicende diverse e francamente non confrontabili.

Sarebbe però il caso di non proseguire su questa strada. Capisco la soddisfazione dei renziani nel vedere i pentastellati in difficoltà proprio sul terreno di scontro che loro avevano imposto (quello della credibilità morale) ma se domani l’azione politica di Di Maio sarà giudicata negativamente non sarà certo per le colpe di suo padre. Così come alla Boschi si rimproverano (secondo me giustamente) altre cose che non i goffi tentativi di salvare il padre; per esempio come ha condotto la riforma costituzionale che ha travolto con Renzi l’intero partito democratico, e la sua candidatura in Alto Adige che richiamava prassi politiche di arroganza partitocratica giustamente rimproverate alla prima repubblica.

 

Franco Chiarenza
30 novembre 2018

Nella difficile partita che il governo italiano sta giocando a Bruxelles stanno venendo a galla alcuni nodi che, in modo un po’ superficiale, si riteneva di potere eludere: il primo di essi è che il tentativo di isolare la Commissione nel suo rigorismo formale delegittimandola in una dimensione meramente burocratica si è risolto nel suo contrario. Isolata è rimasta l’Italia nei confronti di tutti i partner europei i quali spingendo verso misure punitive severe (come si configura la procedura d’infrazione) hanno restituito alla Commissione Juncker un ruolo di mediazione a cui il governo Conte ha dovuto precipitosamente aggrapparsi. Mediazione peraltro che ha limiti molto stretti per la ferma intenzione degli altri paesi di non creare precedenti che potrebbero ripetersi generando seri problemi alla tenuta dell’Unione (e soprattutto dell’Eurozona). Il secondo nodo da sciogliere è la credibilità dei mercati che, contrariamente a quel che pensano i “dioscuri” del governo, non sono governati da oscuri complotti tramite “bottoncini” che si spingono in una o altra direzione; sono invece misuratori della domanda e dell’offerta che, in campo finanziario, si riflettono sulla maggiore o minore fiducia dei titoli di credito. Se lo spread, già molto elevato, non è ulteriormente salito (con gravi conseguenze sul sistema creditizio e quindi sulla produzione) è soltanto perché i mercati (come tutti noi) non hanno ancora capito come uscirà nella sua versione definitiva la manovra di bilancio.

Le regole
Le regole si possono cambiare ma non si devono violare. E’ questo il punto fondamentale di qualsiasi accordo perché altrimenti ne va di mezzo la credibilità di tutti i contraenti. Quando Di Maio e Salvini evocano violazioni compiute in passato da Francia e Germania dimenticano di aggiungere che anche in quei casi furono avviate procedure di infrazione, poi rientrate in base ad accordi che furono facilitati dal fatto che si trattava di paesi con un debito pubblico molto minore del nostro e tassi di crescita superiori.
Ciò infatti che ci viene contestato non è tanto l’eccesso della spesa in deficit ma la destinazione delle risorse aggiuntive che, nella previsione della Commissione ma anche della maggior parte degli economisti di casa nostra, non sono in grado di creare crescita e occupazione, essendo considerate spese assistenziali con una scarsa ricaduta sui problemi strutturali che sempre più impediscono al nostro sistema produttivo di esprimere tutte le sue potenzialità.
Che poi le regole di Maastricht non siano più compatibili con una situazione che vede l’Europa arretrare a fronte della crescita degli altri grandi colossi mondiali (a cominciare da Stati Uniti e Cina) sarà sicuramente al primo punto dell’ordine del giorno della nuova Commissione che scaturirà dalle elezioni europee di maggio. Ma si tratta di una questione dove l’Italia potrà svolgere un ruolo attivo soltanto se mantiene il prestigio di socio fondatore del club che non ne mette in discussione unilateralmente le regole; e se in questa nuova partita Salvini pensa di coalizzare le spinte “sovraniste” fino a diventare condizionanti per una futura maggioranza nel parlamento europeo, ritengo che si faccia delle illusioni. I partiti “sovranisti” arriveranno probabilmente ad aumentare considerevolmente la loro presenza ma si presenteranno per ovvie ragioni divisi e confliggenti, senza una chiara strategia comune; in grado di distruggere ciò che si è costruito, non di proporre qualcosa di nuovo e diverso. Come dimostrano i risultati elettorali in Germania e in Scandinavia i movimenti emergenti che davvero condizioneranno le possibili maggioranze in Europa saranno i Verdi nella loro nuova veste profondamente europeista, nei cui confronti i Cinque Stelle non faticheranno a rintracciare evidenti “affinità elettive”.

Mercati globali
La partita che l’Europa dovrà giocare nel prossimo decennio si svolgerà al tavolo delle potenze globali: sarà soprattutto con Stati Uniti e Cina che ci si dovrà confrontare. Altri paesi di media importanza come alcuni europei (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Giappone, ma anche India, Indonesia, Canadà) dovranno integrarsi in sistemi multinazionali che in qualche modo consentano di esercitare un potere contrattuale adeguato. Il sistema multilaterale (inventato dagli americani ma oggi in via di demolizione con l’amministrazione Trump) garantiva almeno in parte il rispetto di alcune regole comuni e consentiva agli Stati Uniti di mantenere una sostanziale egemonia pagando qualche prezzo in termini di sbilanciamento commerciale. I paesi europei traevano innegabili vantaggi da questo sistema e potevano permettersi persino di restare disuniti e concorrenziali nelle politiche commerciali. Ma Trump ha rotto il giocattolo e temo che sarà difficile ripararlo.
In tale prospettiva l’unità europea non è più soltanto un’opportunità è ormai una necessità; neanche la Germania potrà essere da sola, con tutto il suo peso, un interlocutore paragonabile a coloro che dispongono di punti forza difficilmente raggiungibili (dimensioni del mercato interno attuale e potenziale, aggiornamento tecnologico, potenza militare da impiegare nelle situazioni di crisi, ecc.).
Il “sovranismo” politico ed economico è in realtà la strada più breve per raggiungere una situazione di subordinazione irreversibile; resteremo alla mercé di chi è disposto a pagare i nostri prodotti più cari, saremo esclusi dalla scrittura delle regole del gioco, correremo da Mosca a Pechino a chiedere aiuto (senza dimenticare una visita alla Casa Bianca). Il sovranismo ha già mostrato i suoi effetti in campo energetico: siamo il Paese che ha i costi più elevati, i “buoni rapporti” tra Putin e Berlusconi ci hanno regalato un contratto di fornitura di gas che ci costringe ad acquistarlo a un prezzo superiore a quello di mercato e che i russi non intendono modificare. Salvini sembra avviarsi sulla stessa strada. Ma quando l’Europa si muove – naturalmente nelle materie di sua competenza – ha ben altro peso: l’abbiamo visto nelle trattative nello scontro con le multinazionali del commercio e della comunicazione che finalmente cominciano a pagare le tasse, e in molte altre occasioni. Una delle ragioni per cui Putin vuole impadronirsi dell’Ucraina è per contestare la sua volontà di entrare a far parte dell’Unione Europea; perché, difettosa com’è, essa rappresenta comunque una garanzia di libertà politica ed economica nei confronti di chi a questi principi certamente non si ispira. Ogni riferimento a Vladimir Putin è puramente casuale.

 

Franco Chiarenza
30 novembre 2018

Con la vittoria di Macron in Francia gli europeisti di ogni tendenza avevano pensato che un rilancio del processo unitario europeo fosse diventato possibile e forse imminente. Ma non è stato così: al contrario le elezioni tedesche hanno indebolito Angela Merkel, il governo spagnolo è sempre a rischio di sopravvivenza, il gruppo di Visegrad (e soprattutto l’Ungheria) continua a differenziarsi dalla tradizione liberal-democratica dell’Europa occidentale, e infine anche l’Italia con il nuovo governo si sta collocando decisamente su un orizzonte “sovranista” certamente non favorevole all’integrazione europea. Le imminenti elezioni per il parlamento di Strasburgo si presentano di esito incerto e tutto contribuisce ad isolare il presidente francese nel suo progetto di rilancio, se mai ci sia stato.

La burocrazia di Bruxelles
Ma chi pensa che l’Unione sia ormai irrimediabilmente destinata a dissolversi o che comunque dovrà ridursi a un club nazioni completamente sovrane che di volta in volta potranno stipulare accordi a geometria variabile, non conosce la realtà che in questi anni è venuta consolidandosi intorno alle istituzioni comunitarie. Il corpo massiccio dell’Unione, tenuto insieme da una burocrazia che si è consolidata in decenni di potere regolamentare, è divenuto troppo ingombrante per essere facilmente eliminato senza creare più danni di quelli che gli vengono contestati. Non soltanto la moneta comune ha sottratto agli stati nazionali il potere essenziale della politica dei cambi e la vigilanza sugli istituti di credito, il trattato di Schengen ha aperto le frontiere, le borse Erasmus hanno consentito a centinaia di migliaia di studenti di mescolarsi tra loro, ma non c’è aspetto della vita civile in Europa che non sia condizionata dai trattati; la minuzia di certe regolamentazioni possono legittimamente infastidire, ma tutto il sistema produttivo europeo si è ormai conformato alle direttive della Commissione, il sistema giudiziario è reso sempre più omogeneo dalle pronunce della corte del Lussemburgo, non vi è settore che non sia coinvolto in una rete di accordi anche parziali ma comunque indicativi per tutti.
Piaccia o no in assenza di una spinta politica i burocrati hanno steso una rete che adesso è assai difficile da smontare; soprattutto per questo l’Europa è in mezzo al guado, conta a livello delle trattative dove si presenta con un’unica voce (quella della Commissione), viene ignorata quando le nuove grandi potenze stabiliscono i nuovi equilibri internazionali (il che vale anche per paesi che vantano un passato glorioso come Francia, Gran Bretagna e la stessa Germania). I dossier che contano a livello mondiale sono preparati a Bruxelles e a Francoforte.
E cresciuto così un mostro. Una burocrazia tanto più onnipotente in quanto priva di un reale controllo politico. Esattamente come è successo con la creazione dell’euro. Ma (tanto per imitare la formula che usano i Cinque Stelle quando si apprestano a fare marcia indietro) un’analisi dei costi e benefici non consente altra soluzione di quella proposta da Macron: andare avanti, cominciando a farlo con chi ci sta. Purtroppo però al momento attuale non ci sta nessuno.

