Cominciano ad essere chiari gli orientamenti distintivi del nuovo governo. Mentre in politica estera prevale una linea di continuità, quanto meno attenta a non creare spaccature troppo profonde rispetto alle scelte tradizionali dei governi precedenti, è sulla politica interna e su quella economica che si concentra l’azione della nuova maggioranza. E si tratta di iniziative che, al di là di ogni giudizio sul merito, si caratterizzano per una evidente ispirazione illiberale.

Immigrazione
Sul tema dei migranti per esempio non sono tanto in discussione le azioni poste in essere rozzamente da Salvini, chiaramente finalizzate a catturare un facile consenso da parte di un’opinione pubblica da tempo irritata per le porte sbattute in faccia all’Italia dai suoi partner dell’Unione Europea. C’è voluta la chiusura dei porti alle ONG perché finalmente l’Unione si rendesse conto che il suo miope comportamento stava producendo una profonda lacerazione nei principi di solidarietà che rappresentano il fondamento etico e morale dei trattati istitutivi.
Al di là dei numeri il problema è certamente di tale rilievo, anche in una prospettiva futura, da non prestarsi più a un incosciente scarica barile giocato sulla pelle dei disperati che cercano di approdare in Europa, senza che tutti – ma proprio tutti – se ne assumano la responsabilità.
Le azioni di Salvini dunque non colpiscono la nostra coscienza di liberali per se stesse ma per le modalità che le hanno accompagnate, per l’esaltazione generalizzata del principio di identità nazionale, per quel sottinteso “sacro egoismo” che già conoscemmo un secolo fa (con esiti disastrosi), per l’emergere di un razzismo para-fascista neanche troppo occultato. A cui si accompagna il fanatismo religioso sventolato come dimostrazione di identità; i comizi col rosario in mano, francamente, appaiono nell’esibizione salviniana ridicoli prima ancora che pericolosi ma tuttavia indicano una rivendicazione dell’intolleranza come cifra culturale della nuova maggioranza che potrebbe comportare seri attentati allo stato di diritto.
Una cosa è dunque richiamare, anche con misure estreme (purché transitorie), l’Europa ai suoi doveri di solidarietà, altro è utilizzare una protesta rancorosa che non appartiene alla nostra cultura prevalente per riesumare un nazionalismo razzista e aggressivo che riporta indietro l’orologio della storia.
La soluzione del problema va cercata in una strategia da mettere in atto non tanto per arginare i flussi migratori quanto per trarne i vantaggi che in prospettiva è possibile conseguire, limitando gli inevitabili inconvenienti che ogni assimilazione può comportare. So che davanti al termine “assimilazione” molti storcono la bocca, ma invece proprio di questo si tratta se si vogliono evitare quegli scontri frontali tra culture diverse che non accettano di dialogare tra loro e che alimentano pregiudizi e speculazioni politiche estremiste. Chi viene da noi deve accettare almeno gli elementi fondanti della nostra cultura, non perché sono superiori ma perché sono i nostri e chi entra in casa altrui deve adeguarsi alle regole degli ospitanti. Su questo punto bisogna essere chiari, soprattutto con i musulmani fondamentalisti che pretendono non soltanto di mantenere i loro usi e costumi (il che è legittimo) ma anche di prescindere dalle leggi e dai principi che caratterizzano le società laiche euro-atlantiche. Con buona pace dei rosari di Salvini il cristianesimo non c’entra; nel suo passato (anche relativamente recente) ci sono manifestazioni di settarismo e di intolleranza che possono servire ad alimentare un clima di scontro che non fa parte della cultura liberale. I valori a cui ci riferiamo sono quelli dell’illuminismo, dei diritti individuali di Locke, dei doveri comunitari di Mazzini, della democrazia pluralista fondata sull’equilibrio dei poteri di Montesquieu, del manifesto liberale di Stuart Mill, ecc.
L’altro aspetto di una visione strategica riguarda ciò che si può (e si deve) fare in Africa. Non tanto, o per lo meno non soltanto, bloccando i flussi migratori attraverso accordi sempre incerti con i governi africani (quando sono in grado di controllare i loro territori; il che spesso – come in Libia – non avviene) quanto invece costruendo un progetto lungimirante, con la partecipazione di forze economiche, soggetti sociali, organizzazioni non governative, in grado di coordinare le politiche dei diversi stati europei e di offrire garanzie giuridiche, finanziarie, di sicurezza, tali da consentire l’afflusso di investimenti infrastrutturali e produttivi senza i quali non si crea lavoro, in Africa come ovunque. Se l’Europa non lo fa altri lo faranno, come dimostra la crescente penetrazione della Cina che potrebbe rappresentare per gli europei un problema in più. Questo è il tema che l’Italia dovrebbe porre al centro dei dibattiti sull’immigrazione proponendo la stesura di un vero e proprio trattato che regoli tempi e modalità di intervento nella consapevolezza che – piaccia o no – il futuro dell’Europa si gioca in Africa.

