Gli scenari possibili dopo Pasqua per risolvere la crisi politica non sono molti: gira e rigira le carte sono tre e la combinazione vincente dovrà comprenderne almeno due.
Prima ipotesi: governo Salvini-Di Maio. Dal punto di vista programmatico non ci sono differenze incolmabili, ma ci sono due problemi da superare. Il primo riguarda la premiership vigorosamente reclamata da entrambi; se però davvero “Salvini è uomo di parola”, come dice Grillo, la soluzione potrebbe essere trovata con un patto di “staffetta”, due anni e mezzo a guida Lega e il resto della legislatura con Di Maio presidente del consiglio (che così potrebbe intanto farsi le ossa come vice-presidente). Il secondo è più difficile da superare e si chiama Berlusconi; non tanto e non soltanto perché dovrà avere la sua parte nel governo (il che si risolve con un paio di ministeri importanti) ma per altre più serie ragioni. La prima è rappresentata dalla difficoltà di fare digerire alla base dei Cinque Stelle un’alleanza con Forza Italia, la seconda dalla posizione (abilmente rivendicata dal vecchio leader) di garante nei confronti dell’Europa (e in particolare del partito popolare) e di componente “moderata” in grado di rassicurare quei settori di elettorato di destra che diffidano di Salvini. Puntare sul dissolvimento di FI è un discorso semplicistico che comunque richiede tempi lunghi e non risolve il problema della compatibilità tra le posizioni anti-europee della Lega e quelle di garanzia nei confronti dell’Europa (che probabilmente stanno molto a cuore anche a Mattarella). Iniziare la nuova legislatura con un governo molto disomogeneo sulla politica estera in un momento in cui si aprono in Europa e nel mondo scenari imprevedibili (guerra dei dazi, nuovi equilibri in Estremo Oriente, sanzioni contro la Russia, questione medio-orientale) rappresenta un rischio ulteriore che potrebbe allarmare i mercati.

Se “l’alleanza dei vincitori” fallisce i tentativi di dialogo tra il partito democratico e i Cinque Stelle potrebbero diventare meno velleitari di quanto non siano attualmente. Non certo nel senso di prevedere una partecipazione dei democratici al governo ma partendo dall’idea di un’astensione che consenta a certe condizioni ai Cinque Stelle di governare. Anche in questo caso ci sarebbe da risolvere il problema della politica estera ma non sarebbe impossibile trovare una soluzione (anche eventualmente prefigurando un impegno attivo di Emma Bonino, la quale si trova a capo di un soggetto politico ben distinto dal PD). Si tratterebbe di una soluzione di breve durata ma consentirebbe di superare l’impasse cercando intanto di condurre a termine gli obblighi di bilancio, di progettare una nuova legge elettorale, di essere presenti agli appuntamenti più importanti di politica internazionale.

Resta la terza possibilità: che, in mancanza di un accordo, il presidente della Repubblica proponga una soluzione “tecnica” da presentare in Parlamento con un mandato limitato nel tempo e nei contenuti. In mancanza di fiducia sarebbe tale governo a gestire le inevitabili elezioni anticipate.
Altre soluzioni non vedo. Non soltanto per la reciproca avversione dei democratici (da chiunque rappresentati) e Salvini, ma anche per la fragilità del quadro di comando del PD che ha bisogno di un periodo di sana opposizione per ricompattarsi su nuove basi dopo avere compiuto fino in fondo il rito sacrificale della resa dei conti interna, come sempre avviene dopo ogni sconfitta.

 

Franco Chiarenza
30 marzo 2018

Con la morte di Piero Ostellino scompare un liberale vero, protagonista della stagione della prima repubblica almeno negli anni in cui diresse il Corriere della Sera (1984-1987). Aveva una cultura impregnata di liberalismo (assai più nella versione anglosassone che in quella idealistica crociana), un carattere deciso fino, talvolta, all’ostinazione, capacità anche organizzative che mise in luce non soltanto a via Solferino ma anche nella realizzazione di iniziative ancora oggi punti di riferimento del liberalismo italiano. Il Centro Einaudi di Torino e la rivista “Biblioteca della libertà”.
Negli ultimi tempi viveva più nel suo rifugio in Provenza che adorava che non a Milano, sempre più amareggiato dalle questioni politiche italiane e afflitto da vicende personali molto dolorose.

