Ne erano crollati altri negli ultimi anni ponendoci il dubbio che la loro costruzione nella seconda metà del secolo scorso presentasse qualche problema. Nella nostra cultura millenaria i ponti hanno rappresentato quasi l’eternità: ponte Milvio a Roma ha duemila anni ed è ancora in piedi.
Nell’orgia di dichiarazioni, interviste, polemiche più o meno strumentali, una cosa ci sembra di avere capito: le tecnologie basate sul cemento armato se, da un lato, consentono costruzioni ardite e leggere, d’altra parte hanno comportato (almeno in passato) fragilità intrinseche che emergono nel tempo legate all’usura delle anime ferrose imprigionate nei contenitori di cemento (e per questo anche di difficile manutenzione).

Il viadotto sul Polcevera
Il crollo avvenuto a Genova rappresenta però qualcosa di più di un inconveniente tecnico; non soltanto per le vittime innocenti che ha provocato e che hanno dato all’evento le dimensioni di una tragedia umana tanto più inaccettabile quanto più ragionevolmente prevedibile, ma anche perché l’ardito ponte sul Polcevera, celebrato quando fu costruito come un capolavoro dell’ingegneria italiana, rappresentava qualcosa di più del collegamento tra due quartieri di Genova. Era uno dei punti di convergenza del traffico tra l’Italia e l’Europa meridionale, passaggio obbligato tra il porto, la città, le grandi vie di comunicazione che si irradiano verso la Francia e all’interno del Paese. Un ponte simbolo al cui crollo si finisce per attribuire anche un significato che va ben oltre la tragedia che ha provocato.
Su un punto Di Maio ha ragione: un ponte così non doveva crollare. Qualcuno ha sbagliato e ha sulla coscienza la responsabilità di 43 morti, decine di feriti, danni ingentissimi. Anche se in parte la colpa è pure di chi (come il suo mentore Beppe Grillo) si oppose alla costruzione del by-pass della Gronda, progettato appunto per alleggerire il carico crescente che transitava per il ponte sul Polcevera e che, se rapidamente realizzato, avrebbe facilitato una revisione totale delle strutture del ponte Morandi rendendone possibile la chiusura ed eventualmente il rifacimento.
Spetterà alla magistratura stabilire le responsabilità, sarà compito delle istituzioni di governo nazionali e regionali mettere in sicurezza strutture analoghe, toccherà alla concessionaria “Atlantia” pagare i costi.

Le concessioni
Ma nella bufera delle polemiche è emersa una tendenza, spinta soprattutto dal movimento Cinque Stelle, di fare marcia indietro sulla politica delle concessioni e tornare alla gestione pubblica diretta delle grandi infrastrutture autostradali. Per un liberale non c’è da scandalizzarsi: a fronte di un “monopolio naturale” come si configura una rete di comunicazione e di trasporti non ripetibile (come strade e ferrovie) lo Stato ha tutto il diritto di gestirla direttamente. In passato lo ha fatto con le ferrovie, con la rete delle strade ordinarie, e da ultimo, con la nazionalizzazione della produzione e distribuzione dell’energia elettrica nel 1962. Anche in quel caso si denunciò la deriva “socialista” e dirigista dei partiti che l’avevano promossa ma in realtà nessun vero liberale poté contestare che in linea di principio la nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali dove non era possibile realizzare alcuna forma di concorrenza era del tutto compatibile con i principi liberali.
Le ferrovie erano state statalizzate durante i governi liberali nel 1905.
Domandiamoci però perché, dopo una gestione quasi diretta (quando la società Autostrade era controllata dall’IRI e quindi indirettamente dallo Stato), si è preferito (come in Francia e in Spagna; non in Germania) passare al sistema delle concessioni.
Il motivo principale è economico. Costruire le infrastrutture moderne è molto costoso; parecchi paesi hanno preferito farle realizzare a spese di privati in cambio di concessioni d’uso pluriennali. In altri casi la costruzione è stata finanziata dallo Stato ma si è preferito assegnarne in concessione la gestione in cambio dei proventi derivanti dai pedaggi perché anche soltanto amministrare e mantenere le autostrade richiede costi e capacità che la nostra pubblica amministrazione non è in grado di garantire. E in effetti quando lo Stato ha voluto gestire in proprio qualche autostrada i risultati sono stati disastrosi: si pensi all’autostrada Salerno-Reggio Calabria o alla Catania-Gela. Per non parlare delle precarie condizioni in cui versano molte strade provinciali e statali, soprattutto nel Sud. Una seconda ragione è che attraverso una gestione privatistica, soprattutto se quotata in Borsa, è possibile raccogliere capitali senza gravare sul bilancio dello Stato; il 50% di Atlantia, per esempio, è quotato in borsa e su di esso hanno investito migliaia di risparmiatori.
Il sistema delle concessioni quindi è stato adottato soprattutto per ragioni di convenienza economica e di maggiore efficienza. Oltre tutto in un sistema pubblico diventerebbero inevitabili le pressioni per un uso gratuito senza pedaggio (come avviene infatti nella Salerno-Reggio Calabria) con ulteriori aggravi di bilancio.

Nazionalizzazioni = più Stato
Ciò che preoccupa i liberali non è tanto la revoca delle concessioni e l’affidamento all’ANAS della gestione delle autostrade ma piuttosto una linea di tendenza che sembra emergere dalla cultura di governo soprattutto del movimento Cinque Stelle: aumentare le dimensioni della presenza pubblica, interrompendo quel percorso di privatizzazioni che il centro-sinistra si era visto obbligato a intraprendere quando il Paese, negli anni ’90, ha rischiato la bancarotta (qualcuno se ne ricorda?). Prima di allora l’Italia era considerata la nazione più “statizzata” dopo la Russia, c’era l’IRI che produceva (in perdita) persino i panettoni, e soltanto l’alleggerimento del debito pubblico ci consentì di partecipare alla nascente Unione Europea. Se si vuole tornare indietro, come sembra auspicare Di Maio, interpretando una cultura politica assai diffusa nel Mezzogiorno, indifferente quando non ostile ai meccanismi della società industriale fondati sul rischio imprenditoriale e sulla mobilità sociale, c’è di che preoccuparsi. Non a caso Salvini prende tempo (attraverso un evidente gioco delle parti con Giorgetti), si diverte a fare battute sull’Europa addebitandogli colpe che (almeno in questo caso) non ha, confondendo i vincoli del patto di stabilità con la mancata utilizzazione dei fondi che l’Unione ci aveva messo a disposizione. La maggior parte dei suoi elettori sono al nord e non è il caso di scherzare col fuoco.

Il profitto
La cultura che sta dietro tutto questo risale a tempi lontani ed è strettamente collegata con la concezione cattolica per la quale il profitto è un male, talvolta inevitabile, ma comunque da considerare con diffidenza. Anche in questo caso l’idea che si vuole fare passare è che l’ansia del profitto sia stata la causa principale della tragedia di Genova e che quindi l’unico modo di evitare rischi per la vita stessa dei cittadini sia quella di ricondurre allo Stato la gestione di tutte le infrastrutture, e se ciò comporta inefficienza e costi maggiori, pazienza. Almeno non ci sarà qualcuno che ne ha approfittato (cioè tratto profitto).
Questa concezione è molto diffusa ed è storicamente presente anche nella sinistra italiana; in qualche caso, quando prassi corruttive molto frequenti hanno consentito a soggetti privati senza scrupoli di impadronirsi di risorse pubbliche, ha anche qualche fondamento. Ma non bisogna lasciarsi condizionare da disfunzioni – anche evidenti – per gettare il bambino con l’acqua sporca.
Il sistema delle concessioni consente – come abbiamo detto – di trarre la maggiore convenienza in termini finanziari (perché raccoglie risorse provenienti dalla finanza privata), di efficienza (per la capacità imprenditoriale che lo Stato non può avere), e di competenza tecnica. Per funzionare bene deve avere alle spalle una pubblica amministrazione che sappia svolgere il suo compito di controllo in modo trasparente e con mezzi adeguati. Se ci sono concessionari avidi che speculano fino a mettere a rischio vite umane, bisogna tagliar loro le unghie; ma per farlo occorre disporre di buone forbici e saperle usare. Non dobbiamo chiedere a chi investe e cerca un profitto di “essere buono”; bisogna costringerlo ad esserlo. L’economia di mercato funziona se lo Stato evita di scendere in campo ma si assume la funzione indispensabile di stabilire le regole del gioco e di farle rispettare. Altrimenti la partita è truccata.

 

Franco Chiarenza
24 agosto 2018

A modesto avviso di un “liberale qualunque” le cose da fare per superare l’attuale congiuntura sono:

  1. Abbandonare la retorica pro-contro immigrati cercando di spostare altrove il punto dirimente del contrasto. Stessa cosa sulla legittima difesa. Si tratta di tematiche complesse che richiedono analisi realistiche su cui la sinistra si muove con difficoltà ed è sicuramente perdente anche in ampi settori di elettorato moderato.
  2. Centrare il confronto con la maggioranza sull’Europa, anche in vista del rinnovo del Parlamento di Strasburgo l’anno prossimo. E’ un tema che imbarazza e divide i Cinque Stelle che in materia non hanno mai avuto idee chiare; in molti di essi le derive sovraniste e nazionaliste della nuova Lega sono accolte con evidente disagio. Riprendere dunque lo slogan della Bonino “Più Europa”, con l’obiettivo di rilanciare il processo di unificazione politica con chi ci sta. Evitare la retorica di un’ “Europa diversa”, quasi a giustificare gli anti-europeisti. Ognuno di noi la vuole diversa (più liberale, più socialista, più attenta alle differenze sociali, più ambientalista, e quant’altro). “Quale Europa” è una dialettica da sviluppare in un’Unione che già sia stata costituita e alla quale siano state cedute porzioni importanti di sovranità in politica estera, nella difesa, nel coordinamento delle politiche finanziarie nell’ambito della moneta comune. Prima facciamo l’Europa poi discutiamo come dev’essere, non viceversa. Dire di essere europeisti soltanto a condizione che l’Unione sia come la vorremmo è un modo garbato di dire che si vuole fermare il processo di integrazione. A ben vedere si tratta della stessa divaricazione che divise i nostri antenati quando si trattò di unificare l’Italia. Da un lato gli unitari a tutti i costi, anche, se necessario, mantenendo la monarchia sabauda e alleandosi con Napoleone III, dall’altra i “duri e puri” della Repubblica romana (“uniti sì ma solo se ……”). Ha avuto ragione Cavour (prima facciamo l’Italia poi discutiamo).
  3. Integrare il discorso sull’Europa con quello dei “compiti a casa”, riprendendo in parte il primo riformismo di Renzi (quello della Leopolda) ma senza Renzi il quale, per ora, resta impresentabile ai fini di un recupero del consenso. I compiti a casa sono le cose che non funzionano e su cui né la Lega né il movimento Cinque Stelle propongono soluzioni convincenti: in primis scuola e giustizia.
  4. I “compiti a casa” servono anche a risolvere il problema dei problemi, quello della disoccupazione. Non sono le leggi che producono lavoro, ma soltanto gli investimenti. Essi si possono favorire con provvedimenti che riducano gli eccessi burocratici, portino la pressione fiscale a livelli accettabili, facciano funzionare bene e rapidamente la giustizia (soprattutto civile e amministrativa), raccordino l’offerta formativa alla domanda delle imprese. In questo (e poche altre cose) consistono i “compiti a casa”.
  5. Affrontare con decisione e sincerità tematiche elettoralmente sensibili come le pensioni e il sostegno alla disoccupazione involontaria (in sostanza il cosiddetto “reddito di cittadinanza”). In una situazione di risorse limitate favorire gli adeguamenti pensionistici e creare nuove misure assistenziali significa scegliere una politica sostanzialmente volta a sostenere anziani (e giovani mal formati rispetto alle esigenze del mondo produttivo) inevitabilmente a scapito della creazione di nuovi posti di lavoro. Il “reddito di inclusione sociale” varato dal governo Gentiloni, con qualche modifica migliorativa, è uno strumento valido per contrastare il disagio sociale. Anche gli incentivi 4.0 per l’innovazione di prodotto messi in cantiere dal precedente governo sono stati accolti con favore dagli imprenditori; potrebbero produrre più occupazione se la loro utilizzazione non fosse ostacolata in parte dalla mancanza di mano d’opera qualificata (donde l’importanza di una riforma radicale delle scuole tecnico-professionali).
  6. Ridurre sensibilmente il debito pubblico per ridare fiato al credito. Continuare a pensare di farlo senza ricorrere a misure straordinarie costituisce un’ingenuità a cui non crede più nessuno. L’unico modo per conseguire l’obiettivo è quello di un prelievo “una tantum” sul patrimonio immobiliare da destinare esclusivamente alla riduzione del debito. Chi non è d’accordo suggerisca alternative praticabili senza continuare a prendere in giro l’Europa, i mercati e, in ultima analisi, noi stessi.
  7. Diminuire sensibilmente la pressione fiscale. Se, al di là dei contrasti ideologici “di principio”, si dimostrasse che la flat tax sarebbe in grado di fare emergere almeno in parte il gigantesco sommerso che caratterizza (e penalizza) la nostra economia, se ne potrebbe discutere. Nicola Rossi (economista storico della sinistra) ha sostenuto che, realizzata con intelligenza e gradualità, essa potrebbe rappresentare una soluzione accettabile. Per tranquillizzare gli scrupoli della sinistra costituzionale che ritiene ancora la progressività delle imposta un tabù irrinunciabile (mentre ha prodotto uno dei sistemi fiscali più iniqui e fallimentari dell’Occidente) basterebbe forse chiamarla diversamente. La nostra sinistra è da sempre molto sensibile ai nominalismi a scapito della sostanza dei problemi.
  8. Opere pubbliche. Possono costituire una leva importante per rilanciare l’economia assorbendo in parte la disoccupazione e creando le infrastrutture necessarie per rendere attrattivo il Paese a nuovi investimenti. La retorica pentastellata contro le “grandi opere” poggia su un duplice equivoco che va smantellato, anche contestando le cifre false su cui si basa la loro propaganda. Il primo è che gli appalti per le grandi opere siano fonte certa di corruzione e di connivenze poco trasparenti; anche se spesso in passato è stato così bastano norme chiare e controlli verificabili per impedire che ciò avvenga (e in parte il governo Gentiloni le aveva già messe in atto). Il secondo equivoco riguarda i costi che si fanno apparire sproporzionati mentre con le somme “risparmiate” si potrebbero finanziare lavori pubblici più vicini alle esigenze quotidiane dei cittadini: ferrovie locali, strade provinciali, scuole, ospedali, assistenza, ecc. Non è così. Alcune grandi opere, per esempio, sono finanziate da fondi europei che vengono concessi per progetti infrastrutturali di interesse continentale (i grandi assi stradali e ferroviari, il rilancio delle zone sottosviluppate, ecc.). Il nostro Paese è l’unico che non ha saputo (o voluto?) utilizzare i fondi europei per realizzare adeguati investimenti sul territorio. Di questi invece ha bisogno l’economia del futuro, non solo per creare nuovo lavoro ma anche per mantenere quello che c’è. E non si tratta soltanto di infrastrutture nei trasporti ma anche (e forse soprattutto) di quelle immateriali come università efficienti, ricerca scientifica, razionalizzazione della sanità pubblica, ecc.
  9. Mezzogiorno. Basta con la vecchia retorica meridionalistica. Ripetiamo ai miei conterranei la lezione inascoltata di Gaetano Salvemini che ricordava già un secolo fa che la salvezza del Mezzogiorno non può venire da fuori. Da realtà esterne e sovrastanti (Stato centrale, Europa, finanza internazionale) possono arrivare sostegni anche significativi se le regioni meridionali riescono a mettere insieme un progetto organico di rilancio economico credibile e orientato al futuro, nel cui contesto le infrastrutture giocano un ruolo fondamentale. Inutile crogiolarci nel lamentoso vittimismo di certi meridionali se per andare in ferrovia da Roma a Bari ci vogliono tempi biblici, se il collegamento tra Palermo e Catania è affidato a una ferrovia degna del Far West del secolo scorso, se le autostrade costruite nel Sud dallo Stato (e, chissà perché, solo quelle) crollano ignominiosamente e quando ci sono ricordano le montagne russe. Il tutto con la complicità di una classe dirigente che ha preferito utilizzare le risorse disponibili per creare migliaia di “posti fissi” non necessari, moltiplicando così una burocrazia già nota per la sua incapacità e la sua pigrizia. La verità è che i nuovi investimenti, se “privati”, non attirano; sono considerati precari e non garantiscono il posto di lavoro in caso di inefficienza; Checco Zalone nei suoi film ce ne ha dato una plastica descrizione. E poi ci si chiede perché gran parte dell’elettorato meridionale sia passato in blocco dalla vecchia DC clientelare a Berlusconi, e da quest’ultimo senza esitazioni al movimento Cinque Stelle. Scrutando all’orizzonte se si presenta qualcun altro che in futuro voglia “assisterlo”.
    Si tratta di una grave carenza culturale che peraltro non riguarda tutti i meridionali ma soltanto quelli più rassegnati e impigriti dalla mancanza di stimoli. Per trattenere gli altri – i migliori – sul territorio ed evitare che fuggano altrove bisogna dir loro la verità e spingerli a creare le condizioni per superare questa situazione nell’unico modo possibile: una rivoluzione culturale.

Alcuni di questi punti sono incompatibili con la cultura prevalente del partito democratico il quale continua a identificare il ruolo della sinistra nell’intervento salvifico dello Stato e quindi, in sostanza, in una politica dirigista. Gli appelli del tipo “i barbari sono alle porte bisogna unirsi per fare fronte”, come quello lanciato da Massimo Cacciari – pur condivisibili nell’analisi – mi lasciano perplessi nella loro praticabilità. Il centro sinistra è diviso non (o non soltanto) per rivalità personali ma perché pretende di tenere insieme visioni troppo diverse nel modo di concepire il modello politico e sociale del futuro. La storia del passato dimostra che le unificazioni forzate da emergenze vere o presunte non pagano elettoralmente: due più due non ha mai fatto cinque ma quasi sempre tre. Uno studioso della politica come Cacciari dovrebbe saperlo bene. Piuttosto che cercare di mettersi d’accordo con compromessi programmatici pasticciati è meglio procedere separati.
Esiste in Italia uno spazio centrista che, in base ai risultati conseguiti da Monti nel 2013, corrisponde “grosso modo” al 10% dell’elettorato. Renzi era riuscito ad assorbirlo nelle elezioni europee dell’anno successivo pagando però il prezzo di una scissione a sinistra (come sempre avviene quando la sinistra cerca di occupare uno spazio di centro: chi ha studiato la storia dei socialisti italiani lo sa bene). Oggi questo elettorato moderato e liberale (che potrebbe ampliarsi fino al 20%) è disperso tra Forza Italia, Cinque Stelle e PD. Forza Italia, costretta nella camicia di forza che continua a imporgli Berlusconi con la sua ingombrante presenza, non sembra in grado di assorbirlo (anche perché la prevedibile leadership di Tajani appare debole e troppo dipendente da Arcore). I Cinque Stelle dovrebbero avere raggiunto il loro massimo punto di espansione; qualsiasi scelta di merito, in mancanza di un chiaro obiettivo ideologico, gli farà perdere consensi, e comunque le concezioni liberali in economia sembrano estranee alla cultura prevalente nel suo “nocciolo duro”. Il partito democratico è alle prese con scelte laceranti, tra la convinzione (dura a morire) che bisogna recuperare un elettorato di sinistra (anche se qualcuno ingenuamente potrebbe chiedersi perché questo “popolo di sinistra” non ha colto l’occasione per sostenere “Liberi e Uguali”), la tentazione di riassorbire un elettorato moderato di centro e le velleità vendicative di Renzi.

I “liberali qualunque”, da me presuntuosamente rappresentati (in numero di due aderenti; non tre perché andrebbero incontro a una sicura scissione) ritengono che occorra costruire un nuovo spazio politico di riferimento al di fuori del PD, in grado di percorrere in modo chiaro e deciso la strada di un riformismo liberale senza la preoccupazione di dovere fare i conti con Grasso e Fassina da una parte e con il paternalismo di Berlusconi dall’altra. Mi pare sia questa l’indicazione che proviene – in modi diversi ma sostanzialmente convergenti – da personaggi come Calenda e Cottorelli ed è su di essa che si possono costruire significative alleanze tra ceti medi, imprenditori, giovani che cercano opportunità e non assistenza. Dieci per cento? Basterebbe a cambiare la politica italiana. Per le necessarie alleanze e gli inevitabili compromessi c’è tempo.

Franco Chiarenza
9 agosto 2018

Le affermazioni di Davide Casaleggio sulla futura inevitabile inutilità dei parlamenti mette in chiaro per chi ancora non l’avesse capito l’ideologia di fondo che è alla base del movimento Cinque Stelle, in particolare nella visione che egli ha ereditato dal padre Gianroberto. I “vaffa” di Grillo non rappresentano un’ideologia: sono serviti a raccogliere quel po’ di dissenso cialtronesco che nel nostro Paese non manca mai, e sono andati incontro a un sentimento generale di indignazione che ha attraversato ampi settori della società quando la vecchia classe dirigente invece di affrontare le ragioni profonde della crisi si è concentrata nella conservazione dei privilegi e nella tolleranza di prassi corruttive che non erano più compatibili con la situazione del Paese. La faccia rubiconda di Grillo rappresenta quindi la protesta, ammantata da vaghe utopie ambientaliste e da un giustizialismo a senso unico, ma è con la ditta Casaleggio che dobbiamo fare i conti se vogliamo capire qual è il modello di società che i Cinque Stelle hanno in mente. Da quel che ho intuito si tratta di un’ideologia che ha molte sfaccettature e origini lontane (come la “decrescita felice” di Latouche) ma, per quanto attiene il funzionamento delle istituzioni, si chiama “democrazia diretta”. Cerchiamo di comprendere in termini semplici di cosa si tratta e perché, pur potendo apparire a prima vista attraente, essa rischia di compromettere l’essenza stessa della democrazia che non è quella di esercitare direttamente le funzioni di governo ma di controllarne l’uso.

