Nella difficile partita che il governo italiano sta giocando a Bruxelles stanno venendo a galla alcuni nodi che, in modo un po’ superficiale, si riteneva di potere eludere: il primo di essi è che il tentativo di isolare la Commissione nel suo rigorismo formale delegittimandola in una dimensione meramente burocratica si è risolto nel suo contrario. Isolata è rimasta l’Italia nei confronti di tutti i partner europei i quali spingendo verso misure punitive severe (come si configura la procedura d’infrazione) hanno restituito alla Commissione Juncker un ruolo di mediazione a cui il governo Conte ha dovuto precipitosamente aggrapparsi. Mediazione peraltro che ha limiti molto stretti per la ferma intenzione degli altri paesi di non creare precedenti che potrebbero ripetersi generando seri problemi alla tenuta dell’Unione (e soprattutto dell’Eurozona). Il secondo nodo da sciogliere è la credibilità dei mercati che, contrariamente a quel che pensano i “dioscuri” del governo, non sono governati da oscuri complotti tramite “bottoncini” che si spingono in una o altra direzione; sono invece misuratori della domanda e dell’offerta che, in campo finanziario, si riflettono sulla maggiore o minore fiducia dei titoli di credito. Se lo spread, già molto elevato, non è ulteriormente salito (con gravi conseguenze sul sistema creditizio e quindi sulla produzione) è soltanto perché i mercati (come tutti noi) non hanno ancora capito come uscirà nella sua versione definitiva la manovra di bilancio.

Le regole
Le regole si possono cambiare ma non si devono violare. E’ questo il punto fondamentale di qualsiasi accordo perché altrimenti ne va di mezzo la credibilità di tutti i contraenti. Quando Di Maio e Salvini evocano violazioni compiute in passato da Francia e Germania dimenticano di aggiungere che anche in quei casi furono avviate procedure di infrazione, poi rientrate in base ad accordi che furono facilitati dal fatto che si trattava di paesi con un debito pubblico molto minore del nostro e tassi di crescita superiori.
Ciò infatti che ci viene contestato non è tanto l’eccesso della spesa in deficit ma la destinazione delle risorse aggiuntive che, nella previsione della Commissione ma anche della maggior parte degli economisti di casa nostra, non sono in grado di creare crescita e occupazione, essendo considerate spese assistenziali con una scarsa ricaduta sui problemi strutturali che sempre più impediscono al nostro sistema produttivo di esprimere tutte le sue potenzialità.
Che poi le regole di Maastricht non siano più compatibili con una situazione che vede l’Europa arretrare a fronte della crescita degli altri grandi colossi mondiali (a cominciare da Stati Uniti e Cina) sarà sicuramente al primo punto dell’ordine del giorno della nuova Commissione che scaturirà dalle elezioni europee di maggio. Ma si tratta di una questione dove l’Italia potrà svolgere un ruolo attivo soltanto se mantiene il prestigio di socio fondatore del club che non ne mette in discussione unilateralmente le regole; e se in questa nuova partita Salvini pensa di coalizzare le spinte “sovraniste” fino a diventare condizionanti per una futura maggioranza nel parlamento europeo, ritengo che si faccia delle illusioni. I partiti “sovranisti” arriveranno probabilmente ad aumentare considerevolmente la loro presenza ma si presenteranno per ovvie ragioni divisi e confliggenti, senza una chiara strategia comune; in grado di distruggere ciò che si è costruito, non di proporre qualcosa di nuovo e diverso. Come dimostrano i risultati elettorali in Germania e in Scandinavia i movimenti emergenti che davvero condizioneranno le possibili maggioranze in Europa saranno i Verdi nella loro nuova veste profondamente europeista, nei cui confronti i Cinque Stelle non faticheranno a rintracciare evidenti “affinità elettive”.

