Mentre Salvini e Di Maio si contendono una coperta troppo corta per coprire tutti gli impegni di spesa necessari per soddisfare tutte le promesse contenute nel “contratto” di governo e il povero Tria tenta disperatamente di tenere insieme un bilancio che non aggravi ulteriormente il debito pubblico, una cosa almeno appare chiara: sia la Lega che i Cinque Stelle sembrano pronti a scontrarsi con la Commissione di Bruxelles pur di non perdere la faccia (e forse qualche voto).   Una strada pericolosa che potrebbe avviare, al di là delle intenzioni, un processo di allontanamento dall’Europa dagli esiti imprevedibili (anche a prescindere dagli scenari apocalittici disegnati da Sergio Rizzo nel suo ultimo libro) che dovrebbero preoccupare non poco gli imprenditori del nord (anche quelli che hanno votato Lega).   Pure il sud avrebbe probabilmente molto da perdere per gli effetti inflazionistici che deriverebbero dalla perdita della stabilità monetaria.   Sembra davvero una gara tra dilettanti allo sbaraglio: Masaniello Di Maio da una parte, Buttafuoco Salvini dall’altra.

Ma alla fine, al di là di ogni retorica e di ogni considerazione geo-politica (che evidentemente poco interessano il “popolo” dei Cinque Stelle e, almeno in parte, gli elettori di Salvini)  la questione di fondo è se conviene restare nell’Unione Europea e cosa ci perderemmo a uscirne.  Nessuno lo spiega, men che meno gli impazienti demagoghi che vorrebbero liberarsi dei suoi vincoli.   Proviamo a ricordarlo, limitandoci agli aspetti economici e prescindendo da quelli legati al rispetto dei principi dello stato di diritto e all’armonizzazione delle legislazioni in settori fondamentali (lavoro, previdenza, ecc.):

  • verrebbe meno la libera circolazione di persone e merci all’interno dell’Unione.
  • sarebbe compromessa la stabilità dei prezzi che l’euro ha garantito (anche nei paesi che non hanno aderito alla moneta unica ma di fatto hanno allineato ad essa i cambi).
  • diminuirebbe la solvibilità degli istituti di credito favorendo indebitamenti sconsiderati che hanno in passato provocato danni pagati dai risparmiatori e dall’intera collettività.   I vincoli di patrimonializzazione e il “bail in” servono appunto a impedire che ciò si ripeta.
  • verrebbe meno quel tanto di protezione delle produzioni nazionali che viene garantita nell’ambito di trattati internazionali tra l’Unione e altri paesi con dimensioni di mercato comparabili (Stati Uniti, Cina, Canadà, India, Giappone).
  • diminuirebbe molto la capacità negoziale in ambito internazionale nei confronti dei grandi “players” della comunicazione e dei servizi commerciali, sia dal punto di vista fiscale che per ciò che attiene i contenuti diffusi dalla rete.
  • diminuirebbero le risorse disponibili per la ricerca per il venir meno delle economie di scala che derivano dalla messa in comune dei dati e dei brevetti.
  • cesserebbero i finanziamenti comunitari, molto importanti non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche perché consentono un parziale riequilibrio tra le condizioni economiche esistenti all’interno dell’Unione e una modesta ma significativa sottrazione di risorse ai consumi individuali per concentrarli su investimenti strutturali.
  • diminuirebbe sensibilmente la possibilità per i nostri giovani di andare all’estero per ragioni di studio (borse Erasmus) e di lavoro.

La Gran Bretagna, che sta molto meglio di noi come pil, debito pubblico, infrastrutture, peso finanziario, si sta accorgendo del prezzo pesantissimo che rischia di pagare per un’uscita dall’Unione deliberata da un referendum dominato dalla demagogia e dall’ignoranza; tanto che, secondo molti osservatori, se oggi venisse ripetuto le probabilità di vittoria degli europeisti sarebbero prevalenti.   La nostra economia, fondata in gran parte sulle esportazioni dell’industria manifatturiera, pagherebbe per un’eventuale Italexit prezzi ancor più salati.

