Tutta l’Europa è scossa dal problema dell’immigrazione. Il successo della destra nazionalista (impropriamente definita dai media come “populisti”) in tutti i paesi europei è stato in larga misura determinato dalle paure crescenti che il fenomeno immigratorio ha suscitato, spesso molto al di là della sua effettiva dimensione. Un allarme sociale legato a una percezione diffusa che si tratti di una “invasione” da parte di popoli che per cultura, religione, comportamenti sono considerati irriducibilmente “diversi”. Una sensazione ampliata dal rilievo che gli riservano i media (tradizionali e non) e dalle strumentalizzazioni politiche che l’hanno accompagnata. Il fatto poi che l’immigrazione (soprattutto africana) si sia sovrapposta a un disagio economico e sociale che deriva da cause del tutto diverse ha creato in ampi settori della classe media europea (e non soltanto) una fatale semplificazione che ha consentito alla destra di presentarsi come difensore degli interessi nazionali in contrapposizione al supposto “buonismo” della sinistra. Non solo: ogni forma di multilateralismo e di cooperazione internazionale (su cui peraltro si è fondato il successo della globalizzazione) è stato visto come un veicolo di confusione e di insicurezza a cui si poteva porre rimedio soltanto tornando alla dimensione nazionale.
Le sinistre e i conservatori moderati non sono riusciti a comprendere tempestivamente l’estensione del fenomeno condannandosi quindi all’isolamento e al ridimensionamento, mentre la destra si è rapidamente trasformata in un nazionalismo estremista (in qualche caso con evidenti caratteri razzisti). Anche dove il centro-sinistra è riuscito faticosamente a mantenersi al governo, come è avvenuto in Germania, Francia e Spagna, non è stato tuttavia in grado di proporre soluzioni convincenti.

Il problema globale
L’immigrazione che tanto preoccupa l’Europa va inquadrata in un fenomeno che riguarda il mondo intero e che si è accelerato con la globalizzazione e la diffusione capillare di informazioni consentita dai nuovi mezzi di comunicazione. Dalle regioni più povere masse crescenti di persone cercano di raggiungere stati e paesi dove il tenore di vita è più elevato e vi sono maggiori possibilità di miglioramento sociale, favorite anche dal fatto che la decrescita della natalità apre in effetti spazi di occupazione di rilevanti dimensioni. Non soltanto quindi dall’Africa verso l’Europa ma anche dai Balcani verso l’Europa occidentale, dai paesi dell’Estremo Oriente verso l’Australia e il Giappone, dal Medio Oriente verso l’Europa, dal Messico verso gli Stati Uniti.
Si tratta di un fenomeno che si ripete da quando l’uomo ha abitato la Terra e che – come la storia dimostra – è irreversibile. Si può ostacolare, governare, ritardare, programmare ma non impedire. Questa è la ragione per la quale la distinzione tra “profughi” che fuggono da guerre di sterminio (Siria, Iraq, Sudan, Yemen, guerre civili di varia natura) e “emigranti economici” ha un valore relativo; se la spinta a fuggire è tale da mettere in gioco la propria vita quali che siano le motivazioni le conseguenze saranno identiche.

Il problema europeo
Per governare al meglio il fenomeno e ridurne gli effetti negativi i paesi europei possono percorrere due strade: quella “nazionale” e l’altra “europea”. Tertium non datur.
La prima consiste nel rinchiudersi nei confini nazionali ma richiede innanzi tutto una collocazione geografica poco permeabile; l’Ungheria e la Repubblica Ceca possono farlo facilmente, la Grecia, l’Italia e la Spagna hanno ovviamente maggiori difficoltà. Ma anche laddove è più facile, la via “nazionale” comporta diversi svantaggi: chiusura delle frontiere, ostacoli alla libera circolazione di uomini e cose, rafforzamento dei poteri di polizia, ritorno alla logica pre-bellica dei rapporti di forza, e soprattutto un quasi automatico scivolamento verso forme di democrazia plebiscitaria assai lontane dallo stato di diritto (come infatti sta avvenendo in Polonia e Ungheria). Senza la protezione europea d’altronde paesi di piccole dimensioni, come per esempio quelli balcanici, avrebbero solo la scelta di sopravvivere all’ombra dell’egemonia tedesca o di quella russa.
L’alternativa è l’Unione Europea. Meglio se tale nella realtà oltre che nel nome. Ciò significa cedere un pezzo della propria sovranità all’Unione assegnandogli competenze in materia di gestione dell’immigrazione che oggi non ha, superando trattati concepiti in ben altri momenti e circostanze, come quello di Dublino, (la cui rigida applicazione ha oggettivamente danneggiato i paesi mediterranei di più facile sbarco come Italia, Grecia, Malta, Spagna), e creando strutture di contrasto dotate di mezzi sufficienti a cominciare dalla creazione di centri di raccolta e smistamento in Africa.