Le elezioni europee
Per queste ragioni le prossime elezioni europee rappresenteranno una sorta di referendum: non pro o contro l’Europa, perché sarà troppo facile per tutti – anche per Orban e Salvini – dire che sono a favore di una “diversa” Europa, ma per una maggiore integrazione politica laddove ancora le sovranità nazionali hanno mantenuto i loro poteri esclusivi, per esempio in materia di politica estera, difesa e bilancio. Ma per rendere chiaro l’obiettivo all’opinione pubblica occorre anche uscire dal generico: proporre per esempio che la futura assemblea abbia funzioni costituenti e sia in grado di disegnare le linee guida su cui l’Unione politica dovrà costruirsi. A Macron non basterà contrapporre “sovranisti” a “europeisti”; dovrà dire qualcosa di più se vorrà davvero mettersi alla testa dei sentimenti europei, anche a costo di perdere qualche voto in Francia.

 

Franco Chiarenza
20 novembre 2018

E’ morto il 14 novembre a 90 anni Luigi Vittorio Ferraris. Era per noi della vecchia Fondazione Einaudi di largo dei fiorentini l’”ambasciatore” per eccellenza. Quando si discuteva di politica estera la sua presenza era d’obbligo. Valerio Zanone lo apprezzava molto. Non si può dire che fosse affabile, i suoi modi erano bruschi, non tollerava l’incompetenza di chi si metteva in cattedra senza conoscere le cose di cui si parlava. La sua competenza era invece fuori discussione, anche per un’esperienza sul campo eccezionale, le sue pubblicazioni (che spesso presentavamo anche in Fondazione) sempre stimolanti.
Con lui scompare un diplomatico della vecchia scuola, un servitore dello Stato consapevole di quanto la sua funzione, al di là dei compiti di rappresentanza, sia necessaria per consigliare e indirizzare le scelte di governo. Non sempre con successo, ma sempre comunque in una visione degli interessi del Paese che coincidevano con quelli di una democrazia liberale che fosse in grado di affrontare le sfide del XXI secolo.
Nelle sue numerose missioni (in particolare in Germania) ha contribuito a creare le premesse di quella complessa costruzione che è diventata poi l’Unione Europea. Forse se ne è andato in tempo per non vedere quanti tentativi si stiano facendo oggi per demolire ciò che con tanta fatica è stato edificato e che resta il più importante progetto di politica internazionale realizzato nell’ultimo secolo. Un progetto attuato solo in parte, ancora incompleto, ma che comunque ha garantito la pace dopo secoli di guerre che sempre in Europa avevano trovato la loro origine.

 

Franco Chiarenza
18 novembre 2018

Mentre il partito democratico continua con irritante lentezza il suo dibattito volto a definire non soltanto gli assetti di potere interni ma anche la piattaforma programmatica su cui dovrà caratterizzare la sua proposta alternativa, qualcosa si muove: comincia ad emergere un dissenso spontaneo nei confronti delle politiche della maggioranza, indirizzato soprattutto contro il movimento Cinque Stelle. L’accoglienza riservata dagli imprenditori lombardi alla relazione del presidente Bonomi, assai critica nei confronti del governo ma soprattutto contro il movimento di Di Maio, la manifestazione pro-TAV di Torino, il voto di alcuni senatori Cinque Stelle contro il condono dell’edilizia abusiva di Ischia, rappresentano segnali di disagio che non vanno sopravalutati (anche alla luce dei sondaggi che indicano il mantenimento di un forte consenso al governo) ma che meritano di essere analizzati con attenzione.

Cinque Stelle
Mentre infatti la Lega prosegue nel suo percorso politico di ricompattare una destra conservatrice, moderatamente protezionista, radicata soprattutto nel Lombardo-Veneto ma con significative presenze in altre regioni, con una leadership forte pronta a cavalcare spregiudicatamente tutte le pulsioni emotive tipiche dell’irrazionalismo sempre presente nella piccola borghesia italiana, restando però sostanzialmente inserita in un contesto istituzionale tradizionale (non bisogna dimenticare che la Lega ha governato con Berlusconi per molti anni), il movimento Cinque Stelle si trova in difficoltà a mantenere la sua immagine di strumento di raccolta dell’indignazione morale contro la corruzione e l’illegalità dopo l’imbarazzante inserimento nel decreto per Genova di un condono edilizio sulle abitazioni abusive di Ischia, pervicacemente voluto da Di Maio (con Berlusconi complice che rideva sotto i baffi).
Ma le difficoltà del movimento di Grillo non si fermano ad Ischia. Presentandosi alla ribalta come portatore di una politica sociale finalizzata a contrastare le crescenti diseguaglianze, esso, mettendo insieme istanze che, per quanto confuse, vanno considerate – stando ai tradizionali canoni interpretativi – più di sinistra che di destra, assumeva su di sé la parte più ingrata del programma di governo per i costi che implica e per i tempi che richiede (il che vale sia per il cosiddetto reddito di cittadinanza che per le pensioni sociali). Di Maio si trova così intrappolato tra l’esigenza di far fronte alla fin troppo facile (e gratuita) popolarità di Salvini e l’anima originaria del suo movimento che spinge a soluzioni rapide e costose le quali, comportando necessariamente uno scontro frontale con l’Unione Europea, portano altra acqua al mulino della Lega.
Non possiamo ancora sapere in quale misura queste evidenti contraddizioni incideranno sul consenso (già decrescente) che ha spinto i Cinque Stelle al potere. Lo vedremo nei prossimi mesi quando le sue diverse anime cominceranno a confrontarsi, tenendo conto che la composizione della sua base militante (piattaforma Rousseau) e quella del suo improvvisato elettorato (soprattutto meridionale) sono molto differenti. La base del movimento di Grillo infatti ha raccolto sotto le sue insegne spinte diverse e non sempre coerenti tra loro: innanzi tutto quella ambientalista favorevole al cosiddetto “sviluppo sostenibile”, da cui deriva in gran parte l’ostilità nei confronti delle “grandi opere”, ma accanto ad essa una cultura politica più estremistica derivata dalle tesi di Serge Latouche (la ben nota “decrescita felice”), pericolosa non per le previsioni decadentiste a cui si ispira ma per le derive autoritarie e anti-liberali che potrebbe comportare. Ci sono poi una componente etica massimalista che di fatto immagina una funzione etica dello Stato da cui derivano le derive dirigiste della compagine di Di Maio, e infine una frangia sostanzialmente socialista, con evidenti simpatie per il populismo alla Che Guevara (per esempio Di Battista), avversa alla globalizzazione e al neo-capitalismo, la quale raccoglie consensi tra i reduci del sessantottismo e giovani romanticamente egualitari. Una base militante quindi variegata e con diverse priorità difficile da tenere compatta a fronte di scelte di governo imposte dalla realtà. Ma l’elettorato è in grande maggioranza cosa diversa e credo che Grillo, Casaleggio e lo stesso Di Maio ne siano consapevoli (lo prova appunto lo stesso “caso Ischia”).
Molti di coloro che hanno votato il 4 marzo per il movimento di Grillo non lo hanno fatto per condivisione ideologica e men che meno per avversione alla modernità. Le ragioni sono state altre: innanzi tutto una generica insofferenza per chi governa – chiunque sia – che ha sempre colpito anche in passato uomini e partiti quando hanno dovuto compiere scelte inevitabilmente divisive che provocano delusione e rancori. Ma questa volta la protesta è stata alimentata anche dai comportamenti inaccettabili di una vecchia classe dirigente arroccata nei suoi privilegi, tanto più ingiustificabili in un momento in cui le disuguaglianze sociali approfondivano il solco tra i diversi ceti sociali e tra sud e nord; non si ha idea di quanti abbiano votato per rabbia, per punire l’arroganza del potere che si accompagnava all’evidente incapacità di farsi carico di un disagio sociale sempre più avvertibile. In questo contesto la proposta dei Cinque Stelle di un salario di cittadinanza – di per sé tutt’altro che scandaloso e già avviato dal governo Gentiloni – è stata letta in maniera distorta coltivando illusioni di un assistenzialismo generalizzato che ha fatto la differenza.
Adesso però ci si comincia a rendere conto che dietro lo schermo accattivante dei “vaffa” di Grillo si cela ben altro: una visione di governo pericolosa che, nell’intento frettoloso di mostrarsi “diversi”, sta rischiando di buttare insieme all’acqua sporca anche il bambino che andava lavato. Le esperienze di governo del movimento, locali e nazionali, sono state gestite, almeno fino ad oggi, con incompetenza, superficialità, dilettantismo (sbandierati come valori positivi rispetto al professionismo della cosiddetta “casta”) creando gravi difficoltà al sistema produttivo del Paese che, piuttosto che di sussidi, vive di credibilità e di stabilità del quadro politico.

