E’ davvero così strano che il Movimento Cinque Stelle cerchi un’intesa con i democratici certamente con maggiore convinzione di quanto non abbia fatto con il centro-destra? Non lo è, non soltanto perché una parte importante del suo elettorato proviene da sinistra (come da più parti si è ricordato) ma anche per ragioni programmatiche concrete.

Programmi
Checché ne dicano i luogotenenti di Renzi i programmi messi sul tavolo (che divergono notevolmente da quelli agitati in campagna elettorale) non sono contrapposti, anche per la genericità della loro formulazione.
I grandi temi che hanno impegnato la campagna elettorale sono tre: immigrazione irregolare, Europa, disoccupazione. Sui modi e le forme del contrasto all’immigrazione clandestina un’intesa è possibile, soprattutto dopo che le misure adottate dal governo Gentiloni hanno cominciato a dare i loro frutti; si tratta soltanto di proseguire sulla stessa strada con maggiore incisività, né i Cinque Stelle hanno in proposito presentato alternative sostanziali. Sull’Europa i “grillini” hanno fortemente attenuato le posizioni del passato; possono essere considerati poco credibili ma sta di fatto che il problema non è più quello di stare in Europa e nell’Eurozona ma di come ci si sta, che è una cosa che dicono tutti (anche se poi qualcuno dovrebbe spiegarci come). Sulle misure di sostegno ai disoccupati cambiano le denominazioni e le quantità di risorse da impegnare, ma sul fatto che siano necessarie i due interlocutori sono d’accordo (anche in questo caso Gentiloni si è spinto già molto avanti); si tratta di conciliare questa esigenza col principio di non aumentare il debito pubblico, una preoccupazione di cui anche Di Maio si è detto consapevole.
Ci sono poi due punti di cui non si è discusso molto in campagna elettorale: la politica di bilancio e la scuola. Sul primo il movimento Cinque Stelle si è da tempo allineato sulle posizioni di prudenza richieste dai mercati internazionali, sul secondo permane qualche ambiguità ma quando Di Maio spiegherà meglio come si fa a non mandare gli insegnanti dove servono (cioè dove ci sono gli studenti), stante l’impossibilità di spostare gli studenti nei luoghi di residenza della maggioranza dei docenti, le velleità demagogiche dei Cinque Stelle finalizzate a raccogliere i voti degli insegnanti meridionali e delle loro famiglie finiranno, come è giusto, su un binario morto.
Tutto sommato, quindi, i programmi del partito democratico e quelli del movimento Cinque Stelle sono più sovrapponibili di quanto non fosse con la Lega, la quale, almeno sull’Europa e sull’immigrazione esibisce convincimenti e proposte assai diversi.

Timori
Ma per fare un accordo di governo i programmi non bastano. Sia il partito democratico che il movimento di Grillo sanno che un’eventuale maggioranza costruita su un accordo tra loro sarebbe assai fragile sia sul piano parlamentare (al Senato in particolare) che nelle rispettive opinioni pubbliche troppo avvelenate da una campagna scorretta e sopra le righe. Nuove elezioni a breve scadenza rappresentano quindi un’ipotesi realistica. In tale contesto si ripiomba nel clima di contrapposizione (dal quale in realtà non si è mai usciti) e si guarda più agli umori della base che non agli interessi del Paese (comunque interpretati). Non a caso entrambe le parti si riservano di sottoporre ai propri iscritti ogni eventuale accordo. L’unico vantaggio sarebbe costituito da una tregua politica da utilizzare per chiudere la partita di bilancio con l’Unione Europea, garantire l’entrata in vigore di alcune riforme varate dal governo Gentiloni di cui si parla poco e sono invece molto importanti (riforma carceraria, appalti, rapporti con le Regioni, esenzioni fiscali alle imprese innovative, ecc.), e soprattutto modificare la legge elettorale attenuando l’impronta proporzionalistica che caratterizza l’attuale sistema. Si arriverebbe così alle elezioni europee del 2019 e poi…..chi vivrà vedrà.