A fronte di questi svantaggi i fautori dell’Italexit sostengono:

  • che la possibilità di riprendere le svalutazioni competitive (come si faceva prima dell’euro) darebbe fiato alle esportazioni italiane.    Forse, ma a quale prezzo?   Ci siamo dimenticati l’inflazione a due cifre e la continua diminuzione del potere d’acquisto della moneta nazionale?
  • che la contribuzione netta dell’Italia all’Unione Europea è superiore ai vantaggi che ne ricaviamo.  Vero, anche perché nello stabilire le contribuzioni si tiene conto delle condizioni economiche complessive e l’Italia resta tra i paesi europei più ricchi (anche se tale ricchezza è squilibrata; la Lombardia ha un pil equivalente a quello della Baviera, alcune regioni del sud non raggiungono quello della Grecia).   Ma questo è affar nostro e i finanziamenti europei per progetti strutturali nelle zone sottosviluppate, largamente utilizzati dagli altri paesi europei mediterranei, da noi sono stati lasciati cadere per inerzia e incapacità progettuale.
  • che l’Italia potrebbe operare più liberamente scambi vantaggiosi tramite accordi bilaterali (per esempio con la Russia) non essendo vincolati dalle sanzioni imposte dall’Unione Europea.    Forse sì, ma si dimentica che le sanzioni (Russia e Iran) sono state imposte dagli Stati Uniti prima che dall’Unione Europea; violarle significa precludersi il mercato americano (oltre quelli europei), essenziali per le nostre esportazioni.   Negli accordi bilaterali inoltre l’Italia farebbe fatica da sola a imporre condizioni vantaggiose; il rischio è che andremmo a perdere molto più di quanto guadagneremmo.
  • che finalmente “saremo padroni a casa nostra”.    Purtroppo sì.   Ma sarebbe bene ricordare che quando lo siamo stati davvero abbiamo prodotto un regime autoritario (fascismo) che ci ha portato a una guerra disastrosa senza chiedere il permesso ai cittadini, un sistema economico dirigistico (protezionismo) che ha impedito l’espansione degli scambi a cui dobbiamo l’aumento del nostro tenore di vita dopo la seconda guerra mondiale, uno stato di diritto ridotto ai minimi termini.   Non solo: anche quando la democrazia è stata restaurata tutto ciò che potevamo decidere liberamente lo abbiamo fatto con superficialità e senza valutarne a pieno le conseguenze.   Se abbiamo i costi energetici più elevati, il debito pubblico più alto, il sommerso più diffuso, un sistema scolastico mediamente scadente, le tasse più pesanti, le infrastrutture che crollano, ecc.  la colpa non è dell’Europa ma di come abbiamo esercitato i nostri poteri “sovrani”.   Al contrario: quando abbiamo accettato col trattato di Maastricht alcuni vincoli europei siamo diventati più “virtuosi” e la nostra credibilità sui mercati è migliorata.

Ci fermiamo qui, scusandoci per l’approssimazione con cui abbiamo dovuto sintetizzare questioni altrimenti complesse.   Ma resta indelebile l’impressione che la strada su cui vogliono portarci Di Maio e Salvini, sia sostanzialmente quella che ci riporta indietro nell’illusoria speranza che chiuderci nei nostri confini risolva i nostri problemi.  La storia dimostra che è una strategia sbagliata, ma nessuno più legge la storia (una volta ingenuamente ritenuta magistra vitae).

Resta da capire una cosa: come fanno i Cinque Stelle a prendere in considerazione una possibile alleanza alternativa con il partito democratico (col quale potrebbe trovare maggiore sintonia l’ala “socialista” del movimento) quando sull’Europa le posizioni sono tanto diverse?   E lo stesso va chiesto alla Lega: come fa ad allearsi con Forza Italia negli enti locali anche in vista di una possibile maggioranza alternativa (come lascia intendere Berlusconi) se sull’Europa la pensano tanto diversamente?