Mercati globali
La partita che l’Europa dovrà giocare nel prossimo decennio si svolgerà al tavolo delle potenze globali: sarà soprattutto con Stati Uniti e Cina che ci si dovrà confrontare. Altri paesi di media importanza come alcuni europei (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Giappone, ma anche India, Indonesia, Canadà) dovranno integrarsi in sistemi multinazionali che in qualche modo consentano di esercitare un potere contrattuale adeguato. Il sistema multilaterale (inventato dagli americani ma oggi in via di demolizione con l’amministrazione Trump) garantiva almeno in parte il rispetto di alcune regole comuni e consentiva agli Stati Uniti di mantenere una sostanziale egemonia pagando qualche prezzo in termini di sbilanciamento commerciale. I paesi europei traevano innegabili vantaggi da questo sistema e potevano permettersi persino di restare disuniti e concorrenziali nelle politiche commerciali. Ma Trump ha rotto il giocattolo e temo che sarà difficile ripararlo.
In tale prospettiva l’unità europea non è più soltanto un’opportunità è ormai una necessità; neanche la Germania potrà essere da sola, con tutto il suo peso, un interlocutore paragonabile a coloro che dispongono di punti forza difficilmente raggiungibili (dimensioni del mercato interno attuale e potenziale, aggiornamento tecnologico, potenza militare da impiegare nelle situazioni di crisi, ecc.).
Il “sovranismo” politico ed economico è in realtà la strada più breve per raggiungere una situazione di subordinazione irreversibile; resteremo alla mercé di chi è disposto a pagare i nostri prodotti più cari, saremo esclusi dalla scrittura delle regole del gioco, correremo da Mosca a Pechino a chiedere aiuto (senza dimenticare una visita alla Casa Bianca). Il sovranismo ha già mostrato i suoi effetti in campo energetico: siamo il Paese che ha i costi più elevati, i “buoni rapporti” tra Putin e Berlusconi ci hanno regalato un contratto di fornitura di gas che ci costringe ad acquistarlo a un prezzo superiore a quello di mercato e che i russi non intendono modificare. Salvini sembra avviarsi sulla stessa strada. Ma quando l’Europa si muove – naturalmente nelle materie di sua competenza – ha ben altro peso: l’abbiamo visto nelle trattative nello scontro con le multinazionali del commercio e della comunicazione che finalmente cominciano a pagare le tasse, e in molte altre occasioni. Una delle ragioni per cui Putin vuole impadronirsi dell’Ucraina è per contestare la sua volontà di entrare a far parte dell’Unione Europea; perché, difettosa com’è, essa rappresenta comunque una garanzia di libertà politica ed economica nei confronti di chi a questi principi certamente non si ispira. Ogni riferimento a Vladimir Putin è puramente casuale.

 

Franco Chiarenza
30 novembre 2018

Con la vittoria di Macron in Francia gli europeisti di ogni tendenza avevano pensato che un rilancio del processo unitario europeo fosse diventato possibile e forse imminente. Ma non è stato così: al contrario le elezioni tedesche hanno indebolito Angela Merkel, il governo spagnolo è sempre a rischio di sopravvivenza, il gruppo di Visegrad (e soprattutto l’Ungheria) continua a differenziarsi dalla tradizione liberal-democratica dell’Europa occidentale, e infine anche l’Italia con il nuovo governo si sta collocando decisamente su un orizzonte “sovranista” certamente non favorevole all’integrazione europea. Le imminenti elezioni per il parlamento di Strasburgo si presentano di esito incerto e tutto contribuisce ad isolare il presidente francese nel suo progetto di rilancio, se mai ci sia stato.

La burocrazia di Bruxelles
Ma chi pensa che l’Unione sia ormai irrimediabilmente destinata a dissolversi o che comunque dovrà ridursi a un club nazioni completamente sovrane che di volta in volta potranno stipulare accordi a geometria variabile, non conosce la realtà che in questi anni è venuta consolidandosi intorno alle istituzioni comunitarie. Il corpo massiccio dell’Unione, tenuto insieme da una burocrazia che si è consolidata in decenni di potere regolamentare, è divenuto troppo ingombrante per essere facilmente eliminato senza creare più danni di quelli che gli vengono contestati. Non soltanto la moneta comune ha sottratto agli stati nazionali il potere essenziale della politica dei cambi e la vigilanza sugli istituti di credito, il trattato di Schengen ha aperto le frontiere, le borse Erasmus hanno consentito a centinaia di migliaia di studenti di mescolarsi tra loro, ma non c’è aspetto della vita civile in Europa che non sia condizionata dai trattati; la minuzia di certe regolamentazioni possono legittimamente infastidire, ma tutto il sistema produttivo europeo si è ormai conformato alle direttive della Commissione, il sistema giudiziario è reso sempre più omogeneo dalle pronunce della corte del Lussemburgo, non vi è settore che non sia coinvolto in una rete di accordi anche parziali ma comunque indicativi per tutti.
Piaccia o no in assenza di una spinta politica i burocrati hanno steso una rete che adesso è assai difficile da smontare; soprattutto per questo l’Europa è in mezzo al guado, conta a livello delle trattative dove si presenta con un’unica voce (quella della Commissione), viene ignorata quando le nuove grandi potenze stabiliscono i nuovi equilibri internazionali (il che vale anche per paesi che vantano un passato glorioso come Francia, Gran Bretagna e la stessa Germania). I dossier che contano a livello mondiale sono preparati a Bruxelles e a Francoforte.
E cresciuto così un mostro. Una burocrazia tanto più onnipotente in quanto priva di un reale controllo politico. Esattamente come è successo con la creazione dell’euro. Ma (tanto per imitare la formula che usano i Cinque Stelle quando si apprestano a fare marcia indietro) un’analisi dei costi e benefici non consente altra soluzione di quella proposta da Macron: andare avanti, cominciando a farlo con chi ci sta. Purtroppo però al momento attuale non ci sta nessuno.