Con Ostellino ho avuto molte occasioni di incontro, e ogni volta ne uscivo arricchito non soltanto per il confronto di idee che ne scaturiva ma anche per la determinazione e la decisione con cui le portava avanti, anche quando le sue ragioni erano discutibili. Ricordo uno scontro epistolare che ebbi con lui quando, nella strenua (e condivisibile) difesa del diritto di Israele a esistere, mi parve esagerasse nel giustificare certi eccessi assai poco “liberali” del governo di Tel Aviv. Non contestò i miei argomenti e corresse il tiro.

Era molto amico di Valerio Zanone del quale condivideva una concezione di liberalismo aperto e temperato, la convinzione che esso potesse (e dovesse) conciliarsi con i problemi sociali che andavano acuendosi con uno sviluppo capitalistico che, accanto ai grandi vantaggi, minacciava di accrescere le diseguaglianze e impoverire la classe media, da sempre pilastro portante delle democrazie liberali. L’ultima volta che lo vidi a Milano – aveva lasciato polemicamente ogni sua collaborazione col Corriere – discutemmo del mio libro “Il liberale qualunque”. Accettò la mia richiesta di presentarlo a Milano, ma poi per circostanze che non avevano nulla a che fare con lui la presentazione non ci fu.

Di lui, della sua vita, delle sue idee scriveranno in tanti. Di mio aggiungo soltanto il rammarico di non averlo frequentato di più, di non avere colto tutte le occasioni che pur ci sarebbero state per approfondire le nostre idee soprattutto per quanto riguarda il futuro della comunicazione, argomento preferito dei nostri brevi e rari incontri. Mi aveva invitato in Provenza ma non ci andai, vinse la mia eterna pigrizia, e ora è tardi.

 

Franco Chiarenza
11 marzo 2018

Cerchiamo di capire perché è difficile costituire una maggioranza di governo.

Il Movimento Cinque Stelle non può rinunciare alla presidenza del consiglio per Di Maio pena la delegittimazione di fronte alla propria base, soprattutto in uno scenario che prevede la possibilità di tornare alle urne in tempi brevi. Se si crea una maggioranza alternativa avrebbe buon gioco a passare all’opposizione gridando “all’inciucio” sperando così di aumentare il consenso. Ma anche l’ipotesi che tutti facciano un passo indietro e lo facciano governare da solo (monocolore minoritario) non entusiasma i Cinque Stelle ben consapevoli del peso che dovrebbero assumersi a fronte di promesse elettorali molto impegnative e senza l’alibi di potere scaricare su qualche alleato il loro mancato adempimento . Quando le vittorie sono parziali il rischio è proprio questo: restare in un cul de sac.

La Lega sa che Salvini non è una personalità aggregante ed è molto difficile che – sia pure per motivi opposti – Cinque Stelle o democratici possano consentirgli di fare un governo, neppure di minoranza (cioè costituito soltanto dai tre partiti di centro-destra). Oltre tutto il suo principale alleato (Forza Italia) vede con preoccupazione un eventuale governo presieduto dal leader della Lega perché potrebbe accelerare la disgregazione di un partito appeso al carisma di Berlusconi. Il progetto di Salvini appare quindi chiaro: restare all’opposizione e mantenere una posizione di vantaggio in vista delle prossime elezioni.

Il Partito Democratico va incontro ovviamente a una resa dei conti interna dopo la lunga egemonia di Renzi. Se prevarrà la linea “collaborazionista” (consentire ai Cinque Stelle un monocolore minoritario) rischia la spaccatura della sua base; in ogni caso per realizzarsi essa avrebbe bisogno di un forte sostegno del Quirinale (appello alla responsabilità nell’interesse superiore del Paese, come Mattarella ha già cominciato a fare). Se invece prevarrà la linea dell’opposizione a oltranza (che potrebbe essere pagante nelle prossime elezioni) si costringerebbero Di Maio e Salvini a mettersi d’accordo oppure andare subito a nuove elezioni.
Se infine prevale una linea attendista, la mossa successiva spetterebbe al Quirinale e non sarebbe priva di incognite.