Crisi imminente?
In un paese normale una situazione siffatta, con un governo presieduto da un arbitro privo di prestigio continuamente impegnato a mediare i conflitti tra i due veri protagonisti della partita, non potrebbe durare a lungo. Ma forse non sarà così. Salvini pensa probabilmente di mantenere e aumentare il consenso elettorale con una campagna anti-europea e non ha interesse ad anticipare il voto almeno fino alle elezioni europee; Di Maio, dal canto suo, se provocasse una crisi andrebbe incontro a una sconfitta politica sancita da un rovesciamento dei rapporti di forza con la Lega, rischiando oltre tutto personalmente di scomparire dalla scena in base alle assurde regole del suo partito che, imponendo un rapido turn over, comporterebbero in caso di nuove elezioni la sua sostituzione al vertice. E’ ragionevole quindi ritenere che, almeno in base a un calcolo politico (al netto delle variabili imprevedibili), il governo possa durare fino a giugno dell’anno prossimo. Con quanti danni per il Paese non si sa. Ma, dicono i miei amici pentastellati, peggio di prima non è possibile. Invece è possibile.

 

Franco Chiarenza
15 novembre 2018

Che le risorse disponibili non fossero sufficienti a coprire tutte le promesse elettorali della Lega e dei Cinque Stelle era evidente già prima delle elezioni del 4 marzo. Che un’ulteriore espansione del debito pubblico fosse impossibile senza creare difficoltà nei rapporti con l’Unione Europea era altrettanto chiaro. Che gli impegni internazionali assunti dai governi precedenti andassero onorati per ragioni di credibilità sui mercati e per il rischio di penali molto sostanziose era ovvio.
La domanda è: se tutto ciò era prevedibile perché Di Maio e Salvini anziché predisporre un programma di governo che, senza venir meno agli impegni presi, li scadenzasse in tempi ragionevoli, hanno preferito mettere tutto sul piatto del bilancio 2019 andando incontro a infortuni e contorsioni ancora in corso?

Governo fragile
Se l’alleanza tra Lega e Cinque Stelle fosse davvero fondata su un patto di legislatura – come si vuol fare credere – il governo sarebbe forte e non avrebbe avuto difficoltà a scadenzare nel tempo la realizzazione di promesse tanto impegnative. Il reddito di cittadinanza – per esempio – non può essere seriamente introdotto senza una riforma dei centri di collocamento che, nel migliore dei casi, richiederà un anno; si sarebbero così risparmiati almeno cinque miliardi nel budget 2019.
L’unica spiegazione possibile è che l’intesa di maggioranza non è affatto solida e ciò spiega perché entrambi i protagonisti avendo l’occhio puntato soprattutto alle prossime elezioni abbiano bisogno di successi di facciata da potere esibire in una campagna elettorale che da europea potrebbe diventare anche nazionale.
Il più preoccupato è naturalmente Di Maio per diverse ragioni. Innanzi tutto per i malumori che emergono sempre più frequentemente nella base militante del suo movimento, in secondo luogo per il lento ma inesorabile scivolamento del primato all’interno dell’alleanza verso Salvini su cui concordano tutti i sondaggi di opinione, infine perché le riforme più care ai Cinque Stelle, come il reddito di cittadinanza, sono anche le più costose e problematiche in termini di risultati immediati. Salvini ha già incassato il suo dividendo, in parte per il progressivo ridimensionamento di Forza Italia, ma soprattutto perché i provvedimenti che hanno consolidato la sua popolarità sono sostanzialmente a costo zero: misure anti-immigrati, revisione del codice penale in materia di autodifesa, ecc.
Per rimediare i Cinque Stelle hanno precipitosamente inserito (con un emendamento!!!) nella legge anti-corruzione la cessazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, una misura richiesta dalla loro base per contrastare lo scandalo delle frequenti utilizzazioni che ne sono state fatte per garantire l’impunità (spesso proprio nei reati di corruzione); ma la fretta di rilanciare la propria immagine può generare risultati controproducenti. A una giusta esigenza, condivisa da gran parte dell’opinione pubblica anche al di fuori dell’attuale maggioranza, non si può rispondere con un provvedimento affrettato e maldestro che potrebbe incidere negativamente sullo stato di diritto eliminando la certezza dell’imputato di avere un giudizio definitivo in tempi certi. Occorre riformare tutta la struttura del processo e inquadrare la prescrizione in una serie di misure che giuristi e politici (anche di sinistra) propongono da tempo. Così un problema vero ha innescato una reazione che verte più sul metodo che sulla sostanza e su cui la Lega ha avuto gioco facile a farsi paladina dei diritti degli innocenti (fino al giudizio definitivo, come afferma la nostra Costituzione).
A questo punto del percorso la fragilità del governo appare evidente. Confermata anche dalla crescente consapevolezza che il progetto nazional-populista di Salvini è poco compatibile con le idee prevalenti nella base del movimento Cinque Stelle dove le prime incrinature cominciano a manifestarsi apertamente mentre Di Battista annuncia (o minaccia?) il suo prossimo rientro in Italia.

I vincoli inderogabili
Male ha fatto il movimento di Grillo a promettere cose che i vincoli internazionali dell’Italia non avrebbero mai consentito senza correre il rischio di un rovesciamento delle alleanze che il Paese ha pazientemente costruito negli ultimi settant’anni. Posto di fronte alla realtà delle cose Di Maio ha dovuto già fare i primi passi indietro e altri probabilmente ne seguiranno. Non si poteva chiudere Taranto senza declassare l’Italia – oggi tra i più importanti produttori d’acciaio – a potenza di serie B e creare una crisi occupazionale e sociale gravissima; non si poteva bloccare l’oleodotto TAP che risponde a un disegno strategico concordato con gli Stati Uniti per sottrarre l’Europa (e l’Italia) dalla dipendenza energetica russa; non si può fermare la TAV in Val di Susa perché rappresenta un anello fondamentale dell’asse ferroviario veloce est-ovest (dalla Spagna ai paesi dell’Est) concordato in sede europea che si affianca all’altro nord-sud (dalla Scandinavia alla Sicilia) di cui il traforo del Brennero costituisce un passaggio fondamentale; non si può bloccare il terzo valico appenninico senza mettere in crisi il porto di Genova isolandolo dai mercati del nord Europa. E altri esempi si potrebbero fare, dagli interessi dell’industria aeronautica nella costruzione dei nuovi aerei F35 a quelli dell’ENI e dell’ENEL impegnate in grandi progetti internazionali.
L’idiosincrasia per le cosiddette “grandi opere” che i Cinque Stelle hanno ereditato da una malintesa cultura ambientalista e da un moralismo demagogico basato sull’equazione indimostrabile per la quale i lavori pubblici di una certa importanza siano fonte certa di corruzione (per evitare la quale è meglio non fare le opere, invece di fare le opere eliminando la corruzione), mostra tutti i suoi limiti entrando, oltre tutto, in rotta di collisione con gli interessi e le convinzioni della Lega.
Intendiamoci: tutto si può fare e se davvero le intenzioni degli elettori che hanno votato i Cinque Stelle sono di retrocedere questo paese a livelli esistenziali più bassi in nome di una maggiore sostenibilità ambientale, si tratta di un progetto che da liberale non condivido per le derive che comporta verso la concezione di stato etico ma che ha piena legittimità nella dialettica democratica (almeno fin quando non mette in pericolo i principi fondamentali dello stato di diritto). Ma per realizzarlo occorre un governo coeso e talmente solido da imprimere un radicale cambiamento alla politica industriale del Paese, e ci vuole il tempo necessario. Dice la saggezza popolare che gatta frettolosa partorisce gattini ciechi.

Franco Chiarenza
9 novembre 2018

Di questa benedetta – o maledetta, secondo i punti di vista – manovra si scrive e si dice di tutto e di più; ho letto decine di articoli, ho ascoltato attentamente Paolo Savona che è economista di vaglia e che certamente ha influito sull’impostazione innovativa di questo bilancio, ho sentito i pro e i contro, cercando di evitare gli insulti, gli slogan, le falsità che hanno accompagnato il dibattito. Oltre tutto mancano ancora alcuni tasselli e in questi casi i dettagli hanno la loro importanza. Tutto ciò premesso, se a qualcuno interessa il mio spassionato parere, abbia pazienza perché non potrò rispettare i limiti di un twitter, che sembra ormai diventato il modo prevalente di comunicare col “popolo” perché a quel che pare – secondo i populisti che lo interpretano – non sarebbe in grado di sopportare un ragionamento che vada oltre le tre righe.