Sicurezza
Una nuova legislazione sulla legittima difesa pare imminente; si tratta in effetti di un altro cavallo di battaglia su cui la Lega raccoglie molti consensi. In realtà, come risulta da tutti i dati ufficiali, la sicurezza delle famiglie (furti, rapine, aggressioni, ecc.) non è diminuita in maniera sensibile, ma, complici anche i mass-media, è molto aumentata la percezione del pericolo. La vecchia legislazione, fondata su principi garantisti che fanno parte della cultura liberale, si è dimostrata in effetti nell’applicazione della magistratura non soltanto tollerante ma spesso addirittura penalizzante per chi si difende. O per lo meno così è stata percepita. Che bisognasse cambiarla, senza rinunciare a quei principi di garanzia che sono irrinunciabili in uno stato di diritto, era già evidente da anni; non averlo fatto quando aveva la maggioranza è stato uno dei tanti errori della sinistra. Il rischio è che questa nuova maggioranza voglia introdurre un diritto all’autodifesa senza limiti che comporta una diffusione delle armi con tutte le conseguenze che possono derivarne, come dimostra l’esempio americano.

Politica economica
Sull’economia il cambiamento è evidente, culturale prima ancora che sui singoli provvedimenti.
Di Maio e il suo movimento sembrano definitivamente convinti anche in questo campo della validità delle tesi “sovraniste” degli alleati. La linea di tendenza è quella di difesa ad oltranza delle produzioni nazionali (e quindi la denuncia dei trattati multilaterali aperti alle dinamiche del mercato) anche con l’introduzione di dazi punitivi, senza alcuna considerazione dei vantaggi macro-economici che sul medio e lungo periodo la liberalizzazione consente. La necessità di mantenere un consenso che – per il modo in cui si è formato – appare molto fragile fa prevalere le misure protezionistiche immediatamente percepibili piuttosto che valutazioni più comprensive dei costi e benefici che tale politica può comportare per l’Italia. Anche perché – portata fino in fondo – questa politica andrebbe a scontrarsi con il mercato comune europeo, creando di fatto le condizioni per un’uscita del nostro Paese dall’Eurozona e dalla stessa Unione che, smentita a parole, è il vero obiettivo della Lega. Per chi, come noi, ritiene l’abbattimento delle frontiere europee una grande conquista che ha consentito al Vecchio Continente settant’anni di pace e all’Italia di passare dal rango di paese sottosviluppato a quello di settima potenza industriale del mondo (con qualche vantaggio – mi pare – per le condizioni di vita della sua popolazione), si tratterebbe di un arretramento suicida.
Purtroppo la memoria storica non esiste, soprattutto in un paese come il nostro che ignora la storia e si vanta di non insegnarla; tanto c’è wikipedia.