Suscettibilità
Ma non basta ancora. Al di là delle diversità programmatiche, oltre i timori elettorali, bisogna anche fare i conti con le suscettibilità personali. La legislatura passata è stata flagellata da una campagna d’odio (che si è espressa soprattutto nei social e nei talk show) che ha creato abissi di incomprensione e di offese personali. Una volta si litigava sulle idee e si evitavano le personalizzazioni: l’avversario era uno che la pensava diversamente e con lui si poteva prendere un caffè o parlare di cinema senza azzuffarsi. Oggi è il contrario: si odiano le persone a prescindere dalle idee di cui sono portatrici (che talvolta nemmeno si conoscono), e la contrapposizione investe i rapporti personali e familiari fino all’insulto; sembra di essere tornati ai tempi dei Capuleti e Montecchi nella Verona di Romeo e Giulietta. Con la complicità dei nuovi mezzi di comunicazione si è aperta una gara a dare il peggio di sé e soprattutto a parlarsi soltanto tra chi la pensa allo stesso modo. Se è vero che la democrazia si fonda sulla tolleranza e sul rispetto delle convinzioni diverse dalla propria, se contare le teste non deve comportare il diritto di rompere quelle dei perdenti, se, insomma, crediamo che il metodo è altrettanto importante dei contenuti, dobbiamo constatare di avere fatto uno spaventoso passo indietro.

Ecco perché la possibilità di un governo a maggioranza Cinque Stelle – Partito Democratico, al di là delle comprensibili contorsioni dei rispettivi gruppi dirigenti, si presenta in salita. Mentre acquista credito l’idea di costituire un “governo di necessità”, costituito da persone competenti e per bene disposte a immolarsi al fuoco incrociato che si leverà da ogni parte, il cui unico compenso sarà di raccontare ai propri nipoti di avere dato, in un momento di difficoltà, un contributo disinteressato al superamento di una situazione di emergenza. E non potranno nemmeno sperare di diventare senatori a vita.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2018

Che, prima o poi, la provocazione nucleare del dittatore nord-coreano Kim Il jong avrebbe mostrato la sua sostanziale inconsistenza era prevedibile; che però avvenisse con un dietro-front così spettacolare lascia perplessi. Che senso ha quello che è successo ? Quali le finalità di Kim? E cosa ha concretamente ottenuto anche considerando i costi dell’operazione, tali certamente da non essere sopportabili da una delle economie più povere del pianeta?

Prima del clamoroso annuncio della sospensione degli esperimenti nucleari erano avvenuti tre fatti importanti: il disgelo tra Corea del nord e Corea del sud in occasione dei giochi olimpici invernali (che si sono svolti in Corea del sud), la strana visita di Kim a Pechino, l’entrata in campo del Giappone.
Il disgelo tra le due Coree dovrebbe trovare conferma nel vertice già previsto tra i due presidenti; capiremo meglio in quell’occasione se davvero ci troviamo davanti a una concreta possibilità di uscire da un regime armistiziale che dura da settant’anni e a quali condizioni.
La visita di Kim in Cina il 28 marzo non è strana per sé, anzi era prevedibile per lo stato di tensione che si era creato tra i due paesi (almeno in apparenza) dopo la performance missilistica nord-coreana, ma per le circostanze che l’hanno caratterizzata e il modo in cui è stata resa pubblica. Treno blindato con a bordo una delegazione foltissima, molta attenzione alle forme e in particolare al riconoscimento “paritario” del leader nord-coreano, conferma ufficiale dell’incontro (con relativa diffusione delle immagini) soltanto alcuni giorni dopo quando Kim era rientrato a Pyongyang. Non si capisce la ragione di tanta cautela. Ma non bisogna dimenticare che nella cultura orientale i simboli e le formalità hanno un valore sostanziale: si tratta di decifrarli correttamente.
Nel frattempo si consolidava un’intesa tra il primo ministro giapponese Abe e il presidente sud-coreano Moon finalizzata a intensificare gli sforzi per una soluzione pacifica della crisi, intesa anche come avvio a un superamento della contrapposizione frontale tra le due Coree.
In tutto questo movimento il presidente americano Trump è parso estraniato. Vero è infatti che una visita segreta di Pompeo (attuale segretario di Stato) nella capitale nord-coreana aveva gettato le basi per un futuro incontro tra Kim e Trump, ma tutto ciò che è avvenuto in questi giorni non si è verificato per una spinta americana ma per processi spontanei che trovano forse la loro origine più a Pechino che a Washington.