Le elezioni europee
Per queste ragioni le prossime elezioni europee rappresenteranno una sorta di referendum: non pro o contro l’Europa, perché sarà troppo facile per tutti – anche per Orban e Salvini – dire che sono a favore di una “diversa” Europa, ma per una maggiore integrazione politica laddove ancora le sovranità nazionali hanno mantenuto i loro poteri esclusivi, per esempio in materia di politica estera, difesa e bilancio. Ma per rendere chiaro l’obiettivo all’opinione pubblica occorre anche uscire dal generico: proporre per esempio che la futura assemblea abbia funzioni costituenti e sia in grado di disegnare le linee guida su cui l’Unione politica dovrà costruirsi. A Macron non basterà contrapporre “sovranisti” a “europeisti”; dovrà dire qualcosa di più se vorrà davvero mettersi alla testa dei sentimenti europei, anche a costo di perdere qualche voto in Francia.

 

Franco Chiarenza
20 novembre 2018

E’ morto il 14 novembre a 90 anni Luigi Vittorio Ferraris. Era per noi della vecchia Fondazione Einaudi di largo dei fiorentini l’”ambasciatore” per eccellenza. Quando si discuteva di politica estera la sua presenza era d’obbligo. Valerio Zanone lo apprezzava molto. Non si può dire che fosse affabile, i suoi modi erano bruschi, non tollerava l’incompetenza di chi si metteva in cattedra senza conoscere le cose di cui si parlava. La sua competenza era invece fuori discussione, anche per un’esperienza sul campo eccezionale, le sue pubblicazioni (che spesso presentavamo anche in Fondazione) sempre stimolanti.
Con lui scompare un diplomatico della vecchia scuola, un servitore dello Stato consapevole di quanto la sua funzione, al di là dei compiti di rappresentanza, sia necessaria per consigliare e indirizzare le scelte di governo. Non sempre con successo, ma sempre comunque in una visione degli interessi del Paese che coincidevano con quelli di una democrazia liberale che fosse in grado di affrontare le sfide del XXI secolo.
Nelle sue numerose missioni (in particolare in Germania) ha contribuito a creare le premesse di quella complessa costruzione che è diventata poi l’Unione Europea. Forse se ne è andato in tempo per non vedere quanti tentativi si stiano facendo oggi per demolire ciò che con tanta fatica è stato edificato e che resta il più importante progetto di politica internazionale realizzato nell’ultimo secolo. Un progetto attuato solo in parte, ancora incompleto, ma che comunque ha garantito la pace dopo secoli di guerre che sempre in Europa avevano trovato la loro origine.

 

Franco Chiarenza
18 novembre 2018

Mentre il partito democratico continua con irritante lentezza il suo dibattito volto a definire non soltanto gli assetti di potere interni ma anche la piattaforma programmatica su cui dovrà caratterizzare la sua proposta alternativa, qualcosa si muove: comincia ad emergere un dissenso spontaneo nei confronti delle politiche della maggioranza, indirizzato soprattutto contro il movimento Cinque Stelle. L’accoglienza riservata dagli imprenditori lombardi alla relazione del presidente Bonomi, assai critica nei confronti del governo ma soprattutto contro il movimento di Di Maio, la manifestazione pro-TAV di Torino, il voto di alcuni senatori Cinque Stelle contro il condono dell’edilizia abusiva di Ischia, rappresentano segnali di disagio che non vanno sopravalutati (anche alla luce dei sondaggi che indicano il mantenimento di un forte consenso al governo) ma che meritano di essere analizzati con attenzione.