Contraddizioni
Se le linee di tendenza appaiono abbastanza chiare, dettate dal nazionalismo posticcio di Salvini, non mancano però le contraddizioni e i contrasti. I Cinque Stelle hanno fondato il loro consenso su un’utopia ambientalista da realizzare mediante strumenti di democrazia diretta molto distante dalle posizioni di difesa e di rilancio dell’idea autarchica di “nazione” che è alla base dell’ideologia neo-nazionalista della Lega. Si tratta di differenze importanti che imporranno, prima o poi, un chiarimento su alcune questioni non secondarie come il rilancio delle infrastrutture, i salvataggi industriali, gli squilibri territoriali.
I compromessi al ribasso hanno finora premiato il dinamismo strafottente di Salvini ma è lecito chiedersi cosa accadrà quando il malumore che serpeggia nella base grillina comincerà a farsi sentire. Ancora una volta sarà l’economia a imporre le sue esigenze di compatibilità. Per realizzare seriamente le promesse di Di Maio in materie sensibili come il reddito di cittadinanza, lo smantellamento dell’ILVA di Taranto, la riforma delle pensioni con l’adozione della cosiddetta “quota 100”, occorrono risorse che certamente non possono essere ricavate dall’abolizione dei vitalizi degli ex-deputati o da altre misure (come la riduzione retroattiva delle cosiddette “pensioni d’oro” ) che comportano contenziosi infiniti e un recupero di risorse nettamente inferiore all’occorrente. Senza parlare della flat tax che, anche secondo i suoi sostenitori, produrrà comunque nel primo biennio una contrazione degli introiti fiscali. Tutte cose che certamente il ministro Giovanni Tria ha spiegato a Di Maio e Salvini. Se prevarranno le esigenze propagandistiche ed elettorali dei due partiti di maggioranza salterà il ministro, e con lui il contenimento del bilancio nell’ambito delle compatibilità europee e delle attese dei mercati (che detengono – non va dimenticato – circa la metà del debito pubblico italiano); se invece Di Maio uscirà dal suo nirvana e si deciderà a fare i conti con la realtà c’è il rischio che la maggioranza non regga perché a Salvini potrebbe convenire andare alle elezioni europee del prossimo maggio su posizioni di rottura. Lo capiremo meglio alla fine di settembre quando conosceremo i risultati delle elezioni regionali in Baviera, cruciali per la sopravvivenza del governo tedesco e quindi per il futuro dell’Europa. Se un dio esiste, qualunque sia il suo nome, che ce la mandi buona.

 

Franco Chiarenza
26 luglio 2018

Il governo Conte continua nel suo incerto cammino dove la vera sorpresa sembra essere proprio il presidente del Consiglio – classico vaso di coccio tra vasi di ferro – il quale sta mostrando capacità di mediazione e di movimento understatement del tutto imprevedibili, in sintonia col ministro degli esteri Moavero Milanesi e con il probabile appoggio di Mattarella che punta su di lui per stemperare le asprezze dei due principali partner della maggioranza, sempre protesi in una gara demagogica che non sembra avere mai fine.
Il movimento Cinque Stelle è certamente quello in maggiori difficoltà, ma non sembra che ciò abbia determinato una diminuzione significativa del consenso di cui godono (sempre al di sopra del 30%).