A che servono i parlamenti?
Ce lo eravamo già chiesti durante la prima repubblica quando le decisioni politiche venivano prese dai partiti e il parlamento sembrava una semplice camera di registrazione della volontà delle maggioranze, costituzionalmente obbligata ma politicamente irrilevante.
Lo ripetono oggi i Cinque Stelle con una variante importante. In passato i partiti “espropriavano” la funzione legislativa del parlamento senza averne la legittimità – essi dicono – mentre oggi, consentendo i nuovi mezzi di comunicazione di conoscere puntualmente, in tempo reale, la volontà popolare, il potere legislativo può essere svolto senza l’intermediazione del parlamento, e lo stesso potere esecutivo – cioè il governo – dovrebbe agire sotto il controllo continuo e verificabile dei sentimenti popolari. Ipotesi suggestiva che consente al movimento di dare un senso politico ai “vaffa” di Grillo e al tempo stesso di mandare a quel paese – in nome della democrazia diretta – tutta la classe dirigente coi suoi riti dove si esercita il potere di intermediazione; quella che, non a caso, essi definiscono “casta” e che non è costituita soltanto dai politici professionisti ma anche dai sindacalisti, dalle rappresentazioni di interessi, dai corpi intermedi, fino forse a raggiungere la magistratura e i diritti individuali (processi in piazza?).
In realtà la risposta ce l’avevano già data i grandi teorici del liberalismo: la funzione di governo viene esercitata negli stati moderni in nome del popolo, il quale ha assunto quel potere di legittimazione che in passato era appartenuto alla religione. Ma il potere di legittimazione non coincide con la funzione di governo, e proprio in questo le democrazie moderne si distinguono da quelle antiche (come la tanto celebrata “agorà” ateniese). Nelle democrazie liberali la volontà popolare si esprime normalmente attraverso la scelta dei propri rappresentanti rinnovandoli periodicamente attraverso libere consultazioni elettorali. Nel periodo che intercorre tra un’elezione e l’altra la maggioranza esprime un governo che deve mettere in atto quegli indirizzi generali che sono stati espressi dall’elettorato rispondendone al parlamento e, in ultima istanza, al popolo stesso che attraverso l’esercizio del voto resta sempre giudice ultimo dell’operato della classe politica.
Di più. Le democrazie liberali come si sono sviluppate negli ultimi due secoli, a partire dall’esperienza inglese, comportano alcuni limiti invalicabili alla stessa volontà popolare quando essa si arroga la pretesa di restringere o addirittura di annullare quelle libertà fondamentali che le carte costituzionali francese e americana per prime hanno fissato già due secoli fa. Si tratta dei diritti individuali, della libertà di pensiero e di espressione, della libertà di religione, della libertà di associazione e, nella versione liberista, anche della libertà di produrre e scambiare beni e servizi.
Per questo esistono i parlamenti (che devono varare le leggi), le corti supreme (che devono controllare il rispetto dei vincoli costituzionali), le diverse autorità indipendenti (cui spetta assicurare tramite opportune regolamentazioni la libera concorrenza e contrastare la formazione di monopoli), ecc. In tale complessa realtà, che caratterizza tutti gli stati moderni, la democrazia si esercita quindi normalmente in forme indirette, anche per evitare che ogni confronto si trasformi in scontro e che le emozioni del momento prevalgano su ragionamenti che tengano conto dei diversi punti di vista. In questo senso possiamo affermare che i compromessi sono il sale della democrazia. “Inciuci”? Sì se gli accordi sono in realtà soltanto scambi di favori, no se servono ad eliminare asprezze demagogiche e trovare soluzioni funzionali.
E cos’è se non un compromesso il “contratto” tra Cinque Stelle e Lega che è alla base dell’intesa che ha prodotto il governo Conte? Lui stesso – Giuseppe Conte – è frutto di un compromesso.
In una democrazia liberale si ricorre agli scontri frontali e alle contrapposizioni nette soltanto su questioni fondamentali, quando nessuna possibilità d’intesa è possibile, come è avvenuto in passato in alcune occasioni: monarchia o repubblica, adesione al patto atlantico, entrata nella Comunità Europea, diritto di famiglia (divorzio, parità femminile, aborto) e altre – poche – questioni su cui le opzioni erano nette e coinvolgevano punti essenziali che le diverse culture politiche ritenevano inconciliabili. In tutti gli altri casi il parlamento è ottimamente servito durante la prima repubblica a svolgere un ruolo di mediazione, tanto più efficace quanto più discreto, quando maggioranza e opposizione, divisi per ragioni di politica internazionale e per differenze incolmabili sul modo di concepire la democrazia, riuscivano però spesso ad accordarsi su provvedimenti che apparivano oggettivamente necessari a garantire un’ordinata attività di governo.

La crisi della democrazia liberale
La democrazia rappresentativa come si è consolidata nell’Occidente è entrata in crisi quando si è interrotto il circuito di mediazione tra sentimenti popolari e rappresentanza politica, il che avviene puntualmente quando fenomeni globali che sfuggono alla comprensione della media degli elettori determinano cambiamenti nella vita quotidiana che appaiono intollerabili. E’ accaduto, per esempio, tra le due guerre mondiali in Europa e in Russia, allorché gli squilibri politici, economici e sociali che sconvolsero l’Europa dopo il 1918 alimentarono movimenti popolari di protesta (divenuti poi “populisti” quando si sono identificati con la dittatura di un uomo solo al comando) che hanno portato al potere il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il falangismo in Spagna, il comunismo in Russia. Mai la democrazia liberale aveva corso pericoli tanto estesi da parere irreversibili. Dobbiamo alla capacità di resistenza della Gran Bretagna e alle forti convinzioni democratiche del popolo americano (che ha sostenuto uno sforzo bellico senza precedenti nella storia) se il totalitarismo non ha prevalso. Una resistenza liberale che, anche dopo la fine del conflitto armato, è continuata fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989.
Oggi sta accadendo qualcosa di simile a ciò che avvenne un secolo fa. La globalizzazione dei mercati, la diffusione dell’automazione nella produzione industriale, la spinta di chi sta peggio verso luoghi dove si sta meglio, i nuovi mezzi di comunicazione che hanno diffuso informazioni incontrollabili seminando paura e preoccupazioni, hanno contribuito a creare una percezione di insicurezza su cui i partiti di destra e il movimento di Grillo sono facilmente riusciti a delegittimare i tradizionali processi di mediazione (e gli uomini che li gestivano) facendo credere legittima la perentoria richiesta di tornare indietro. Come se fosse possibile, anche volendolo.
Si tratta di una clamorosa illusione. La soluzione del problema consiste nell’andare avanti, anche dal punto di vista istituzionale, creando nuove forme di raccordo e di corretta informazione in grado di penetrare pure in quei settori della popolazione che sembrano sensibili soltanto ai twitter di Salvini. Non si tratta di negare paure che – vere o esagerate che siano – sono comunque largamente diffuse, ma di analizzarle proponendo rimedi credibili e ragionevoli. Bisogna spiegare, per esempio, che cambiare la dimensione degli stati aggregandoli in grandi federazioni è un modo efficace di contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, se non altro perché consente di essere attivamente presenti ai tavoli ristretti dove le grandi potenze mondiali stabiliscono le regole del gioco. E che per questa ragione – se non se ne vogliono accettare altre, pur importanti, di carattere culturale – l’unità europea è un bene irrinunciabile da completare con l’unione politica, e non un nemico su cui scaricare le nostre frustrazioni e i danni prodotti da scelte sbagliate che sono nostre, e soltanto nostre. D’altronde l’abbiamo visto anche in questi giorni: è con l’Europa che i grandi giganti della comunicazione e del commercio (Amazon, Google, ecc.) devono fare i conti sia per quanto riguarda l’aspetto fiscale che le garanzie sui contenuti. Nulla in proposito avrebbero potuto fare le singole nazioni, compresa la Germania. E’ con Juncker, presidente della Commissione dell’Unione Europea, che Trump ha finito per accordarsi dopo tentativi espliciti di dividere i paesi europei e incoraggiarne le spinte secessionistiche. La Brexit sta avvolgendosi in se stessa tra contraddizioni e pentimenti anche perché il governo inglese non è riuscito a dividere i paesi europei ed è costretto a trattare con la Commissione dell’Unione. E’ stata la richiesta dell’Ucraina di entrare nell’Unione che ha scatenato l’ira della Russia la quale, utilizzando strumentalmente le minoranze russofone, ha violato ogni principio di diritto internazionale sottraendo brutalmente la Crimea al governo legittimo di Kiev. Insomma è l’Europa che fa paura, anche debole com’è; figurarsi se si trasformasse in un blocco comune di stati che – come è avvenuto in America con gli Stati Uniti – mettesse in comune la politica estera, la difesa militare e il coordinamento delle politiche finanziarie. Per queste ragioni la partita che si giocherà nelle elezioni europee del 2019 sarà cruciale, anche per noi, anzi soprattutto per noi. Con buona pace di Salvini che vorrebbe rinunciare alla nostra posizione di partner importante dell’Unione per vendere qualche mobile della Brianza in più in Russia.
“Sovranismo” non significa nulla. Nessuno minaccia la sovranità delle nazioni nelle materie che più direttamente riguardano la vita quotidiana dei cittadini; si tratta soltanto di mettere insieme quelle funzioni di governo che, esercitate in nome di un’entità più grande, tornano a vantaggio di tutti. Negli Stati Uniti ogni stato ha la sua legislazione, la sua politica fiscale, scolastica e via dicendo. Ma mettere insieme la politica estera, le forze armate, accettare principi comuni di diritto garantiti da una Corte Suprema, affidare a un potere federale alcuni compiti per consentirne una maggiore efficienza è una convenienza di tutti. Quello che dobbiamo fare in Europa è l’ultimo passo: costituire gli Stati Uniti d’Europa con chi ci sta. Chi non ci sta ne resti fuori, si accorgerà presto quanto poco gli convenga.
Ma anche a casa nostra qualcosa bisogna fare per riformare le istituzioni e renderle più adeguate al protagonismo che – giusto o sbagliato che sia – comunque emerge da masse crescenti di elettori. Non una riforma costituzionale pasticciata e incoerente come quella che Renzi ha tentato di imporre due anni fa, e nemmeno il plebiscitarismo pericoloso di Salvini che porterebbe a forme autoritarie di governo le quali, anche se approvate dalla maggioranza degli elettori, metterebbero comunque a rischio lo stato di diritto liberale. Si potrebbero però introdurre forme più stringenti di controllo dell’elettorato sugli eletti (e per questo basterebbe tornare ai collegi uninominali senza rinunciare alla libera responsabilità dei deputati), affrontare con ammortizzatori sociali più efficaci gli effetti dell’automazione e della liberalizzazione degli scambi, e studiare altre misure in grado di rafforzare la sicurezza dei cittadini senza compromettere le garanzie dello stato di diritto.