Qual è dunque l’obiettivo di fondo di Kim (e forse dei cinesi)? Si possono soltanto formulare alcune ipotesi. La più probabile è che gli errori compiuti da Trump in Estremo Oriente (ormai riconosciuti da lui stesso nel riconsiderare la decisione di “stracciare” il trattato di libero scambio tra i paesi dell’area del Pacifico) abbiano spinto la leadership cinese a ritenere il momento adatto per modificare gli equilibri dell’Estremo Oriente a proprio favore. In tale contesto era necessario tranquillizzare il Giappone e la Corea del sud garantendo che l’affievolirsi della presenza americana non avrebbe comportato pericoli per i loro assetti politici ed economici e che anzi uno sblocco della situazione avrebbe potuto arrecare loro considerevoli vantaggi. Restava però da sciogliere il nodo coreano. E’ probabile che la dirigenza di Pyongyang si sia resa conto dell’impossibilità di mantenere ancora a lungo una situazione di stallo come quella che si protraeva dalla fine della guerra; per uscirne Kim ha adottato la tattica della minaccia aggressiva preventiva dimostrando di avere la possibilità di colpire gli interessi americani indipendentemente dalla Cina. Ciò avrebbe consentito al dittatore nord-coreano di giocare la partita da protagonista avendo chiaro l’obiettivo di fondo: il ritiro degli americani dalla Corea del Sud. Ed è questo che probabilmente Kim chiederà a Trump offrendo in cambio l’avvio di un graduale e prudente processo di unificazione delle due Coree (che trova molti sostenitori anche a Seul) e l’apertura della Corea del Nord all’economia di mercato. La visita a Pechino e la sua pubblicizzazione trionfalistica serviva forse a dimostrare che le mosse successive erano perfettamente coerenti con il disegno strategico cinese.

Difficile immaginare come andrà a finire. Certamente una presidenza americana confusa, pasticciona e pericolosamente insidiata dalle vicende del “Russiagate”, non appare la più adatta a gestire una situazione tanto delicata. Forse Trump comincia a capire che “America first” se significa disimpegno generalizzato può rappresentare un danno irreversibile per l’egemonia americana, una rinuncia a dettare le regole della globalizzazione col rischio che siano altri a farlo con conseguenze certamente non positive per l’America stessa. Insomma ci sono dei prezzi da pagare se si vuole mantenere quella funzione di predominanza politica, economica e ideologica che l’America ha imposto dopo la seconda guerra mondiale e consolidato dopo la caduta del muro di Berlino. Noblesse oblige.

 

Franco Chiarenza
22 aprile 2018

Continua la partita a rimpiattino tra Di Maio e Salvini con Berlusconi che fa lo sgambetto appena si intravede un possibile accordo. Usque tandem – direbbe Cicerone – abuteris patientia nostra? Forse non l’ha detto in latino ma è quanto in sostanza il presidente Mattarella ha ribadito ai tre compari nell’ultimo giro di consultazioni.