Forza Italia sta alla finestra e non può fare altro, almeno per ora. Berlusconi appoggerà il tentativo di Salvini sperando che fallisca (come è probabile). Se Salvini facesse un governo con Di Maio se ne dissocierebbe, magari con un’astensione, sperando così di recuperare i voti moderati che si sono lasciati attrarre dalla Lega (al nord) e dai Cinque Stelle (al sud). I numeri per fare un governo con i democratici non ci sono e in ogni caso ciò comporterebbe una rottura con Salvini (col quale comunque – non va dimenticato – FI amministra molte Regioni e Comuni). Nel frattempo si è aperta di nuovo la competizione tra i possibili successori di Berlusconi: Toti (pro-Lega)? Brunetta (anti-Lega)? Tajani (improbabile)? Parisi (pro-PD)? O nessuno di loro ma invece un’erede di famiglia (Marina Berlusconi)?

Gli altri (LEU, FdI, ecc) non hanno molta voce in capitolo perché rappresentano quote troppo piccole dello schieramento parlamentare. Dovrebbero avere interesse soprattutto a restare comunque all’opposizione.

Dunque, nuove elezioni? E se sì con quale governo? Se il presidente della Repubblica è costretto a prendere atto che non esistono né le condizioni per una maggioranza parlamentare precostituita né per un governo di unità nazionale limitato nel tempo e con lo scopo esclusivo di promuovere una nuova legge elettorale e adempiere all’ordinaria amministrazione, egli avrebbe davanti a sé due opzioni: 1) sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni (che dovrebbero svolgersi al massimo entro 70 giorni dal relativo decreto, andando quindi a coincidere con la piena stagione estiva); in tal caso resterebbe in carica l’attuale governo Gentiloni. 2) nominare un governo “istituzionale” di propria iniziativa, con o senza il consenso dei partiti, e inviarlo alle Camere per ottenere la fiducia; nel caso che l’ottenga mantenerlo in vita il tempo necessario per cambiare la legge elettorale, predisporre il bilancio 2018 e far fronte alle urgenze che si prefigurano nella politica internazionale (ed europea in particolare). Nel caso che non ottenga la fiducia indire nuove elezioni che però in tale evenienza si svolgerebbero presumibilmente in autunno e con il governo nominato dal Presidente (come è già accaduto in passato). Non credo sia praticabile la soluzione indicata da Eugenio Scalfari: prolungare per un anno la vita dell’attuale governo. Perché in presenza di un voto di sfiducia non avrebbe legittimità costituzionale.

Purtroppo i tempi dell’economia e della politica nella loro dimensione internazionale non sono conciliabili con quelli bizantini di casa nostra. Trump sta demolendo pezzo per pezzo la regolamentazione multinazionale del commercio che garantiva al nostro Paese (e all’Europa in generale) considerevoli vantaggi. L’Unione Europea, da parte sua, attraversa un momento forse cruciale per la sua sopravvivenza non soltanto per la difficile gestione della Brexit ma anche per il delinearsi al suo interno di tre diversi raggruppamenti difficilmente conciliabili.
Il primo, già attivo da qualche anno, è quello di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) il quale tende a trasformare l’Unione in un’area di libero scambio calmierata da misure di sostegno in favore delle aree più deboli (in gran parte coincidenti con gli stessi paesi che aderiscono al gruppo), senza vincoli legislativi in tema di diritti. Il secondo si formerà probabilmente intorno all’asse franco-tedesco e comporterà una maggiore integrazione politica, militare e finanziaria. Il terzo potrebbe scaturire da un’iniziativa olandese (accolta con interesse dalle nazioni del nord-Europa) che richiama l’Unione a una severa applicazione della linea rigorista prevista dai trattati ma esclude ulteriori allargamenti dei poteri sovranazionali.
Sarebbe importante che l’Italia (e la Spagna) non restassero ai margini di un dibattito così importante e fossero in grado di prendere una posizione chiara e irreversibile.