La democrazia diretta di Casaleggio
Torniamo a Casaleggio. Vale la pena parlarne perché mentre il futuro che ci prospetta Salvini è ben noto e ricalca forme di autoritarismo già sperimentate (e purtroppo largamente praticate anche oggi), la “democrazia diretta” di Casaleggio rappresenta una relativa novità che, presentandosi come la forma più aggiornata e perfetta di democrazia, fonda la sua legittimità su presupposti molto diversi da quelli para-fascisti che caratterizzano in Europa movimenti come quello francese della Le Pen e altri consimili. L’idea di Casaleggio si basa – come abbiamo visto – sul presupposto che i nuovi mezzi di comunicazione interattivi siano in grado di realizzare su vasta scala un modello di democrazia partecipata non soltanto perché consentono di compiere scelte in tempo reale ma anche per la possibilità di raccogliere informazioni sufficienti per rendere i cittadini pienamente consapevoli delle loro decisioni. Una tesi suggestiva che tuttavia ignora l’importanza dei corpi intermedi per la tenuta della democrazia; andrebbero rilette le considerazioni di Edmund Burke sulla rivoluzione francese – primo esempio di “democrazia diretta” – dove l’autore ne prevedeva le inevitabili degenerazioni in senso autoritario, come poi puntualmente avvenne con il “Terrore” di Robespierre.
Val la pena ricordare ancora una volta che le decisioni politiche devono confrontarsi con realtà sempre più complesse che sfuggono alla comprensione anche di persone di media cultura; è davvero sufficiente l’aiuto che può provenire dalla divulgazione mediatica, sia che essa passi attraverso gli strumenti tradizionali (stampa, televisione, radio, letteratura popolare) oppure tramite i social network (you tube, twitter, facebook, instagram, ecc.)? E’ difficile crederlo, e infatti nessuno seriamente lo pensa. Tutti sanno che la competenza è necessaria in qualsiasi attività, nessuno si sognerebbe di operare suo figlio sulla base di un prontuario pubblicato su internet, nessuno pretende di essere più bravo di Messi nel calciare in porta; le competenze sono sempre e comunque necessarie. Ma – qualcuno potrebbe obiettare – il caso della politica è diverso. In un apologo attribuito a Protagora (e riportato da Platone) si racconta che Mercurio , incaricato di portare agli uomini l’arte politica, abbia domandato a Giove come essa dovesse essere distribuita: se, come le altre arti, solo ai competenti o invece a tutti. A tutti, rispose Giove, perché diversamente dalle altre arti a questa tutti devono partecipare “altrimenti non potrebbe esistere alcuna comunità”. Ma poiché è impossibile mantenere continuamente attivi milioni di potenziali elettori sui tanti problemi che quasi quotidianamente richiedono l’intervento della politica, ecco che bisogna ammettere che “fare politica” significa avere un obiettivo, pensare un modello di società in cui riconoscersi, non necessariamente possedere le competenze per realizzarlo. A questo devono provvedere i “tecnici”, coloro cioè che conoscono i mezzi e gli strumenti attraverso i quali la pubblica amministrazione può realizzare il progetto politico che incontra il favore della maggioranza della popolazione; e la loro scelta non può avvenire che in quei “corpi intermedi” i quali di fatto esercitano la funzione di mediazione tra volontà popolare e compatibilità politiche e che una facile demagogia vorrebbe eliminare. Che poi tale realtà sia rappresentata da un portale interattivo – come il Rousseau dei Cinque Stelle costituito da alcune migliaia di aderenti rigorosamente selezionati – o dai vecchi partiti politici, poco cambia. In ogni caso c’è un procedimento selettivo che in qualche modo promuove una minoranza al compito di rappresentare la volontà politica di quote più o meno rilevanti dell’elettorato. La “democrazia diretta” diventa così fatalmente indiretta anche nelle soluzioni proposte dai Cinque Stelle, con, in più, una totale mancanza di trasparenza sugli obiettivi ideologici che si vogliono realizzare e sulle effettive possibilità dei gestori della piattaforma di manipolare le scelte dei suoi partecipanti; non a caso vengono proposti (e di fatto imposti) dall’alto i vertici del movimento e si affida a “garanti” carismatici un ruolo opaco ma la cui presenza è chiaramente avvertibile; l’antica funzione carismatica dei partiti è semplicemente trasferita al proprietario del portale, come avviene infatti con la “Casaleggio e Associati” cui di fatto spetta l’ultima parola sulle vicende interne del movimento Cinque Stelle.
Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola suggestiva delle soluzioni facili. Dietro il paravento dell’onestà personale e della lotta alla corruzione e ai privilegi della classe politica, che costituiscono il presupposto di qualsiasi progetto politico non un obiettivo strategico o ideologico, si possono compiere le scelte più diverse e contraddittorie pur di esercitare un potere che rischia di diventare arbitrario e incongruente. Significativa in proposito mi è sembrata – durante le trattative che seguirono le elezioni del 4 marzo – la riesumazione della prassi politica (teorizzata da Giulio Andreotti negli anni ’60) dei “due forni”, cioè della possibilità per il movimento Cinque Stelle di allearsi indifferentemente con la destra (Salvini) o con la sinistra (PD) pur di raggiungere alcuni obiettivi (prevalentemente di carattere sociale e di tutela ambientale) su cui esso ritiene di fondare la propria identità. Ma la politica – quella vera – richiede analisi e prospettive di più ampio respiro e scelte che non sono riconducibili alla logica NIMBY (per chi non ne conosce il significato vedere su wikipedia).

Le vere alternative
La verità è che i modi per rispettare la volontà popolare sono soltanto due: il primo è quello di affidare a un uomo o a un partito il compito di realizzare il modello preferito rinunciando ad ogni possibilità di controllarne l’esecuzione lasciandolo indisturbato al potere, e, come sappiamo ciò porta inevitabilmente alla dittatura. Dittatura che può essere esercitata oggi in modi più indiretti e meno esibiti di un tempo semplicemente effettuando forti pressioni sulla libertà di informazione, sull’indipendenza della magistratura, sulla pubblica amministrazione, anche lasciando formalmente aperto il confronto elettorale con un’opposizione ridotta all’impotenza (come avviene con la “democrazia illiberale” di Orban in Ungheria, con il regime instaurato da Putin in Russia e con il rafforzamento dell’autocrazia di Erdogan in Turchia).
L’altro modo di rispettare la volontà popolare è quello liberale in cui i cittadini eleggono i loro rappresentanti, rinnovandoli periodicamente, affidando ad essi la scelta di un governo che operi nella direzione indicata dalla maggioranza. La proposta di Casaleggio di sostituire al parlamento la registrazione immediata e continua della volontà popolare attribuisce ai sentimenti, alle emozioni (spesso passeggere), all’influenza di un’informazione non sempre corretta, un potere di indirizzo e di veto in cui prevarrebbe facilmente chi meglio sa suscitare commozione, apprensione, passioni, a scapito di ragionamenti più lungimiranti. Non solo; essa impedirebbe di fatto qualsiasi compromesso, inteso nel senso migliore, per trovare soluzioni più condivise possibili nella soluzione dei problemi quotidiani.
Insomma questa retorica della volontà popolare lasciamola da parte: l’hanno adoperata tutti. Cominciò Mussolini col fascismo, vennero poi i partiti viziati da una democrazia interna molto discutibile, dopo di loro Berlusconi “uomo solo al comando”, poi ci ha provato Renzi, infine la “democrazia diretta” di Casaleggio che ha tutta l’aria di essere in effetti “diretta da Casaleggio”.

La trasparenza
Quando i Cinque Stelle hanno trattato per finta, già intenzionati a non raggiungere alcun accordo (come avvenne con Bersani nel 2013) hanno preteso che l’incontro avvenisse in streaming sotto gli occhi di tutti, trasformando la trasparenza in uno strumento di propaganda; quando, cinque anni dopo, hanno trattato con la Lega il contratto di governo, streaming è stato accantonato perché avrebbe rappresentato un impedimento all’intesa che ha consentito la nascita del governo Conte. La diplomazia è uno strumento indispensabile della politica, da sempre; essa serve appunto a smussare gli angoli, cercare soluzioni accettabili (anche se non ideali) per le parti che si confrontano, e può comportare contropartite non sempre confessabili pubblicamente. Ciò che conta è che i risultati siano tali da costituire un vantaggio per il conseguimento degli obiettivi che le maggioranze politiche si danno. Cavour ce lo ha insegnato: se per realizzare l’unità d’Italia bisognava pagare un prezzo alla Francia cedendole Nizza e la Savoia (culla della dinastia regnante) il gioco valeva la candela; ma se a Plombières ci fosse stato streaming l’unità d’Italia avrebbe dovuto ancora attendere a lungo. (Per chi non sa cosa avvenne a Plombières è sempre possibile consultare wikipedia).
La trasparenza è certamente un valore positivo. Ma, come altri, se portato all’eccesso diventa un difetto. La vita umana non è fatta di bianco e nero ma di molte tonalità grigie senza le quali si va incontro a conflitti, guerre, fondamentalismi, settarismi, fanatismi, voglia di distruzione dell’avversario; trasformare le scelte politiche in un comizio permanente può produrre – anche senza volerlo – questi risultati.
Ciò non toglie che domani – un domani molto lontano – il perfezionamento dei media interattivi, la possibilità di introdurvi il principio di responsabilità, l’aumento dei livelli medi di conoscenza di crescenti parti della popolazione, il riconoscimento generalizzato del principio di tolleranza, potranno forse consentire a una democrazia elettronica di svolgere una funzione decisiva nelle grandi scelte e di raccordare meglio i sentimenti e le priorità dell’elettorato con i suoi rappresentanti. Ma pure in tal caso il ruolo dei corpi intermedi, anche quando rappresentano interessi particolari, resta fondamentale in uno stato che voglia mantenere i suoi presupposti democratici e liberali.

 

Franco Chiarenza
3 agosto 2018

Cominciano ad essere chiari gli orientamenti distintivi del nuovo governo. Mentre in politica estera prevale una linea di continuità, quanto meno attenta a non creare spaccature troppo profonde rispetto alle scelte tradizionali dei governi precedenti, è sulla politica interna e su quella economica che si concentra l’azione della nuova maggioranza. E si tratta di iniziative che, al di là di ogni giudizio sul merito, si caratterizzano per una evidente ispirazione illiberale.