La risposta di Salvini è: fino a quando il previsto trionfo della Lega nelle elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia avrà consacrato la sua leadership incontrastata sia nei confronti di Di Maio che di Berlusconi consentendogli così di offrire ai Cinque Stelle un patto di legislatura. Bisognerà però vedere se a Di Maio questo basterà per rinunciare alla presidenza del governo e se davvero il Cavaliere si rintanerà in un cantuccio a leccarsi le ferite (ammesso che saranno tanto consistenti).
La risposta di Di Maio è: fino a quando Salvini si deciderà a riconoscere una verità incontestabile e cioè che, al di là di schieramenti elettorali che si dimostrano sempre più artificiosi (come lo è il centro-destra del trio Salvini, Berlusconi, Meloni), il vincitore delle elezioni è il movimento cinque stelle e ad esso quindi spetta la guida del nuovo governo. Se Salvini non ci sta i pentastellati sono disposti ad aspettare che il PD risolva il qualche modo i suoi problemi interni per mettere in campo una proposta di governo concordata con la nuova leadership del centro-sinistra. Di Maio che non conosce il latino ma parla bene il napoletano potrebbe esprimere il concetto con un famoso verso di una canzone: scurdammoce o’ passato, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.
La risposta di Berlusconi è: fate voi ma Salvini ricordi che senza i voti di Forza Italia egli resta inchiodato al suo 17% del tutto insufficiente per strappare la presidenza del consiglio a Di Maio, e quest’ultimo tenga conto che, pur essendo Berlusconi per i pentastellati un “male assoluto” (come non ha mancato di ribadire Di Battista, utilizzato da Grillo per intervenire pesantemente ogni qualvolta si profila una possibilità di accordo col centro-destra), Forza Italia rappresenta comunque una componente essenziale per non restare invischiato negli estremismi verbali e demagogici della Lega salviniana.

Ecco perché i tempi si allungano. Ma il presidente della Repubblica non può aspettare ulteriormente, non tanto per la guerra in Siria minacciata da Trump (che probabilmente non andrà oltre la “sparata” del 13 aprile) ma per le scadenze importanti che ci attendono in Europa: il vertice europeo previsto per la fine di giugno (nel corso del quale non soltanto si discuterà delle misure contro l’immigrazione illegale ma che probabilmente rappresenterà l’occasione per capire le reali intenzioni di Francia e Germania sul futuro dell’Unione), la chiusura del DEF (documento di programmazione economica e finanziaria) da presentare a Bruxelles, la difficile partita che si sta aprendo sui dazi sia nei confronti dell’America di Trump sia per la Brexit.
Le elezioni, come sempre accade (non soltanto in Italia) si sono giocate sulla politica interna (soprattutto nei suoi aspetti economici e sociali) ma le priorità del momento sono invece certamente di politica internazionale, dove né la Lega (al di là di una generica simpatia per la Russia di Putin) né il movimento cinque stelle sembrano avere le idee chiare. Contrariamente a quel che si dice io credo che l’aggravarsi della situazione internazionale non rappresenti affatto un fattore di accelerazione per la soluzione della crisi mediante la creazione di una coesa maggioranza parlamentare ma al contrario moltiplichi i dubbi e le perplessità che la rendono quasi impossibile. Forse invece può costituire una spinta per indurre il Capo dello Stato a proporre un “governo del presidente” da affidare a una personalità al di fuori dei giochi e che sia in grado di traghettare la legislatura verso obiettivi limitati nel tempo e nei contenuti.

Franco Chiarenza
14 aprile 2018

Il comportamento di Di Maio può apparire sconcertante per noi che siamo abituati alle vecchie classiche distinzioni della politica, ma in realtà è perfettamente coerente con la filosofia politica del movimento Cinque Stelle. Dovremo abituarci all’idea di un nuovo modo di fare politica che il vero vincitore delle elezioni sta imponendo e chiederci senza pregiudizi se ha una sua ragion d’essere e corrisponde all’evoluzione delle democrazie europee, sempre più dirette e sempre meno liberali. A me, liberale qualunque e convinto, la cosa non convince ma cerco di capire.