 

Franco Chiarenza

24 settembre 2018

Entrambi i partiti che costituiscono la maggioranza di governo si definiscono forze “di cambiamento”, anzi, proprio nel cambiamento dicono di trovare l’affinità che consente loro – pur diversi – di governare insieme.
Bisogna allora cercare di capire che cosa realmente vogliono cambiare e, riuscendoci, quali ne sarebbero le conseguenze. Il problema non è il cambiamento delle persone, delle “facce” (anche se questo è soprattutto quello che molti elettori dei Cinque Stelle volevano) ma verso quali scelte indirizzarlo; il cambiamento non è un valore per se stesso, dipende dagli obiettivi che con esso si vogliono perseguire.

Cambiare la classe politica per eliminare la corruzione
Questo è per i Cinque Stelle il cambiamento principale, quello su cui hanno costruito il successo e per il quale c’è tra loro un unanime consenso. Un po’ meno nella Lega per la semplice ragione che a tutti gli effetti della vecchia classe politica la Lega ha fatto parte a lungo e anche in posizioni di rilievo: governo nazionale, regioni, grandi e piccoli comuni, e per di più in alleanza con Berlusconi che, agli occhi dei nipotini di Grillo, rappresenta la personificazione del malaffare politico e morale.
Cosa si rimprovera infatti alla vecchia classe politica? Di essere corrotti e di avere istituito un sistema articolato di interessi personali che costituisce la causa principale dei problemi che affliggono il Paese. Eliminandola, o comunque rendendola impotente, il problema dovrebbe risolversi da sé.
Ora, a prescindere dall’automatismo un po’ ingenuo che cerca nella corruzione la causa di ogni male, non vi è dubbio che essa costituisca purtroppo un male endemico del nostro Paese che genera tra le altre conseguenze un freno allo sviluppo e una delle ragioni della sua scarsa attrattività (parole di Cottarelli, il quale certo non può annoverarsi tra i simpatizzanti di Grillo). Lo sanno e lo dicono tutti da sempre, ma bisogna chiedersi perché, malgrado le “grida manzoniane” che si sono succedute da trent’anni a questa parte, la corruzione non soltanto non è stata estirpata ma, a quanto pare, nemmeno ridotta. Una riflessione si impone. I Cinque Stelle sono cresciuti alimentandosi del mito che la corruzione dalla “testa” della nazione si dirami come un cancro a tutte le articolazioni del potere; un errore di prospettiva che hanno compiuto anche i loro predecessori. Temo (non solo io, anche Davigo che in proposito ha scritto un libro assai apprezzato dai pentastellati) che le cose non stiano così e che tutti conoscano la verità ma non osano dirla: quella della “casta” riflette una corruzione diffusa che si alimenta di comportamenti quotidiani, di mancanza di senso civico, di disprezzo per le regole, che forse deriva da radici storiche lontane. La classe dirigente liberale non riuscì ad eliminare la corruzione, già dilagante, dopo l’unificazione, ed essa è riemersa più forte che mai durante il fascismo (coperta dalla mancanza di trasparenza del regime) e, purtroppo, è cresciuta nella prima repubblica a guida demo-cristiana in coincidenza con l’aumento della ricchezza del Paese. Il “boom” degli anni ’50 generò anche la caduta verticale di quel poco di moralità che ancora la borghesia portava con sé.
Riusciranno i nostri eroi a cinque stelle laddove sono falliti tanti altri? Me lo auguro. Temo però che il ricambio della classe politica – ammesso che avvenga – non basterà a cambiare le cose, così come non bastò dopo che i processi di “mani pulite” negli anni ’90 avevano creato le condizioni di una ripartenza da zero, avendo eliminato drasticamente quasi tutti i partiti della prima repubblica (DC, PSI, PRI, PLI). Se vogliamo ridurre la corruzione a dimensioni “normali” (eliminarla del tutto mi pare difficile) occorre mettere in atto un progetto di ampio respiro in grado di riformare la giustizia, la pubblica istruzione, la pubblica amministrazione, la pubblica sicurezza, rendendole efficienti e quindi in grado di contrastare le prassi clientelari e assistenziali che si diffondono anche perché contano sull’impunità non soltanto giudiziaria ma anche sociale. Ricordo, tanti anni fa, parlando della corruzione con colleghi americani, questa bruciante affermazione: “La corruzione esiste anche da noi, ed è anche molto rilevante; ma una differenza c’è, da noi se ne vergognano da voi la esibiscono come manifestazione di furbizia”.