Immigrazione
Sul tema dei migranti per esempio non sono tanto in discussione le azioni poste in essere rozzamente da Salvini, chiaramente finalizzate a catturare un facile consenso da parte di un’opinione pubblica da tempo irritata per le porte sbattute in faccia all’Italia dai suoi partner dell’Unione Europea. C’è voluta la chiusura dei porti alle ONG perché finalmente l’Unione si rendesse conto che il suo miope comportamento stava producendo una profonda lacerazione nei principi di solidarietà che rappresentano il fondamento etico e morale dei trattati istitutivi.
Al di là dei numeri il problema è certamente di tale rilievo, anche in una prospettiva futura, da non prestarsi più a un incosciente scarica barile giocato sulla pelle dei disperati che cercano di approdare in Europa, senza che tutti – ma proprio tutti – se ne assumano la responsabilità.
Le azioni di Salvini dunque non colpiscono la nostra coscienza di liberali per se stesse ma per le modalità che le hanno accompagnate, per l’esaltazione generalizzata del principio di identità nazionale, per quel sottinteso “sacro egoismo” che già conoscemmo un secolo fa (con esiti disastrosi), per l’emergere di un razzismo para-fascista neanche troppo occultato. A cui si accompagna il fanatismo religioso sventolato come dimostrazione di identità; i comizi col rosario in mano, francamente, appaiono nell’esibizione salviniana ridicoli prima ancora che pericolosi ma tuttavia indicano una rivendicazione dell’intolleranza come cifra culturale della nuova maggioranza che potrebbe comportare seri attentati allo stato di diritto.
Una cosa è dunque richiamare, anche con misure estreme (purché transitorie), l’Europa ai suoi doveri di solidarietà, altro è utilizzare una protesta rancorosa che non appartiene alla nostra cultura prevalente per riesumare un nazionalismo razzista e aggressivo che riporta indietro l’orologio della storia.
La soluzione del problema va cercata in una strategia da mettere in atto non tanto per arginare i flussi migratori quanto per trarne i vantaggi che in prospettiva è possibile conseguire, limitando gli inevitabili inconvenienti che ogni assimilazione può comportare. So che davanti al termine “assimilazione” molti storcono la bocca, ma invece proprio di questo si tratta se si vogliono evitare quegli scontri frontali tra culture diverse che non accettano di dialogare tra loro e che alimentano pregiudizi e speculazioni politiche estremiste. Chi viene da noi deve accettare almeno gli elementi fondanti della nostra cultura, non perché sono superiori ma perché sono i nostri e chi entra in casa altrui deve adeguarsi alle regole degli ospitanti. Su questo punto bisogna essere chiari, soprattutto con i musulmani fondamentalisti che pretendono non soltanto di mantenere i loro usi e costumi (il che è legittimo) ma anche di prescindere dalle leggi e dai principi che caratterizzano le società laiche euro-atlantiche. Con buona pace dei rosari di Salvini il cristianesimo non c’entra; nel suo passato (anche relativamente recente) ci sono manifestazioni di settarismo e di intolleranza che possono servire ad alimentare un clima di scontro che non fa parte della cultura liberale. I valori a cui ci riferiamo sono quelli dell’illuminismo, dei diritti individuali di Locke, dei doveri comunitari di Mazzini, della democrazia pluralista fondata sull’equilibrio dei poteri di Montesquieu, del manifesto liberale di Stuart Mill, ecc.
L’altro aspetto di una visione strategica riguarda ciò che si può (e si deve) fare in Africa. Non tanto, o per lo meno non soltanto, bloccando i flussi migratori attraverso accordi sempre incerti con i governi africani (quando sono in grado di controllare i loro territori; il che spesso – come in Libia – non avviene) quanto invece costruendo un progetto lungimirante, con la partecipazione di forze economiche, soggetti sociali, organizzazioni non governative, in grado di coordinare le politiche dei diversi stati europei e di offrire garanzie giuridiche, finanziarie, di sicurezza, tali da consentire l’afflusso di investimenti infrastrutturali e produttivi senza i quali non si crea lavoro, in Africa come ovunque. Se l’Europa non lo fa altri lo faranno, come dimostra la crescente penetrazione della Cina che potrebbe rappresentare per gli europei un problema in più. Questo è il tema che l’Italia dovrebbe porre al centro dei dibattiti sull’immigrazione proponendo la stesura di un vero e proprio trattato che regoli tempi e modalità di intervento nella consapevolezza che – piaccia o no – il futuro dell’Europa si gioca in Africa.

Sicurezza
Una nuova legislazione sulla legittima difesa pare imminente; si tratta in effetti di un altro cavallo di battaglia su cui la Lega raccoglie molti consensi. In realtà, come risulta da tutti i dati ufficiali, la sicurezza delle famiglie (furti, rapine, aggressioni, ecc.) non è diminuita in maniera sensibile, ma, complici anche i mass-media, è molto aumentata la percezione del pericolo. La vecchia legislazione, fondata su principi garantisti che fanno parte della cultura liberale, si è dimostrata in effetti nell’applicazione della magistratura non soltanto tollerante ma spesso addirittura penalizzante per chi si difende. O per lo meno così è stata percepita. Che bisognasse cambiarla, senza rinunciare a quei principi di garanzia che sono irrinunciabili in uno stato di diritto, era già evidente da anni; non averlo fatto quando aveva la maggioranza è stato uno dei tanti errori della sinistra. Il rischio è che questa nuova maggioranza voglia introdurre un diritto all’autodifesa senza limiti che comporta una diffusione delle armi con tutte le conseguenze che possono derivarne, come dimostra l’esempio americano.

Politica economica
Sull’economia il cambiamento è evidente, culturale prima ancora che sui singoli provvedimenti.
Di Maio e il suo movimento sembrano definitivamente convinti anche in questo campo della validità delle tesi “sovraniste” degli alleati. La linea di tendenza è quella di difesa ad oltranza delle produzioni nazionali (e quindi la denuncia dei trattati multilaterali aperti alle dinamiche del mercato) anche con l’introduzione di dazi punitivi, senza alcuna considerazione dei vantaggi macro-economici che sul medio e lungo periodo la liberalizzazione consente. La necessità di mantenere un consenso che – per il modo in cui si è formato – appare molto fragile fa prevalere le misure protezionistiche immediatamente percepibili piuttosto che valutazioni più comprensive dei costi e benefici che tale politica può comportare per l’Italia. Anche perché – portata fino in fondo – questa politica andrebbe a scontrarsi con il mercato comune europeo, creando di fatto le condizioni per un’uscita del nostro Paese dall’Eurozona e dalla stessa Unione che, smentita a parole, è il vero obiettivo della Lega. Per chi, come noi, ritiene l’abbattimento delle frontiere europee una grande conquista che ha consentito al Vecchio Continente settant’anni di pace e all’Italia di passare dal rango di paese sottosviluppato a quello di settima potenza industriale del mondo (con qualche vantaggio – mi pare – per le condizioni di vita della sua popolazione), si tratterebbe di un arretramento suicida.
Purtroppo la memoria storica non esiste, soprattutto in un paese come il nostro che ignora la storia e si vanta di non insegnarla; tanto c’è wikipedia.

Contraddizioni
Se le linee di tendenza appaiono abbastanza chiare, dettate dal nazionalismo posticcio di Salvini, non mancano però le contraddizioni e i contrasti. I Cinque Stelle hanno fondato il loro consenso su un’utopia ambientalista da realizzare mediante strumenti di democrazia diretta molto distante dalle posizioni di difesa e di rilancio dell’idea autarchica di “nazione” che è alla base dell’ideologia neo-nazionalista della Lega. Si tratta di differenze importanti che imporranno, prima o poi, un chiarimento su alcune questioni non secondarie come il rilancio delle infrastrutture, i salvataggi industriali, gli squilibri territoriali.
I compromessi al ribasso hanno finora premiato il dinamismo strafottente di Salvini ma è lecito chiedersi cosa accadrà quando il malumore che serpeggia nella base grillina comincerà a farsi sentire. Ancora una volta sarà l’economia a imporre le sue esigenze di compatibilità. Per realizzare seriamente le promesse di Di Maio in materie sensibili come il reddito di cittadinanza, lo smantellamento dell’ILVA di Taranto, la riforma delle pensioni con l’adozione della cosiddetta “quota 100”, occorrono risorse che certamente non possono essere ricavate dall’abolizione dei vitalizi degli ex-deputati o da altre misure (come la riduzione retroattiva delle cosiddette “pensioni d’oro” ) che comportano contenziosi infiniti e un recupero di risorse nettamente inferiore all’occorrente. Senza parlare della flat tax che, anche secondo i suoi sostenitori, produrrà comunque nel primo biennio una contrazione degli introiti fiscali. Tutte cose che certamente il ministro Giovanni Tria ha spiegato a Di Maio e Salvini. Se prevarranno le esigenze propagandistiche ed elettorali dei due partiti di maggioranza salterà il ministro, e con lui il contenimento del bilancio nell’ambito delle compatibilità europee e delle attese dei mercati (che detengono – non va dimenticato – circa la metà del debito pubblico italiano); se invece Di Maio uscirà dal suo nirvana e si deciderà a fare i conti con la realtà c’è il rischio che la maggioranza non regga perché a Salvini potrebbe convenire andare alle elezioni europee del prossimo maggio su posizioni di rottura. Lo capiremo meglio alla fine di settembre quando conosceremo i risultati delle elezioni regionali in Baviera, cruciali per la sopravvivenza del governo tedesco e quindi per il futuro dell’Europa. Se un dio esiste, qualunque sia il suo nome, che ce la mandi buona.

 

Franco Chiarenza
26 luglio 2018

Il governo Conte continua nel suo incerto cammino dove la vera sorpresa sembra essere proprio il presidente del Consiglio – classico vaso di coccio tra vasi di ferro – il quale sta mostrando capacità di mediazione e di movimento understatement del tutto imprevedibili, in sintonia col ministro degli esteri Moavero Milanesi e con il probabile appoggio di Mattarella che punta su di lui per stemperare le asprezze dei due principali partner della maggioranza, sempre protesi in una gara demagogica che non sembra avere mai fine.
Il movimento Cinque Stelle è certamente quello in maggiori difficoltà, ma non sembra che ciò abbia determinato una diminuzione significativa del consenso di cui godono (sempre al di sopra del 30%).

Di Maio, Raggi, Fico, Appendino
Il vice-presidente del Consiglio si è imbarcato in un progetto (“decreto Dignità”) che voleva essere ambizioso e contrastare l’evidente maggiore visibilità del collega Salvini, ma il percorso sta mostrando grandi difficoltà ancor prima di approdare in Parlamento dove l’attende la sorda ostilità della Lega che tende ad annacquarne i contenuti fino a renderli irrilevanti. In effetti il vero punto debole del progetto è la copertura finanziaria, come sempre sottovalutata dal movimento Cinque Stelle. Nel frattempo Di Maio rinvia ogni decisione sull’ILVA di Taranto e sull’alta velocità in Val di Susa dove non sa che pesci pigliare senza perderci la faccia.
Il fallimento della sindacatura Raggi a Roma è ormai sotto gli occhi di tutti (e infatti in alcune circoscrizioni il movimento ha subito sconfitte significative); al di là della spazzatura che continua a ingombrare le strade della Capitale, delle buche che le hanno trasformate in percorsi di guerra, del deficit fallimentare dell’ATAC, c’è uno sfilacciamento nel funzionamento di tutti i servizi mentre la Giunta si muove inseguendo le emergenze giorno per giorno senza un progetto, un’ idea per il futuro. Anche all’interno del movimento il malumore è palpabile.
Roberto Fico ha portato a casa un duplice successo di immagine: l’abolizione dei vitalizi dei deputati e la presa di distanza da alcuni eccessi di Salvini. Nel primo caso si tratta di una misura molto attesa dalla base grillina che si compatta soprattutto nell’avversione irriducibile nei confronti della cosiddetta “casta” cioè contro i privilegi – veri o presunti – di chi ha mal governato fino a ieri; ma ci sono molti dubbi che una delibera che opera retroattivamente su diritti acquisiti possa superare il probabile vaglio di costituzionalità. Nel distinguersi invece da Di Maio sul problema dell’immigrazione Fico si candida a rappresentare una possibile alternativa all’alleanza con la Lega da realizzarsi quando dovesse verificarsi una seria crisi in grado di infrangere il patto con Salvini, per il momento ancora molto saldo.
Il sindaco di Torino è inciampato sulle Olimpiadi; richieste a gran voce dalla maggioranza dei cittadini, avversate decisamente dalla base dei Cinque Stelle, hanno costretto Chiara Appendino a tortuosi compromessi. Ma perché le Olimpiadi vadano bene per Torino mentre sono state sprezzantemente rifiutate per Roma pone qualche domanda.