La tattica dei due forni?
La tattica è nota: la utilizzò qualche volta nella prima repubblica la Democrazia Cristiana. Stare al centro e allearsi con chi accetta alcuni punti programmatici indifferentemente dalle opzioni ideologiche di destra o di sinistra. Grillo e Di Maio l’hanno spregiudicatamente riproposta: il movimento si allea con chi condivide le sue priorità, gli altri invece, prigionieri di vecchie pregiudiziali ideologiche, non possono allearsi tra loro. Quindi – piaccia o non piaccia – le carte si danno all’hotel Forum, dove Grillo ha posto il suo quartier generale.
E’ però necessario chiedersi se, al di là dell’evidente vantaggio tattico, non ci sia qualcosa di più: la presa d’atto che le grandi scelte ideologiche si fanno altrove e che nella ordinaria amministrazione quel che conta è risolvere i problemi quotidiani della gente comune. A qualcuno potrà sembrare un abbassamento di livello ma forse si tratta soltanto di constatare che “il re è nudo”.
I cinque stelle si sottraggono accuratamente a ogni tentativo di classificarli sui grandi temi che dividono le opinioni pubbliche in Europa, in questo distinguendosi da chi si limita a intercettare le paure collettive (come fa Salvini, in linea con Marina Le Pen e altri leader “sovranisti” europei); si mostrano pragmatici e disposti a discutere sulle azioni di governo con chiunque, intransigenti soltanto sulla questione della moralità politica che interpretano in modo rigoroso su questo basando la loro credibilità di fronte all’elettorato. Grillo e Di Maio sono probabilmente convinti (e i risultati elettorali sembrano dargli ragione) che non perderanno un solo voto se decideranno in un modo o nell’altro sull’Europa, sul contrasto alla globalizzazione, sull’immigrazione; giustificheranno le loro scelte in modo pragmatico facendo passare il loro opportunismo per ragionevolezza, anche proponendo soluzioni non banali prese a prestito da economisti estranei alla loro storia, senza cercare coerenze impossibili ma anzi ostentando la loro nuova veste apparentemente accogliente in cui i profughi più presentabili della seconda repubblica possono trovare asilo. In ogni caso non consentiranno mai decisioni estreme ma sempre cercheranno soluzioni di compromesso “ragionevoli”, in tal modo accreditandosi come il nuovo partito moderato di centro, simile alla DC ma da essa distante per essere “partito degli onesti” in grado di dimostrare che si può governare senza rubare (che è ormai un assioma fortemente radicato nell’opinione pubblica).

Le origini di Grillo
Se potessero scegliere “dove li porta il cuore” i Cinque Stelle lo farebbero probabilmente a sinistra, aprendo a un partito democratico depurato da Renzi (nei cui confronti la polemica è stata troppo aspra per essere ancora rimossa), per almeno tre ragioni: per le lontane origini politiche di Grillo, il quale è sempre stato un simpatizzante di sinistra, perché una percentuale importante del loro consenso proviene da elettori del partito democratico e del centro, e infine perché il successo nel Mezzogiorno è la conseguenza di promesse demagogiche su cui tanti meridionali hanno appeso le loro preoccupazioni e che sono più compatibili con la tradizione assistenziale della sinistra che non con le asprezze “nordiste” di Salvini (il quale ha pur sempre il suo “nocciolo duro” nei territori veneti e lombardi) o con gli slogan ormai screditati del vecchio leader di Forza Italia.
Ma Grillo e Di Maio sanno anche che una parte importante della loro base (che è una piccola parte del loro elettorato), prigioniera della campagna d’odio alimentata con ogni mezzo contro tutti i governi precedenti, non gradirebbe alleanze con un partito che rappresenta la continuità (e giustamente la rivendica). Si può obiettare che anche la Lega ha governato (e governa tuttora in alcune Regioni) con Forza Italia, ma Salvini è stato bravo ad accreditare l’immagine di una Lega radicalmente diversa da quella fondata e guidata da Bossi.

