Ne erano crollati altri negli ultimi anni ponendoci il dubbio che la loro costruzione nella seconda metà del secolo scorso presentasse qualche problema. Nella nostra cultura millenaria i ponti hanno rappresentato quasi l’eternità: ponte Milvio a Roma ha duemila anni ed è ancora in piedi.
Nell’orgia di dichiarazioni, interviste, polemiche più o meno strumentali, una cosa ci sembra di avere capito: le tecnologie basate sul cemento armato se, da un lato, consentono costruzioni ardite e leggere, d’altra parte hanno comportato (almeno in passato) fragilità intrinseche che emergono nel tempo legate all’usura delle anime ferrose imprigionate nei contenitori di cemento (e per questo anche di difficile manutenzione).

Il viadotto sul Polcevera
Il crollo avvenuto a Genova rappresenta però qualcosa di più di un inconveniente tecnico; non soltanto per le vittime innocenti che ha provocato e che hanno dato all’evento le dimensioni di una tragedia umana tanto più inaccettabile quanto più ragionevolmente prevedibile, ma anche perché l’ardito ponte sul Polcevera, celebrato quando fu costruito come un capolavoro dell’ingegneria italiana, rappresentava qualcosa di più del collegamento tra due quartieri di Genova. Era uno dei punti di convergenza del traffico tra l’Italia e l’Europa meridionale, passaggio obbligato tra il porto, la città, le grandi vie di comunicazione che si irradiano verso la Francia e all’interno del Paese. Un ponte simbolo al cui crollo si finisce per attribuire anche un significato che va ben oltre la tragedia che ha provocato.
Su un punto Di Maio ha ragione: un ponte così non doveva crollare. Qualcuno ha sbagliato e ha sulla coscienza la responsabilità di 43 morti, decine di feriti, danni ingentissimi. Anche se in parte la colpa è pure di chi (come il suo mentore Beppe Grillo) si oppose alla costruzione del by-pass della Gronda, progettato appunto per alleggerire il carico crescente che transitava per il ponte sul Polcevera e che, se rapidamente realizzato, avrebbe facilitato una revisione totale delle strutture del ponte Morandi rendendone possibile la chiusura ed eventualmente il rifacimento.
Spetterà alla magistratura stabilire le responsabilità, sarà compito delle istituzioni di governo nazionali e regionali mettere in sicurezza strutture analoghe, toccherà alla concessionaria “Atlantia” pagare i costi.

Le concessioni
Ma nella bufera delle polemiche è emersa una tendenza, spinta soprattutto dal movimento Cinque Stelle, di fare marcia indietro sulla politica delle concessioni e tornare alla gestione pubblica diretta delle grandi infrastrutture autostradali. Per un liberale non c’è da scandalizzarsi: a fronte di un “monopolio naturale” come si configura una rete di comunicazione e di trasporti non ripetibile (come strade e ferrovie) lo Stato ha tutto il diritto di gestirla direttamente. In passato lo ha fatto con le ferrovie, con la rete delle strade ordinarie, e da ultimo, con la nazionalizzazione della produzione e distribuzione dell’energia elettrica nel 1962. Anche in quel caso si denunciò la deriva “socialista” e dirigista dei partiti che l’avevano promossa ma in realtà nessun vero liberale poté contestare che in linea di principio la nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali dove non era possibile realizzare alcuna forma di concorrenza era del tutto compatibile con i principi liberali.
Le ferrovie erano state statalizzate durante i governi liberali nel 1905.
Domandiamoci però perché, dopo una gestione quasi diretta (quando la società Autostrade era controllata dall’IRI e quindi indirettamente dallo Stato), si è preferito (come in Francia e in Spagna; non in Germania) passare al sistema delle concessioni.
Il motivo principale è economico. Costruire le infrastrutture moderne è molto costoso; parecchi paesi hanno preferito farle realizzare a spese di privati in cambio di concessioni d’uso pluriennali. In altri casi la costruzione è stata finanziata dallo Stato ma si è preferito assegnarne in concessione la gestione in cambio dei proventi derivanti dai pedaggi perché anche soltanto amministrare e mantenere le autostrade richiede costi e capacità che la nostra pubblica amministrazione non è in grado di garantire. E in effetti quando lo Stato ha voluto gestire in proprio qualche autostrada i risultati sono stati disastrosi: si pensi all’autostrada Salerno-Reggio Calabria o alla Catania-Gela. Per non parlare delle precarie condizioni in cui versano molte strade provinciali e statali, soprattutto nel Sud. Una seconda ragione è che attraverso una gestione privatistica, soprattutto se quotata in Borsa, è possibile raccogliere capitali senza gravare sul bilancio dello Stato; il 50% di Atlantia, per esempio, è quotato in borsa e su di esso hanno investito migliaia di risparmiatori.
Il sistema delle concessioni quindi è stato adottato soprattutto per ragioni di convenienza economica e di maggiore efficienza. Oltre tutto in un sistema pubblico diventerebbero inevitabili le pressioni per un uso gratuito senza pedaggio (come avviene infatti nella Salerno-Reggio Calabria) con ulteriori aggravi di bilancio.