Cinque Stelle
Mentre infatti la Lega prosegue nel suo percorso politico di ricompattare una destra conservatrice, moderatamente protezionista, radicata soprattutto nel Lombardo-Veneto ma con significative presenze in altre regioni, con una leadership forte pronta a cavalcare spregiudicatamente tutte le pulsioni emotive tipiche dell’irrazionalismo sempre presente nella piccola borghesia italiana, restando però sostanzialmente inserita in un contesto istituzionale tradizionale (non bisogna dimenticare che la Lega ha governato con Berlusconi per molti anni), il movimento Cinque Stelle si trova in difficoltà a mantenere la sua immagine di strumento di raccolta dell’indignazione morale contro la corruzione e l’illegalità dopo l’imbarazzante inserimento nel decreto per Genova di un condono edilizio sulle abitazioni abusive di Ischia, pervicacemente voluto da Di Maio (con Berlusconi complice che rideva sotto i baffi).
Ma le difficoltà del movimento di Grillo non si fermano ad Ischia. Presentandosi alla ribalta come portatore di una politica sociale finalizzata a contrastare le crescenti diseguaglianze, esso, mettendo insieme istanze che, per quanto confuse, vanno considerate – stando ai tradizionali canoni interpretativi – più di sinistra che di destra, assumeva su di sé la parte più ingrata del programma di governo per i costi che implica e per i tempi che richiede (il che vale sia per il cosiddetto reddito di cittadinanza che per le pensioni sociali). Di Maio si trova così intrappolato tra l’esigenza di far fronte alla fin troppo facile (e gratuita) popolarità di Salvini e l’anima originaria del suo movimento che spinge a soluzioni rapide e costose le quali, comportando necessariamente uno scontro frontale con l’Unione Europea, portano altra acqua al mulino della Lega.
Non possiamo ancora sapere in quale misura queste evidenti contraddizioni incideranno sul consenso (già decrescente) che ha spinto i Cinque Stelle al potere. Lo vedremo nei prossimi mesi quando le sue diverse anime cominceranno a confrontarsi, tenendo conto che la composizione della sua base militante (piattaforma Rousseau) e quella del suo improvvisato elettorato (soprattutto meridionale) sono molto differenti. La base del movimento di Grillo infatti ha raccolto sotto le sue insegne spinte diverse e non sempre coerenti tra loro: innanzi tutto quella ambientalista favorevole al cosiddetto “sviluppo sostenibile”, da cui deriva in gran parte l’ostilità nei confronti delle “grandi opere”, ma accanto ad essa una cultura politica più estremistica derivata dalle tesi di Serge Latouche (la ben nota “decrescita felice”), pericolosa non per le previsioni decadentiste a cui si ispira ma per le derive autoritarie e anti-liberali che potrebbe comportare. Ci sono poi una componente etica massimalista che di fatto immagina una funzione etica dello Stato da cui derivano le derive dirigiste della compagine di Di Maio, e infine una frangia sostanzialmente socialista, con evidenti simpatie per il populismo alla Che Guevara (per esempio Di Battista), avversa alla globalizzazione e al neo-capitalismo, la quale raccoglie consensi tra i reduci del sessantottismo e giovani romanticamente egualitari. Una base militante quindi variegata e con diverse priorità difficile da tenere compatta a fronte di scelte di governo imposte dalla realtà. Ma l’elettorato è in grande maggioranza cosa diversa e credo che Grillo, Casaleggio e lo stesso Di Maio ne siano consapevoli (lo prova appunto lo stesso “caso Ischia”).
Molti di coloro che hanno votato il 4 marzo per il movimento di Grillo non lo hanno fatto per condivisione ideologica e men che meno per avversione alla modernità. Le ragioni sono state altre: innanzi tutto una generica insofferenza per chi governa – chiunque sia – che ha sempre colpito anche in passato uomini e partiti quando hanno dovuto compiere scelte inevitabilmente divisive che provocano delusione e rancori. Ma questa volta la protesta è stata alimentata anche dai comportamenti inaccettabili di una vecchia classe dirigente arroccata nei suoi privilegi, tanto più ingiustificabili in un momento in cui le disuguaglianze sociali approfondivano il solco tra i diversi ceti sociali e tra sud e nord; non si ha idea di quanti abbiano votato per rabbia, per punire l’arroganza del potere che si accompagnava all’evidente incapacità di farsi carico di un disagio sociale sempre più avvertibile. In questo contesto la proposta dei Cinque Stelle di un salario di cittadinanza – di per sé tutt’altro che scandaloso e già avviato dal governo Gentiloni – è stata letta in maniera distorta coltivando illusioni di un assistenzialismo generalizzato che ha fatto la differenza.
Adesso però ci si comincia a rendere conto che dietro lo schermo accattivante dei “vaffa” di Grillo si cela ben altro: una visione di governo pericolosa che, nell’intento frettoloso di mostrarsi “diversi”, sta rischiando di buttare insieme all’acqua sporca anche il bambino che andava lavato. Le esperienze di governo del movimento, locali e nazionali, sono state gestite, almeno fino ad oggi, con incompetenza, superficialità, dilettantismo (sbandierati come valori positivi rispetto al professionismo della cosiddetta “casta”) creando gravi difficoltà al sistema produttivo del Paese che, piuttosto che di sussidi, vive di credibilità e di stabilità del quadro politico.