Grillo
E poi c’è Grillo. Il quale si muove disinvoltamente non come il punto di riferimento di un movimento che ha conquistato (anche per merito suo) il governo del Paese, ma rivendicando un ruolo di libero battitore più consono al suo passato di attore comico che non di un leader consapevole. Difende la Raggi anche dove è indifendibile (la pagliacciata sulle buche gli ha valso anche le critiche di esponenti importanti del suo movimento), vaneggia utopie di vago sapore pannelliano (come l’abolizione delle carceri), rampogna Di Maio per il suo approccio di governo troppo istituzionale. Ma non era stato lui, con la ditta Casaleggio, a scegliere Di Maio come capo politico del movimento proprio per le sue presunte capacità di interlocuzione con i partiti e le istituzioni? Nessuno capisce quanto conti ancora Grillo; ma mi sembra difficile immaginare che un suo intervento, nel caso si approfondisca il contrasto tra l’ala movimentista e quella governativa, non sarebbe decisivo.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2018

L’Unione Europea naviga ormai allo sbando senza una rotta sicura, con un equipaggio diviso sulle scelte e spaventato dai cambiamenti climatici, con un capitano giunto al comando da poco – tale Emmanuel Macron – il quale sta dimostrandosi inesperto e inaffidabile. Le difficoltà, i contrasti, le diverse strategie di navigazione non erano mancati neanche in passato ma la volontà di raggiungere, prima o poi, il traguardo dell’unità politica non pareva in discussione. Adesso sembra che non sia più così. L’Unione si chiama così ma in realtà è un apparato burocratico che gestisce alcuni trattati i quali regolano in qualche modo e con diverse applicazioni quanto basta per fare funzionare un mercato comune. Ogni passo successivo è rimesso alla volontà di tutti i ventisette governi e parlamenti nazionali, che è come dire che passi avanti non se ne fanno mai. Al traguardo stabilito dai “padri” dell’Europa non pensa più nessuno.

La sala macchine
Nessuna nave può navigare se non funzionano le macchine che devono spingerla. Ciò che spinge l’Europa è il suo apparato produttivo, secondo al mondo dopo quello americano; di esso la “locomotiva” tedesca costituisce la parte più importante. Se si ferma la Germania si ferma l’Europa, piaccia o no. E in Germania, modello di stabilità anche politica e di ferme convinzioni europeistiche da settant’anni a questa parte, si respira un’aria di rivolta che rischia di bloccare la “sala macchine”. Bisogna dare atto a Angela Merkel di avere fatto il possibile per mantenere la rotta; le rigidità che tanti suoi critici le rimproverano servivano a mantenere la disciplina in un equipaggio che scalpitava chiedendo politiche ancor più rigorose nei confronti delle ciurme meno disciplinate (soprattutto quelle mediterranee).

Il ponte di comando
Quando Macron, appena eletto, ha fatto suonare l’inno europeo di Beethoven prima della Marsigliese, tutti capirono che il nuovo presidente francese si candidava autorevolmente al ruolo di comandante della nave europea. Gli altri partner per motivi diversi erano disposti a riconoscerlo; anche perché nessuna Europa è possibile senza la Francia, per ragioni geografiche, storiche, culturali e anche economiche che nessuno poteva disconoscere. Ma anche il nuovo comandante si è impantanato; un po’ perché la sua salda alleanza con la sala macchine della Merkel ha dovuto tener conto della crisi politica tedesca, molto anche perché pure la sua ciurma sente la sirena del nazionalismo ed è sempre pronta a sventolare il tricolore francese piuttosto che la bandiera stellata dell’Europa. Entrambi, Macron e Merkel, hanno gestito male gli abbordaggi dei disperati che fuggono dalle guerre, dalla fame, dall’intolleranza e che chiedono di salire a bordo, lasciando che si arrampicassero nella parte meno difendibile, l’Italia.

Il gruppo di Visegrad
Oggi in Europa si profilano tre linee di tendenza, molto diverse tra loro. La prima fa capo a un gruppo di paesi che hanno assunto la denominazione di “gruppo di Visegard”: comprende la Polonia, l’Ungheria, la Cechia e la Slovacchia, ma gode di crescenti simpatie in Slovenia e in Austria. In esso prevale la cultura nazionalista su quella democratica e liberale che ha caratterizzato fino ad oggi la costruzione dell’Europa. Non si tratta soltanto di mantenere una linea di chiusura all’immigrazione ma anche di mettere in discussione lo stato di diritto fondato sull’indipendenza della magistratura, sulla libertà di informazione, sul pluralismo politico. Si sta in Europa soprattutto per quattro ragioni che con il traguardo dell’unità politica non hanno nulla a che fare: la paura della Russia, nella cui sfera di influenza non si vuole ricadere; i vantaggi economici del mercato comune che si sono tradotti in massicci investimenti ai quali si deve l’innalzamento del loro tenore di vita; le politiche di sostegno economico di cui hanno potuto usufruire; infine l’emigrazione che con l’apertura delle frontiere ha consentito a centinaia di migliaia di emigrati polacchi di finanziare con le loro rimesse dalla Germania e dalla Gran Bretagna lo sviluppo economico del loro paese. Il gruppo di Visegrad quindi non è contro l’Europa; vuole prendere da essa quanto le conviene e non concedere nulla che possa mettere in discussione il modello nazionalistico e intollerante che sta realizzando.

L’Europa del nord
I paesi del nord (Benelux, Scandinavia, repubbliche baltiche) sono quelli che hanno guardato alla Brexit con maggiore preoccupazione per ovvie ragioni geopolitiche ma anche culturali ed economiche. Essi non intendono approfondire il solco con la Gran Bretagna come forse avverrebbe realizzando un’Europa a due velocità, preferiscono mantenere le cose come stanno e in ciò finiscono per condividere la posizione del gruppo di Visegard. Un’Europa in sostanza ridotta a poco più di una grande zona di libero scambio con poche regole finalizzate essenzialmente alla libera circolazione (come Schengen), politicamente integrata alla NATO (e quindi agli Stati Uniti) in funzione anti-russa (aspetto particolarmente importante per i paesi che si affacciano sul Baltico) è per essi, almeno per il momento, il massimo. I problemi del Mediterraneo appaiono lontani e comunque non intendono farsene carico.

L’Europa mediterranea
Naturalmente del tutto diversi sono gli interessi dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Per essi la questione dell’immigrazione dall’Africa non è un problema contingente ma un movimento inarrestabile che occorre regolare per evitare che si trasformi in un incubo. La solidarietà europea, e quindi una seria condivisione dei rischi, è per l’Italia, la Spagna e la Grecia, questione di fondamentale importanza. Trattandosi oltre tutto del “ventre molle” dell’Unione sia dal punto di vista economico che per stabilità politica, ignorare ciò che avviene nel Mediterraneo rappresenta una pericolosa sottovalutazione della reciprocità delle interferenze ampiamente dimostrata dalla lunga storia dell’Europa. Pensare che le guerre che insanguinano il Vicino Oriente e l’Africa non influiscano sul futuro di tutto il continente europeo e non soltanto dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo costituisce un’ingenuità imperdonabile.
Vi è poi il problema del debito pubblico, meno grave di quanto si creda generalmente, ma che rappresenta per certa opinione pubblica del nord-Europa la certificazione di una incapacità di gestione della “cosa pubblica”, incompatibile con i parametri di efficienza scandinavi o tedeschi. In Germania c’è chi non aspetta altro per avere il pretesto per “commissariare” l’Italia come è stato fatto per la Grecia.

L’asse incrinato. Guai se si spezza
Per concludere. L’Europa ha fondato le sue prime strutture dopo la seconda guerra mondiale su un’idea forte che leader di grande prestigio imposero ai loro paesi: il superamento delle rivalità che avevano insanguinato il continente nei secoli precedenti attraverso la costituzione di un involucro istituzionale al cui interno le inevitabili controversie potevano essere composte senza più ricorrere alle armi. Per ottenere questo risultato, mutuato dal successo del modello americano che era sotto gli occhi di tutti, occorrevano due condizioni: la convinzione che i valori politici e morali occidentali usciti vincenti dal conflitto con il nazi-fascismo rappresentassero il fondamento culturale di questa nuova identità, e l’accantonamento degli interessi più conflittuali, a partire dalla messa in comune delle materie prime essenziali come il carbone e l’acciaio (da cui nacque la CECA), dal superamento delle frontiere interne, dalla creazione di una forza militare di difesa comune (che venne meno col fallimento del progetto CED). L’asse fondamentale su cui questa idea poteva essere realizzata era quello che univa Parigi a Bonn (prima che Berlino tornasse ad essere la capitale della Germania); ne furono convinti assertori Schuman, Monnet, Adenauer e i loro successori. De Gasperi intuì l’importanza politica e ideale di questo progetto e subito vi si associò portando l’Italia nel gruppo dei paesi fondatori.
Su queste basi, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che hanno spesso costretto a deviare dal progetto originario, è stata costruita l’Unione Europea; un edificio ancora incompleto, privo di un tetto comune, ma che comunque ha consentito a tutti i popoli europei una crescita senza precedenti e una qualità della vita unica al mondo. Ma se l’asse su cui è stato fondato si spezza l’intera costruzione rischia davvero di crollare; per ora regge ma è fortemente incrinato.
E non lo è per gli interessi contrastanti che scuotono l’Unione, ma perché sembra venuta meno l’idea forte per la quale era stata concepita, che non era una somma algebrica degli interessi nazionali ma il riconoscimento di valori comuni che ci facevano stare insieme; come appunto è stato negli Stati Uniti dove “essere americani” non significa essere in grado di comporre gli interessi della California con quelli dell’Alaska ma qualcosa di più, di molto di più.