Nazionalizzazioni = più Stato
Ciò che preoccupa i liberali non è tanto la revoca delle concessioni e l’affidamento all’ANAS della gestione delle autostrade ma piuttosto una linea di tendenza che sembra emergere dalla cultura di governo soprattutto del movimento Cinque Stelle: aumentare le dimensioni della presenza pubblica, interrompendo quel percorso di privatizzazioni che il centro-sinistra si era visto obbligato a intraprendere quando il Paese, negli anni ’90, ha rischiato la bancarotta (qualcuno se ne ricorda?). Prima di allora l’Italia era considerata la nazione più “statizzata” dopo la Russia, c’era l’IRI che produceva (in perdita) persino i panettoni, e soltanto l’alleggerimento del debito pubblico ci consentì di partecipare alla nascente Unione Europea. Se si vuole tornare indietro, come sembra auspicare Di Maio, interpretando una cultura politica assai diffusa nel Mezzogiorno, indifferente quando non ostile ai meccanismi della società industriale fondati sul rischio imprenditoriale e sulla mobilità sociale, c’è di che preoccuparsi. Non a caso Salvini prende tempo (attraverso un evidente gioco delle parti con Giorgetti), si diverte a fare battute sull’Europa addebitandogli colpe che (almeno in questo caso) non ha, confondendo i vincoli del patto di stabilità con la mancata utilizzazione dei fondi che l’Unione ci aveva messo a disposizione. La maggior parte dei suoi elettori sono al nord e non è il caso di scherzare col fuoco.

Il profitto
La cultura che sta dietro tutto questo risale a tempi lontani ed è strettamente collegata con la concezione cattolica per la quale il profitto è un male, talvolta inevitabile, ma comunque da considerare con diffidenza. Anche in questo caso l’idea che si vuole fare passare è che l’ansia del profitto sia stata la causa principale della tragedia di Genova e che quindi l’unico modo di evitare rischi per la vita stessa dei cittadini sia quella di ricondurre allo Stato la gestione di tutte le infrastrutture, e se ciò comporta inefficienza e costi maggiori, pazienza. Almeno non ci sarà qualcuno che ne ha approfittato (cioè tratto profitto).
Questa concezione è molto diffusa ed è storicamente presente anche nella sinistra italiana; in qualche caso, quando prassi corruttive molto frequenti hanno consentito a soggetti privati senza scrupoli di impadronirsi di risorse pubbliche, ha anche qualche fondamento. Ma non bisogna lasciarsi condizionare da disfunzioni – anche evidenti – per gettare il bambino con l’acqua sporca.
Il sistema delle concessioni consente – come abbiamo detto – di trarre la maggiore convenienza in termini finanziari (perché raccoglie risorse provenienti dalla finanza privata), di efficienza (per la capacità imprenditoriale che lo Stato non può avere), e di competenza tecnica. Per funzionare bene deve avere alle spalle una pubblica amministrazione che sappia svolgere il suo compito di controllo in modo trasparente e con mezzi adeguati. Se ci sono concessionari avidi che speculano fino a mettere a rischio vite umane, bisogna tagliar loro le unghie; ma per farlo occorre disporre di buone forbici e saperle usare. Non dobbiamo chiedere a chi investe e cerca un profitto di “essere buono”; bisogna costringerlo ad esserlo. L’economia di mercato funziona se lo Stato evita di scendere in campo ma si assume la funzione indispensabile di stabilire le regole del gioco e di farle rispettare. Altrimenti la partita è truccata.

 

Franco Chiarenza
24 agosto 2018

A modesto avviso di un “liberale qualunque” le cose da fare per superare l’attuale congiuntura sono:

  1. Abbandonare la retorica pro-contro immigrati cercando di spostare altrove il punto dirimente del contrasto. Stessa cosa sulla legittima difesa. Si tratta di tematiche complesse che richiedono analisi realistiche su cui la sinistra si muove con difficoltà ed è sicuramente perdente anche in ampi settori di elettorato moderato.
  2. Centrare il confronto con la maggioranza sull’Europa, anche in vista del rinnovo del Parlamento di Strasburgo l’anno prossimo. E’ un tema che imbarazza e divide i Cinque Stelle che in materia non hanno mai avuto idee chiare; in molti di essi le derive sovraniste e nazionaliste della nuova Lega sono accolte con evidente disagio. Riprendere dunque lo slogan della Bonino “Più Europa”, con l’obiettivo di rilanciare il processo di unificazione politica con chi ci sta. Evitare la retorica di un’ “Europa diversa”, quasi a giustificare gli anti-europeisti. Ognuno di noi la vuole diversa (più liberale, più socialista, più attenta alle differenze sociali, più ambientalista, e quant’altro). “Quale Europa” è una dialettica da sviluppare in un’Unione che già sia stata costituita e alla quale siano state cedute porzioni importanti di sovranità in politica estera, nella difesa, nel coordinamento delle politiche finanziarie nell’ambito della moneta comune. Prima facciamo l’Europa poi discutiamo come dev’essere, non viceversa. Dire di essere europeisti soltanto a condizione che l’Unione sia come la vorremmo è un modo garbato di dire che si vuole fermare il processo di integrazione. A ben vedere si tratta della stessa divaricazione che divise i nostri antenati quando si trattò di unificare l’Italia. Da un lato gli unitari a tutti i costi, anche, se necessario, mantenendo la monarchia sabauda e alleandosi con Napoleone III, dall’altra i “duri e puri” della Repubblica romana (“uniti sì ma solo se ……”). Ha avuto ragione Cavour (prima facciamo l’Italia poi discutiamo).
  3. Integrare il discorso sull’Europa con quello dei “compiti a casa”, riprendendo in parte il primo riformismo di Renzi (quello della Leopolda) ma senza Renzi il quale, per ora, resta impresentabile ai fini di un recupero del consenso. I compiti a casa sono le cose che non funzionano e su cui né la Lega né il movimento Cinque Stelle propongono soluzioni convincenti: in primis scuola e giustizia.
  4. I “compiti a casa” servono anche a risolvere il problema dei problemi, quello della disoccupazione. Non sono le leggi che producono lavoro, ma soltanto gli investimenti. Essi si possono favorire con provvedimenti che riducano gli eccessi burocratici, portino la pressione fiscale a livelli accettabili, facciano funzionare bene e rapidamente la giustizia (soprattutto civile e amministrativa), raccordino l’offerta formativa alla domanda delle imprese. In questo (e poche altre cose) consistono i “compiti a casa”.
  5. Affrontare con decisione e sincerità tematiche elettoralmente sensibili come le pensioni e il sostegno alla disoccupazione involontaria (in sostanza il cosiddetto “reddito di cittadinanza”). In una situazione di risorse limitate favorire gli adeguamenti pensionistici e creare nuove misure assistenziali significa scegliere una politica sostanzialmente volta a sostenere anziani (e giovani mal formati rispetto alle esigenze del mondo produttivo) inevitabilmente a scapito della creazione di nuovi posti di lavoro. Il “reddito di inclusione sociale” varato dal governo Gentiloni, con qualche modifica migliorativa, è uno strumento valido per contrastare il disagio sociale. Anche gli incentivi 4.0 per l’innovazione di prodotto messi in cantiere dal precedente governo sono stati accolti con favore dagli imprenditori; potrebbero produrre più occupazione se la loro utilizzazione non fosse ostacolata in parte dalla mancanza di mano d’opera qualificata (donde l’importanza di una riforma radicale delle scuole tecnico-professionali).
  6. Ridurre sensibilmente il debito pubblico per ridare fiato al credito. Continuare a pensare di farlo senza ricorrere a misure straordinarie costituisce un’ingenuità a cui non crede più nessuno. L’unico modo per conseguire l’obiettivo è quello di un prelievo “una tantum” sul patrimonio immobiliare da destinare esclusivamente alla riduzione del debito. Chi non è d’accordo suggerisca alternative praticabili senza continuare a prendere in giro l’Europa, i mercati e, in ultima analisi, noi stessi.
  7. Diminuire sensibilmente la pressione fiscale. Se, al di là dei contrasti ideologici “di principio”, si dimostrasse che la flat tax sarebbe in grado di fare emergere almeno in parte il gigantesco sommerso che caratterizza (e penalizza) la nostra economia, se ne potrebbe discutere. Nicola Rossi (economista storico della sinistra) ha sostenuto che, realizzata con intelligenza e gradualità, essa potrebbe rappresentare una soluzione accettabile. Per tranquillizzare gli scrupoli della sinistra costituzionale che ritiene ancora la progressività delle imposta un tabù irrinunciabile (mentre ha prodotto uno dei sistemi fiscali più iniqui e fallimentari dell’Occidente) basterebbe forse chiamarla diversamente. La nostra sinistra è da sempre molto sensibile ai nominalismi a scapito della sostanza dei problemi.
  8. Opere pubbliche. Possono costituire una leva importante per rilanciare l’economia assorbendo in parte la disoccupazione e creando le infrastrutture necessarie per rendere attrattivo il Paese a nuovi investimenti. La retorica pentastellata contro le “grandi opere” poggia su un duplice equivoco che va smantellato, anche contestando le cifre false su cui si basa la loro propaganda. Il primo è che gli appalti per le grandi opere siano fonte certa di corruzione e di connivenze poco trasparenti; anche se spesso in passato è stato così bastano norme chiare e controlli verificabili per impedire che ciò avvenga (e in parte il governo Gentiloni le aveva già messe in atto). Il secondo equivoco riguarda i costi che si fanno apparire sproporzionati mentre con le somme “risparmiate” si potrebbero finanziare lavori pubblici più vicini alle esigenze quotidiane dei cittadini: ferrovie locali, strade provinciali, scuole, ospedali, assistenza, ecc. Non è così. Alcune grandi opere, per esempio, sono finanziate da fondi europei che vengono concessi per progetti infrastrutturali di interesse continentale (i grandi assi stradali e ferroviari, il rilancio delle zone sottosviluppate, ecc.). Il nostro Paese è l’unico che non ha saputo (o voluto?) utilizzare i fondi europei per realizzare adeguati investimenti sul territorio. Di questi invece ha bisogno l’economia del futuro, non solo per creare nuovo lavoro ma anche per mantenere quello che c’è. E non si tratta soltanto di infrastrutture nei trasporti ma anche (e forse soprattutto) di quelle immateriali come università efficienti, ricerca scientifica, razionalizzazione della sanità pubblica, ecc.
  9. Mezzogiorno. Basta con la vecchia retorica meridionalistica. Ripetiamo ai miei conterranei la lezione inascoltata di Gaetano Salvemini che ricordava già un secolo fa che la salvezza del Mezzogiorno non può venire da fuori. Da realtà esterne e sovrastanti (Stato centrale, Europa, finanza internazionale) possono arrivare sostegni anche significativi se le regioni meridionali riescono a mettere insieme un progetto organico di rilancio economico credibile e orientato al futuro, nel cui contesto le infrastrutture giocano un ruolo fondamentale. Inutile crogiolarci nel lamentoso vittimismo di certi meridionali se per andare in ferrovia da Roma a Bari ci vogliono tempi biblici, se il collegamento tra Palermo e Catania è affidato a una ferrovia degna del Far West del secolo scorso, se le autostrade costruite nel Sud dallo Stato (e, chissà perché, solo quelle) crollano ignominiosamente e quando ci sono ricordano le montagne russe. Il tutto con la complicità di una classe dirigente che ha preferito utilizzare le risorse disponibili per creare migliaia di “posti fissi” non necessari, moltiplicando così una burocrazia già nota per la sua incapacità e la sua pigrizia. La verità è che i nuovi investimenti, se “privati”, non attirano; sono considerati precari e non garantiscono il posto di lavoro in caso di inefficienza; Checco Zalone nei suoi film ce ne ha dato una plastica descrizione. E poi ci si chiede perché gran parte dell’elettorato meridionale sia passato in blocco dalla vecchia DC clientelare a Berlusconi, e da quest’ultimo senza esitazioni al movimento Cinque Stelle. Scrutando all’orizzonte se si presenta qualcun altro che in futuro voglia “assisterlo”.
    Si tratta di una grave carenza culturale che peraltro non riguarda tutti i meridionali ma soltanto quelli più rassegnati e impigriti dalla mancanza di stimoli. Per trattenere gli altri – i migliori – sul territorio ed evitare che fuggano altrove bisogna dir loro la verità e spingerli a creare le condizioni per superare questa situazione nell’unico modo possibile: una rivoluzione culturale.