La manovra ha un aspetto politico, una prospettiva macro-economica e una dimensione micro-economica costituita dai singoli provvedimenti che la costituiscono.
Dal punto di vista politico essa esprime soprattutto l’esigenza dei Cinque Stelle di rispettare il mandato elettorale; lo sarebbe per qualunque partito ma lo è in particolare per il movimento di Grillo che è nato e si è sviluppato sulla critica a una classe dirigente considerata in blocco inaffidabile, opportunista e menzognera. Oltre tutto l’alleanza obbligata con la Lega lo ha messo in difficoltà sia perché il rozzo sciovinismo di Salvini non corrisponde alla cultura politica di una parte importante del movimento (per intenderci Fico, Di Battista e forse lo stesso Grillo) sia soprattutto perché ha consentito al leader della Lega di occupare la scena mediatica con provvedimenti anti-immigrati a costo zero con effetti immediati sul consenso elettorale, che infatti, stando ai sondaggi più recenti, è cresciuto fortemente per la Lega mentre registra una lenta ma costante flessione per i Cinque Stelle. Vero è che in realtà i flussi migratori erano già molto diminuiti prima che Salvini cominciasse a tuonare dal Viminale grazie alle misure adottate dal suo predecessore Minniti, ma tant’è gli umori e le paure non sono sempre compatibili con la realtà dei numeri.
Vi era dunque l’esigenza “politica” di Di Maio di rioccupare il palcoscenico, non essendo certo bastato il “decreto dignità”, bersagliato da critiche del mondo imprenditoriale ma soprattutto insufficiente ad “emozionare” i sentimenti popolari. Per questo il “reddito di cittadinanza”, punto qualificante della campagna elettorale dei Cinque Stelle, doveva a tutti i costi essere varato, costi quel che costi. E infatti su questo punto si è giocato il duro braccio di ferro con Salvini, fino a minacciare una crisi di governo. Per Salvini poteva essere una tentazione, ma alla fine ha prevalso nella Lega una tattica più prudente e sostanzialmente dilatoria (che molti attribuiscono alla crescente influenza di Giorgetti). Sta di fatto che Salvini ha fatto un passo indietro, ha ridimensionato la flat tax che tanto stava a cuore agli imprenditori, e ha puntato tutto sulla riforma della legge Fornero che i Cinque Stelle condividono e che consente un facile e immediato dividendo elettorale.
Da queste esigenze politiche la manovra non poteva prescindere, pena la perdita di credibilità di entrambi i partiti di governo, e questo spiega la rigidità dei Cinque Stelle e l’ostentazione nell’attribuirsene il merito (al brindisi dal balcone di palazzo Chigi non c’era nessuno della Lega).
Il problema è che per soddisfare queste esigenze politiche mancano le risorse necessarie, salvo finanziarle almeno in parte in deficit (che è infatti quel che si propone). Ma un ulteriore aumento del debito pubblico va in direzione opposta agli accordi presi dal precedente governo con l’Unione Europea e porta inevitabilmente a uno scontro frontale con la Commissione di Bruxelles e con la Banca Centrale Europea, la quale ultima, come si sapeva da tempo, ridurrà progressivamente gli acquisti di buoni del tesoro previsti dal quantitative easing. Uno scontro probabilmente gradito da Salvini che non nasconde i suoi sentimenti ostili verso qualsiasi processo di integrazione che limiti la sovranità degli stati nazionali, un po’ meno da Di Maio che deve fare i conti con una base meno convinta dell’opportunità di uscire dall’Europa. Probabilmente il leader dei Cinque Stelle conta sulla condizione di debolezza delle istituzioni comunitarie alla vigilia del rinnovo del parlamento di Strasburgo, ma commette un grave errore di prospettiva perché il nemico non è Juncker, ma l’ostilità crescente delle pubbliche opinioni del nord-Europa che imputano all’Italia l’incapacità di ridurre un debito pubblico che potrebbe danneggiare l’intera Europa. Il successore di Juncker alla presidenza della Commissione – chiunque sia – non sarà più “morbido” ma semmai il contrario. In sede europea i peggiori nemici dell’Italia sono proprio i “sovranisti” degli altri paesi, anche se Salvini finge di non accorgersene.

Per ciò che attiene gli aspetti macro-economici a cui questa manovra vorrebbe ispirarsi la fonte più credibile e più competente mi pare quella del professor Paolo Savona, un economista formato in Banca d’Italia le cui idee si possono discutere ma non liquidare semplicisticamente. Non a caso, dopo mesi di silenzio, il governo lo ha lanciato sui mass-media (televisione, giornali, social-network) per difendere la “filosofia” della manovra dagli attacchi che provenivano da tutte le parti.
La tesi di Savona, se ho capito bene, è relativamente semplice. La politica economica portata avanti dall’Unione Europea, su spinta della Germania, fa della stabilità monetaria e finanziaria il presupposto per ogni altra esigenza di sviluppo e di espansione, anche nei cicli depressivi che – secondo Savona – richiederebbero invece un sostegno attraverso l’espansione del debito pubblico. Savona non nega l’importanza della stabilità, sostiene però che vada accompagnata da una flessibilità sui parametri di Maastricht che l’Unione non ha praticato, almeno nei confronti dei paesi mediterranei che hanno economie più esposte alla volatilità dei mercati. Con la crisi mondiale partita dagli Stati Uniti nel 2008 l’Europa era entrata in una recessione dalla quale soltanto ora sta uscendo, ma ancora una volta la politica di stabilità imposta dalla Germania alle istituzioni comunitarie ha impedito l’adozione di misure di flessibilità che avrebbero consentito ai paesi mediterranei di crescere più rapidamente compensando almeno in parte gli squilibri esistenti all’interno dell’Unione. Eppure nel 2003, quando Francia e Germania in crisi lo chiesero, i “parametri” di Maastricht furono accantonati senza problemi, e quando si trattò di salvare il sistema bancario tedesco si consentì al governo di Berlino azioni di salvataggio che costarono centinaia di miliardi. C’erano buone ragioni soprattutto di carattere politico e sociale per farlo, perché non conveniva a nessuno che l’asse portante dell’Europa che collega Parigi con Berlino venisse meno; ma ci sono altrettante buone ragioni per venire incontro oggi all’Italia, anche perché non conviene né alla Francia né alla Germania che entri in una spirale negativa irreversibile un paese come l’Italia che – con rispetto parlando – non è la Grecia, trattandosi della terza economia continentale. D’altronde proprio la crisi greca insegna che essa avrebbe potuto risolversi presto e a costi inferiori se affrontata subito con maggiore flessibilità e senza intenti pedagogicamente punitivi. Savona quindi non soltanto nega la fama che si è creato col famoso “piano B” ma sostiene al contrario che l’Europa e la stessa moneta unica sono indispensabili; però la loro governance deve cambiare passo, come hanno fatto gli Stati Uniti durante la presidenza Obama con ottimi risultati. Il cosiddetto “piano B” – spiega Savona – altro non è che ciò che tutti fanno (magari in silenzio); prepararsi a gestire un’eventuale uscita dall’ Eurozona nel caso in cui la BCE (che, non dimentichiamo, avrà un nuovo presidente l’anno prossimo alla scadenza del mandato di Draghi) frenasse le politiche espansive accettando il veto della Germania alla creazione dei cosiddetti “eurobond”, titoli di credito garantiti dalla banca stessa e in grado di creare liquidità in maniera costante. L’Italia quindi deve avviare una politica espansiva facendo leva su un misurato aumento del debito pubblico e sull’utilizzo di risorse potenziali che potrebbero essere impiegate per investimenti e sviluppo (risparmio privato, patrimonio immobiliare, ecc.). La linea del rigore invece, producendo disagio e forti asimmetrie sociali, non è politicamente sostenibile.