Combattere la “casta”
Ma i Cinque Stelle non si accontentano della classe politica; nel mirino del “cambiamento” c’è la “casta”. Con questo termine gli allievi di Grillo intendono tutti i privilegiati che si annidano nelle istituzioni godendo di vantaggi ingiustificati a spese della collettività. Qui bisogna fare attenzione: se si vogliono cambiare i vertici della pubblica amministrazione, delle partecipazioni di Stato, dell’esteso sottogoverno che è parte integrante dell’apparato pubblico italiano, nulla di nuovo: si chiama spoyl system ed è stato largamente praticato (spesso con risultati discutibili) sia dal centro sinistra che dal centro destra. Se si vogliono mettere le mani su organismi cruciali per la credibilità internazionale del Paese, la prudenza è d’obbligo: Banca d’Italia, Autorità indipendenti (Anti-trust, Borsa, comunicazioni), autonomia universitaria, magistratura, mezzi di informazione liberi, costituiscono il biglietto da visita su cui si valuta in gran parte l’affidabilità del “sistema Italia”, a prescindere dalle variabili maggioranze che possono alternarsi al governo. Anche in questo caso altre sono le soluzioni davvero radicali che da sempre i “liberali qualunque” propongono: ridurre le dimensioni abnormi dell’apparato statale e degli enti locali, ridare fiato all’iniziativa privata, attuare il sano principio per cui è consentito tutto ciò che non è espressamente vietato e non il suo contrario come oggi avviene (per cui è vietato tutto ciò che non è espressamente autorizzato). Si ridurrebbe la “casta”, si restituirebbe al mercato la sua funzione equilibratrice, si libererebbero energie in grado di produrre risorse disponibili per la comunità, si aumenterebbe l’attrattività del “sistema Paese” nei confronti degli investitori. Ma non sembra questa la strada su cui i Cinque Stelle sembrano avviati; al contrario si invoca il ritorno allo Stato di quel poco che si era privatizzato, si evocano nazionalizzazioni, si diffida dell’iniziativa privata, manca poco che si ritorni all’antica pregiudiziale cattolica per la quale il profitto è peccato. Non si coglie nemmeno il proposito di ridisegnare la congruità dell’intero sistema pubblico, tagliarne i costi, renderne più efficienti le strutture; ci si è limitati a misure punitive come il taglio annunciato alle cosiddette “pensioni d’oro”, di dubbia costituzionalità ma di sicuro effetto populistico. I grandi liberali inglesi dell’Ottocento ci avevano avvertiti: non esiste lo Stato buono, non è mai esistito e mai esisterà; può esistere uno Stato costretto ad essere “buono” dal potere di intermediazione esercitato in forme diverse da corpi autonomi in grado di vivere senza ricorrere alla sua protezione. Meno Stato, più società: la grande ricetta liberale che sembra ignorata dal dirigismo resuscitato.
A questo punto naturalmente qualcuno tirerà fuori la tragedia del ponte di Genova. Ma il problema non è che la società Autostrade sia privata e consenta profitti (necessari per remunerare le migliaia di azionisti e creare nuovi investimenti); se fosse stata pubblica sarebbe diverso? La questione è semplice: qualcuno ha sbagliato, la società che non ha effettuato i lavori necessari e la pubblica amministrazione che non ha vigilato come avrebbe dovuto. Speriamo adesso che chi ha sbagliato ne paghi le conseguenze civili e penali.