Pragmatismo di programma
Ferma quindi restando la presidenza del Consiglio per Di Maio, i Cinque Stelle puntano sul pragmatismo di Salvini, su un programma evasivo sui temi controversi (Europa, immigrazione, scuola, lavoro, ecc.), cercando di isolare Berlusconi attraverso un uso spregiudicato delle possibilità che governo e sottogoverno consentono per catturare il sottobosco di Forza Italia. Un’operazione di “lavanderia” che i pentastellati lascerebbero volentieri alla spregiudicatezza di Salvini, il quale sa che questa è un’occasione unica per andare al governo prima che cambi il vento.
L’operazione presenta delle difficoltà e soprattutto la necessità di fare i conti con il Quirinale, ancora una volta vero garante nei confronti delle principali potenze europee che guardano con attenzione (e preoccupazione) quanto avviene a Roma, anche perché da ciò potrebbero dipendere cambiamenti anche profondi nella loro strategia di rilancio dell’Unione. Mattarella sta allentando le briglie (come fanno i bravi fantini) ma in prossimità del traguardo chiederà garanzie concrete che potrebbero essere indigeste soprattutto per la Lega; non a caso Di Maio moltiplica le dichiarazioni di “rispetto” nei confronti del Capo dello Stato e ribadisce che per lui il forno di destra e quello di sinistra sono equivalenti purché si dimostrino compatibili con le loro priorità che, non essendo né di destra né di sinistra, si fondano – come abbiamo detto – su una lotta senza quartiere contro la corruzione e sulle ragioni del buon senso verificate di volta in volta.

A questo ci hanno portato decenni di corruzione diffusa, di privilegi inaccettabili della classe politica, di uso strumentale delle opzioni ideologiche. La nostra convinzione di liberali è diversa: pensiamo che l’onestà è un presupposto non una soluzione. Per governare occorre riconoscersi in un progetto di società, in alcune scelte fondamentali sui diritti e i doveri dei cittadini, sull’opzione europea come riconoscimento di una cultura comune, sulle alleanze internazionali, e su una classe politica competente in grado di affrontare i problemi mantenendo saldi i principi liberali.
Il rischio che corriamo è – a mio avviso – di restare esclusi dalla partecipazione attiva alle grandi scelte che il mondo ha davanti a sé e che ricadranno inevitabilmente anche sulla nostra vita quotidiana. La partita vera non si gioca su più onestà e meno corruzione; si gioca tra più Europa o meno Europa. Più Europa significa avere qualche possibilità di sedersi al tavolo dove Stati Uniti, Cina, Russia, stanno modificando le regole della globalizzazione, meno Europa significa andare a scodinzolare per ottenere i favori di uno dei grandi giocatori (Salvini per esempio ha già scelto Putin in cambio di qualche mobile brianzolo in più da esportare). In tale contesto la delegittimazione dell’Europa portata avanti con impegno degno di miglior causa da talk show, giornali, social network, e soprattutto partiti politici desiderosi di accollare all’Unione responsabilità che sono soltanto nostre, sta producendo danni che potrebbero diventare irreversibili. I sondaggi dicono che ancora più del 60% degli italiani credono nell’Europa; anche in Parlamento se sommiamo i gruppi sostanzialmente europeisti (LeU, PD, FI) a quelli incerti ma non pregiudizialmente ostili (5S), non c’è una maggioranza anti-europea. Ma la tentazione di rovesciare ancora una volta sull’Europa quella che si dimostrerà un’impossibilità oggettiva di mantenere le promesse elettorali (a cominciare dall’abolizione della legge Fornero e dalle interpretazioni più radicali del “reddito di cittadinanza”) è dietro l’angolo.

 

Franco Chiarenza
8 aprile 2018

In via del Nazareno è pausa di riflessione. Quanto Renzi condiziona ancora il partito? Quanto spazio esiste per soluzioni realmente alternative, e in quale direzione? Quale dovrà essere il rapporto con il movimento Cinque Stelle? In breve: quale dovrà essere la proposta politica che sarà in grado di restituire al partito democratico la sua centralità?