Vediamo Infine gli aspetti micro-economici della manovra, cioè i suoi contenuti concreti. L’opposizione si è scatenata sullo sforamento del deficit portato al 2,4% del pil (contro lo 0,8 previsto e concordato con la Commissione europea in cambio di maggiore flessibilità) ma in realtà non è questo ciò che più preoccupa. Altre volte negli ultimi anni il deficit aveva raggiunto e superato questa percentuale senza grandi conseguenze. E nemmeno appaiono significativi alcuni tagli a spese sostanzialmente assistenziali (sostituite da altre diverse ma ugualmente assistenziali come i rimborsi ai risparmiatori danneggiati dal fallimento di alcune banche). Anche il reddito di cittadinanza non può scandalizzare in linea di principio il centro-sinistra perché si pone in continuità con il reddito di inclusione del governo Gentiloni e corrisponde – almeno nelle intenzioni – ad analoghe misure adottate in numerosi paesi europei. Un sostegno finalizzato ad ammortizzare gli inconvenienti delle grandi trasformazioni che incombono sulle future caratteristiche del mondo del lavoro è condivisibile; lo riconoscono tutti da destra a sinistra, e molti paesi del nord-Europa sono impegnati già da anni in politiche di ricollocazione delle risorse umane che rischiano di restare disoccupate a fronte della crescente automazione che investe i processi produttivi. Il problema dunque non riguarda l’opportunità di una misura che probabilmente anche il centro-sinistra, se avesse vinto le elezioni, avrebbe affrontato, riguarda invece le modalità di realizzazione e le compatibilità di bilancio.
Per quanto attiene le prime, premesso che per quanto riguarda la povertà nessuno contesta la necessità di venire incontro con interventi pubblici almeno alle situazioni più gravi, l’obiezione concerne il generico concetto di “povertà” dietro il quale spesso si nascondono situazioni che con essa non hanno nulla a che vedere (e che Di Maio, cresciuto a Pomigliano d’Arco, dovrebbe conoscere bene). In un paese come il nostro dove l’economia sommersa ha raggiunto (secondo calcoli che mi paiono ottimistici) il 19,5% del pil per un giro d’affari che supera i 320 miliardi di euro quanti sono i lavoratori che risultano totalmente o parzialmente disoccupati mentre in realtà lavorano in nero (secondo l’INPS oltre tre miliomi)? Riceveranno anch’essi il “reddito di cittadinanza? Naturalmente Di Maio dice di no e promette controlli e pene severe che francamente fanno pensare alle “grida“ di manzoniana memoria, considerata l’insufficienza cronica degli strumenti di controllo accompagnata spesso da una sostanziale omertà dell’opinione pubblica che rasenta la complicità.
Non è il solo punto di criticità. C’è il problema dei centri per l’impiego ai quali dovrebbe essere demandato il compito di incrociare la domanda e l’offerta di lavoro e la gestione degli indispensabili percorsi di formazione; chiunque conosca come funziona il collocamento (soprattutto nel centro-sud) e si immagina cosa potrebbero diventare gli obbligatori “lavori socialmente utili” in contesti economicamente e moralmente degradati (lo abbiamo già visto in Campania e in Sicilia) capisce che una misura temporanea finalizzata a proteggere i disoccupati dalla povertà si trasformerebbe fatalmente in una elargizione praticamente assistenziale e permanente. Abbiamo già sperimentato come identici strumenti legislativi, formativi, burocratici, abbiano diversamente funzionato nelle differenti parti d’Italia. Il nostro è il paese dei furbi che non esitano a compiere falsi in atto pubblico anche soltanto per parcheggiare l’auto negli spazi riservati agli invalidi. Vien da ridere a pensare a quello che potrebbe accadere e alla facilità di scambiare prestazioni alimentari con contanti da utilizzare diversamente; vien da piangere al vedere questa concezione da stato di polizia incompatibile con la libertà di scelta dei consumatori che porta inevitabilmente alla crescita di un’economia parallela sommersa.
Per quanto poi riguarda l’obbligo di accettare almeno una proposta di lavoro (su tre) sorge un dubbio: ci sono davvero disponibili sul mercato tante offerte di lavoro? E se sì come mai abbiamo un tasso di disoccupazione così elevato? Il rischio è che l’offerta di lavoro davvero praticabile dall’incrocio dei dati sia in realtà molto limitata. Non vorrei che gli unici posti di lavoro in più prodotti dal reddito di cittadinanza siano quelli che serviranno per potenziare i nuovi centri per l’impiego!
Per ciò che concerne la convinzione (peraltro assai diffusa, ci credette anche Renzi) che l’espansione della spesa, generando maggiori consumi, faccia aumentare la domanda interna di beni e servizi determinando in maniera quasi automatica effetti positivi sulla produzione e conseguentemente sull’occupazione, si tratta di una rozza rivisitazione della teoria di Keynes chiamata deficit spending. Per la verità la maggioranza degli economisti (c’è sempre però qualcuno che la pensa diversamente) ritiene che oggi nelle condizioni date (assai diverse da quelle ipotizzate da Keynes) una immissione di liquidità nella disposizione delle persone fisiche non possa produrre gli effetti che i Cinque Stelle immaginano, e comunque non nei tempi e nella misura che si vorrebbe; in realtà maggiori disponibilità di soldi produce comportamenti molto differenziati che dipendono dalle condizioni “reali” di chi li riceve che, essendo diversissime tra loro, finiscono per disperdersi in mille rivoli. Per avere risultati positivi occorrerebbe invece concentrare le poche risorse disponibili su quei comparti produttivi in grado di generare occupazione, agendo quindi prevalentemente sulla leva fiscale. Si ricade altrimenti in una logica vecchissima (altro che cambiamento!) praticata dopo gli anni ’70 quando l’espansione della spesa in deficit ha prodotto un debito pubblico che, malgrado i tentativi di contenimento, ha superato oggi i 2.300 miliardi di euro. Un debito che solo parzialmente è servito a dotare il Paese delle necessarie infrastrutture (sanità, scuole, porti, aeroporti, strade, servizi collettivi, ecc.) essendo stato per la maggior parte utilizzato per elargizioni sostanzialmente assistenziali e improduttive (pensioni baby, false invalidità, malasanità, corruzione, ecc.). Un debito pubblico che ci siamo portati appresso per anni senza mai proporci seriamente di ridurlo anche perché la congiuntura finanziaria internazionale (e la politica dei grandi regolatori monetari, Federal Reserve negli Stati Uniti e BCE in Europa) manteneva molto bassi gli interessi. Adesso che la fase di contenimento si sta esaurendo e ci si avvia a un periodo di relativa espansione inflazionistica (con conseguente aumento degli interessi) per i paesi indebitati come il nostro saranno dolori.

Il secondo pilastro della manovra è costituito dal cosiddetto superamento della legge Fornero (alla quale invece – al netto di alcuni errori gravi ma marginali – quasi tutti gli economisti riconoscono il merito di avere tamponato l’emorragia incontenibile della spesa pubblica consentendo all’Italia di riacquistare credibilità in Europa e sui mercati), cioè la possibilità di anticipare l’età pensionistica. Purtroppo è stato fatto credere prima delle elezioni che gli oneri derivanti dalla soppressione della legge Fornero sarebbero stati tranquillamente coperti dai tagli ai vitalizi parlamentari e alle cosiddette “pensioni d’oro”. A prescindere da ogni considerazione di carattere giuridico (è davvero possibile modificare con un tratto di penna diritti acquisiti? E quali conseguenze potrà produrre tale prassi nella credibilità del nostro stato di diritto?) gli effetti economici della redistribuzione sono assai modesti: non più di qualche centinaio di milioni a fronte dei molti miliardi necessari. La Lega afferma, un po’ semplicisticamente, che mandando subito in pensione quattrocentomila persone si creano altrettanti posti di lavoro che, a loro volta, generano reddito e contributi previdenziali per rimpinguare i bilanci dell’INPS. In realtà ciò è molto improbabile: il settore privato tenderà a non sostituire quelli che vanno in pensione per ottimizzare meglio le risorse disponibili, specialmente in quei comparti interessati ai nuovi traguardi dell’automazione, quello pubblico ha già problemi di eccesso di dipendenti e dovrebbe approfittarne per ridurre una burocrazia fin troppo pletorica.
Il punto è un altro: il personale che occorre (sia nel privato che nel pubblico) deve essere adeguatamente formato, in grado di utilizzare tecnologie innovative (il cosiddetto 4.0), essere disposto a una mobilità interna ed esterna maggiore di quella esistente, essere in sostanza preparato a utilizzare le opportunità che offre un’economia avanzata, anche a costo di rinunciare a facili protezioni familiari o statali che abbassano la competitività del sistema produttivo. E di questa “visione” nella manovra non c’è traccia, nemmeno in prospettiva.
C’è poi un altro aspetto dell’accorciamento dell’età pensionistica che suscita perplessità: la possibilità che aumenti il sommerso con l’immissione sul mercato del lavoro (soprattutto nell’agricoltura e nei servizi) di mano d’opera a basso costo perché già coperta dalla pensione. O davvero si crede che persone che hanno raggiunto i 62/63 anni in condizioni di salute sempre migliori (grazie ai progressi sanitari che hanno prolungato l’aspettativa di vita) vadano a trascorrere tutto il loro tempo a passeggiare col cane o a occuparsi dei nipotini (sempre più scarsi e sempre più autonomi)?

Lo Stato è indebitato ma gli italiani sono “ricchi”?
Un argomento recentemente tornato d’attualità perché utilizzato largamente dai partiti di governo per giustificare l’espansione della spesa pubblica in deficit è quello delle dimensioni del risparmio privato e del patrimonio immobiliare. E’ vero che il nostro risparmio è più elevato che in Francia e nella stessa Germania ma non si capisce la connessione con il debito pubblico. Si vorrebbe utilizzare il risparmio privato per compensare il debito pubblico? E come? Non certo con una conversione forzosa che sarebbe immorale, incostituzionale, contraria alle regole del mercato e conseguentemente avversata dall’Unione Europea e dalle istituzioni internazionali, un passo verso l’isolamento. Allora rendendo appetibili nuovi titoli di credito garantiti dallo Stato e, per evitare un rating negativo dei mercati, premiandone l’inalienabilità; in sostanza pagando interessi elevati in cambio dell’impegno a non vendere per diversi anni? Un rischio che non so quanti risparmiatori sarebbero disposti a correre. La verità è che il risparmio privato è come un “fondo sovrano” frammentato, va dove trova maggiore convenienza e minori rischi; per questo in un mercato aperto è sostanzialmente volatile e può essere “catturato” soltanto offrendo garanzie di credibilità che noi, con misure avventate, potremmo perdere del tutto. Quanto poi al patrimonio immobiliare esso potrebbe servire soltanto a trarne vantaggi fiscali sotto forme più o meno immaginifiche di imposta patrimoniale; è quello che ha fatto Monti con l’IMU e che, parzialmente, hanno fatto i suoi successori e che è sempre stato considerato deleterio dai partiti che oggi governano il Paese. E’ vero che coerenza e politica non sono mai andati d’accordo ma c’è un limite a tutto. Vuoi vedere che alla fine si scopre che Monti aveva ragione? E’ proprio vero: le vie del Signore sono infinite!!!