 

Franco Chiarenza
10 marzo 2018

Il rito elettorale del 4 marzo si è concluso e la vittima sacrificale ha un nome, Matteo Renzi; chi l’avrebbe detto cinque anni fa quando baldanzoso prendeva d’assalto il palazzo del governo.
E’ ancora presto per abbandonarsi alle alchimie sulle previsioni di quale governo per il futuro; il numero dei seggi attribuiti non è ancora definitivo e mai come in questo parlamento anche un voto può fare la differenza. Qualche considerazione però può essere fatta:

  1. Noi liberali “qualunque” usciamo sconfitti da queste elezioni. O eravamo davvero pochi oppure ci siamo ancora una volta mimetizzati dentro vestiti che non ci rendono riconoscibili.
  2. Il problema è che le concezioni liberali “aperte” come il multilateralismo, la tolleranza per le diversità etniche e religiose, i mercati regolati ma liberi, gli orizzonti di crescita di tante parti del mondo fino a ieri escluse dal benessere, la speranza che tutti potessero condividere i valori che provengono dalla nostra storia e che credevamo irrinunciabili, sono entrate in crisi in tutto il mondo. Dobbiamo chiederci perché.
  3. L’Italia non ha fatto eccezione e, almeno in apparenza, la maggioranza dell’elettorato sembra ostile all’Europa, favorevole alle chiusure nazionali, propensa a risolvere l’evidente disagio diffuso nel Paese affidandosi a un’espansione della spesa pubblica.
  4. Le questioni che hanno determinato il risultato elettorale sono essenzialmente due: l’immigrazione e la disoccupazione. L’Europa si è trovata nella scomoda posizione di essere additata come responsabile di entrambi i fenomeni; è stato facile in questo modo alle forze politiche eludere le proprie responsabilità e scaricarle su un soggetto terzo. L’apertura dei mercati è vissuta da molti come la causa della disoccupazione e si pensa ingenuamente che il protezionismo rappresenti la soluzione del problema. Lo stesso vale per l’immigrazione, per la quale alle motivazioni economiche si aggiunge la preoccupante emersione di concezioni razziste e nazionaliste.
  5. Colpisce il grande successo del movimento Cinque Stelle nel Mezzogiorno. Molti analisti sostengono che la promessa di un salario di cittadinanza a tutte le famiglie indigenti sia stata determinante assai più delle motivazioni moralistiche sui costi della politica e contro la corruzione che ne avevano caratterizzato gli inizi.
  6. Il crollo del partito democratico va oltre l’antipatia suscitata da un personaggio che, dopo una buona partenza, si è fatto notare soprattutto per l’arroganza e la disinvoltura con cui ha governato. Renzi non è caduto per mancanza di un progetto (quello della “Leopolda”, con tutti i suoi limiti, lo era) ma per non averlo portato fino in fondo. I numeri ci dicono che andare controcorrente forse non avrebbe evitato la sconfitta (anche se in Francia con Macron ha funzionato), ma comunque il P.D. ne sarebbe uscito con le carte in regola per affrontare il secondo “round”.
  7. Chiunque governerà si troverà di fronte a due problemi di non facile soluzione: rispettare le promesse fatte con i costi spropositati che comportano e gestire di conseguenza i malumori e le divisioni che si produrranno all’interno di contenitori così eterogenei. Con gravi rischi di instabilità che – non si dimentichi – sono gli unici che davvero preoccupano i mercati e possono produrre ricadute incontrollabili.
  8. Quelli che vengono chiamati “poteri forti” – per intenderci: imprese, sindacati, banche, alti gradi dell’amministrazione, forze armate, mondo accademico, ecc. – hanno mantenuto una sostanziale indifferenza durante la campagna elettorale, quasi lasciando intendere che il risultato sarebbe stato senza conseguenze sulle grandi opzioni strategiche che vengono ormai decise a livello sovranazionale. Molti dei loro esponenti pensano che la scelta era tra rendere più efficiente e produttivo il “sistema Italia” o non farlo; nel primo caso avremmo occupato a giusto titolo un posto nelle sedi decisionali (non soltanto europee), nel secondo caso saremmo rimasti emarginati ma comunque nell’impossibilità di uscire realmente dalla rete complessa di interessi incrociati che ormai sovrasta tutte le nazioni occidentali. E se sbagliassero? Anche a Londra pensavano così e poi è arrivata la Brexit.

Franco Chiarenza
5 marzo 2018