Crisi imminente?
In un paese normale una situazione siffatta, con un governo presieduto da un arbitro privo di prestigio continuamente impegnato a mediare i conflitti tra i due veri protagonisti della partita, non potrebbe durare a lungo. Ma forse non sarà così. Salvini pensa probabilmente di mantenere e aumentare il consenso elettorale con una campagna anti-europea e non ha interesse ad anticipare il voto almeno fino alle elezioni europee; Di Maio, dal canto suo, se provocasse una crisi andrebbe incontro a una sconfitta politica sancita da un rovesciamento dei rapporti di forza con la Lega, rischiando oltre tutto personalmente di scomparire dalla scena in base alle assurde regole del suo partito che, imponendo un rapido turn over, comporterebbero in caso di nuove elezioni la sua sostituzione al vertice. E’ ragionevole quindi ritenere che, almeno in base a un calcolo politico (al netto delle variabili imprevedibili), il governo possa durare fino a giugno dell’anno prossimo. Con quanti danni per il Paese non si sa. Ma, dicono i miei amici pentastellati, peggio di prima non è possibile. Invece è possibile.

 

Franco Chiarenza
15 novembre 2018

Che le risorse disponibili non fossero sufficienti a coprire tutte le promesse elettorali della Lega e dei Cinque Stelle era evidente già prima delle elezioni del 4 marzo. Che un’ulteriore espansione del debito pubblico fosse impossibile senza creare difficoltà nei rapporti con l’Unione Europea era altrettanto chiaro. Che gli impegni internazionali assunti dai governi precedenti andassero onorati per ragioni di credibilità sui mercati e per il rischio di penali molto sostanziose era ovvio.
La domanda è: se tutto ciò era prevedibile perché Di Maio e Salvini anziché predisporre un programma di governo che, senza venir meno agli impegni presi, li scadenzasse in tempi ragionevoli, hanno preferito mettere tutto sul piatto del bilancio 2019 andando incontro a infortuni e contorsioni ancora in corso?