La globalizzazione dei valori.
In conclusione: il quadro che emerge dal combinato disposto (come dicono i giuristi) delle dichiarazioni rilasciate senza freno (le parole sono pietre, ha ammonito anche il presidente della BCE Draghi), delle leggi già approvate e di quelle che stanno per esserlo o che vengono annunciate, fa intravedere una cultura sostanzialmente avversa alle logiche di mercato, diffidente nei confronti dell’iniziativa privata, insofferente ai vincoli monetari, conseguentemente favorevole all’estensione del settore pubblico, che riporterebbe la nostra società civile indietro nel tempo fino alle concezioni di “stato etico” che i nostri avi hanno sperimentato col fascismo. Un contesto che si sposa purtroppo con l’insofferenza per tutti i poteri che non dipendono dallo Stato (magistratura, sistema dell’informazione, servizi privati, commercio svincolato da prescrizioni corporative) in nome di un populismo proclamato come unica fonte di ogni potere. Se si andasse avanti su questa strada il passaggio dalla democrazia liberale a quella illiberale teorizzata da Orban (e da molti altri) diverrebbe possibile e in cambio di ordine e sicurezza i nazionalisti di Salvini e i populisti di Grillo chiederebbero all’elettorato mano libera per installare anche in Italia un regime sostanzialmente (anche se non formalmente) autoritario. Come quelli di Putin in Russia, di Erdogan in Turchia, e molti altri sparsi per il mondo.
La crisi di rigetto della globalizzazione che l’Europa sta attraversando non stupisce; la storia ci insegna che ogni cambiamento davvero radicale (e la globalizzazione lo è) comporta squilibri che non sempre vengono vissuti con serenità da chi ne è – o ritiene di esserne – danneggiato. Per superarla occorre “cultura e intelligenza” (che era lo slogan di noi studenti dell’unione goliardica subito dopo la guerra). E soprattutto consapevolezza che malgrado le convulsioni di molti paesi occidentali, nonostante una crisi economica di assestamento male gestita, la globalizzazione è stata un grande successo ed è irreversibile, per quanto Trump possa twittare in contrario: se l’Occidente non saprà gestire e superare questo momento di preoccupazione se ne avvantaggeranno soprattutto paesi come la Cina e la Russia per i quali la globalizzazione rappresenta soltanto un fatto che riguarda i mercati e non i valori che nella cultura liberale si accompagnano alla libertà degli scambi. A sostenere il contrario siamo per fortuna in molti: in America, in Europa, in Estremo Oriente, nell’emisfero australe e persino in alcuni paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Da che parte si collocherà l’Italia? Si rinchiuderà nel proprio giardino (peraltro bellissimo) serrando porte e finestre ed erigendo muri di cinta e cancelli, oppure i suoi abitanti capiranno, prima o poi, che tutto, a cominciare dalla loro storia e dalla loro natura, dovrebbe portarli ad affrontare il mare aperto? La partita è ancora tutta da giocare.

Franco Chiarenza
15 ottobre 2018

Mentre Salvini e Di Maio si contendono una coperta troppo corta per coprire tutti gli impegni di spesa necessari per soddisfare tutte le promesse contenute nel “contratto” di governo e il povero Tria tenta disperatamente di tenere insieme un bilancio che non aggravi ulteriormente il debito pubblico, una cosa almeno appare chiara: sia la Lega che i Cinque Stelle sembrano pronti a scontrarsi con la Commissione di Bruxelles pur di non perdere la faccia (e forse qualche voto).   Una strada pericolosa che potrebbe avviare, al di là delle intenzioni, un processo di allontanamento dall’Europa dagli esiti imprevedibili (anche a prescindere dagli scenari apocalittici disegnati da Sergio Rizzo nel suo ultimo libro) che dovrebbero preoccupare non poco gli imprenditori del nord (anche quelli che hanno votato Lega).   Pure il sud avrebbe probabilmente molto da perdere per gli effetti inflazionistici che deriverebbero dalla perdita della stabilità monetaria.   Sembra davvero una gara tra dilettanti allo sbaraglio: Masaniello Di Maio da una parte, Buttafuoco Salvini dall’altra.

Ma alla fine, al di là di ogni retorica e di ogni considerazione geo-politica (che evidentemente poco interessano il “popolo” dei Cinque Stelle e, almeno in parte, gli elettori di Salvini)  la questione di fondo è se conviene restare nell’Unione Europea e cosa ci perderemmo a uscirne.  Nessuno lo spiega, men che meno gli impazienti demagoghi che vorrebbero liberarsi dei suoi vincoli.   Proviamo a ricordarlo, limitandoci agli aspetti economici e prescindendo da quelli legati al rispetto dei principi dello stato di diritto e all’armonizzazione delle legislazioni in settori fondamentali (lavoro, previdenza, ecc.):

  • verrebbe meno la libera circolazione di persone e merci all’interno dell’Unione.
  • sarebbe compromessa la stabilità dei prezzi che l’euro ha garantito (anche nei paesi che non hanno aderito alla moneta unica ma di fatto hanno allineato ad essa i cambi).
  • diminuirebbe la solvibilità degli istituti di credito favorendo indebitamenti sconsiderati che hanno in passato provocato danni pagati dai risparmiatori e dall’intera collettività.   I vincoli di patrimonializzazione e il “bail in” servono appunto a impedire che ciò si ripeta.
  • verrebbe meno quel tanto di protezione delle produzioni nazionali che viene garantita nell’ambito di trattati internazionali tra l’Unione e altri paesi con dimensioni di mercato comparabili (Stati Uniti, Cina, Canadà, India, Giappone).
  • diminuirebbe molto la capacità negoziale in ambito internazionale nei confronti dei grandi “players” della comunicazione e dei servizi commerciali, sia dal punto di vista fiscale che per ciò che attiene i contenuti diffusi dalla rete.
  • diminuirebbero le risorse disponibili per la ricerca per il venir meno delle economie di scala che derivano dalla messa in comune dei dati e dei brevetti.
  • cesserebbero i finanziamenti comunitari, molto importanti non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche perché consentono un parziale riequilibrio tra le condizioni economiche esistenti all’interno dell’Unione e una modesta ma significativa sottrazione di risorse ai consumi individuali per concentrarli su investimenti strutturali.
  • diminuirebbe sensibilmente la possibilità per i nostri giovani di andare all’estero per ragioni di studio (borse Erasmus) e di lavoro.

La Gran Bretagna, che sta molto meglio di noi come pil, debito pubblico, infrastrutture, peso finanziario, si sta accorgendo del prezzo pesantissimo che rischia di pagare per un’uscita dall’Unione deliberata da un referendum dominato dalla demagogia e dall’ignoranza; tanto che, secondo molti osservatori, se oggi venisse ripetuto le probabilità di vittoria degli europeisti sarebbero prevalenti.   La nostra economia, fondata in gran parte sulle esportazioni dell’industria manifatturiera, pagherebbe per un’eventuale Italexit prezzi ancor più salati.

A fronte di questi svantaggi i fautori dell’Italexit sostengono:

  • che la possibilità di riprendere le svalutazioni competitive (come si faceva prima dell’euro) darebbe fiato alle esportazioni italiane.    Forse, ma a quale prezzo?   Ci siamo dimenticati l’inflazione a due cifre e la continua diminuzione del potere d’acquisto della moneta nazionale?
  • che la contribuzione netta dell’Italia all’Unione Europea è superiore ai vantaggi che ne ricaviamo.  Vero, anche perché nello stabilire le contribuzioni si tiene conto delle condizioni economiche complessive e l’Italia resta tra i paesi europei più ricchi (anche se tale ricchezza è squilibrata; la Lombardia ha un pil equivalente a quello della Baviera, alcune regioni del sud non raggiungono quello della Grecia).   Ma questo è affar nostro e i finanziamenti europei per progetti strutturali nelle zone sottosviluppate, largamente utilizzati dagli altri paesi europei mediterranei, da noi sono stati lasciati cadere per inerzia e incapacità progettuale.
  • che l’Italia potrebbe operare più liberamente scambi vantaggiosi tramite accordi bilaterali (per esempio con la Russia) non essendo vincolati dalle sanzioni imposte dall’Unione Europea.    Forse sì, ma si dimentica che le sanzioni (Russia e Iran) sono state imposte dagli Stati Uniti prima che dall’Unione Europea; violarle significa precludersi il mercato americano (oltre quelli europei), essenziali per le nostre esportazioni.   Negli accordi bilaterali inoltre l’Italia farebbe fatica da sola a imporre condizioni vantaggiose; il rischio è che andremmo a perdere molto più di quanto guadagneremmo.
  • che finalmente “saremo padroni a casa nostra”.    Purtroppo sì.   Ma sarebbe bene ricordare che quando lo siamo stati davvero abbiamo prodotto un regime autoritario (fascismo) che ci ha portato a una guerra disastrosa senza chiedere il permesso ai cittadini, un sistema economico dirigistico (protezionismo) che ha impedito l’espansione degli scambi a cui dobbiamo l’aumento del nostro tenore di vita dopo la seconda guerra mondiale, uno stato di diritto ridotto ai minimi termini.   Non solo: anche quando la democrazia è stata restaurata tutto ciò che potevamo decidere liberamente lo abbiamo fatto con superficialità e senza valutarne a pieno le conseguenze.   Se abbiamo i costi energetici più elevati, il debito pubblico più alto, il sommerso più diffuso, un sistema scolastico mediamente scadente, le tasse più pesanti, le infrastrutture che crollano, ecc.  la colpa non è dell’Europa ma di come abbiamo esercitato i nostri poteri “sovrani”.   Al contrario: quando abbiamo accettato col trattato di Maastricht alcuni vincoli europei siamo diventati più “virtuosi” e la nostra credibilità sui mercati è migliorata.

