Il panorama elettorale, per esso intendendo quali sono le reali possibilità di scelta degli elettori, si presente ormai definito. Partendo da sinistra: “Liberi e Uguali” che, sotto l’ombrello rassicurante di Grasso e Boldrini, raccoglie l’estrema sinistra e gli anti-renziani che hanno abbandonato il PD; il partito democratico al quale sono associate componenti significative come i radicali di Emma Bonino e i post-democristiani di Casini; il movimento cinque stelle, sempre più centrato sulla leadership di Di Maio; “Forza Italia” che, sotto le ali del sempre vegeto Berlusconi, raccoglie di fatto anche i contributi della cosiddetta “quarta gamba” della destra (e quindi personaggi come Parisi, Fitto, Tosi e altri profughi di varia provenienza); la Lega ex-lombarda, ex-nord, ora semplicemente Lega come Salvini l’ha voluta; “Fratelli d’Italia” guidata energicamente da Giorgia Meloni alla testa di nostalgici vecchi e nuovi dell’estremismo di destra, ieri nazionalista oggi “sovranista” (che è poi la stessa cosa).
Quali differenze?
A sinistra renziani e anti-renziani sono divisi da contrasti personali che appaiono più forti di quelli – che pure esistono – programmatici. Questi ultimi comunque in sostanza si riducono alla difesa delle leggi più importanti varate dal governo Renzi (in particolare job act e buona scuola) che l’estrema sinistra vorrebbe abolire o comunque rivedere profondamente; per il resto si respira un po’ più di demagogia spendereccia sotto le ali di Grasso piuttosto che in quelle del PD, ma nulla di irrimediabile. Sulle grandi questioni (Europa, riduzione del disavanzo, incentivi fiscali per promuovere gli investimenti) non ci sono differenze incolmabili.
Al centro si sono prepotentemente insediati i grillini. Il loro programma però, per le poche cose effettivamente realizzabili, appare più compatibile con quelli delle sinistre che non con la destra (almeno nella versione berlusconiana); Di Maio può strumentalmente schiacciare l’occhio a Salvini ma non potrebbe mai farlo con Berlusconi senza rischiare la scomunica di Grillo e il linciaggio mediatico dei pentastellati. Saranno certamente l’ago della bilancia e tuttavia è improbabile che il presidente della Repubblica affidi un incarico – anche soltanto esplorativo – a un candidato premier che non si proponga di raggiungere un accordo di maggioranza; con il partito democratico quindi Di Maio dovrà trattare e non sarà una passeggiata (anche per la scarsa propensione di Renzi a governare con Grillo).
A destra Berlusconi è riuscito a mettere insieme un programma comune con Salvini e Meloni, ma, contrariamente a quanto accade a sinistra, le differenze sono profonde soprattutto sulle grandi tematiche del futuro: a cominciare dall’Europa, per continuare con la riduzione del disavanzo, con la politica dell’immigrazione e via continuando con la “cancellazione” della riforma Fornero ed altre amenità che costituiscono il nocciolo duro del programma dell’estrema destra. E’ difficile immaginare che una coalizione così eterogenea possa durare dopo le elezioni (e molti indizi fanno ritenere che non lo pensino nemmeno loro; ma gli indizi non sono prove e il potere rappresenta un collante da non sottovalutare).
Noi liberali: che fare?
Di fronte a tale panorama è difficile per chi è liberale orientarsi. Il liberalismo – quello vero – è per noi merce d’importazione: in questo momento soprattutto dalla Francia. Ma poiché per Macron non si può votare l’unica soluzione è quella di individuare all’interno dei contendenti coloro che per formazione, per convinzione, per esperienze fatte, danno le maggiori garanzie di volersi spendere per “liberalizzare” la nostra società; ce n’è probabilmente in tutti gli schieramenti.