Contrastare i poteri forti
Un altro obiettivo della nuova maggioranza (ma soprattutto, ancora una volta, dei Cinque Stelle) è quello di tagliare le unghie ai cosiddetti “poteri forti”, che dall’ombra dei palazzi del potere manovrano in maniera occulta per favorire interessi privati a danno dell’onesto popolo dei lavoratori. Chi sono questi poteri forti? Su questo punto i pentastellati entrano in genericismi fumosi che nascondono l’imbarazzo di chiamarli per nome e cognome. Molto più decisi i leghisti salviniani: i “poteri forti” sono quelli che congiurano, in combutta con l’Europa a trazione tedesca, per ridurre i poteri sovrani della Nazione. Quindi magistratura, informazione (stampa, televisione), grandi imprese (artificiosamente contrapposte alle piccole), banche, mercati internazionali, agenzie di rating, istituzioni sovranazionali, chiesa conciliare (strumentalmente distinta dalla sana tradizione cattolica).
Certo, i poteri forti esistono, sono sempre esistiti; essi consistono in realtà in quei gruppi di persone che dispongono di una autonomia decisionale che gli consente di non dipendere completamente dallo Stato (e quindi dalla politica). Per esempio gli imprenditori associati (Confindustria, Confcommercio e simili), i sindacati, gli editori, la finanza (soprattutto quella internazionale dove svolgono un ruolo determinante i fondi sovrani), la Chiesa, e pochi altri tra cui alcune collaudate corporazioni che gestiscono l’erogazione dei servizi (nella sanità, nella scuola, nell’informazione, ecc.). Ed è difficile per chiunque, in qualunque parte del mondo, governare senza tenerne conto. Qualcuno, prima delle elezioni, lo aveva spiegato a Di Maio il quale infatti ha dedicato qualche settimana del suo tempo ad andare in giro in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, ovunque i “poteri forti” erano annidati, per rassicurarli sulle intenzioni di questo “oggetto sconosciuto” che era per tutti il movimento cinque stelle. Ma poi l’alleanza con Salvini ha innescato una competizione demagogica soprattutto quando il leader della Lega ha fatto il pieno battendo la grancassa dell’immigrazione clandestina. Spiazzato e schiacciato dai sondaggi Di Maio ha ripiegato sul “decreto dignità” che regolarizza i portatori di pizze a domicilio e che produrrà probabilmente –secondo molti – un aumento della disoccupazione e del lavoro nero. Sulle altre questioni scottanti lasciate aperte dalla precedente legislatura la strada obbligata è quella di onorare gli impegni presi facendo credere di avere ottenuto condizioni migliori: così per l’ILVA di Taranto, per l’approdo del gasdotto in Puglia (TAP), per la TAV Torino-Lione. E pazienza se ciò deluderà gli ambientalisti. La vera rivincita di Di Maio si gioca sul “reddito di cittadinanza”: una misura molto popolare nel sud dove ha rappresentato la ragione più importante del consenso elettorale. Ma il problema – come si è sempre saputo – è un po’ come la quadratura del cerchio. Le risorse disponibili, se non si vuole entrare in rotta di collisione con l’Europa, sono poche e non consentono di realizzare contemporaneamente il reddito di cittadinanza, la riforma delle pensioni e l’adozione della flat tax. Anche qui Salvini ha le idee chiare: forzare la situazione aumentando il debito pubblico entrando così consapevolmente in conflitto con la Commissione dell’Unione Europea e con la Banca Centrale Europea, anche in vista di un futuro ridimensionamento dei loro poteri dopo le elezioni del 2019. Ma quali sono in proposito gli intenti e le prospettive dei Cinque Stelle?

