Cerchiamo di capire perché è difficile costituire una maggioranza di governo.

Il Movimento Cinque Stelle non può rinunciare alla presidenza del consiglio per Di Maio pena la delegittimazione di fronte alla propria base, soprattutto in uno scenario che prevede la possibilità di tornare alle urne in tempi brevi. Se si crea una maggioranza alternativa avrebbe buon gioco a passare all’opposizione gridando “all’inciucio” sperando così di aumentare il consenso. Ma anche l’ipotesi che tutti facciano un passo indietro e lo facciano governare da solo (monocolore minoritario) non entusiasma i Cinque Stelle ben consapevoli del peso che dovrebbero assumersi a fronte di promesse elettorali molto impegnative e senza l’alibi di potere scaricare su qualche alleato il loro mancato adempimento . Quando le vittorie sono parziali il rischio è proprio questo: restare in un cul de sac.

La Lega sa che Salvini non è una personalità aggregante ed è molto difficile che – sia pure per motivi opposti – Cinque Stelle o democratici possano consentirgli di fare un governo, neppure di minoranza (cioè costituito soltanto dai tre partiti di centro-destra). Oltre tutto il suo principale alleato (Forza Italia) vede con preoccupazione un eventuale governo presieduto dal leader della Lega perché potrebbe accelerare la disgregazione di un partito appeso al carisma di Berlusconi. Il progetto di Salvini appare quindi chiaro: restare all’opposizione e mantenere una posizione di vantaggio in vista delle prossime elezioni.

Il Partito Democratico va incontro ovviamente a una resa dei conti interna dopo la lunga egemonia di Renzi. Se prevarrà la linea “collaborazionista” (consentire ai Cinque Stelle un monocolore minoritario) rischia la spaccatura della sua base; in ogni caso per realizzarsi essa avrebbe bisogno di un forte sostegno del Quirinale (appello alla responsabilità nell’interesse superiore del Paese, come Mattarella ha già cominciato a fare). Se invece prevarrà la linea dell’opposizione a oltranza (che potrebbe essere pagante nelle prossime elezioni) si costringerebbero Di Maio e Salvini a mettersi d’accordo oppure andare subito a nuove elezioni.
Se infine prevale una linea attendista, la mossa successiva spetterebbe al Quirinale e non sarebbe priva di incognite.

Forza Italia sta alla finestra e non può fare altro, almeno per ora. Berlusconi appoggerà il tentativo di Salvini sperando che fallisca (come è probabile). Se Salvini facesse un governo con Di Maio se ne dissocierebbe, magari con un’astensione, sperando così di recuperare i voti moderati che si sono lasciati attrarre dalla Lega (al nord) e dai Cinque Stelle (al sud). I numeri per fare un governo con i democratici non ci sono e in ogni caso ciò comporterebbe una rottura con Salvini (col quale comunque – non va dimenticato – FI amministra molte Regioni e Comuni). Nel frattempo si è aperta di nuovo la competizione tra i possibili successori di Berlusconi: Toti (pro-Lega)? Brunetta (anti-Lega)? Tajani (improbabile)? Parisi (pro-PD)? O nessuno di loro ma invece un’erede di famiglia (Marina Berlusconi)?

Gli altri (LEU, FdI, ecc) non hanno molta voce in capitolo perché rappresentano quote troppo piccole dello schieramento parlamentare. Dovrebbero avere interesse soprattutto a restare comunque all’opposizione.

Dunque, nuove elezioni? E se sì con quale governo? Se il presidente della Repubblica è costretto a prendere atto che non esistono né le condizioni per una maggioranza parlamentare precostituita né per un governo di unità nazionale limitato nel tempo e con lo scopo esclusivo di promuovere una nuova legge elettorale e adempiere all’ordinaria amministrazione, egli avrebbe davanti a sé due opzioni: 1) sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni (che dovrebbero svolgersi al massimo entro 70 giorni dal relativo decreto, andando quindi a coincidere con la piena stagione estiva); in tal caso resterebbe in carica l’attuale governo Gentiloni. 2) nominare un governo “istituzionale” di propria iniziativa, con o senza il consenso dei partiti, e inviarlo alle Camere per ottenere la fiducia; nel caso che l’ottenga mantenerlo in vita il tempo necessario per cambiare la legge elettorale, predisporre il bilancio 2018 e far fronte alle urgenze che si prefigurano nella politica internazionale (ed europea in particolare). Nel caso che non ottenga la fiducia indire nuove elezioni che però in tale evenienza si svolgerebbero presumibilmente in autunno e con il governo nominato dal Presidente (come è già accaduto in passato). Non credo sia praticabile la soluzione indicata da Eugenio Scalfari: prolungare per un anno la vita dell’attuale governo. Perché in presenza di un voto di sfiducia non avrebbe legittimità costituzionale.