Alcuni di questi punti sono incompatibili con la cultura prevalente del partito democratico il quale continua a identificare il ruolo della sinistra nell’intervento salvifico dello Stato e quindi, in sostanza, in una politica dirigista. Gli appelli del tipo “i barbari sono alle porte bisogna unirsi per fare fronte”, come quello lanciato da Massimo Cacciari – pur condivisibili nell’analisi – mi lasciano perplessi nella loro praticabilità. Il centro sinistra è diviso non (o non soltanto) per rivalità personali ma perché pretende di tenere insieme visioni troppo diverse nel modo di concepire il modello politico e sociale del futuro. La storia del passato dimostra che le unificazioni forzate da emergenze vere o presunte non pagano elettoralmente: due più due non ha mai fatto cinque ma quasi sempre tre. Uno studioso della politica come Cacciari dovrebbe saperlo bene. Piuttosto che cercare di mettersi d’accordo con compromessi programmatici pasticciati è meglio procedere separati.
Esiste in Italia uno spazio centrista che, in base ai risultati conseguiti da Monti nel 2013, corrisponde “grosso modo” al 10% dell’elettorato. Renzi era riuscito ad assorbirlo nelle elezioni europee dell’anno successivo pagando però il prezzo di una scissione a sinistra (come sempre avviene quando la sinistra cerca di occupare uno spazio di centro: chi ha studiato la storia dei socialisti italiani lo sa bene). Oggi questo elettorato moderato e liberale (che potrebbe ampliarsi fino al 20%) è disperso tra Forza Italia, Cinque Stelle e PD. Forza Italia, costretta nella camicia di forza che continua a imporgli Berlusconi con la sua ingombrante presenza, non sembra in grado di assorbirlo (anche perché la prevedibile leadership di Tajani appare debole e troppo dipendente da Arcore). I Cinque Stelle dovrebbero avere raggiunto il loro massimo punto di espansione; qualsiasi scelta di merito, in mancanza di un chiaro obiettivo ideologico, gli farà perdere consensi, e comunque le concezioni liberali in economia sembrano estranee alla cultura prevalente nel suo “nocciolo duro”. Il partito democratico è alle prese con scelte laceranti, tra la convinzione (dura a morire) che bisogna recuperare un elettorato di sinistra (anche se qualcuno ingenuamente potrebbe chiedersi perché questo “popolo di sinistra” non ha colto l’occasione per sostenere “Liberi e Uguali”), la tentazione di riassorbire un elettorato moderato di centro e le velleità vendicative di Renzi.

I “liberali qualunque”, da me presuntuosamente rappresentati (in numero di due aderenti; non tre perché andrebbero incontro a una sicura scissione) ritengono che occorra costruire un nuovo spazio politico di riferimento al di fuori del PD, in grado di percorrere in modo chiaro e deciso la strada di un riformismo liberale senza la preoccupazione di dovere fare i conti con Grasso e Fassina da una parte e con il paternalismo di Berlusconi dall’altra. Mi pare sia questa l’indicazione che proviene – in modi diversi ma sostanzialmente convergenti – da personaggi come Calenda e Cottorelli ed è su di essa che si possono costruire significative alleanze tra ceti medi, imprenditori, giovani che cercano opportunità e non assistenza. Dieci per cento? Basterebbe a cambiare la politica italiana. Per le necessarie alleanze e gli inevitabili compromessi c’è tempo.