Il problema italiano
Nel nostro Paese dati e cifre indicano che il fenomeno immigratorio, malgrado le recenti “invasioni” dall’Africa, è meno rilevante che altrove; i confronti con Germania, Francia e Gran Bretagna lo dimostrano. Inoltre il deficit demografico è in Italia talmente significativo da prevedere entro il 2025 una forte immissione di immigrati se non si vuole penalizzare l’economia nazionale. Perché allora tanto allarme?
Perché la questione è stata male gestita (soprattutto nella prima fase) e l’opinione pubblica non è stata adeguatamente preparata. Si è sottovalutato, per esempio, il problema della compatibilità culturale; l’ostilità maggiore investe infatti gli immigrati musulmani per la convinzione che la loro dimensione religiosa sia contrapposta alle nostre radici cristiane e i loro comportamenti sociali incompatibili con i nostri. Nei confronti degli immigrati romeni, ucraini, serbo-croati, albanesi si riscontra meno avversione perché, a torto o ragione, considerati più assimilabili. E in effetti se ci sono maestre – come è avvenuto – che in nome di un malinteso multiculturalismo eliminano il Natale, si possono comprendere certe reazioni della pubblica opinione. Anche la questione dello jus soli è stata giocata su una contrapposizione strumentale per fare passare gli oppositori come razzisti, mentre di fatto per come era stata proposta essa finiva per svilire il principio di nazionalità il quale, in quanto processo di assimilazione culturale, quando non deriva dalla famiglia di appartenenza, va verificato e riconosciuto soltanto con la maggiore età. Pretendere dagli immigrati l’accettazione dei nostri principi giuridici, delle nostre convinzioni morali, è il solo modo di farli partecipare alla comunità civile e di non ghettizzarli nella loro diversità.
Nonostante questi errori la questione sarebbe stata ancora governabile se l’Unione Europea avesse fatto la sua parte. L’opinione pubblica (anche quella moderata) ha avuto invece l’impressione che tutti i partner europei giocassero a scarica-barile rovesciando sul nostro Paese le loro difficoltà. Dublino o no, qualche gesto più risoluto avrebbe potuto forse evitare alla sinistra l’impressione di impotenza che ha dato; Minniti è stato l’unico a rendersene conto e si è mosso nella giusta direzione ma è stato duramente contestato all’interno del suo partito e comunque è arrivato tardi e non ha saputo utilizzare adeguatamente i canali di comunicazione occupati in permanenza dalla destra nazionalista. La paura di perdere qualche consenso a sinistra ne ha fatti perdere molti di più al centro.
L’esito elettorale del 5 marzo peraltro non era risolutivo. Se il partito democratico avesse consentito al movimento Cinque Stelle di governare, ponendo pochi ma chiari paletti (soprattutto in politica estera), sul problema immigrazione le posizioni avrebbero potuto avvicinarsi molto e si sarebbe evitato che Salvini, saltando a qualunque costo in groppa al nuovo governo, potesse dare quei segnali di “fermezza” che – bisogna ammetterlo – ampi settori dell’opinione pubblica hanno sostanzialmente condiviso. E occorre aggiungere che Macron con le sue contraddizioni, con la sua arroganza, sollecitando le corde della dignità nazionale offesa, è stato (spero inconsapevolmente) il miglior alleato di Salvini.

Oggi il leader della Lega domina la scena, Di Maio, impelagato nelle promesse elettorali impossibili da realizzare, sembra una contro-figura di Salvini, il PD appare lacerato e incapace di rappresentare un’alternativa credibile.
Forse ha ragione Calenda: occorre voltare pagina. Come? Il bello delle pagine nuove è che sono bianche, si può evitare di tenere conto di quel che era scritto nelle precedenti per ricominciare daccapo.