Governo fragile
Se l’alleanza tra Lega e Cinque Stelle fosse davvero fondata su un patto di legislatura – come si vuol fare credere – il governo sarebbe forte e non avrebbe avuto difficoltà a scadenzare nel tempo la realizzazione di promesse tanto impegnative. Il reddito di cittadinanza – per esempio – non può essere seriamente introdotto senza una riforma dei centri di collocamento che, nel migliore dei casi, richiederà un anno; si sarebbero così risparmiati almeno cinque miliardi nel budget 2019.
L’unica spiegazione possibile è che l’intesa di maggioranza non è affatto solida e ciò spiega perché entrambi i protagonisti avendo l’occhio puntato soprattutto alle prossime elezioni abbiano bisogno di successi di facciata da potere esibire in una campagna elettorale che da europea potrebbe diventare anche nazionale.
Il più preoccupato è naturalmente Di Maio per diverse ragioni. Innanzi tutto per i malumori che emergono sempre più frequentemente nella base militante del suo movimento, in secondo luogo per il lento ma inesorabile scivolamento del primato all’interno dell’alleanza verso Salvini su cui concordano tutti i sondaggi di opinione, infine perché le riforme più care ai Cinque Stelle, come il reddito di cittadinanza, sono anche le più costose e problematiche in termini di risultati immediati. Salvini ha già incassato il suo dividendo, in parte per il progressivo ridimensionamento di Forza Italia, ma soprattutto perché i provvedimenti che hanno consolidato la sua popolarità sono sostanzialmente a costo zero: misure anti-immigrati, revisione del codice penale in materia di autodifesa, ecc.
Per rimediare i Cinque Stelle hanno precipitosamente inserito (con un emendamento!!!) nella legge anti-corruzione la cessazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, una misura richiesta dalla loro base per contrastare lo scandalo delle frequenti utilizzazioni che ne sono state fatte per garantire l’impunità (spesso proprio nei reati di corruzione); ma la fretta di rilanciare la propria immagine può generare risultati controproducenti. A una giusta esigenza, condivisa da gran parte dell’opinione pubblica anche al di fuori dell’attuale maggioranza, non si può rispondere con un provvedimento affrettato e maldestro che potrebbe incidere negativamente sullo stato di diritto eliminando la certezza dell’imputato di avere un giudizio definitivo in tempi certi. Occorre riformare tutta la struttura del processo e inquadrare la prescrizione in una serie di misure che giuristi e politici (anche di sinistra) propongono da tempo. Così un problema vero ha innescato una reazione che verte più sul metodo che sulla sostanza e su cui la Lega ha avuto gioco facile a farsi paladina dei diritti degli innocenti (fino al giudizio definitivo, come afferma la nostra Costituzione).
A questo punto del percorso la fragilità del governo appare evidente. Confermata anche dalla crescente consapevolezza che il progetto nazional-populista di Salvini è poco compatibile con le idee prevalenti nella base del movimento Cinque Stelle dove le prime incrinature cominciano a manifestarsi apertamente mentre Di Battista annuncia (o minaccia?) il suo prossimo rientro in Italia.

I vincoli inderogabili
Male ha fatto il movimento di Grillo a promettere cose che i vincoli internazionali dell’Italia non avrebbero mai consentito senza correre il rischio di un rovesciamento delle alleanze che il Paese ha pazientemente costruito negli ultimi settant’anni. Posto di fronte alla realtà delle cose Di Maio ha dovuto già fare i primi passi indietro e altri probabilmente ne seguiranno. Non si poteva chiudere Taranto senza declassare l’Italia – oggi tra i più importanti produttori d’acciaio – a potenza di serie B e creare una crisi occupazionale e sociale gravissima; non si poteva bloccare l’oleodotto TAP che risponde a un disegno strategico concordato con gli Stati Uniti per sottrarre l’Europa (e l’Italia) dalla dipendenza energetica russa; non si può fermare la TAV in Val di Susa perché rappresenta un anello fondamentale dell’asse ferroviario veloce est-ovest (dalla Spagna ai paesi dell’Est) concordato in sede europea che si affianca all’altro nord-sud (dalla Scandinavia alla Sicilia) di cui il traforo del Brennero costituisce un passaggio fondamentale; non si può bloccare il terzo valico appenninico senza mettere in crisi il porto di Genova isolandolo dai mercati del nord Europa. E altri esempi si potrebbero fare, dagli interessi dell’industria aeronautica nella costruzione dei nuovi aerei F35 a quelli dell’ENI e dell’ENEL impegnate in grandi progetti internazionali.
L’idiosincrasia per le cosiddette “grandi opere” che i Cinque Stelle hanno ereditato da una malintesa cultura ambientalista e da un moralismo demagogico basato sull’equazione indimostrabile per la quale i lavori pubblici di una certa importanza siano fonte certa di corruzione (per evitare la quale è meglio non fare le opere, invece di fare le opere eliminando la corruzione), mostra tutti i suoi limiti entrando, oltre tutto, in rotta di collisione con gli interessi e le convinzioni della Lega.
Intendiamoci: tutto si può fare e se davvero le intenzioni degli elettori che hanno votato i Cinque Stelle sono di retrocedere questo paese a livelli esistenziali più bassi in nome di una maggiore sostenibilità ambientale, si tratta di un progetto che da liberale non condivido per le derive che comporta verso la concezione di stato etico ma che ha piena legittimità nella dialettica democratica (almeno fin quando non mette in pericolo i principi fondamentali dello stato di diritto). Ma per realizzarlo occorre un governo coeso e talmente solido da imprimere un radicale cambiamento alla politica industriale del Paese, e ci vuole il tempo necessario. Dice la saggezza popolare che gatta frettolosa partorisce gattini ciechi.

Franco Chiarenza
9 novembre 2018