Franco Chiarenza
9 agosto 2018

Le affermazioni di Davide Casaleggio sulla futura inevitabile inutilità dei parlamenti mette in chiaro per chi ancora non l’avesse capito l’ideologia di fondo che è alla base del movimento Cinque Stelle, in particolare nella visione che egli ha ereditato dal padre Gianroberto. I “vaffa” di Grillo non rappresentano un’ideologia: sono serviti a raccogliere quel po’ di dissenso cialtronesco che nel nostro Paese non manca mai, e sono andati incontro a un sentimento generale di indignazione che ha attraversato ampi settori della società quando la vecchia classe dirigente invece di affrontare le ragioni profonde della crisi si è concentrata nella conservazione dei privilegi e nella tolleranza di prassi corruttive che non erano più compatibili con la situazione del Paese. La faccia rubiconda di Grillo rappresenta quindi la protesta, ammantata da vaghe utopie ambientaliste e da un giustizialismo a senso unico, ma è con la ditta Casaleggio che dobbiamo fare i conti se vogliamo capire qual è il modello di società che i Cinque Stelle hanno in mente. Da quel che ho intuito si tratta di un’ideologia che ha molte sfaccettature e origini lontane (come la “decrescita felice” di Latouche) ma, per quanto attiene il funzionamento delle istituzioni, si chiama “democrazia diretta”. Cerchiamo di comprendere in termini semplici di cosa si tratta e perché, pur potendo apparire a prima vista attraente, essa rischia di compromettere l’essenza stessa della democrazia che non è quella di esercitare direttamente le funzioni di governo ma di controllarne l’uso.

A che servono i parlamenti?
Ce lo eravamo già chiesti durante la prima repubblica quando le decisioni politiche venivano prese dai partiti e il parlamento sembrava una semplice camera di registrazione della volontà delle maggioranze, costituzionalmente obbligata ma politicamente irrilevante.
Lo ripetono oggi i Cinque Stelle con una variante importante. In passato i partiti “espropriavano” la funzione legislativa del parlamento senza averne la legittimità – essi dicono – mentre oggi, consentendo i nuovi mezzi di comunicazione di conoscere puntualmente, in tempo reale, la volontà popolare, il potere legislativo può essere svolto senza l’intermediazione del parlamento, e lo stesso potere esecutivo – cioè il governo – dovrebbe agire sotto il controllo continuo e verificabile dei sentimenti popolari. Ipotesi suggestiva che consente al movimento di dare un senso politico ai “vaffa” di Grillo e al tempo stesso di mandare a quel paese – in nome della democrazia diretta – tutta la classe dirigente coi suoi riti dove si esercita il potere di intermediazione; quella che, non a caso, essi definiscono “casta” e che non è costituita soltanto dai politici professionisti ma anche dai sindacalisti, dalle rappresentazioni di interessi, dai corpi intermedi, fino forse a raggiungere la magistratura e i diritti individuali (processi in piazza?).
In realtà la risposta ce l’avevano già data i grandi teorici del liberalismo: la funzione di governo viene esercitata negli stati moderni in nome del popolo, il quale ha assunto quel potere di legittimazione che in passato era appartenuto alla religione. Ma il potere di legittimazione non coincide con la funzione di governo, e proprio in questo le democrazie moderne si distinguono da quelle antiche (come la tanto celebrata “agorà” ateniese). Nelle democrazie liberali la volontà popolare si esprime normalmente attraverso la scelta dei propri rappresentanti rinnovandoli periodicamente attraverso libere consultazioni elettorali. Nel periodo che intercorre tra un’elezione e l’altra la maggioranza esprime un governo che deve mettere in atto quegli indirizzi generali che sono stati espressi dall’elettorato rispondendone al parlamento e, in ultima istanza, al popolo stesso che attraverso l’esercizio del voto resta sempre giudice ultimo dell’operato della classe politica.
Di più. Le democrazie liberali come si sono sviluppate negli ultimi due secoli, a partire dall’esperienza inglese, comportano alcuni limiti invalicabili alla stessa volontà popolare quando essa si arroga la pretesa di restringere o addirittura di annullare quelle libertà fondamentali che le carte costituzionali francese e americana per prime hanno fissato già due secoli fa. Si tratta dei diritti individuali, della libertà di pensiero e di espressione, della libertà di religione, della libertà di associazione e, nella versione liberista, anche della libertà di produrre e scambiare beni e servizi.
Per questo esistono i parlamenti (che devono varare le leggi), le corti supreme (che devono controllare il rispetto dei vincoli costituzionali), le diverse autorità indipendenti (cui spetta assicurare tramite opportune regolamentazioni la libera concorrenza e contrastare la formazione di monopoli), ecc. In tale complessa realtà, che caratterizza tutti gli stati moderni, la democrazia si esercita quindi normalmente in forme indirette, anche per evitare che ogni confronto si trasformi in scontro e che le emozioni del momento prevalgano su ragionamenti che tengano conto dei diversi punti di vista. In questo senso possiamo affermare che i compromessi sono il sale della democrazia. “Inciuci”? Sì se gli accordi sono in realtà soltanto scambi di favori, no se servono ad eliminare asprezze demagogiche e trovare soluzioni funzionali.
E cos’è se non un compromesso il “contratto” tra Cinque Stelle e Lega che è alla base dell’intesa che ha prodotto il governo Conte? Lui stesso – Giuseppe Conte – è frutto di un compromesso.
In una democrazia liberale si ricorre agli scontri frontali e alle contrapposizioni nette soltanto su questioni fondamentali, quando nessuna possibilità d’intesa è possibile, come è avvenuto in passato in alcune occasioni: monarchia o repubblica, adesione al patto atlantico, entrata nella Comunità Europea, diritto di famiglia (divorzio, parità femminile, aborto) e altre – poche – questioni su cui le opzioni erano nette e coinvolgevano punti essenziali che le diverse culture politiche ritenevano inconciliabili. In tutti gli altri casi il parlamento è ottimamente servito durante la prima repubblica a svolgere un ruolo di mediazione, tanto più efficace quanto più discreto, quando maggioranza e opposizione, divisi per ragioni di politica internazionale e per differenze incolmabili sul modo di concepire la democrazia, riuscivano però spesso ad accordarsi su provvedimenti che apparivano oggettivamente necessari a garantire un’ordinata attività di governo.