 

Franco Chiarenza
27 giugno 2018

Come ha ricordato Vittorio Emanuele Parsi nel suo bel libro “Titanic, il naufragio dell’ordine liberale”, Franklin Delano Roosevelt in un famoso discorso del 1933 che segnò l’avvio del “New Deal” affermò di fronte a un paese stremato, disorientato e senza speranza che “non c’è nulla di cui dobbiamo avere paura tranne della paura stessa!”. Ma, come lo stesso Pardi scrive, gli artefici dell’ordine internazionale liberale “nel momento in cui prospettavano un sistema economico e finanziario aperto, fondato sulla libera circolazione di beni e di servizi, erano ben consci che a un mercato mondiale dovesse corrispondere una struttura di governance solida e che solo attraverso un accorto sistema di regole sarebbe stato possibile evitare che un mercato globale potesse prendere il sopravvento su democrazie necessariamente locali.” Questa era la grande scommessa che gli Stati Uniti attraverso un complesso sistema di alleanze e di vincoli multilaterali hanno portato avanti soprattutto dopo la fine della guerra fredda nel 1989 e il venir meno dell’ideologia alternativa comunista.
Dobbiamo chiederci se la crescita dei nazionalismi populistici in Europa e in America significa che l’ambizioso progetto di un liberalismo senza frontiere su cui l’Occidente democratico aveva fondato la sua supremazia economica, politica e culturale dopo la seconda guerra mondiale sia
sostanzialmente fallito.

Tutti separati appassionatamente
Cosa accomuna Trump, il gruppo di Visegrad, la Brexit, la Lega di Salvini, il lepenismo francese, e altri fenomeni che definiamo sommariamente “populisti”? In realtà poco o nulla perché si tratta di movimenti assai diversi e originati da realtà politiche e sociali differenti. Ma una cosa in comune ce l’hanno: l’avversione a regole internazionali stabilite in trattati multilaterali che in qualche misura limitano le sovranità nazionali.
Dietro questa ostilità c’è la convinzione che i problemi di casa propria si risolvono meglio tenendo chiuse porte e finestre e che quello che succede fuori non ci riguarda, almeno finché non tocca direttamente i nostri specifici interessi. Come se la pulizia delle strade, una circolazione ordinata, la sicurezza pubblica, il funzionamento della scuola e degli ospedali e quant’altro riguarda i rapporti di convivenza di una qualsiasi comunità non dovesse interessarci purché la nostra casa sia ordinata e pulita al suo interno.
Si tratta di una percezione tanto diffusa quanto sbagliata perché con la globalizzazione dobbiamo fare i conti necessariamente con le esigenze di tutti; ed è questo che mette paura per il timore che ciò possa mettere in pericolo quelle sicurezze individuali che riteniamo di avere acquisito per sempre.
Come si traduce questa pericolosa tendenza? Nella separazione. Ognuno per sé, Dio (per chi ci crede) per tutti. Questo significa dazi per rendere più onerose le importazioni, restrizioni alla libera circolazione di persone e merci, monete flessibili per speculare sulla variabilità delle valute (con relativi cambi forzosi), e via discorrendo; un ritorno alle condizioni d’anteguerra. Quel che sorprende è che questo “ritorno al passato” sia sostenuto in paesi, come il nostro, che sulle esportazioni hanno fondato il loro sviluppo e che si troverebbero assai svantaggiati da un generale inasprimento dei dazi che non potrebbe in alcun modo essere compensato dalle manovre sui cambi adottate in passato in un contesto assai diverso e comunque con effetti transitori e facendone pagare il costo ai più deboli attraverso un’inflazione che minava alla base il potere d’acquisto dei consumatori (Luigi Einaudi scrisse in proposito pagine indimenticabili).
Con una moneta debole (come sarebbe una nuova lira), con un mercato interno oggettivamente limitato, resterebbe soltanto il turismo come partita attiva della bilancia commerciale; con grande soddisfazione di chi vorrebbe l’Italia ridotta al ruolo di una “Disneyland” permanente.
Che Trump scommetta sul protezionismo ha un senso, almeno a breve termine, perché può disporre di un mercato interno di dimensioni gigantesche e di una moneta che resterebbe – tolto di mezzo l’euro – l’unica valuta di riferimento per il commercio internazionale; anche se una politica fondata sulla forza economica e militare può risultare controproducente nei tempi lunghi essa nel breve termine può produrre dei vantaggi per la middle class che si sente sacrificata dagli effetti della globalizzazione. Poco importa a Trump e ai suoi consiglieri se in una prospettiva più lontana i consumatori americani potrebbero restare danneggiati da un aumento dei prezzi e dall’indebolimento di un’egemonia che non è stata soltanto militare ma anche culturale e politica e che tanta importanza ha avuto anche nello sviluppo dell’economia americana. Per questo la partita che si gioca all’interno degli Stati Uniti è decisiva per tutte le democrazie liberali dell’Occidente; il venir meno della vision fondata sulla concezione di “società aperta” avrebbe conseguenze gravissime in tutte le parti del “sistema” che essi stessi avevano creato dopo gli stermini bellici della prima metà del secolo XX.