Quasi tutti i commentatori che ho letto o sentito partono da un presupposto: molti voti (circa la metà) che avevano portato il partito democratico al 40% nelle ultime elezioni europee sono passati in blocco ai Cinque Stelle. Per recuperarli bisogna tornare alle origini “socialiste” abbandonando la deriva moderata imboccata disastrosamente da Renzi. Io ritengo questa analisi sbagliata.
Il successo di Renzi era dovuto proprio al fatto che i ceti moderati, orfani di un partito di riferimento che non fosse Forza Italia (ormai destrutturata e delegittimata da una leadership incapace di rinnovarsi), si erano accostati con crescente interesse al programma neo-liberale della Leopolda. Quelli che il PD ha perso non sono voti “di sinistra” ma, al contrario, voti “di centro”. Resta da capire perché una quota così rilevante di elettorato tendenzialmente centrista sia emigrata da via del Nazareno al più confortevole hotel Forum dove Grillo ha stabilito il suo quartier generale.

Che Renzi abbia compiuto degli errori è ormai quasi un luogo comune. Ma sarebbe più interessante capire quali abbiano prodotto un’emorragia così consistente.
Il job’s act? Non credo. Tutti gli imprenditori sono d’accordo che si è trattato di una buona legge, forse troppo timida ma che comunque ha conseguito alcuni risultati positivi. La mobilitazione sindacale contro alcune parti di quella legge è stata parziale (la CISL e la UIL non si sono accodate alla CGIL) e non tale da incidere sul consenso politico dei ceti medi.
Gli 80 euro? Non credo. Sarebbe stato preferibile concentrare le risorse disponibili nella riduzione del cuneo fiscale che costituisce la ragione principale dei mancati investimenti e delle delocalizzazioni, ma resta un modesto esercizio di demagogia che sarebbe stato meglio evitare ma certo non ha influito sulla decrescita del consenso. Anzi.
La riforma della scuola? Non credo. Ha aperto finalmente il vaso di Pandora di una situazione che marciva da anni e, malgrado le sue imperfezioni, ha regolarizzato migliaia di insegnanti. E’ stata ostracizzata dall’opposizione fanatica dei sindacati che per la prima volta hanno visto vacillare la loro egemonia incontrastata nel mondo della scuola; ma non credo che abbia influito più di tanto sul risultato elettorale, anche per la proverbiale indifferenza che gli italiani hanno sempre purtroppo manifestato per i problemi della scuola.
La riforma costituzionale? Certamente sì. Non per i suoi contenuti (in taluni aspetti molto discutibili, ma è materia di esperti la cui influenza elettorale è pari a zero) ma per il metodo che Renzi ha utilizzato. Il patto del Nazareno aveva una sua valenza ed era perfettamente in linea con la strategia neo-centrista del gruppo dirigente del PD se veniva portato fino in fondo, ivi compreso un accordo condiviso per la presidenza della Repubblica. L’intesa poteva essere ragionevolmente estesa ai Cinque Stelle con qualche concessione sulla legge elettorale e su alcuni temi di moralità politica che quel movimento portava avanti (e che erano apprezzati da quote crescenti dell’opinione pubblica). Così concepita la riforma non avrebbe avuto l’aspetto personalistico che Renzi invece gli ha dato e si sarebbe evitata la concentrazione del dissenso nei suoi confronti che ha rappresentato la sola ragione della sconfitta. A questi errori Renzi ha aggiunto il due di briscola: non si è dimesso da segretario del partito, ha subìto con evidente malumore e mettendo in atto qualche sgambetto (come nel caso della Banca d’Italia) l’azione di governo di Gentiloni, che invece veniva apprezzata da parti rilevanti della pubblica opinione moderata non soltanto per i suoi contenuti (in linea con il progetto politico di Renzi) ma anche per le modalità serenamente e silenziosamente “giolittiane” con cui il potere veniva esercitato, e infine ha affrontato le elezioni trasformandole ancora una volta in un voto sulla sua leadership. “Errare humanum est – dicevano gli antichi romani – perseverare diabolicum”.