La crisi della democrazia liberale
La democrazia rappresentativa come si è consolidata nell’Occidente è entrata in crisi quando si è interrotto il circuito di mediazione tra sentimenti popolari e rappresentanza politica, il che avviene puntualmente quando fenomeni globali che sfuggono alla comprensione della media degli elettori determinano cambiamenti nella vita quotidiana che appaiono intollerabili. E’ accaduto, per esempio, tra le due guerre mondiali in Europa e in Russia, allorché gli squilibri politici, economici e sociali che sconvolsero l’Europa dopo il 1918 alimentarono movimenti popolari di protesta (divenuti poi “populisti” quando si sono identificati con la dittatura di un uomo solo al comando) che hanno portato al potere il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il falangismo in Spagna, il comunismo in Russia. Mai la democrazia liberale aveva corso pericoli tanto estesi da parere irreversibili. Dobbiamo alla capacità di resistenza della Gran Bretagna e alle forti convinzioni democratiche del popolo americano (che ha sostenuto uno sforzo bellico senza precedenti nella storia) se il totalitarismo non ha prevalso. Una resistenza liberale che, anche dopo la fine del conflitto armato, è continuata fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989.
Oggi sta accadendo qualcosa di simile a ciò che avvenne un secolo fa. La globalizzazione dei mercati, la diffusione dell’automazione nella produzione industriale, la spinta di chi sta peggio verso luoghi dove si sta meglio, i nuovi mezzi di comunicazione che hanno diffuso informazioni incontrollabili seminando paura e preoccupazioni, hanno contribuito a creare una percezione di insicurezza su cui i partiti di destra e il movimento di Grillo sono facilmente riusciti a delegittimare i tradizionali processi di mediazione (e gli uomini che li gestivano) facendo credere legittima la perentoria richiesta di tornare indietro. Come se fosse possibile, anche volendolo.
Si tratta di una clamorosa illusione. La soluzione del problema consiste nell’andare avanti, anche dal punto di vista istituzionale, creando nuove forme di raccordo e di corretta informazione in grado di penetrare pure in quei settori della popolazione che sembrano sensibili soltanto ai twitter di Salvini. Non si tratta di negare paure che – vere o esagerate che siano – sono comunque largamente diffuse, ma di analizzarle proponendo rimedi credibili e ragionevoli. Bisogna spiegare, per esempio, che cambiare la dimensione degli stati aggregandoli in grandi federazioni è un modo efficace di contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, se non altro perché consente di essere attivamente presenti ai tavoli ristretti dove le grandi potenze mondiali stabiliscono le regole del gioco. E che per questa ragione – se non se ne vogliono accettare altre, pur importanti, di carattere culturale – l’unità europea è un bene irrinunciabile da completare con l’unione politica, e non un nemico su cui scaricare le nostre frustrazioni e i danni prodotti da scelte sbagliate che sono nostre, e soltanto nostre. D’altronde l’abbiamo visto anche in questi giorni: è con l’Europa che i grandi giganti della comunicazione e del commercio (Amazon, Google, ecc.) devono fare i conti sia per quanto riguarda l’aspetto fiscale che le garanzie sui contenuti. Nulla in proposito avrebbero potuto fare le singole nazioni, compresa la Germania. E’ con Juncker, presidente della Commissione dell’Unione Europea, che Trump ha finito per accordarsi dopo tentativi espliciti di dividere i paesi europei e incoraggiarne le spinte secessionistiche. La Brexit sta avvolgendosi in se stessa tra contraddizioni e pentimenti anche perché il governo inglese non è riuscito a dividere i paesi europei ed è costretto a trattare con la Commissione dell’Unione. E’ stata la richiesta dell’Ucraina di entrare nell’Unione che ha scatenato l’ira della Russia la quale, utilizzando strumentalmente le minoranze russofone, ha violato ogni principio di diritto internazionale sottraendo brutalmente la Crimea al governo legittimo di Kiev. Insomma è l’Europa che fa paura, anche debole com’è; figurarsi se si trasformasse in un blocco comune di stati che – come è avvenuto in America con gli Stati Uniti – mettesse in comune la politica estera, la difesa militare e il coordinamento delle politiche finanziarie. Per queste ragioni la partita che si giocherà nelle elezioni europee del 2019 sarà cruciale, anche per noi, anzi soprattutto per noi. Con buona pace di Salvini che vorrebbe rinunciare alla nostra posizione di partner importante dell’Unione per vendere qualche mobile della Brianza in più in Russia.
“Sovranismo” non significa nulla. Nessuno minaccia la sovranità delle nazioni nelle materie che più direttamente riguardano la vita quotidiana dei cittadini; si tratta soltanto di mettere insieme quelle funzioni di governo che, esercitate in nome di un’entità più grande, tornano a vantaggio di tutti. Negli Stati Uniti ogni stato ha la sua legislazione, la sua politica fiscale, scolastica e via dicendo. Ma mettere insieme la politica estera, le forze armate, accettare principi comuni di diritto garantiti da una Corte Suprema, affidare a un potere federale alcuni compiti per consentirne una maggiore efficienza è una convenienza di tutti. Quello che dobbiamo fare in Europa è l’ultimo passo: costituire gli Stati Uniti d’Europa con chi ci sta. Chi non ci sta ne resti fuori, si accorgerà presto quanto poco gli convenga.
Ma anche a casa nostra qualcosa bisogna fare per riformare le istituzioni e renderle più adeguate al protagonismo che – giusto o sbagliato che sia – comunque emerge da masse crescenti di elettori. Non una riforma costituzionale pasticciata e incoerente come quella che Renzi ha tentato di imporre due anni fa, e nemmeno il plebiscitarismo pericoloso di Salvini che porterebbe a forme autoritarie di governo le quali, anche se approvate dalla maggioranza degli elettori, metterebbero comunque a rischio lo stato di diritto liberale. Si potrebbero però introdurre forme più stringenti di controllo dell’elettorato sugli eletti (e per questo basterebbe tornare ai collegi uninominali senza rinunciare alla libera responsabilità dei deputati), affrontare con ammortizzatori sociali più efficaci gli effetti dell’automazione e della liberalizzazione degli scambi, e studiare altre misure in grado di rafforzare la sicurezza dei cittadini senza compromettere le garanzie dello stato di diritto.