Ci fermiamo qui, scusandoci per l’approssimazione con cui abbiamo dovuto sintetizzare questioni altrimenti complesse.   Ma resta indelebile l’impressione che la strada su cui vogliono portarci Di Maio e Salvini, sia sostanzialmente quella che ci riporta indietro nell’illusoria speranza che chiuderci nei nostri confini risolva i nostri problemi.  La storia dimostra che è una strategia sbagliata, ma nessuno più legge la storia (una volta ingenuamente ritenuta magistra vitae).

Resta da capire una cosa: come fanno i Cinque Stelle a prendere in considerazione una possibile alleanza alternativa con il partito democratico (col quale potrebbe trovare maggiore sintonia l’ala “socialista” del movimento) quando sull’Europa le posizioni sono tanto diverse?   E lo stesso va chiesto alla Lega: come fa ad allearsi con Forza Italia negli enti locali anche in vista di una possibile maggioranza alternativa (come lascia intendere Berlusconi) se sull’Europa la pensano tanto diversamente?

 

Franco Chiarenza

24 settembre 2018

Entrambi i partiti che costituiscono la maggioranza di governo si definiscono forze “di cambiamento”, anzi, proprio nel cambiamento dicono di trovare l’affinità che consente loro – pur diversi – di governare insieme.
Bisogna allora cercare di capire che cosa realmente vogliono cambiare e, riuscendoci, quali ne sarebbero le conseguenze. Il problema non è il cambiamento delle persone, delle “facce” (anche se questo è soprattutto quello che molti elettori dei Cinque Stelle volevano) ma verso quali scelte indirizzarlo; il cambiamento non è un valore per se stesso, dipende dagli obiettivi che con esso si vogliono perseguire.

Cambiare la classe politica per eliminare la corruzione
Questo è per i Cinque Stelle il cambiamento principale, quello su cui hanno costruito il successo e per il quale c’è tra loro un unanime consenso. Un po’ meno nella Lega per la semplice ragione che a tutti gli effetti della vecchia classe politica la Lega ha fatto parte a lungo e anche in posizioni di rilievo: governo nazionale, regioni, grandi e piccoli comuni, e per di più in alleanza con Berlusconi che, agli occhi dei nipotini di Grillo, rappresenta la personificazione del malaffare politico e morale.
Cosa si rimprovera infatti alla vecchia classe politica? Di essere corrotti e di avere istituito un sistema articolato di interessi personali che costituisce la causa principale dei problemi che affliggono il Paese. Eliminandola, o comunque rendendola impotente, il problema dovrebbe risolversi da sé.
Ora, a prescindere dall’automatismo un po’ ingenuo che cerca nella corruzione la causa di ogni male, non vi è dubbio che essa costituisca purtroppo un male endemico del nostro Paese che genera tra le altre conseguenze un freno allo sviluppo e una delle ragioni della sua scarsa attrattività (parole di Cottarelli, il quale certo non può annoverarsi tra i simpatizzanti di Grillo). Lo sanno e lo dicono tutti da sempre, ma bisogna chiedersi perché, malgrado le “grida manzoniane” che si sono succedute da trent’anni a questa parte, la corruzione non soltanto non è stata estirpata ma, a quanto pare, nemmeno ridotta. Una riflessione si impone. I Cinque Stelle sono cresciuti alimentandosi del mito che la corruzione dalla “testa” della nazione si dirami come un cancro a tutte le articolazioni del potere; un errore di prospettiva che hanno compiuto anche i loro predecessori. Temo (non solo io, anche Davigo che in proposito ha scritto un libro assai apprezzato dai pentastellati) che le cose non stiano così e che tutti conoscano la verità ma non osano dirla: quella della “casta” riflette una corruzione diffusa che si alimenta di comportamenti quotidiani, di mancanza di senso civico, di disprezzo per le regole, che forse deriva da radici storiche lontane. La classe dirigente liberale non riuscì ad eliminare la corruzione, già dilagante, dopo l’unificazione, ed essa è riemersa più forte che mai durante il fascismo (coperta dalla mancanza di trasparenza del regime) e, purtroppo, è cresciuta nella prima repubblica a guida demo-cristiana in coincidenza con l’aumento della ricchezza del Paese. Il “boom” degli anni ’50 generò anche la caduta verticale di quel poco di moralità che ancora la borghesia portava con sé.
Riusciranno i nostri eroi a cinque stelle laddove sono falliti tanti altri? Me lo auguro. Temo però che il ricambio della classe politica – ammesso che avvenga – non basterà a cambiare le cose, così come non bastò dopo che i processi di “mani pulite” negli anni ’90 avevano creato le condizioni di una ripartenza da zero, avendo eliminato drasticamente quasi tutti i partiti della prima repubblica (DC, PSI, PRI, PLI). Se vogliamo ridurre la corruzione a dimensioni “normali” (eliminarla del tutto mi pare difficile) occorre mettere in atto un progetto di ampio respiro in grado di riformare la giustizia, la pubblica istruzione, la pubblica amministrazione, la pubblica sicurezza, rendendole efficienti e quindi in grado di contrastare le prassi clientelari e assistenziali che si diffondono anche perché contano sull’impunità non soltanto giudiziaria ma anche sociale. Ricordo, tanti anni fa, parlando della corruzione con colleghi americani, questa bruciante affermazione: “La corruzione esiste anche da noi, ed è anche molto rilevante; ma una differenza c’è, da noi se ne vergognano da voi la esibiscono come manifestazione di furbizia”.

Combattere la “casta”
Ma i Cinque Stelle non si accontentano della classe politica; nel mirino del “cambiamento” c’è la “casta”. Con questo termine gli allievi di Grillo intendono tutti i privilegiati che si annidano nelle istituzioni godendo di vantaggi ingiustificati a spese della collettività. Qui bisogna fare attenzione: se si vogliono cambiare i vertici della pubblica amministrazione, delle partecipazioni di Stato, dell’esteso sottogoverno che è parte integrante dell’apparato pubblico italiano, nulla di nuovo: si chiama spoyl system ed è stato largamente praticato (spesso con risultati discutibili) sia dal centro sinistra che dal centro destra. Se si vogliono mettere le mani su organismi cruciali per la credibilità internazionale del Paese, la prudenza è d’obbligo: Banca d’Italia, Autorità indipendenti (Anti-trust, Borsa, comunicazioni), autonomia universitaria, magistratura, mezzi di informazione liberi, costituiscono il biglietto da visita su cui si valuta in gran parte l’affidabilità del “sistema Italia”, a prescindere dalle variabili maggioranze che possono alternarsi al governo. Anche in questo caso altre sono le soluzioni davvero radicali che da sempre i “liberali qualunque” propongono: ridurre le dimensioni abnormi dell’apparato statale e degli enti locali, ridare fiato all’iniziativa privata, attuare il sano principio per cui è consentito tutto ciò che non è espressamente vietato e non il suo contrario come oggi avviene (per cui è vietato tutto ciò che non è espressamente autorizzato). Si ridurrebbe la “casta”, si restituirebbe al mercato la sua funzione equilibratrice, si libererebbero energie in grado di produrre risorse disponibili per la comunità, si aumenterebbe l’attrattività del “sistema Paese” nei confronti degli investitori. Ma non sembra questa la strada su cui i Cinque Stelle sembrano avviati; al contrario si invoca il ritorno allo Stato di quel poco che si era privatizzato, si evocano nazionalizzazioni, si diffida dell’iniziativa privata, manca poco che si ritorni all’antica pregiudiziale cattolica per la quale il profitto è peccato. Non si coglie nemmeno il proposito di ridisegnare la congruità dell’intero sistema pubblico, tagliarne i costi, renderne più efficienti le strutture; ci si è limitati a misure punitive come il taglio annunciato alle cosiddette “pensioni d’oro”, di dubbia costituzionalità ma di sicuro effetto populistico. I grandi liberali inglesi dell’Ottocento ci avevano avvertiti: non esiste lo Stato buono, non è mai esistito e mai esisterà; può esistere uno Stato costretto ad essere “buono” dal potere di intermediazione esercitato in forme diverse da corpi autonomi in grado di vivere senza ricorrere alla sua protezione. Meno Stato, più società: la grande ricetta liberale che sembra ignorata dal dirigismo resuscitato.
A questo punto naturalmente qualcuno tirerà fuori la tragedia del ponte di Genova. Ma il problema non è che la società Autostrade sia privata e consenta profitti (necessari per remunerare le migliaia di azionisti e creare nuovi investimenti); se fosse stata pubblica sarebbe diverso? La questione è semplice: qualcuno ha sbagliato, la società che non ha effettuato i lavori necessari e la pubblica amministrazione che non ha vigilato come avrebbe dovuto. Speriamo adesso che chi ha sbagliato ne paghi le conseguenze civili e penali.