Dal multilateralismo alle intese parziali
Che però siano “sovranisti” paesi che hanno fondato il loro sviluppo proprio sull’apertura dei mercati come molte nazioni europee è quasi paradossale. Quale mai “sovranità” reale (e non puramente formale) potranno esercitare paesi come l’Ungheria, la Polonia, l’Austria e la stessa Italia a fronte di potenze globali in possesso di strumenti di pressione commerciali, finanziari, militari come quelli di cui dispongono i grandi blocchi continentali come gli Stati Uniti, la Cina, la Russia? Sarebbero inevitabilmente fragili vascelli destinati ad accodarsi se non vogliono restare schiacciati da flotte d’acciaio.
Si replica sostenendo che intese parziali, accordi bilaterali, possono benissimo prendere il posto di alleanze multinazionali, col vantaggio di mantenere la sovranità in casa propria; ma si tratta di una menzogna che nasconde purtroppo un’altra amara verità. Essere svincolati da regole internazionali che hanno il loro fondamento nel riconoscimento dei principi liberali dello stato di diritto significa avere via libera nel processo di regressione da democrazie liberali in democrazie plebiscitarie sostanzialmente autoritarie. E’ incredibile che proprio quei paesi che hanno potuto sviluppare la propria economia uscendo da secolari situazioni di minorità anche e soprattutto grazie all’appartenenza all’Europa e al sostegno che da essa hanno ricevuto, come alcuni paesi dell’Est europeo, abbiano avviato una pericolosa strategia politica di distacco dai valori fondanti dell’Unione Europea, cercando i modelli di riferimento nella Russia di Putin o nella Turchia di Erdogan.
A questo punta Salvini? E i Cinque Stelle che ne pensano?

 

Franco Chiarenza
22 giugno 2018

Era un libro per ragazzi che circolava tanti anni fa. La sua trama era incentrata su una piccola città in cui i genitori per punire i figli discoli decidono di fingere un abbandono che tuttavia si trasforma per circostanze imprevedibili in una lunga assenza. I ragazzi svegliatisi l’indomani si trovano a dovere fare i conti con una realtà che non conoscevano: distinguere i buoni (che si preoccupavano del benessere comune soprattutto dei più piccoli e deboli) dai cattivi (che approfittavano dell’assenza dei genitori per instaurare la legge brutale della violenza), fare funzionare i servizi essenziali, darsi delle regole, ecc. Il ritorno dei genitori interromperà un’esperienza che stava diventando drammatica perché, nel bene e nel male, le regole e chi le fa rispettare anche quando non piacciono sono necessarie.
Guardando i penosi balbettii del premier Conte nella conferenza stampa con Macron, i lavori parlamentari affidati all’imperizia di presidenti improvvisati (amorevolmente assistiti dai funzionari), gli annunci razzisti di Salvini immediatamente smentiti da Conte, i 500 profughi dell’Aquarius sballottati nel Mediterraneo mentre altre centinaia sbarcano tranquillamente a Pozzallo, il ministro dell’Economia presentare al Parlamento un DEF in cui dopo avere affermato che il “reddito di cittadinanza” sponsorizzato da Di Maio e la riforma pensionistica che sta tanto a cuore alla Lega sono in cima ai pensieri del governo, ribadisce tuttavia che il deficit non può essere aumentato e che gli odiati parametri europei vanno rigorosamente rispettati (come appunto sosteneva il suo predecessore Padoan), il ministro Di Maio ricevere i nuovi proprietari dell’Ilva per cercare soluzioni ragionevoli (come appunto già stava facendo Calenda prima di lui), mi è venuto in mente il ricordo di Timpetil.
Dilettanti allo sbaraglio i Cinque Stelle, professionisti della peggiore demagogia populista i seguaci di Salvini, assenti “genitori” sconsiderati e irresponsabili che hanno determinato questo caos. E siamo soltanto alle prime battute, non sappiamo cosa ci riserverà il futuro, anche perché di un ritorno dei “genitori” nel nostro caso non c’è traccia.