Non certo Grasso, esponente massimo del giustizialismo politicamente orientato che dello stato di diritto è l’antitesi; e nemmeno molti dei suoi compagni di squadra. Ma Bersani, per esempio, pur provenendo dal marxismo militante, è stato il ministro che più di ogni altro ha ridimensionato la presenza pubblica nei servizi attraverso l’ultima deregolamentazione che si ricordi; depurato dall’astio anti-renziano e dalla subordinazione culturale a D’Alema può persino essere considerato un liberale inconsapevole.
In materia di diritti e in politica estera Renzi è un personaggio ambiguo; ma il sostegno di Emma Bonino e di Paolo Gentiloni garantiscono che non vi saranno derive illiberali. Anche la presenza di Franceschini, il quale, pur provenendo dalla sinistra cattolica, ha introdotto nella gestione dei beni culturali criteri di efficienza e di meritocrazia che non possono dispiacere ai liberali, dimostra che nel partito democratico è possibile incuneare principi compatibili con una moderna cultura liberale.
Nella palude di arrivisti, demagoghi, populisti, affaristi che si sono scoperti grillini e che Di Maio sta cercando ansiosamente di prosciugare a suo vantaggio per trasformare il movimento in un partito tradizionale, vi sono certamente alcuni liberali in buona fede. Certe battaglie contro la corruzione e i privilegi di casta della classe politica, insieme alla domanda di semplificazione legislativa, rappresentano storiche richieste della cultura politica liberale e incontrano un comprensibile consenso. Sul resto è confusione, ma nella nebbia che ne consegue qualche fendente “liberale” potrebbe andare a segno.
“Forza Italia” nacque venticinque anni fa dall’illusione di creare anche in Italia un “partito liberale di massa”. Il Berlusconi che oggi si propone come salvatore d’Italia è lo stesso che ha contribuito invece alla sua decadenza per non averne mai seriamente affrontato i nodi strutturali che facevano del nostro Paese l’ultima repubblica sovietica: il suo modello non è mai stato il bilanciamento dei poteri di Montesquieu ma piuttosto il potere autoritario e populista di Putin. E’ paradossale ammettere che i destini post-elettorali saranno probabilmente nelle sue mani; ma bisogna prendere atto che con lui, ancora una volta, si sono schierati alcuni autentici liberali che pensano di arginare la deriva populista di destra affidandosi alla saggezza senile del signore di Arcore.
Per quanto riguarda la Lega è difficile trovare in un partito “anti” (tenuto insieme soltanto dall’odio per gli immigrati, da un demagogico anti-europeismo e da una rozza avversione alla riforma Fornero assurdamente imputata di tutte le difficoltà dei pensionati) qualche spirito liberale. Ma tutto è possibile. L’imprevisto smarcamento di Maroni dimostra che anche nella Lega qualcosa si muove e non tutto si identifica con la demagogia di Salvini.
Persino la Meloni non ha trovato difficoltà ad allearsi in alcune elezioni locali (tra cui le amministrative a Roma) con il piccolo partito liberale di De Luca, sostenendo che i veri liberali sono loro – i Fratelli d’Italia – confondendo il nazionalismo conservatore con il liberalismo e cercando nell’avversione all’esistente una ragione di improbabili confluenze politiche e culturali.
Come sempre tutto sta nell’intendersi sul significato delle parole.
Astensione?
L’astensione sarà prevedibilmente massiccia. Ma non è una soluzione liberale.
Chi crede che una democrazia liberale rappresenti ancora l’unico modello di governabilità in grado di garantire insieme il rispetto della volontà popolare (anche quando non piace) e il mantenimento dello stato di diritto che i nostri progenitori ci hanno trasmesso, non può rifugiarsi nell’astensione.
Resto sempre dell’idea che votare è un diritto e non un dovere; ma anche se non può essere trasformato in un dovere giuridico resta sempre un dovere morale al quale i liberali non dovrebbero sottrarsi. Anche quando la tentazione è forte. Bisogna fare come diceva Montanelli: il 4 marzo turarsi il naso e andare a votare.
Franco Chiarenza
29 gennaio 2018