Il futuro del partito democratico quindi non passa certamente – almeno per ora – da Matteo Renzi, il quale ha dimostrato di non avere la stoffa dello statista; la quale non è fatta soltanto di idee (per buone che siano) ma anche della capacità di realizzarle con determinazione ma senza strappi che non si sia sicuri di potere riassorbire, e soprattutto evitando comportamenti arroganti e presuntuosi come quelli che il giovane leader ha manifestato in diverse occasioni, anche per colpa di quel maledetto “cerchio magico” che i nostri uomini politici creano sempre intorno a sé e che serve soltanto ad alimentare diffidenza e disinformazione.
Il futuro del PD non passa nemmeno attraverso l’inseguimento del populismo demagogico dei Cinque Stelle, ma ciò non significa che non debba prendere atto di alcuni sentimenti che Grillo ha saputo abilmente sfruttare e che peraltro hanno una loro validità simbolica. Avere sottovalutato l’insofferenza popolare nei confronti dei tanti inammissibili privilegi di cui si è circondata la classe politica è stato il più grave degli errori compiuti dal PD; dalla farsa delle “macchine blu” ai vitalizi dei deputati, dalle consulenze fittizie alle assunzioni fuori concorso (ma dentro i partiti), sono anni che la pubblica amministrazione viene percepita come una grande mangiatoia che moltiplica i costi e frena l’iniziativa privata. La corruzione imperante (ormai certificata anche a livello comparato: il doppio della Francia, cinque volte più della Germania) è percepita come generalizzata, e quando emerge a livello giudiziario appare soltanto come la punta di un iceberg, mentre la stessa giustizia perde credibilità per i suoi tempi e talvolta quando mostra di essere condizionata da pregiudizi politici (o almeno ideologici). Insomma: i Cinque Stelle hanno assorbito una quota crescente del consenso dei ceti medi più per la rabbia prodotta da queste disfunzioni che per le loro ricette di politica sociale, alcune delle quali (non tutte) chiaramente demagogiche ed evidentemente irrealizzabili. Quando la gente si incazza arriva fatalmente il Savonarola di turno a dare un po’ di soddisfazione.
Dunque per prima cosa il PD deve tranquillamente dire di sì ai provvedimenti che i pentastellati propongono per moralizzare la vita pubblica. Senza complessi e senza paura di ammettere che su questo tema arrivano in ritardo.

Altre sono le tematiche su cui i democratici devono chiedere un serio confronto, mettendo in difficoltà le ambiguità di Grillo e Di Maio. Cominciando dalla politica estera e in particolare da quella europea: dove si collocano i Cinque Stelle? Dentro un progetto di maggiore integrazione (con tutti i cambiamenti necessari, anche negli equilibri tra i partner mediterranei e quelli del nord) a fianco di Macron e del nuovo governo tedesco dove i socialisti hanno assunto responsabilità crescenti? A favore del progetto isolazionista di Trump (con la guerra commerciale che ne consegue) o contro la destrutturazione di tutti gli strumenti multinazionali nati per governare la globalizzazione (WTO, alleanze regionali, ecc.) che il nuovo presidente tenta di mettere in atto?
E in politica economica: si deve puntare su nuovi investimenti mobilitando le risorse per diminuire il cuneo fiscale delle imprese oppure dare la precedenza a misure assistenziali generalizzate, come certamente è stato percepito da vasti settori dell’elettorato meridionale il cosiddetto “reddito di cittadinanza”? A fronte dei gravissimi problemi che nei prossimi anni colpiranno il nostro Paese per effetto della questione demografica e dell’applicazione di nuovi processi produttivi automatizzati nella produzione industriale vogliamo insistere sull’abolizione della legge Fornero e sull’idea di buttare a mare i profughi africani, o preferiamo affrontare il futuro in modo più coordinato e più serio?
E così via. Perché è sul modo di porre i problemi oltreché sulle soluzioni che si propongono che un partito di centro-sinistra, come Veltroni l’aveva concepito, rivendica la propria centralità. Senza arroganza, dialogando con tutti sulle cose e non sugli slogan. Altrimenti questo ruolo di interlocutore affidabile parti crescenti del Paese lo riconosceranno a Luigi Di Maio; il quale, con buona pace di De Luca, non può essere accusato di “parentopoli”, almeno finora.

 

Franco Chiarenza
5 aprile 2018