Di Maio, Raggi, Fico, Appendino
Il vice-presidente del Consiglio si è imbarcato in un progetto (“decreto Dignità”) che voleva essere ambizioso e contrastare l’evidente maggiore visibilità del collega Salvini, ma il percorso sta mostrando grandi difficoltà ancor prima di approdare in Parlamento dove l’attende la sorda ostilità della Lega che tende ad annacquarne i contenuti fino a renderli irrilevanti. In effetti il vero punto debole del progetto è la copertura finanziaria, come sempre sottovalutata dal movimento Cinque Stelle. Nel frattempo Di Maio rinvia ogni decisione sull’ILVA di Taranto e sull’alta velocità in Val di Susa dove non sa che pesci pigliare senza perderci la faccia.
Il fallimento della sindacatura Raggi a Roma è ormai sotto gli occhi di tutti (e infatti in alcune circoscrizioni il movimento ha subito sconfitte significative); al di là della spazzatura che continua a ingombrare le strade della Capitale, delle buche che le hanno trasformate in percorsi di guerra, del deficit fallimentare dell’ATAC, c’è uno sfilacciamento nel funzionamento di tutti i servizi mentre la Giunta si muove inseguendo le emergenze giorno per giorno senza un progetto, un’ idea per il futuro. Anche all’interno del movimento il malumore è palpabile.
Roberto Fico ha portato a casa un duplice successo di immagine: l’abolizione dei vitalizi dei deputati e la presa di distanza da alcuni eccessi di Salvini. Nel primo caso si tratta di una misura molto attesa dalla base grillina che si compatta soprattutto nell’avversione irriducibile nei confronti della cosiddetta “casta” cioè contro i privilegi – veri o presunti – di chi ha mal governato fino a ieri; ma ci sono molti dubbi che una delibera che opera retroattivamente su diritti acquisiti possa superare il probabile vaglio di costituzionalità. Nel distinguersi invece da Di Maio sul problema dell’immigrazione Fico si candida a rappresentare una possibile alternativa all’alleanza con la Lega da realizzarsi quando dovesse verificarsi una seria crisi in grado di infrangere il patto con Salvini, per il momento ancora molto saldo.
Il sindaco di Torino è inciampato sulle Olimpiadi; richieste a gran voce dalla maggioranza dei cittadini, avversate decisamente dalla base dei Cinque Stelle, hanno costretto Chiara Appendino a tortuosi compromessi. Ma perché le Olimpiadi vadano bene per Torino mentre sono state sprezzantemente rifiutate per Roma pone qualche domanda.

Grillo
E poi c’è Grillo. Il quale si muove disinvoltamente non come il punto di riferimento di un movimento che ha conquistato (anche per merito suo) il governo del Paese, ma rivendicando un ruolo di libero battitore più consono al suo passato di attore comico che non di un leader consapevole. Difende la Raggi anche dove è indifendibile (la pagliacciata sulle buche gli ha valso anche le critiche di esponenti importanti del suo movimento), vaneggia utopie di vago sapore pannelliano (come l’abolizione delle carceri), rampogna Di Maio per il suo approccio di governo troppo istituzionale. Ma non era stato lui, con la ditta Casaleggio, a scegliere Di Maio come capo politico del movimento proprio per le sue presunte capacità di interlocuzione con i partiti e le istituzioni? Nessuno capisce quanto conti ancora Grillo; ma mi sembra difficile immaginare che un suo intervento, nel caso si approfondisca il contrasto tra l’ala movimentista e quella governativa, non sarebbe decisivo.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2018

L’Unione Europea naviga ormai allo sbando senza una rotta sicura, con un equipaggio diviso sulle scelte e spaventato dai cambiamenti climatici, con un capitano giunto al comando da poco – tale Emmanuel Macron – il quale sta dimostrandosi inesperto e inaffidabile. Le difficoltà, i contrasti, le diverse strategie di navigazione non erano mancati neanche in passato ma la volontà di raggiungere, prima o poi, il traguardo dell’unità politica non pareva in discussione. Adesso sembra che non sia più così. L’Unione si chiama così ma in realtà è un apparato burocratico che gestisce alcuni trattati i quali regolano in qualche modo e con diverse applicazioni quanto basta per fare funzionare un mercato comune. Ogni passo successivo è rimesso alla volontà di tutti i ventisette governi e parlamenti nazionali, che è come dire che passi avanti non se ne fanno mai. Al traguardo stabilito dai “padri” dell’Europa non pensa più nessuno.