Contrastare i poteri forti
Un altro obiettivo della nuova maggioranza (ma soprattutto, ancora una volta, dei Cinque Stelle) è quello di tagliare le unghie ai cosiddetti “poteri forti”, che dall’ombra dei palazzi del potere manovrano in maniera occulta per favorire interessi privati a danno dell’onesto popolo dei lavoratori. Chi sono questi poteri forti? Su questo punto i pentastellati entrano in genericismi fumosi che nascondono l’imbarazzo di chiamarli per nome e cognome. Molto più decisi i leghisti salviniani: i “poteri forti” sono quelli che congiurano, in combutta con l’Europa a trazione tedesca, per ridurre i poteri sovrani della Nazione. Quindi magistratura, informazione (stampa, televisione), grandi imprese (artificiosamente contrapposte alle piccole), banche, mercati internazionali, agenzie di rating, istituzioni sovranazionali, chiesa conciliare (strumentalmente distinta dalla sana tradizione cattolica).
Certo, i poteri forti esistono, sono sempre esistiti; essi consistono in realtà in quei gruppi di persone che dispongono di una autonomia decisionale che gli consente di non dipendere completamente dallo Stato (e quindi dalla politica). Per esempio gli imprenditori associati (Confindustria, Confcommercio e simili), i sindacati, gli editori, la finanza (soprattutto quella internazionale dove svolgono un ruolo determinante i fondi sovrani), la Chiesa, e pochi altri tra cui alcune collaudate corporazioni che gestiscono l’erogazione dei servizi (nella sanità, nella scuola, nell’informazione, ecc.). Ed è difficile per chiunque, in qualunque parte del mondo, governare senza tenerne conto. Qualcuno, prima delle elezioni, lo aveva spiegato a Di Maio il quale infatti ha dedicato qualche settimana del suo tempo ad andare in giro in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, ovunque i “poteri forti” erano annidati, per rassicurarli sulle intenzioni di questo “oggetto sconosciuto” che era per tutti il movimento cinque stelle. Ma poi l’alleanza con Salvini ha innescato una competizione demagogica soprattutto quando il leader della Lega ha fatto il pieno battendo la grancassa dell’immigrazione clandestina. Spiazzato e schiacciato dai sondaggi Di Maio ha ripiegato sul “decreto dignità” che regolarizza i portatori di pizze a domicilio e che produrrà probabilmente –secondo molti – un aumento della disoccupazione e del lavoro nero. Sulle altre questioni scottanti lasciate aperte dalla precedente legislatura la strada obbligata è quella di onorare gli impegni presi facendo credere di avere ottenuto condizioni migliori: così per l’ILVA di Taranto, per l’approdo del gasdotto in Puglia (TAP), per la TAV Torino-Lione. E pazienza se ciò deluderà gli ambientalisti. La vera rivincita di Di Maio si gioca sul “reddito di cittadinanza”: una misura molto popolare nel sud dove ha rappresentato la ragione più importante del consenso elettorale. Ma il problema – come si è sempre saputo – è un po’ come la quadratura del cerchio. Le risorse disponibili, se non si vuole entrare in rotta di collisione con l’Europa, sono poche e non consentono di realizzare contemporaneamente il reddito di cittadinanza, la riforma delle pensioni e l’adozione della flat tax. Anche qui Salvini ha le idee chiare: forzare la situazione aumentando il debito pubblico entrando così consapevolmente in conflitto con la Commissione dell’Unione Europea e con la Banca Centrale Europea, anche in vista di un futuro ridimensionamento dei loro poteri dopo le elezioni del 2019. Ma quali sono in proposito gli intenti e le prospettive dei Cinque Stelle?

Restare in Europa?
Sappiamo tutti che l’Europa, la globalizzazione, l’apertura dei mercati a nuovi paesi, lo stato di diritto, sono percepiti da molti come minacce alla propria sicurezza; se il cambiamento consiste nella strumentalizzazione di queste paure si tratterebbe di un cambiamento che ci porterebbe indietro verso l’autarchia, il nazionalismo, il ritorno alla conflittualità endemica che sfociò in due disastrose guerre mondiali (oggi improbabili ma sostituite da altrettante guerre commerciali per noi esiziali); un remake non molto originale del fatidico “sacro egoismo per l’Italia” pronunciato da Salandra per motivare l’entrata in guerra nel 1915. Un suicidio allora, un suicidio oggi per ragioni che sarebbe troppo lungo enumerare in questa sede ma che probabilmente anche molti elettori dei Cinque Stelle comprendono. Se invece si tratta di cambiare una classe dirigente che si è dimostrata incapace e poco credibile, la sfida consiste nel fare quelle cose che essa non è stata in grado di assicurare, andando avanti non voltandosi indietro.
Fino a questo momento l’unico punto chiaro che sembra emergere dall’azione di governo e soprattutto dalle intenzioni dichiarate è quello di rappresentare (e quindi consolare) le paure e le preoccupazioni, molte delle quali fondate e condivise (come la crescita del divario sociale). Tutti vogliono essere protetti, tutti cercano sicurezza oggi piuttosto che opportunità domani; comprensibile ma sbagliato. Camminare sull’onda emotiva anche quando dati di fatto e ragionamenti dovrebbero indurre a puntare sulle strategie più adatte ad affrontare il futuro, è pericoloso; chi non risica non rosica, dice un vecchio proverbio.
Ed è qui che si misura la distanza tra governanti demagogici e statisti lungimiranti. Quando subito dopo il 1948 si trattò di scegliere tra l’apertura dei mercati e il protezionismo, molti, anche potenti (confindustria, sindacati) si levarono in difesa dei dazi protettivi; statisti come De Gasperi, Einaudi, La Malfa decisero di rischiare, e a loro il Paese deve la più grande trasformazione economica di tutta la sua storia. Scegliere il mantenimento dell’esistente e chiedere maggiori protezioni significa in concreto aumentare l’invadenza dello Stato, ignorare i vincoli di bilancio (che sono necessari per la nostra economia non per imposizione dell’Europa), tornare a tassi di inflazione a due cifre, mettere in discussione i principi fondamentali dello stato di diritto, scivolare verso un regime plebiscitario che della democrazia – soprattutto di quella liberale – ha soltanto l’apparenza.
Il fatto è che mentre in politica interna Grillo e i suoi seguaci credono di avere trovato nella lotta alla corruzione la chiave di volta per la soluzione di tutti i problemi, in politica estera l’incertezza regna assoluta; ben sapendo che le elezioni si vincono (o si perdono) sulle questioni che interessano la quotidianità della vita sociale e non sulle complesse dinamiche della politica estera e delle convenienze economiche su scala globale, non se ne sono preoccupati più di tanto. Ma ora governano con Salvini il quale – come abbiamo detto – (non so se seguito da tutta la Lega) ha le idee chiare: fuori dall’Europa, in posizione defilata nei confronti dell’Alleanza Atlantica, alleati strumentalmente con la Russia, chiusi nelle nostre frontiere, lasciando che il resto del mondo vada nella direzione che vorrà ma evitando che influisca sul nostro giardino recintato. Ma è questa la posizione dei Cinque Stelle? Difficile dirlo: di questo in realtà non hanno mai seriamente discusso (donde asserzioni generiche e piuttosto fumose) anche perché probabilmente le sue diverse anime entrerebbero in contrasto. Gli ambientalisti sono in genere contrari alla globalizzazione capitalistica ma favorevoli a forme di integrazione europea fondate sul solidarismo, i piccoli e medi imprenditori vorrebbero meno Stato e più mercato (anche internazionale perché molti di loro sono esportatori), alcuni agricoltori vorrebbero il blocco delle importazioni agricole, ma altri, prevalentemente esportatori dei nostri prodotti di qualità la pensano diversamente, l’ala di sinistra è più sensibile all’aumento della spesa sociale ma spinge per un’alleanza strategica con la CGIL che non sarebbe condivisa da una parte dell’elettorato (e nemmeno dalla Lega). Insomma un pasticcio in cui può cacciarsi soltanto chi ha costruito il suo successo su slogan accattivanti e promesse di difficile mantenimento. Quanto potrà durare? E quanti danni nel frattempo potrà arrecare?
A Salvini non importa: attende paziente che il collega napoletano resti impigliato nella ragnatela delle contraddizioni. Non ha fretta e sa che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare immenso degli interessi del nord; una volta incassato il dividendo dello stato confusionale del movimento di Grillo sa bene come andarci lui a trattare coi “poteri forti”. C’è abituato: è alleato in tutti gli enti locali con Berlusconi che dei poteri forti ne sa qualcosa.

 

Franco Chiarenza
15 settembre 2018

P.S. Questo articolo era stato scritto il 2 settembre. Ho atteso a pubblicarlo per vedere se gli sviluppi della situazione lo rendessero superato. Non è successo nulla.