Franco Chiarenza
20 giugno 2018

C’è un po’ di comprensibile sconcerto tra quelli che non hanno votato e comunque non si riconoscono nelle posizioni dei Cinque Stelle e della Lega. Mi ricorda un po’ un analogo sgomento che accompagnò la vittoria di Berlusconi nel 1994. Ma con una aggravante: che Salvini e Di Maio appaiono come protagonisti di una “rivoluzione” anti-sistema assai più di quanto potesse essere Berlusconi (che peraltro era alleato con due partiti come la Lega di Bossi e Alleanza Nazionale di Fini ancora percepiti, per le loro origini, anch’esse come forze anti-sistema). E più Di Maio e Salvini pongono enfaticamente l’accento sul governo di “cambiamento” più la preoccupazione cresce. Fin dove si intende portare il “cambiamento”? Fino a mettere in discussione le alleanze tradizionali dell’Italia? Fino a uscire dall’Unione Europea? Fino a trasformare la democrazia repubblicana disegnata dalla Costituzione in una “democrazia illiberale” come quella propugnata dal leader ungherese Orban? Lega e Cinque Stelle dicono di no, ma se davvero sono sinceri sanno che all’interno di quei paletti i margini di manovra sono strettissimi e del tutto insufficienti non soltanto a realizzare cambiamenti epocali ma anche a mantenere tutte le promesse fatte in campagna elettorale.

Che fare?
Non resta che aspettare. Tutto ruota intorno a Salvini, sia dal punto di vista tattico che per quanto riguarda l’azione di governo. Se infatti il leader della Lega, con i favorevoli risultati delle elezioni amministrative e con l’esibizione muscolare della chiusura dei porti alle navi cariche di immigrati, ritiene di avere raggiunto il massimo livello di consenso oltre il quale gli inevitabili compromessi di governo potrebbero invece logorarlo, non c’è dubbio che alla prima occasione – probabilmente in autunno – provocherà una crisi di governo; col rischio però che Mattarella, pur di evitare lo scioglimento delle Camere, rimetta in campo l’ipotesi di un accordo tra Cinque Stelle e partito democratico reso possibile da una comprensibile riluttanza del movimento di Grillo ad affrontare nuove elezioni che difficilmente potrebbero ripetere il successo del 4 marzo.
Ma per riesumare la teoria dei due forni (magari sostituendo Fico a Di Maio) occorre che il secondo forno (cioè il PD) sia disponibile, il che al momento attuale non è affatto scontato.
Se invece Salvini ritiene di potere giocare la partita in tempi lunghi riducendo le pretese dei Cinque Stelle (soprattutto per quanto riguarda il “reddito di cittadinanza” assai poco popolare nell’elettorato leghista settentrionale) e spingendo invece l’acceleratore sugli immigrati e su altre riforme (come quella pensionistica) che porterebbero il Paese in rotta di collisione con Bruxelles, il governo, magari con qualche rimpasto, potrebbe durare almeno fino alle elezioni europee del 2019 quando, incassato un forte dividendo elettorale, una sua candidatura alla presidenza del Consiglio diventerebbe possibile. Soprattutto se, nel frattempo, riuscisse anche a fare approvare dal Parlamento una legge elettorale più maggioritaria di quella attuale.