La sala macchine
Nessuna nave può navigare se non funzionano le macchine che devono spingerla. Ciò che spinge l’Europa è il suo apparato produttivo, secondo al mondo dopo quello americano; di esso la “locomotiva” tedesca costituisce la parte più importante. Se si ferma la Germania si ferma l’Europa, piaccia o no. E in Germania, modello di stabilità anche politica e di ferme convinzioni europeistiche da settant’anni a questa parte, si respira un’aria di rivolta che rischia di bloccare la “sala macchine”. Bisogna dare atto a Angela Merkel di avere fatto il possibile per mantenere la rotta; le rigidità che tanti suoi critici le rimproverano servivano a mantenere la disciplina in un equipaggio che scalpitava chiedendo politiche ancor più rigorose nei confronti delle ciurme meno disciplinate (soprattutto quelle mediterranee).

Il ponte di comando
Quando Macron, appena eletto, ha fatto suonare l’inno europeo di Beethoven prima della Marsigliese, tutti capirono che il nuovo presidente francese si candidava autorevolmente al ruolo di comandante della nave europea. Gli altri partner per motivi diversi erano disposti a riconoscerlo; anche perché nessuna Europa è possibile senza la Francia, per ragioni geografiche, storiche, culturali e anche economiche che nessuno poteva disconoscere. Ma anche il nuovo comandante si è impantanato; un po’ perché la sua salda alleanza con la sala macchine della Merkel ha dovuto tener conto della crisi politica tedesca, molto anche perché pure la sua ciurma sente la sirena del nazionalismo ed è sempre pronta a sventolare il tricolore francese piuttosto che la bandiera stellata dell’Europa. Entrambi, Macron e Merkel, hanno gestito male gli abbordaggi dei disperati che fuggono dalle guerre, dalla fame, dall’intolleranza e che chiedono di salire a bordo, lasciando che si arrampicassero nella parte meno difendibile, l’Italia.

Il gruppo di Visegrad
Oggi in Europa si profilano tre linee di tendenza, molto diverse tra loro. La prima fa capo a un gruppo di paesi che hanno assunto la denominazione di “gruppo di Visegard”: comprende la Polonia, l’Ungheria, la Cechia e la Slovacchia, ma gode di crescenti simpatie in Slovenia e in Austria. In esso prevale la cultura nazionalista su quella democratica e liberale che ha caratterizzato fino ad oggi la costruzione dell’Europa. Non si tratta soltanto di mantenere una linea di chiusura all’immigrazione ma anche di mettere in discussione lo stato di diritto fondato sull’indipendenza della magistratura, sulla libertà di informazione, sul pluralismo politico. Si sta in Europa soprattutto per quattro ragioni che con il traguardo dell’unità politica non hanno nulla a che fare: la paura della Russia, nella cui sfera di influenza non si vuole ricadere; i vantaggi economici del mercato comune che si sono tradotti in massicci investimenti ai quali si deve l’innalzamento del loro tenore di vita; le politiche di sostegno economico di cui hanno potuto usufruire; infine l’emigrazione che con l’apertura delle frontiere ha consentito a centinaia di migliaia di emigrati polacchi di finanziare con le loro rimesse dalla Germania e dalla Gran Bretagna lo sviluppo economico del loro paese. Il gruppo di Visegrad quindi non è contro l’Europa; vuole prendere da essa quanto le conviene e non concedere nulla che possa mettere in discussione il modello nazionalistico e intollerante che sta realizzando.

L’Europa del nord
I paesi del nord (Benelux, Scandinavia, repubbliche baltiche) sono quelli che hanno guardato alla Brexit con maggiore preoccupazione per ovvie ragioni geopolitiche ma anche culturali ed economiche. Essi non intendono approfondire il solco con la Gran Bretagna come forse avverrebbe realizzando un’Europa a due velocità, preferiscono mantenere le cose come stanno e in ciò finiscono per condividere la posizione del gruppo di Visegard. Un’Europa in sostanza ridotta a poco più di una grande zona di libero scambio con poche regole finalizzate essenzialmente alla libera circolazione (come Schengen), politicamente integrata alla NATO (e quindi agli Stati Uniti) in funzione anti-russa (aspetto particolarmente importante per i paesi che si affacciano sul Baltico) è per essi, almeno per il momento, il massimo. I problemi del Mediterraneo appaiono lontani e comunque non intendono farsene carico.