 

Franco Chiarenza
1 luglio 2018

Tutta l’Europa è scossa dal problema dell’immigrazione. Il successo della destra nazionalista (impropriamente definita dai media come “populisti”) in tutti i paesi europei è stato in larga misura determinato dalle paure crescenti che il fenomeno immigratorio ha suscitato, spesso molto al di là della sua effettiva dimensione. Un allarme sociale legato a una percezione diffusa che si tratti di una “invasione” da parte di popoli che per cultura, religione, comportamenti sono considerati irriducibilmente “diversi”. Una sensazione ampliata dal rilievo che gli riservano i media (tradizionali e non) e dalle strumentalizzazioni politiche che l’hanno accompagnata. Il fatto poi che l’immigrazione (soprattutto africana) si sia sovrapposta a un disagio economico e sociale che deriva da cause del tutto diverse ha creato in ampi settori della classe media europea (e non soltanto) una fatale semplificazione che ha consentito alla destra di presentarsi come difensore degli interessi nazionali in contrapposizione al supposto “buonismo” della sinistra. Non solo: ogni forma di multilateralismo e di cooperazione internazionale (su cui peraltro si è fondato il successo della globalizzazione) è stato visto come un veicolo di confusione e di insicurezza a cui si poteva porre rimedio soltanto tornando alla dimensione nazionale.
Le sinistre e i conservatori moderati non sono riusciti a comprendere tempestivamente l’estensione del fenomeno condannandosi quindi all’isolamento e al ridimensionamento, mentre la destra si è rapidamente trasformata in un nazionalismo estremista (in qualche caso con evidenti caratteri razzisti). Anche dove il centro-sinistra è riuscito faticosamente a mantenersi al governo, come è avvenuto in Germania, Francia e Spagna, non è stato tuttavia in grado di proporre soluzioni convincenti.

Il problema globale
L’immigrazione che tanto preoccupa l’Europa va inquadrata in un fenomeno che riguarda il mondo intero e che si è accelerato con la globalizzazione e la diffusione capillare di informazioni consentita dai nuovi mezzi di comunicazione. Dalle regioni più povere masse crescenti di persone cercano di raggiungere stati e paesi dove il tenore di vita è più elevato e vi sono maggiori possibilità di miglioramento sociale, favorite anche dal fatto che la decrescita della natalità apre in effetti spazi di occupazione di rilevanti dimensioni. Non soltanto quindi dall’Africa verso l’Europa ma anche dai Balcani verso l’Europa occidentale, dai paesi dell’Estremo Oriente verso l’Australia e il Giappone, dal Medio Oriente verso l’Europa, dal Messico verso gli Stati Uniti.
Si tratta di un fenomeno che si ripete da quando l’uomo ha abitato la Terra e che – come la storia dimostra – è irreversibile. Si può ostacolare, governare, ritardare, programmare ma non impedire. Questa è la ragione per la quale la distinzione tra “profughi” che fuggono da guerre di sterminio (Siria, Iraq, Sudan, Yemen, guerre civili di varia natura) e “emigranti economici” ha un valore relativo; se la spinta a fuggire è tale da mettere in gioco la propria vita quali che siano le motivazioni le conseguenze saranno identiche.

Il problema europeo
Per governare al meglio il fenomeno e ridurne gli effetti negativi i paesi europei possono percorrere due strade: quella “nazionale” e l’altra “europea”. Tertium non datur.
La prima consiste nel rinchiudersi nei confini nazionali ma richiede innanzi tutto una collocazione geografica poco permeabile; l’Ungheria e la Repubblica Ceca possono farlo facilmente, la Grecia, l’Italia e la Spagna hanno ovviamente maggiori difficoltà. Ma anche laddove è più facile, la via “nazionale” comporta diversi svantaggi: chiusura delle frontiere, ostacoli alla libera circolazione di uomini e cose, rafforzamento dei poteri di polizia, ritorno alla logica pre-bellica dei rapporti di forza, e soprattutto un quasi automatico scivolamento verso forme di democrazia plebiscitaria assai lontane dallo stato di diritto (come infatti sta avvenendo in Polonia e Ungheria). Senza la protezione europea d’altronde paesi di piccole dimensioni, come per esempio quelli balcanici, avrebbero solo la scelta di sopravvivere all’ombra dell’egemonia tedesca o di quella russa.
L’alternativa è l’Unione Europea. Meglio se tale nella realtà oltre che nel nome. Ciò significa cedere un pezzo della propria sovranità all’Unione assegnandogli competenze in materia di gestione dell’immigrazione che oggi non ha, superando trattati concepiti in ben altri momenti e circostanze, come quello di Dublino, (la cui rigida applicazione ha oggettivamente danneggiato i paesi mediterranei di più facile sbarco come Italia, Grecia, Malta, Spagna), e creando strutture di contrasto dotate di mezzi sufficienti a cominciare dalla creazione di centri di raccolta e smistamento in Africa.

Il problema italiano
Nel nostro Paese dati e cifre indicano che il fenomeno immigratorio, malgrado le recenti “invasioni” dall’Africa, è meno rilevante che altrove; i confronti con Germania, Francia e Gran Bretagna lo dimostrano. Inoltre il deficit demografico è in Italia talmente significativo da prevedere entro il 2025 una forte immissione di immigrati se non si vuole penalizzare l’economia nazionale. Perché allora tanto allarme?
Perché la questione è stata male gestita (soprattutto nella prima fase) e l’opinione pubblica non è stata adeguatamente preparata. Si è sottovalutato, per esempio, il problema della compatibilità culturale; l’ostilità maggiore investe infatti gli immigrati musulmani per la convinzione che la loro dimensione religiosa sia contrapposta alle nostre radici cristiane e i loro comportamenti sociali incompatibili con i nostri. Nei confronti degli immigrati romeni, ucraini, serbo-croati, albanesi si riscontra meno avversione perché, a torto o ragione, considerati più assimilabili. E in effetti se ci sono maestre – come è avvenuto – che in nome di un malinteso multiculturalismo eliminano il Natale, si possono comprendere certe reazioni della pubblica opinione. Anche la questione dello jus soli è stata giocata su una contrapposizione strumentale per fare passare gli oppositori come razzisti, mentre di fatto per come era stata proposta essa finiva per svilire il principio di nazionalità il quale, in quanto processo di assimilazione culturale, quando non deriva dalla famiglia di appartenenza, va verificato e riconosciuto soltanto con la maggiore età. Pretendere dagli immigrati l’accettazione dei nostri principi giuridici, delle nostre convinzioni morali, è il solo modo di farli partecipare alla comunità civile e di non ghettizzarli nella loro diversità.
Nonostante questi errori la questione sarebbe stata ancora governabile se l’Unione Europea avesse fatto la sua parte. L’opinione pubblica (anche quella moderata) ha avuto invece l’impressione che tutti i partner europei giocassero a scarica-barile rovesciando sul nostro Paese le loro difficoltà. Dublino o no, qualche gesto più risoluto avrebbe potuto forse evitare alla sinistra l’impressione di impotenza che ha dato; Minniti è stato l’unico a rendersene conto e si è mosso nella giusta direzione ma è stato duramente contestato all’interno del suo partito e comunque è arrivato tardi e non ha saputo utilizzare adeguatamente i canali di comunicazione occupati in permanenza dalla destra nazionalista. La paura di perdere qualche consenso a sinistra ne ha fatti perdere molti di più al centro.
L’esito elettorale del 5 marzo peraltro non era risolutivo. Se il partito democratico avesse consentito al movimento Cinque Stelle di governare, ponendo pochi ma chiari paletti (soprattutto in politica estera), sul problema immigrazione le posizioni avrebbero potuto avvicinarsi molto e si sarebbe evitato che Salvini, saltando a qualunque costo in groppa al nuovo governo, potesse dare quei segnali di “fermezza” che – bisogna ammetterlo – ampi settori dell’opinione pubblica hanno sostanzialmente condiviso. E occorre aggiungere che Macron con le sue contraddizioni, con la sua arroganza, sollecitando le corde della dignità nazionale offesa, è stato (spero inconsapevolmente) il miglior alleato di Salvini.

Oggi il leader della Lega domina la scena, Di Maio, impelagato nelle promesse elettorali impossibili da realizzare, sembra una contro-figura di Salvini, il PD appare lacerato e incapace di rappresentare un’alternativa credibile.
Forse ha ragione Calenda: occorre voltare pagina. Come? Il bello delle pagine nuove è che sono bianche, si può evitare di tenere conto di quel che era scritto nelle precedenti per ricominciare daccapo.

 

Franco Chiarenza
27 giugno 2018

Come ha ricordato Vittorio Emanuele Parsi nel suo bel libro “Titanic, il naufragio dell’ordine liberale”, Franklin Delano Roosevelt in un famoso discorso del 1933 che segnò l’avvio del “New Deal” affermò di fronte a un paese stremato, disorientato e senza speranza che “non c’è nulla di cui dobbiamo avere paura tranne della paura stessa!”. Ma, come lo stesso Pardi scrive, gli artefici dell’ordine internazionale liberale “nel momento in cui prospettavano un sistema economico e finanziario aperto, fondato sulla libera circolazione di beni e di servizi, erano ben consci che a un mercato mondiale dovesse corrispondere una struttura di governance solida e che solo attraverso un accorto sistema di regole sarebbe stato possibile evitare che un mercato globale potesse prendere il sopravvento su democrazie necessariamente locali.” Questa era la grande scommessa che gli Stati Uniti attraverso un complesso sistema di alleanze e di vincoli multilaterali hanno portato avanti soprattutto dopo la fine della guerra fredda nel 1989 e il venir meno dell’ideologia alternativa comunista.
Dobbiamo chiederci se la crescita dei nazionalismi populistici in Europa e in America significa che l’ambizioso progetto di un liberalismo senza frontiere su cui l’Occidente democratico aveva fondato la sua supremazia economica, politica e culturale dopo la seconda guerra mondiale sia
sostanzialmente fallito.

