Tutta l’Europa è scossa dal problema dell’immigrazione. Il successo della destra nazionalista (impropriamente definita dai media come “populisti”) in tutti i paesi europei è stato in larga misura determinato dalle paure crescenti che il fenomeno immigratorio ha suscitato, spesso molto al di là della sua effettiva dimensione. Un allarme sociale legato a una percezione diffusa che si tratti di una “invasione” da parte di popoli che per cultura, religione, comportamenti sono considerati irriducibilmente “diversi”. Una sensazione ampliata dal rilievo che gli riservano i media (tradizionali e non) e dalle strumentalizzazioni politiche che l’hanno accompagnata. Il fatto poi che l’immigrazione (soprattutto africana) si sia sovrapposta a un disagio economico e sociale che deriva da cause del tutto diverse ha creato in ampi settori della classe media europea (e non soltanto) una fatale semplificazione che ha consentito alla destra di presentarsi come difensore degli interessi nazionali in contrapposizione al supposto “buonismo” della sinistra. Non solo: ogni forma di multilateralismo e di cooperazione internazionale (su cui peraltro si è fondato il successo della globalizzazione) è stato visto come un veicolo di confusione e di insicurezza a cui si poteva porre rimedio soltanto tornando alla dimensione nazionale.
Le sinistre e i conservatori moderati non sono riusciti a comprendere tempestivamente l’estensione del fenomeno condannandosi quindi all’isolamento e al ridimensionamento, mentre la destra si è rapidamente trasformata in un nazionalismo estremista (in qualche caso con evidenti caratteri razzisti). Anche dove il centro-sinistra è riuscito faticosamente a mantenersi al governo, come è avvenuto in Germania, Francia e Spagna, non è stato tuttavia in grado di proporre soluzioni convincenti.
Il problema globale
L’immigrazione che tanto preoccupa l’Europa va inquadrata in un fenomeno che riguarda il mondo intero e che si è accelerato con la globalizzazione e la diffusione capillare di informazioni consentita dai nuovi mezzi di comunicazione. Dalle regioni più povere masse crescenti di persone cercano di raggiungere stati e paesi dove il tenore di vita è più elevato e vi sono maggiori possibilità di miglioramento sociale, favorite anche dal fatto che la decrescita della natalità apre in effetti spazi di occupazione di rilevanti dimensioni. Non soltanto quindi dall’Africa verso l’Europa ma anche dai Balcani verso l’Europa occidentale, dai paesi dell’Estremo Oriente verso l’Australia e il Giappone, dal Medio Oriente verso l’Europa, dal Messico verso gli Stati Uniti.
Si tratta di un fenomeno che si ripete da quando l’uomo ha abitato la Terra e che – come la storia dimostra – è irreversibile. Si può ostacolare, governare, ritardare, programmare ma non impedire. Questa è la ragione per la quale la distinzione tra “profughi” che fuggono da guerre di sterminio (Siria, Iraq, Sudan, Yemen, guerre civili di varia natura) e “emigranti economici” ha un valore relativo; se la spinta a fuggire è tale da mettere in gioco la propria vita quali che siano le motivazioni le conseguenze saranno identiche.
Il problema europeo
Per governare al meglio il fenomeno e ridurne gli effetti negativi i paesi europei possono percorrere due strade: quella “nazionale” e l’altra “europea”. Tertium non datur.
La prima consiste nel rinchiudersi nei confini nazionali ma richiede innanzi tutto una collocazione geografica poco permeabile; l’Ungheria e la Repubblica Ceca possono farlo facilmente, la Grecia, l’Italia e la Spagna hanno ovviamente maggiori difficoltà. Ma anche laddove è più facile, la via “nazionale” comporta diversi svantaggi: chiusura delle frontiere, ostacoli alla libera circolazione di uomini e cose, rafforzamento dei poteri di polizia, ritorno alla logica pre-bellica dei rapporti di forza, e soprattutto un quasi automatico scivolamento verso forme di democrazia plebiscitaria assai lontane dallo stato di diritto (come infatti sta avvenendo in Polonia e Ungheria). Senza la protezione europea d’altronde paesi di piccole dimensioni, come per esempio quelli balcanici, avrebbero solo la scelta di sopravvivere all’ombra dell’egemonia tedesca o di quella russa.