La democrazia diretta di Casaleggio
Torniamo a Casaleggio. Vale la pena parlarne perché mentre il futuro che ci prospetta Salvini è ben noto e ricalca forme di autoritarismo già sperimentate (e purtroppo largamente praticate anche oggi), la “democrazia diretta” di Casaleggio rappresenta una relativa novità che, presentandosi come la forma più aggiornata e perfetta di democrazia, fonda la sua legittimità su presupposti molto diversi da quelli para-fascisti che caratterizzano in Europa movimenti come quello francese della Le Pen e altri consimili. L’idea di Casaleggio si basa – come abbiamo visto – sul presupposto che i nuovi mezzi di comunicazione interattivi siano in grado di realizzare su vasta scala un modello di democrazia partecipata non soltanto perché consentono di compiere scelte in tempo reale ma anche per la possibilità di raccogliere informazioni sufficienti per rendere i cittadini pienamente consapevoli delle loro decisioni. Una tesi suggestiva che tuttavia ignora l’importanza dei corpi intermedi per la tenuta della democrazia; andrebbero rilette le considerazioni di Edmund Burke sulla rivoluzione francese – primo esempio di “democrazia diretta” – dove l’autore ne prevedeva le inevitabili degenerazioni in senso autoritario, come poi puntualmente avvenne con il “Terrore” di Robespierre.
Val la pena ricordare ancora una volta che le decisioni politiche devono confrontarsi con realtà sempre più complesse che sfuggono alla comprensione anche di persone di media cultura; è davvero sufficiente l’aiuto che può provenire dalla divulgazione mediatica, sia che essa passi attraverso gli strumenti tradizionali (stampa, televisione, radio, letteratura popolare) oppure tramite i social network (you tube, twitter, facebook, instagram, ecc.)? E’ difficile crederlo, e infatti nessuno seriamente lo pensa. Tutti sanno che la competenza è necessaria in qualsiasi attività, nessuno si sognerebbe di operare suo figlio sulla base di un prontuario pubblicato su internet, nessuno pretende di essere più bravo di Messi nel calciare in porta; le competenze sono sempre e comunque necessarie. Ma – qualcuno potrebbe obiettare – il caso della politica è diverso. In un apologo attribuito a Protagora (e riportato da Platone) si racconta che Mercurio , incaricato di portare agli uomini l’arte politica, abbia domandato a Giove come essa dovesse essere distribuita: se, come le altre arti, solo ai competenti o invece a tutti. A tutti, rispose Giove, perché diversamente dalle altre arti a questa tutti devono partecipare “altrimenti non potrebbe esistere alcuna comunità”. Ma poiché è impossibile mantenere continuamente attivi milioni di potenziali elettori sui tanti problemi che quasi quotidianamente richiedono l’intervento della politica, ecco che bisogna ammettere che “fare politica” significa avere un obiettivo, pensare un modello di società in cui riconoscersi, non necessariamente possedere le competenze per realizzarlo. A questo devono provvedere i “tecnici”, coloro cioè che conoscono i mezzi e gli strumenti attraverso i quali la pubblica amministrazione può realizzare il progetto politico che incontra il favore della maggioranza della popolazione; e la loro scelta non può avvenire che in quei “corpi intermedi” i quali di fatto esercitano la funzione di mediazione tra volontà popolare e compatibilità politiche e che una facile demagogia vorrebbe eliminare. Che poi tale realtà sia rappresentata da un portale interattivo – come il Rousseau dei Cinque Stelle costituito da alcune migliaia di aderenti rigorosamente selezionati – o dai vecchi partiti politici, poco cambia. In ogni caso c’è un procedimento selettivo che in qualche modo promuove una minoranza al compito di rappresentare la volontà politica di quote più o meno rilevanti dell’elettorato. La “democrazia diretta” diventa così fatalmente indiretta anche nelle soluzioni proposte dai Cinque Stelle, con, in più, una totale mancanza di trasparenza sugli obiettivi ideologici che si vogliono realizzare e sulle effettive possibilità dei gestori della piattaforma di manipolare le scelte dei suoi partecipanti; non a caso vengono proposti (e di fatto imposti) dall’alto i vertici del movimento e si affida a “garanti” carismatici un ruolo opaco ma la cui presenza è chiaramente avvertibile; l’antica funzione carismatica dei partiti è semplicemente trasferita al proprietario del portale, come avviene infatti con la “Casaleggio e Associati” cui di fatto spetta l’ultima parola sulle vicende interne del movimento Cinque Stelle.
Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola suggestiva delle soluzioni facili. Dietro il paravento dell’onestà personale e della lotta alla corruzione e ai privilegi della classe politica, che costituiscono il presupposto di qualsiasi progetto politico non un obiettivo strategico o ideologico, si possono compiere le scelte più diverse e contraddittorie pur di esercitare un potere che rischia di diventare arbitrario e incongruente. Significativa in proposito mi è sembrata – durante le trattative che seguirono le elezioni del 4 marzo – la riesumazione della prassi politica (teorizzata da Giulio Andreotti negli anni ’60) dei “due forni”, cioè della possibilità per il movimento Cinque Stelle di allearsi indifferentemente con la destra (Salvini) o con la sinistra (PD) pur di raggiungere alcuni obiettivi (prevalentemente di carattere sociale e di tutela ambientale) su cui esso ritiene di fondare la propria identità. Ma la politica – quella vera – richiede analisi e prospettive di più ampio respiro e scelte che non sono riconducibili alla logica NIMBY (per chi non ne conosce il significato vedere su wikipedia).