Restare in Europa?
Sappiamo tutti che l’Europa, la globalizzazione, l’apertura dei mercati a nuovi paesi, lo stato di diritto, sono percepiti da molti come minacce alla propria sicurezza; se il cambiamento consiste nella strumentalizzazione di queste paure si tratterebbe di un cambiamento che ci porterebbe indietro verso l’autarchia, il nazionalismo, il ritorno alla conflittualità endemica che sfociò in due disastrose guerre mondiali (oggi improbabili ma sostituite da altrettante guerre commerciali per noi esiziali); un remake non molto originale del fatidico “sacro egoismo per l’Italia” pronunciato da Salandra per motivare l’entrata in guerra nel 1915. Un suicidio allora, un suicidio oggi per ragioni che sarebbe troppo lungo enumerare in questa sede ma che probabilmente anche molti elettori dei Cinque Stelle comprendono. Se invece si tratta di cambiare una classe dirigente che si è dimostrata incapace e poco credibile, la sfida consiste nel fare quelle cose che essa non è stata in grado di assicurare, andando avanti non voltandosi indietro.
Fino a questo momento l’unico punto chiaro che sembra emergere dall’azione di governo e soprattutto dalle intenzioni dichiarate è quello di rappresentare (e quindi consolare) le paure e le preoccupazioni, molte delle quali fondate e condivise (come la crescita del divario sociale). Tutti vogliono essere protetti, tutti cercano sicurezza oggi piuttosto che opportunità domani; comprensibile ma sbagliato. Camminare sull’onda emotiva anche quando dati di fatto e ragionamenti dovrebbero indurre a puntare sulle strategie più adatte ad affrontare il futuro, è pericoloso; chi non risica non rosica, dice un vecchio proverbio.
Ed è qui che si misura la distanza tra governanti demagogici e statisti lungimiranti. Quando subito dopo il 1948 si trattò di scegliere tra l’apertura dei mercati e il protezionismo, molti, anche potenti (confindustria, sindacati) si levarono in difesa dei dazi protettivi; statisti come De Gasperi, Einaudi, La Malfa decisero di rischiare, e a loro il Paese deve la più grande trasformazione economica di tutta la sua storia. Scegliere il mantenimento dell’esistente e chiedere maggiori protezioni significa in concreto aumentare l’invadenza dello Stato, ignorare i vincoli di bilancio (che sono necessari per la nostra economia non per imposizione dell’Europa), tornare a tassi di inflazione a due cifre, mettere in discussione i principi fondamentali dello stato di diritto, scivolare verso un regime plebiscitario che della democrazia – soprattutto di quella liberale – ha soltanto l’apparenza.
Il fatto è che mentre in politica interna Grillo e i suoi seguaci credono di avere trovato nella lotta alla corruzione la chiave di volta per la soluzione di tutti i problemi, in politica estera l’incertezza regna assoluta; ben sapendo che le elezioni si vincono (o si perdono) sulle questioni che interessano la quotidianità della vita sociale e non sulle complesse dinamiche della politica estera e delle convenienze economiche su scala globale, non se ne sono preoccupati più di tanto. Ma ora governano con Salvini il quale – come abbiamo detto – (non so se seguito da tutta la Lega) ha le idee chiare: fuori dall’Europa, in posizione defilata nei confronti dell’Alleanza Atlantica, alleati strumentalmente con la Russia, chiusi nelle nostre frontiere, lasciando che il resto del mondo vada nella direzione che vorrà ma evitando che influisca sul nostro giardino recintato. Ma è questa la posizione dei Cinque Stelle? Difficile dirlo: di questo in realtà non hanno mai seriamente discusso (donde asserzioni generiche e piuttosto fumose) anche perché probabilmente le sue diverse anime entrerebbero in contrasto. Gli ambientalisti sono in genere contrari alla globalizzazione capitalistica ma favorevoli a forme di integrazione europea fondate sul solidarismo, i piccoli e medi imprenditori vorrebbero meno Stato e più mercato (anche internazionale perché molti di loro sono esportatori), alcuni agricoltori vorrebbero il blocco delle importazioni agricole, ma altri, prevalentemente esportatori dei nostri prodotti di qualità la pensano diversamente, l’ala di sinistra è più sensibile all’aumento della spesa sociale ma spinge per un’alleanza strategica con la CGIL che non sarebbe condivisa da una parte dell’elettorato (e nemmeno dalla Lega). Insomma un pasticcio in cui può cacciarsi soltanto chi ha costruito il suo successo su slogan accattivanti e promesse di difficile mantenimento. Quanto potrà durare? E quanti danni nel frattempo potrà arrecare?
A Salvini non importa: attende paziente che il collega napoletano resti impigliato nella ragnatela delle contraddizioni. Non ha fretta e sa che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare immenso degli interessi del nord; una volta incassato il dividendo dello stato confusionale del movimento di Grillo sa bene come andarci lui a trattare coi “poteri forti”. C’è abituato: è alleato in tutti gli enti locali con Berlusconi che dei poteri forti ne sa qualcosa.

 

Franco Chiarenza
15 settembre 2018

P.S. Questo articolo era stato scritto il 2 settembre. Ho atteso a pubblicarlo per vedere se gli sviluppi della situazione lo rendessero superato. Non è successo nulla.