L’alternativa è l’Unione Europea. Meglio se tale nella realtà oltre che nel nome. Ciò significa cedere un pezzo della propria sovranità all’Unione assegnandogli competenze in materia di gestione dell’immigrazione che oggi non ha, superando trattati concepiti in ben altri momenti e circostanze, come quello di Dublino, (la cui rigida applicazione ha oggettivamente danneggiato i paesi mediterranei di più facile sbarco come Italia, Grecia, Malta, Spagna), e creando strutture di contrasto dotate di mezzi sufficienti a cominciare dalla creazione di centri di raccolta e smistamento in Africa.
Il problema italiano
Nel nostro Paese dati e cifre indicano che il fenomeno immigratorio, malgrado le recenti “invasioni” dall’Africa, è meno rilevante che altrove; i confronti con Germania, Francia e Gran Bretagna lo dimostrano. Inoltre il deficit demografico è in Italia talmente significativo da prevedere entro il 2025 una forte immissione di immigrati se non si vuole penalizzare l’economia nazionale. Perché allora tanto allarme?
Perché la questione è stata male gestita (soprattutto nella prima fase) e l’opinione pubblica non è stata adeguatamente preparata. Si è sottovalutato, per esempio, il problema della compatibilità culturale; l’ostilità maggiore investe infatti gli immigrati musulmani per la convinzione che la loro dimensione religiosa sia contrapposta alle nostre radici cristiane e i loro comportamenti sociali incompatibili con i nostri. Nei confronti degli immigrati romeni, ucraini, serbo-croati, albanesi si riscontra meno avversione perché, a torto o ragione, considerati più assimilabili. E in effetti se ci sono maestre – come è avvenuto – che in nome di un malinteso multiculturalismo eliminano il Natale, si possono comprendere certe reazioni della pubblica opinione. Anche la questione dello jus soli è stata giocata su una contrapposizione strumentale per fare passare gli oppositori come razzisti, mentre di fatto per come era stata proposta essa finiva per svilire il principio di nazionalità il quale, in quanto processo di assimilazione culturale, quando non deriva dalla famiglia di appartenenza, va verificato e riconosciuto soltanto con la maggiore età. Pretendere dagli immigrati l’accettazione dei nostri principi giuridici, delle nostre convinzioni morali, è il solo modo di farli partecipare alla comunità civile e di non ghettizzarli nella loro diversità.
Nonostante questi errori la questione sarebbe stata ancora governabile se l’Unione Europea avesse fatto la sua parte. L’opinione pubblica (anche quella moderata) ha avuto invece l’impressione che tutti i partner europei giocassero a scarica-barile rovesciando sul nostro Paese le loro difficoltà. Dublino o no, qualche gesto più risoluto avrebbe potuto forse evitare alla sinistra l’impressione di impotenza che ha dato; Minniti è stato l’unico a rendersene conto e si è mosso nella giusta direzione ma è stato duramente contestato all’interno del suo partito e comunque è arrivato tardi e non ha saputo utilizzare adeguatamente i canali di comunicazione occupati in permanenza dalla destra nazionalista. La paura di perdere qualche consenso a sinistra ne ha fatti perdere molti di più al centro.
L’esito elettorale del 5 marzo peraltro non era risolutivo. Se il partito democratico avesse consentito al movimento Cinque Stelle di governare, ponendo pochi ma chiari paletti (soprattutto in politica estera), sul problema immigrazione le posizioni avrebbero potuto avvicinarsi molto e si sarebbe evitato che Salvini, saltando a qualunque costo in groppa al nuovo governo, potesse dare quei segnali di “fermezza” che – bisogna ammetterlo – ampi settori dell’opinione pubblica hanno sostanzialmente condiviso. E occorre aggiungere che Macron con le sue contraddizioni, con la sua arroganza, sollecitando le corde della dignità nazionale offesa, è stato (spero inconsapevolmente) il miglior alleato di Salvini.
Oggi il leader della Lega domina la scena, Di Maio, impelagato nelle promesse elettorali impossibili da realizzare, sembra una contro-figura di Salvini, il PD appare lacerato e incapace di rappresentare un’alternativa credibile.
Forse ha ragione Calenda: occorre voltare pagina. Come? Il bello delle pagine nuove è che sono bianche, si può evitare di tenere conto di quel che era scritto nelle precedenti per ricominciare daccapo.
Franco Chiarenza
27 giugno 2018