PD?
Nel frattempo il partito democratico deve urgentemente fare i conti con sé stesso, anche a costo di una scissione che sarebbe comunque preferibile alla confusione strategica che lo contraddistingue. Il problema non è quello di una virata a sinistra alla ricerca di un elettorato che non c’è (altrimenti si sarebbe riversato sulla LeU di Grasso) ma invece di rappresentare quell’elettorato di centro che è diviso tra astensione e movimento Cinque Stelle e che potrebbe non condividere l’azione di governo di Salvini e Di Maio man mano che verranno al pettine le conseguenze della loro linea politica nelle grandi scelte economiche e finanziarie (Eurozona, banche e risparmio, fisco, investimenti, occupazione, ecc.). Uno spazio elettorale che potrà essere colmato indifferentemente da un nuovo partito democratico (se cambia nome è meglio), da Forza Italia (se emargina Berlusconi è meglio) o da una nuova formazione sul modello di “En Marche” di Macron o di “Ciudadanos” di Albert Rivera.

Al momento non resta che aspettare. I tanti “liberali qualunque” valuteranno gli atti del governo “consolare” di Di Maio e Salvini senza pregiudizi nella speranza che alcuni di essi contribuiscano a rimuovere incrostazioni corporative e ideologiche che da parte liberale sono sempre state inutilmente denunciate.
Non è tempo di mobilitazioni improvvisate. Finché i capisaldi della democrazia liberale (libertà di comunicazione, indipendenza della magistratura, rispetto della Costituzione e dei trattati che ci consentono di far parte a pieno titolo dell’Unione Europea e dell’ Alleanza Atlantica) non saranno messi in discussione ciò che è avvenuto potrebbe anche rivelarsi come uno strappo utile a fare uscire il Paese dall’immobilismo.

Franco Chiarenza
12 giugno 2018

A crisi conclusa il dibattito sull’operato del Capo dello Stato in questa difficile contingenza può svolgersi più serenamente di quando – nei giorni scorsi – era sostanzialmente inquinato dalle simpatie partigiane per questo o quello schieramento. In esso occorre distinguere due aspetti diversi tra loro ma evidentemente contigui: quello giuridico-costituzionale e l’altro più propriamente politico.

L’articolo 92
Al centro della polemica sui poteri che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica c’è l’ormai celeberrimo articolo 92, mai tanto citato come in questi giorni. Esso, come è noto, attribuisce al Capo dello Stato il potere di nominare il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. Non è questa la sede per addentrarsi nelle molteplici e fin troppo elaborate disquisizioni che hanno accompagnato (non da oggi) l’interpretazione da dare al dettato costituzionale; il problema non è tecnico-giuridico ma politico-giuridico. I limiti entro i quali il presidente della Repubblica può esercitare il potere di nomina sono chiaramente espressi dall’insieme delle norme che regolano l’assetto costituzionale italiano, le quali – piaccia o no – disegnano uno stato parlamentare in cui le maggioranze di Camera e Senato hanno il compito di indicare le scelte politiche e quindi di esprimere il governo. Il presidente della Repubblica può intervenire soltanto in casi limite che riguardano l’idoneità delle personalità prescelte oppure il costituirsi di una situazione di stallo tra le forze politiche, o infine per fronteggiare un’emergenza politica e economica che minaccia la sicurezza del Paese. Per il primo caso ricordiamo il veto opposto dal presidente Scalfaro alla nomina di Previti al ministero della Giustizia nel 1994, per il secondo la decisione del presidente Einaudi nel 1953 di affidare la presidenza del Consiglio a Giuseppe Pella, e infine il caso più recente, quando nel 2011 il presidente Napolitano promosse la costituzione del governo Monti.
La presenza di un economista – della cui competenza nessuno dubita – come ministro dell’Economia nella lista proposta dal presidente incaricato poteva rappresentare un casus belli che autorizzava il presidente a porre il veto, sol perché in passato Paolo Savona aveva pubblicamente espresso la sua avversione alla moneta unica e la convinzione che, in caso estremo, se ne potesse anche uscire? Non essendocene per di più traccia nel programma minuziosamente concordato tra Cinque Stelle e Lega? Francamente non credo; da “liberale qualunque” ho il dubbio che Sergio Mattarella sia andato oltre i limiti dei suoi poteri. Fatta salva naturalmente la sua buona fede che nessuno può mettere in dubbio.
Nelle discussioni che si sono accese un po’ ovunque tutti hanno fatto a gara nel ricordare, oltre quelli già citati, altri interventi del Quirinale nella formazione dei governi; ma si è dimenticato di aggiungere che essi sono sempre rimasti inquadrati nella moral suasion che i presidenti della Repubblica possono legittimamente esercitare, e si sono infatti sempre conclusi con un’intesa – più o meno amichevole – col presidente del Consiglio incaricato. Uno scontro frontale come quello che si è consumato tra Mattarella e Conte e che ha portato alla rinuncia a formare il governo malgrado esistesse in Parlamento una maggioranza che lo sosteneva, a quanto ricordo non si era mai verificato.