L’Europa mediterranea
Naturalmente del tutto diversi sono gli interessi dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Per essi la questione dell’immigrazione dall’Africa non è un problema contingente ma un movimento inarrestabile che occorre regolare per evitare che si trasformi in un incubo. La solidarietà europea, e quindi una seria condivisione dei rischi, è per l’Italia, la Spagna e la Grecia, questione di fondamentale importanza. Trattandosi oltre tutto del “ventre molle” dell’Unione sia dal punto di vista economico che per stabilità politica, ignorare ciò che avviene nel Mediterraneo rappresenta una pericolosa sottovalutazione della reciprocità delle interferenze ampiamente dimostrata dalla lunga storia dell’Europa. Pensare che le guerre che insanguinano il Vicino Oriente e l’Africa non influiscano sul futuro di tutto il continente europeo e non soltanto dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo costituisce un’ingenuità imperdonabile.
Vi è poi il problema del debito pubblico, meno grave di quanto si creda generalmente, ma che rappresenta per certa opinione pubblica del nord-Europa la certificazione di una incapacità di gestione della “cosa pubblica”, incompatibile con i parametri di efficienza scandinavi o tedeschi. In Germania c’è chi non aspetta altro per avere il pretesto per “commissariare” l’Italia come è stato fatto per la Grecia.

L’asse incrinato. Guai se si spezza
Per concludere. L’Europa ha fondato le sue prime strutture dopo la seconda guerra mondiale su un’idea forte che leader di grande prestigio imposero ai loro paesi: il superamento delle rivalità che avevano insanguinato il continente nei secoli precedenti attraverso la costituzione di un involucro istituzionale al cui interno le inevitabili controversie potevano essere composte senza più ricorrere alle armi. Per ottenere questo risultato, mutuato dal successo del modello americano che era sotto gli occhi di tutti, occorrevano due condizioni: la convinzione che i valori politici e morali occidentali usciti vincenti dal conflitto con il nazi-fascismo rappresentassero il fondamento culturale di questa nuova identità, e l’accantonamento degli interessi più conflittuali, a partire dalla messa in comune delle materie prime essenziali come il carbone e l’acciaio (da cui nacque la CECA), dal superamento delle frontiere interne, dalla creazione di una forza militare di difesa comune (che venne meno col fallimento del progetto CED). L’asse fondamentale su cui questa idea poteva essere realizzata era quello che univa Parigi a Bonn (prima che Berlino tornasse ad essere la capitale della Germania); ne furono convinti assertori Schuman, Monnet, Adenauer e i loro successori. De Gasperi intuì l’importanza politica e ideale di questo progetto e subito vi si associò portando l’Italia nel gruppo dei paesi fondatori.
Su queste basi, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che hanno spesso costretto a deviare dal progetto originario, è stata costruita l’Unione Europea; un edificio ancora incompleto, privo di un tetto comune, ma che comunque ha consentito a tutti i popoli europei una crescita senza precedenti e una qualità della vita unica al mondo. Ma se l’asse su cui è stato fondato si spezza l’intera costruzione rischia davvero di crollare; per ora regge ma è fortemente incrinato.
E non lo è per gli interessi contrastanti che scuotono l’Unione, ma perché sembra venuta meno l’idea forte per la quale era stata concepita, che non era una somma algebrica degli interessi nazionali ma il riconoscimento di valori comuni che ci facevano stare insieme; come appunto è stato negli Stati Uniti dove “essere americani” non significa essere in grado di comporre gli interessi della California con quelli dell’Alaska ma qualcosa di più, di molto di più.

 

Franco Chiarenza
1 luglio 2018