Tutti separati appassionatamente
Cosa accomuna Trump, il gruppo di Visegrad, la Brexit, la Lega di Salvini, il lepenismo francese, e altri fenomeni che definiamo sommariamente “populisti”? In realtà poco o nulla perché si tratta di movimenti assai diversi e originati da realtà politiche e sociali differenti. Ma una cosa in comune ce l’hanno: l’avversione a regole internazionali stabilite in trattati multilaterali che in qualche misura limitano le sovranità nazionali.
Dietro questa ostilità c’è la convinzione che i problemi di casa propria si risolvono meglio tenendo chiuse porte e finestre e che quello che succede fuori non ci riguarda, almeno finché non tocca direttamente i nostri specifici interessi. Come se la pulizia delle strade, una circolazione ordinata, la sicurezza pubblica, il funzionamento della scuola e degli ospedali e quant’altro riguarda i rapporti di convivenza di una qualsiasi comunità non dovesse interessarci purché la nostra casa sia ordinata e pulita al suo interno.
Si tratta di una percezione tanto diffusa quanto sbagliata perché con la globalizzazione dobbiamo fare i conti necessariamente con le esigenze di tutti; ed è questo che mette paura per il timore che ciò possa mettere in pericolo quelle sicurezze individuali che riteniamo di avere acquisito per sempre.
Come si traduce questa pericolosa tendenza? Nella separazione. Ognuno per sé, Dio (per chi ci crede) per tutti. Questo significa dazi per rendere più onerose le importazioni, restrizioni alla libera circolazione di persone e merci, monete flessibili per speculare sulla variabilità delle valute (con relativi cambi forzosi), e via discorrendo; un ritorno alle condizioni d’anteguerra. Quel che sorprende è che questo “ritorno al passato” sia sostenuto in paesi, come il nostro, che sulle esportazioni hanno fondato il loro sviluppo e che si troverebbero assai svantaggiati da un generale inasprimento dei dazi che non potrebbe in alcun modo essere compensato dalle manovre sui cambi adottate in passato in un contesto assai diverso e comunque con effetti transitori e facendone pagare il costo ai più deboli attraverso un’inflazione che minava alla base il potere d’acquisto dei consumatori (Luigi Einaudi scrisse in proposito pagine indimenticabili).
Con una moneta debole (come sarebbe una nuova lira), con un mercato interno oggettivamente limitato, resterebbe soltanto il turismo come partita attiva della bilancia commerciale; con grande soddisfazione di chi vorrebbe l’Italia ridotta al ruolo di una “Disneyland” permanente.
Che Trump scommetta sul protezionismo ha un senso, almeno a breve termine, perché può disporre di un mercato interno di dimensioni gigantesche e di una moneta che resterebbe – tolto di mezzo l’euro – l’unica valuta di riferimento per il commercio internazionale; anche se una politica fondata sulla forza economica e militare può risultare controproducente nei tempi lunghi essa nel breve termine può produrre dei vantaggi per la middle class che si sente sacrificata dagli effetti della globalizzazione. Poco importa a Trump e ai suoi consiglieri se in una prospettiva più lontana i consumatori americani potrebbero restare danneggiati da un aumento dei prezzi e dall’indebolimento di un’egemonia che non è stata soltanto militare ma anche culturale e politica e che tanta importanza ha avuto anche nello sviluppo dell’economia americana. Per questo la partita che si gioca all’interno degli Stati Uniti è decisiva per tutte le democrazie liberali dell’Occidente; il venir meno della vision fondata sulla concezione di “società aperta” avrebbe conseguenze gravissime in tutte le parti del “sistema” che essi stessi avevano creato dopo gli stermini bellici della prima metà del secolo XX.

Dal multilateralismo alle intese parziali
Che però siano “sovranisti” paesi che hanno fondato il loro sviluppo proprio sull’apertura dei mercati come molte nazioni europee è quasi paradossale. Quale mai “sovranità” reale (e non puramente formale) potranno esercitare paesi come l’Ungheria, la Polonia, l’Austria e la stessa Italia a fronte di potenze globali in possesso di strumenti di pressione commerciali, finanziari, militari come quelli di cui dispongono i grandi blocchi continentali come gli Stati Uniti, la Cina, la Russia? Sarebbero inevitabilmente fragili vascelli destinati ad accodarsi se non vogliono restare schiacciati da flotte d’acciaio.
Si replica sostenendo che intese parziali, accordi bilaterali, possono benissimo prendere il posto di alleanze multinazionali, col vantaggio di mantenere la sovranità in casa propria; ma si tratta di una menzogna che nasconde purtroppo un’altra amara verità. Essere svincolati da regole internazionali che hanno il loro fondamento nel riconoscimento dei principi liberali dello stato di diritto significa avere via libera nel processo di regressione da democrazie liberali in democrazie plebiscitarie sostanzialmente autoritarie. E’ incredibile che proprio quei paesi che hanno potuto sviluppare la propria economia uscendo da secolari situazioni di minorità anche e soprattutto grazie all’appartenenza all’Europa e al sostegno che da essa hanno ricevuto, come alcuni paesi dell’Est europeo, abbiano avviato una pericolosa strategia politica di distacco dai valori fondanti dell’Unione Europea, cercando i modelli di riferimento nella Russia di Putin o nella Turchia di Erdogan.
A questo punta Salvini? E i Cinque Stelle che ne pensano?

 

Franco Chiarenza
22 giugno 2018

Era un libro per ragazzi che circolava tanti anni fa. La sua trama era incentrata su una piccola città in cui i genitori per punire i figli discoli decidono di fingere un abbandono che tuttavia si trasforma per circostanze imprevedibili in una lunga assenza. I ragazzi svegliatisi l’indomani si trovano a dovere fare i conti con una realtà che non conoscevano: distinguere i buoni (che si preoccupavano del benessere comune soprattutto dei più piccoli e deboli) dai cattivi (che approfittavano dell’assenza dei genitori per instaurare la legge brutale della violenza), fare funzionare i servizi essenziali, darsi delle regole, ecc. Il ritorno dei genitori interromperà un’esperienza che stava diventando drammatica perché, nel bene e nel male, le regole e chi le fa rispettare anche quando non piacciono sono necessarie.
Guardando i penosi balbettii del premier Conte nella conferenza stampa con Macron, i lavori parlamentari affidati all’imperizia di presidenti improvvisati (amorevolmente assistiti dai funzionari), gli annunci razzisti di Salvini immediatamente smentiti da Conte, i 500 profughi dell’Aquarius sballottati nel Mediterraneo mentre altre centinaia sbarcano tranquillamente a Pozzallo, il ministro dell’Economia presentare al Parlamento un DEF in cui dopo avere affermato che il “reddito di cittadinanza” sponsorizzato da Di Maio e la riforma pensionistica che sta tanto a cuore alla Lega sono in cima ai pensieri del governo, ribadisce tuttavia che il deficit non può essere aumentato e che gli odiati parametri europei vanno rigorosamente rispettati (come appunto sosteneva il suo predecessore Padoan), il ministro Di Maio ricevere i nuovi proprietari dell’Ilva per cercare soluzioni ragionevoli (come appunto già stava facendo Calenda prima di lui), mi è venuto in mente il ricordo di Timpetil.
Dilettanti allo sbaraglio i Cinque Stelle, professionisti della peggiore demagogia populista i seguaci di Salvini, assenti “genitori” sconsiderati e irresponsabili che hanno determinato questo caos. E siamo soltanto alle prime battute, non sappiamo cosa ci riserverà il futuro, anche perché di un ritorno dei “genitori” nel nostro caso non c’è traccia.

Franco Chiarenza
20 giugno 2018

C’è un po’ di comprensibile sconcerto tra quelli che non hanno votato e comunque non si riconoscono nelle posizioni dei Cinque Stelle e della Lega. Mi ricorda un po’ un analogo sgomento che accompagnò la vittoria di Berlusconi nel 1994. Ma con una aggravante: che Salvini e Di Maio appaiono come protagonisti di una “rivoluzione” anti-sistema assai più di quanto potesse essere Berlusconi (che peraltro era alleato con due partiti come la Lega di Bossi e Alleanza Nazionale di Fini ancora percepiti, per le loro origini, anch’esse come forze anti-sistema). E più Di Maio e Salvini pongono enfaticamente l’accento sul governo di “cambiamento” più la preoccupazione cresce. Fin dove si intende portare il “cambiamento”? Fino a mettere in discussione le alleanze tradizionali dell’Italia? Fino a uscire dall’Unione Europea? Fino a trasformare la democrazia repubblicana disegnata dalla Costituzione in una “democrazia illiberale” come quella propugnata dal leader ungherese Orban? Lega e Cinque Stelle dicono di no, ma se davvero sono sinceri sanno che all’interno di quei paletti i margini di manovra sono strettissimi e del tutto insufficienti non soltanto a realizzare cambiamenti epocali ma anche a mantenere tutte le promesse fatte in campagna elettorale.

Che fare?
Non resta che aspettare. Tutto ruota intorno a Salvini, sia dal punto di vista tattico che per quanto riguarda l’azione di governo. Se infatti il leader della Lega, con i favorevoli risultati delle elezioni amministrative e con l’esibizione muscolare della chiusura dei porti alle navi cariche di immigrati, ritiene di avere raggiunto il massimo livello di consenso oltre il quale gli inevitabili compromessi di governo potrebbero invece logorarlo, non c’è dubbio che alla prima occasione – probabilmente in autunno – provocherà una crisi di governo; col rischio però che Mattarella, pur di evitare lo scioglimento delle Camere, rimetta in campo l’ipotesi di un accordo tra Cinque Stelle e partito democratico reso possibile da una comprensibile riluttanza del movimento di Grillo ad affrontare nuove elezioni che difficilmente potrebbero ripetere il successo del 4 marzo.
Ma per riesumare la teoria dei due forni (magari sostituendo Fico a Di Maio) occorre che il secondo forno (cioè il PD) sia disponibile, il che al momento attuale non è affatto scontato.
Se invece Salvini ritiene di potere giocare la partita in tempi lunghi riducendo le pretese dei Cinque Stelle (soprattutto per quanto riguarda il “reddito di cittadinanza” assai poco popolare nell’elettorato leghista settentrionale) e spingendo invece l’acceleratore sugli immigrati e su altre riforme (come quella pensionistica) che porterebbero il Paese in rotta di collisione con Bruxelles, il governo, magari con qualche rimpasto, potrebbe durare almeno fino alle elezioni europee del 2019 quando, incassato un forte dividendo elettorale, una sua candidatura alla presidenza del Consiglio diventerebbe possibile. Soprattutto se, nel frattempo, riuscisse anche a fare approvare dal Parlamento una legge elettorale più maggioritaria di quella attuale.

PD?
Nel frattempo il partito democratico deve urgentemente fare i conti con sé stesso, anche a costo di una scissione che sarebbe comunque preferibile alla confusione strategica che lo contraddistingue. Il problema non è quello di una virata a sinistra alla ricerca di un elettorato che non c’è (altrimenti si sarebbe riversato sulla LeU di Grasso) ma invece di rappresentare quell’elettorato di centro che è diviso tra astensione e movimento Cinque Stelle e che potrebbe non condividere l’azione di governo di Salvini e Di Maio man mano che verranno al pettine le conseguenze della loro linea politica nelle grandi scelte economiche e finanziarie (Eurozona, banche e risparmio, fisco, investimenti, occupazione, ecc.). Uno spazio elettorale che potrà essere colmato indifferentemente da un nuovo partito democratico (se cambia nome è meglio), da Forza Italia (se emargina Berlusconi è meglio) o da una nuova formazione sul modello di “En Marche” di Macron o di “Ciudadanos” di Albert Rivera.

Al momento non resta che aspettare. I tanti “liberali qualunque” valuteranno gli atti del governo “consolare” di Di Maio e Salvini senza pregiudizi nella speranza che alcuni di essi contribuiscano a rimuovere incrostazioni corporative e ideologiche che da parte liberale sono sempre state inutilmente denunciate.
Non è tempo di mobilitazioni improvvisate. Finché i capisaldi della democrazia liberale (libertà di comunicazione, indipendenza della magistratura, rispetto della Costituzione e dei trattati che ci consentono di far parte a pieno titolo dell’Unione Europea e dell’ Alleanza Atlantica) non saranno messi in discussione ciò che è avvenuto potrebbe anche rivelarsi come uno strappo utile a fare uscire il Paese dall’immobilismo.

Franco Chiarenza
12 giugno 2018