L’opportunità politica
Ma al di là della diatriba giuridico-costituzionale dobbiamo chiederci: era politicamente opportuna (o addirittura necessaria, come alcuni sostengono) la rigidità sul nome di Savona? Non credo, e ne spiego le ragioni:

  1. Savona è un esperto economista che sa benissimo (come lui stesso ha dichiarato) che l’uscita dall’euro è un’eventualità da giocare naturalmente in tempi lunghi e con tutta la prudenza del caso e da realizzare soltanto se non si riesce a piegare la Germania a consentire quelle modifiche che l’Italia (ma non soltanto) richiede per contrastare i danni che provengono dalla partecipazione all’Eurozona. Non condivido le tesi di Savona ma so bene che molti autorevoli economisti (compreso il neo-ministro Tria che ne ha preso il posto) sono sostanzialmente sulle sue posizioni. E comunque ci sarà tempo e modo di intervenire quando il problema si porrà concretamente.
  2. Il veto sul nome di Savona alimenta il populismo demagogico anti-tedesco che sta crescendo nell’elettorato. Dare la colpa delle nostre insufficienze al desiderio perverso di distruggerci da parte di nemici immaginari è una strategia ben nota da sempre: si chiama “capro espiatorio”. Domando a Mattarella (e a quei tedeschi che a diverso titolo sono entrati nelle nostre vicende con la stessa leggerezza di un elefante in un negozio di cristalleria): cui prodest?
  3. La resistenza di Mattarella è facilmente vendibile a un’opinione pubblica smarrita e disinformata come il colpo di coda di un establishment duramente colpito dalla volontà popolare e che non vuole abbandonare il potere. Cosa che Di Maio e Salvini si sono affrettati a fare un’ora dopo che Conte aveva rinunciato al mandato. Col risultato che le quotazioni di Salvini hanno guadagnato almeno sette punti in percentuale.
  4. Mattarella ha esercitato le sue funzioni fino ad ora con grande equilibrio guadagnandosi un giusto prestigio. Ma non è un personaggio politicamente neutrale; è stato eletto da una maggioranza parlamentare di centro-sinistra senza alcuna condivisione con quella che allora era l’opposizione, e proviene da una militanza politica che risale alla Democrazia cristiana e in particolare alla sua componente di sinistra (come d’altronde suo fratello Piersanti barbaramente assassinato dalla mafia). L’attuale maggioranza non mancherà di ricordare le sue origini politiche in ogni occasione utile per tenerlo sotto scacco.
  5. Esiste una regola della democrazia, discutibile ma inevitabile se non si vuole cadere in un paternalismo politico che non è di casa in un sistema liberale: lasciare governare chi vince le elezioni. Demagogia, disinformazione, populismo velleitario si infrangono soltanto di fronte alle realtà incontrovertibili che dimostrano che vincoli e sacrifici non sono espressioni di poteri occulti che agiscono contro i nostri interessi ma il risultato di errori compiuti da noi e che vanno corretti da noi nel nostro interesse. Dentro o fuori dall’euro non cambia nulla; l’illusione che qualche manovra finanziaria fondata sulla flessibilità dei cambi monetari possa risparmiarci i sacrifici necessari è molto diffusa e alimentata da apprendisti stregoni che non tarderebbero a scomparire quando l’acqua alta cominciasse a salire producendo inflazione, bruciando il risparmio, diminuendo ulteriormente la credibilità del sistema Italia sui mercati internazionali.

 

Franco Chiarenza
1 giugno 2018