Le vere alternative
La verità è che i modi per rispettare la volontà popolare sono soltanto due: il primo è quello di affidare a un uomo o a un partito il compito di realizzare il modello preferito rinunciando ad ogni possibilità di controllarne l’esecuzione lasciandolo indisturbato al potere, e, come sappiamo ciò porta inevitabilmente alla dittatura. Dittatura che può essere esercitata oggi in modi più indiretti e meno esibiti di un tempo semplicemente effettuando forti pressioni sulla libertà di informazione, sull’indipendenza della magistratura, sulla pubblica amministrazione, anche lasciando formalmente aperto il confronto elettorale con un’opposizione ridotta all’impotenza (come avviene con la “democrazia illiberale” di Orban in Ungheria, con il regime instaurato da Putin in Russia e con il rafforzamento dell’autocrazia di Erdogan in Turchia).
L’altro modo di rispettare la volontà popolare è quello liberale in cui i cittadini eleggono i loro rappresentanti, rinnovandoli periodicamente, affidando ad essi la scelta di un governo che operi nella direzione indicata dalla maggioranza. La proposta di Casaleggio di sostituire al parlamento la registrazione immediata e continua della volontà popolare attribuisce ai sentimenti, alle emozioni (spesso passeggere), all’influenza di un’informazione non sempre corretta, un potere di indirizzo e di veto in cui prevarrebbe facilmente chi meglio sa suscitare commozione, apprensione, passioni, a scapito di ragionamenti più lungimiranti. Non solo; essa impedirebbe di fatto qualsiasi compromesso, inteso nel senso migliore, per trovare soluzioni più condivise possibili nella soluzione dei problemi quotidiani.
Insomma questa retorica della volontà popolare lasciamola da parte: l’hanno adoperata tutti. Cominciò Mussolini col fascismo, vennero poi i partiti viziati da una democrazia interna molto discutibile, dopo di loro Berlusconi “uomo solo al comando”, poi ci ha provato Renzi, infine la “democrazia diretta” di Casaleggio che ha tutta l’aria di essere in effetti “diretta da Casaleggio”.

La trasparenza
Quando i Cinque Stelle hanno trattato per finta, già intenzionati a non raggiungere alcun accordo (come avvenne con Bersani nel 2013) hanno preteso che l’incontro avvenisse in streaming sotto gli occhi di tutti, trasformando la trasparenza in uno strumento di propaganda; quando, cinque anni dopo, hanno trattato con la Lega il contratto di governo, streaming è stato accantonato perché avrebbe rappresentato un impedimento all’intesa che ha consentito la nascita del governo Conte. La diplomazia è uno strumento indispensabile della politica, da sempre; essa serve appunto a smussare gli angoli, cercare soluzioni accettabili (anche se non ideali) per le parti che si confrontano, e può comportare contropartite non sempre confessabili pubblicamente. Ciò che conta è che i risultati siano tali da costituire un vantaggio per il conseguimento degli obiettivi che le maggioranze politiche si danno. Cavour ce lo ha insegnato: se per realizzare l’unità d’Italia bisognava pagare un prezzo alla Francia cedendole Nizza e la Savoia (culla della dinastia regnante) il gioco valeva la candela; ma se a Plombières ci fosse stato streaming l’unità d’Italia avrebbe dovuto ancora attendere a lungo. (Per chi non sa cosa avvenne a Plombières è sempre possibile consultare wikipedia).
La trasparenza è certamente un valore positivo. Ma, come altri, se portato all’eccesso diventa un difetto. La vita umana non è fatta di bianco e nero ma di molte tonalità grigie senza le quali si va incontro a conflitti, guerre, fondamentalismi, settarismi, fanatismi, voglia di distruzione dell’avversario; trasformare le scelte politiche in un comizio permanente può produrre – anche senza volerlo – questi risultati.
Ciò non toglie che domani – un domani molto lontano – il perfezionamento dei media interattivi, la possibilità di introdurvi il principio di responsabilità, l’aumento dei livelli medi di conoscenza di crescenti parti della popolazione, il riconoscimento generalizzato del principio di tolleranza, potranno forse consentire a una democrazia elettronica di svolgere una funzione decisiva nelle grandi scelte e di raccordare meglio i sentimenti e le priorità dell’elettorato con i suoi rappresentanti. Ma pure in tal caso il ruolo dei corpi intermedi, anche quando rappresentano interessi particolari, resta fondamentale in uno stato che voglia mantenere i suoi presupposti democratici e liberali.

 

Franco Chiarenza
3 agosto 2018