Purtroppo i tempi dell’economia e della politica nella loro dimensione internazionale non sono conciliabili con quelli bizantini di casa nostra. Trump sta demolendo pezzo per pezzo la regolamentazione multinazionale del commercio che garantiva al nostro Paese (e all’Europa in generale) considerevoli vantaggi. L’Unione Europea, da parte sua, attraversa un momento forse cruciale per la sua sopravvivenza non soltanto per la difficile gestione della Brexit ma anche per il delinearsi al suo interno di tre diversi raggruppamenti difficilmente conciliabili.
Il primo, già attivo da qualche anno, è quello di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) il quale tende a trasformare l’Unione in un’area di libero scambio calmierata da misure di sostegno in favore delle aree più deboli (in gran parte coincidenti con gli stessi paesi che aderiscono al gruppo), senza vincoli legislativi in tema di diritti. Il secondo si formerà probabilmente intorno all’asse franco-tedesco e comporterà una maggiore integrazione politica, militare e finanziaria. Il terzo potrebbe scaturire da un’iniziativa olandese (accolta con interesse dalle nazioni del nord-Europa) che richiama l’Unione a una severa applicazione della linea rigorista prevista dai trattati ma esclude ulteriori allargamenti dei poteri sovranazionali.
Sarebbe importante che l’Italia (e la Spagna) non restassero ai margini di un dibattito così importante e fossero in grado di prendere una posizione chiara e irreversibile.

 

Franco Chiarenza
10 marzo 2018

Il rito elettorale del 4 marzo si è concluso e la vittima sacrificale ha un nome, Matteo Renzi; chi l’avrebbe detto cinque anni fa quando baldanzoso prendeva d’assalto il palazzo del governo.
E’ ancora presto per abbandonarsi alle alchimie sulle previsioni di quale governo per il futuro; il numero dei seggi attribuiti non è ancora definitivo e mai come in questo parlamento anche un voto può fare la differenza. Qualche considerazione però può essere fatta:

  1. Noi liberali “qualunque” usciamo sconfitti da queste elezioni. O eravamo davvero pochi oppure ci siamo ancora una volta mimetizzati dentro vestiti che non ci rendono riconoscibili.
  2. Il problema è che le concezioni liberali “aperte” come il multilateralismo, la tolleranza per le diversità etniche e religiose, i mercati regolati ma liberi, gli orizzonti di crescita di tante parti del mondo fino a ieri escluse dal benessere, la speranza che tutti potessero condividere i valori che provengono dalla nostra storia e che credevamo irrinunciabili, sono entrate in crisi in tutto il mondo. Dobbiamo chiederci perché.
  3. L’Italia non ha fatto eccezione e, almeno in apparenza, la maggioranza dell’elettorato sembra ostile all’Europa, favorevole alle chiusure nazionali, propensa a risolvere l’evidente disagio diffuso nel Paese affidandosi a un’espansione della spesa pubblica.
  4. Le questioni che hanno determinato il risultato elettorale sono essenzialmente due: l’immigrazione e la disoccupazione. L’Europa si è trovata nella scomoda posizione di essere additata come responsabile di entrambi i fenomeni; è stato facile in questo modo alle forze politiche eludere le proprie responsabilità e scaricarle su un soggetto terzo. L’apertura dei mercati è vissuta da molti come la causa della disoccupazione e si pensa ingenuamente che il protezionismo rappresenti la soluzione del problema. Lo stesso vale per l’immigrazione, per la quale alle motivazioni economiche si aggiunge la preoccupante emersione di concezioni razziste e nazionaliste.
  5. Colpisce il grande successo del movimento Cinque Stelle nel Mezzogiorno. Molti analisti sostengono che la promessa di un salario di cittadinanza a tutte le famiglie indigenti sia stata determinante assai più delle motivazioni moralistiche sui costi della politica e contro la corruzione che ne avevano caratterizzato gli inizi.
  6. Il crollo del partito democratico va oltre l’antipatia suscitata da un personaggio che, dopo una buona partenza, si è fatto notare soprattutto per l’arroganza e la disinvoltura con cui ha governato. Renzi non è caduto per mancanza di un progetto (quello della “Leopolda”, con tutti i suoi limiti, lo era) ma per non averlo portato fino in fondo. I numeri ci dicono che andare controcorrente forse non avrebbe evitato la sconfitta (anche se in Francia con Macron ha funzionato), ma comunque il P.D. ne sarebbe uscito con le carte in regola per affrontare il secondo “round”.
  7. Chiunque governerà si troverà di fronte a due problemi di non facile soluzione: rispettare le promesse fatte con i costi spropositati che comportano e gestire di conseguenza i malumori e le divisioni che si produrranno all’interno di contenitori così eterogenei. Con gravi rischi di instabilità che – non si dimentichi – sono gli unici che davvero preoccupano i mercati e possono produrre ricadute incontrollabili.
  8. Quelli che vengono chiamati “poteri forti” – per intenderci: imprese, sindacati, banche, alti gradi dell’amministrazione, forze armate, mondo accademico, ecc. – hanno mantenuto una sostanziale indifferenza durante la campagna elettorale, quasi lasciando intendere che il risultato sarebbe stato senza conseguenze sulle grandi opzioni strategiche che vengono ormai decise a livello sovranazionale. Molti dei loro esponenti pensano che la scelta era tra rendere più efficiente e produttivo il “sistema Italia” o non farlo; nel primo caso avremmo occupato a giusto titolo un posto nelle sedi decisionali (non soltanto europee), nel secondo caso saremmo rimasti emarginati ma comunque nell’impossibilità di uscire realmente dalla rete complessa di interessi incrociati che ormai sovrasta tutte le nazioni occidentali. E se sbagliassero? Anche a Londra pensavano così e poi è arrivata la Brexit.

Franco Chiarenza
5 marzo 2018

Premesso che chi è liberale o per lo meno si considera tale non dovrebbe mettere in discussione lo stato di diritto e l’economia di mercato che rappresentano i capisaldi fondamentali di ogni democrazia liberale e dovrebbe inoltre essere consapevole che populismo, demagogia, culto del leader, rifiuto dell’equilibrio tra i poteri dello Stato sono estranei alla cultura liberale.
Considerando altresì che una visione moderna del liberalismo non nega l’esistenza e l’urgenza di una questione sociale che ha assunto con la globalizzazione dei mercati aspetti preoccupanti ma rifiuta soluzioni assistenziali di breve respiro che aggravano il problema anziché risolverlo cercando di conseguenza di affrontarla attraverso interventi strutturali.
Propongo agli elettori liberali alcuni profili che dovrebbero distinguere le liste e i candidati da scegliere:

  1. devono considerare l’Europa non un problema ma un’opportunità che fino ad oggi ha consentito grandi vantaggi per la crescita e la stabilità del Vecchio Continente. E che quindi la sua unità vada ulteriormente rafforzata per trasformare anche l’Europa in un soggetto politico in grado di governare i processi di globalizzazione insieme alle altre grandi potenze protagoniste come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia.
  2. siano convinti che per risolvere il problema della disoccupazione (e specialmente di quella giovanile che ha raggiunto percentuali inaccettabili) occorrono misure che incoraggino gli investitori italiani e stranieri a creare nuove imprese; non quindi incentivi a pioggia e di carattere transitorio ma invece diminuzione degli oneri fiscali e previdenziali e provvedimenti che semplifichino gli iter burocratici, rendano più veloce la giustizia civile, ridimensionino la giustizia amministrativa (i famigerati TAR), privilegino percorsi scolastici più aderenti alla domanda del mercato, migliorino le infrastrutture essenziali come ferrovie, strade e porti. Sapendo che se si vogliono evitare le speculazioni dei falsi imprenditori che incassano gli incentivi e spariscono appena questi vengono meno occorre garantire agli imprenditori seri che impegnano capitali propri la certezza del diritto e condizioni fiscali e strutturali che non cambino continuamente mettendo a rischio gli investimenti compiuti.
  3. siano esigenti nel pretendere l’osservanza della norma costituzionale che prevede per le assunzioni nel settore pubblico il superamento di un regolare concorso, limitando le eccezioni a poche limitate figure professionali rigorosamente previste dalla legge.
  4. siano convinti che la riduzione del debito pubblico rappresenta una priorità inderogabile per garantire la stabilità finanziaria e la credibilità internazionale del Paese. E che quindi tutte le risorse provenienti dalle inevitabili privatizzazioni dei servizi meno efficienti e dalle cessioni di patrimonio pubblico debbano essere destinate a tale obiettivo.
  5. reputino che l’intervento dello Stato debba essere concentrato su pochi essenziali obiettivi strategici, eliminando attraverso una seria revisione della spesa le dispersioni del danaro pubblico per finalità clientelari: oltre quindi alle infrastrutture dei trasporti anche e soprattutto la razionalizzazione della spesa sanitaria e la promozione di reti di comunicazione ad alta capacità in grado di ridurre il gap che ancora separa il nostro Paese da altri paragonabili per importanza.
    Per quanto riguarda i necessari interventi assistenziali la sensibilità sociale dei liberali non soltanto li ritiene doverosi ma li vorrebbe più efficienti e soprattutto più trasparenti e controllabili; da qui l’esigenza di tracciare confini netti tra spesa previdenziale e assistenza sociale, stabilendo i rispettivi limiti e competenze. In tale contesto rientra anche l’opportunità di rivedere l’intero sistema delle indennità di disoccupazione in modo da renderlo più giusto, relativamente omogeneo e integrato con le offerte di lavoro che si presentano sul mercato.
  6. siano consapevoli che la riduzione dei costi della politica, pur non essendo certamente sufficiente a raccogliere le risorse necessarie per far fronte agli squilibri sociali, rappresenta una priorità in quanto costituisce uno dei principali motivi di delegittimazione della democrazia parlamentare. La corruzione diffusa ad ogni livello della pubblica amministrazione insieme alla difesa di privilegi anacronistici, al di là della loro effettiva consistenza, sono percepite dalla pubblica opinione come una questione morale che incide fortemente sul prestigio e la credibilità della classe dirigente divenendo la ragione principale del diffuso consenso che incontrano movimenti di protesta che su tale innegabile realtà riescono ad aggregare le molte ragioni di disagio che disorientano l’elettorato.
  7. siano disponibili a esaminare con criteri oggettivi e senza prevenzioni ideologiche una riforma fiscale fondata sulla flat tax. Se un’aliquota unica adottata nei tempi e nelle modalità proposte da Nicola Rossi (noto per essere sempre stato un economista di sinistra) consentisse di rendere più attrattivo il nostro Paese per gli investimenti aumentando in tempi ragionevoli il gettito fiscale e asciugando in gran parte l’evasione prodotta dal lavoro nero non ci sono ragioni per non prenderla in considerazione. E’ noto infatti che – insieme ai costi energetici – la pressione fiscale rappresenta uno dei principali disincentivi agli investimenti.
  8. siano consapevoli che l’immigrazione irregolare risponde a logiche geo-politiche che partono da lontano e produce conseguenze non sempre controllabili ma che vanno anche considerate in prospettiva. Essa pertanto deve essere regolata senza adottare misure di contrasto violente e inumane le quali – a prescindere da ogni considerazione morale – sono inutili e servono soltanto a ingigantire percezioni di pericolo che i dati oggettivi smentiscono. Un’immigrazione regolamentata costituisce invece un’opportunità anche tenendo conto che nel prossimo ventennio la popolazione autoctona italiana subirà una forte contrazione per effetto della scarsa natalità. Sin d’ora si potrebbe, per favorire l’integrazione, riconoscere agli immigrati cresciuti in Italia che lo richiedano il diritto di ottenere la cittadinanza italiana al compimento della maggiore età, mentre si dovrebbe consentire il diritto di voto nelle elezioni amministrative a tutti i residenti contribuenti anche se privi della cittadinanza.
  9. esprimano chiaramente contrarietà a rimettere in discussione riforme utili come quella pensionistica (legge Fornero), il job act e la riforma scolastica, le quali non soltanto si sono rese necessarie per contenere la crescita esponenziale del debito pubblico, per far fronte all’aumento della longevità e per adeguare le tutele dei lavoratori a modelli produttivi più flessibili, ma soprattutto si muovono nella direzione della modernizzazione della società civile rendendola compatibile con la competizione internazionale. Il che naturalmente non significa che talune modifiche non possano essere apportate per ridurne alcune ricadute che hanno dimostrato la loro criticità, purché esse non ne compromettano l’impianto complessivo.
  10. considerino utile la introduzione di un servizio sociale obbligatorio per i giovani di entrambi i sessi (anche di durata limitata) dopo il compimento della maggiore età, con la finalità – tra l’altro – di rafforzare i sentimenti di solidarietà e di partecipazione che costituiscono il fondamento dell’identità nazionale.
  11. siano favorevoli a modificare – almeno per una delle Camere – la legge elettorale in senso uninominale (secco o con ballottaggio) inserendola nella Costituzione per far cessare lo scandalo, unico in Europa, di regole elettorali continuamente variate in relazione ad interessi contingenti di partito (veri o presunti). Soltanto i sistemi uninominali infatti sono in grado di rispondere in qualche misura al crescente distacco tra elettori ed eletti, di semplificare le scelte elettorali e di assicurare la governabilità.
  12. siano disponibili infine a prendere in considerazione alcune modifiche costituzionali che si rendono necessarie cercando su di esse il più ampio e trasversale consenso possibile. E precisamente:

– soppressione del CNEL, da tutti ritenuto inutile, almeno nella sua attuale struttura.
– riforma del Senato in grado di attenuare il bicameralismo “perfetto” oggi esistente, senza ricorrere a misure drastiche e di difficile applicazione come quelle proposte nella riforma Renzi.
– riscrittura del titolo V (Regioni) riducendo al minimo le competenze concorrenti tra Stato e Regioni e eliminando i duplicati di spesa (e di burocrazia) che appesantiscono i costi delle Regioni. Con l’occasione si dovrebbe introdurre per tutte le Regioni (eventualmente ridisegnate e ridotte di numero) il principio di autonomia fiscale almeno per una quota rilevante delle risorse prodotte sul territorio, facendo così venir meno gli inaccettabili privilegi fiscali delle Regioni a statuto speciale che – con la sola eccezione della Provincia autonoma di Bolzano (e forse della Valle d’Aosta) – possono essere tranquillamente eliminate.
– riforma delle Province che possono essere mantenute come consorzi di Comuni all’interno delle Regioni.
– introduzione della distinzione organica tra magistratura inquirente e giudicante in ossequio al principio del “giusto processo” e della terzietà dei giudici che è alla base del processo accusatorio.

Troppa grazia sant’Antonio? Forse. Ma basterebbe, come per i dieci comandamenti cristiani, almeno avvicinarsi un po’. La perfezione non è di questo mondo, figurarsi se lo è per i liberali. Proposte discutibili anche in un’ottica liberale? Forse, ma almeno proviamo a discuterne.

 

Franco Chiarenza
7 febbraio 2018

Quella gloriosa L che al centro della sigla PLI campeggiava nel tricolore del glorioso partito fondato da Croce ed Einaudi dopo la seconda guerra mondiale significava appunto “liberale”.
Durante la prima repubblica il partito ha subito cambiamenti, trasformazioni, scissioni, ricomposizioni. Sempre però tenendo ferma la distinzione tra cultura liberale e nazionalismi conservatori (talvolta reazionari) che del simbolo liberale tentavano di impadronirsi; lo stesso Malagodi, che certo progressista non era, rifiutò sempre le ambigue offerte per la creazione di una “grande destra” con i missini e gli ex-monarchici, ribadendo più volte che un partito liberale – secondo l’insegnamento crociano – non poteva che collocarsi al centro dello schieramento politico. Nella seconda repubblica I liberali, si sono divisi nella scelta di campo scommettendo su due illusioni: quella di chi credeva nel “partito liberale di massa” promesso da Berlusconi, e l’altra, opposta ma non meno infondata, di chi pensava che sotto le fronde dell’Ulivo ci fosse spazio sufficiente per una cultura politica liberale. I nomi li ricordiamo tutti (almeno quelli della mia generazione e di quelle immediatamente successive): Martino, Biondi, Urbani, Pera nel primo caso; Zanone, Marzo, Morelli nel secondo. Un caso a sé ha rappresentato la decisione di Stefano De Luca il quale, raccogliendo il simbolo massacrato del partito, ha tentato di tenerlo in vita con equilibrismi non sempre compatibili con la sua tradizione.

Salvini liberale?
Leggo ora sui social network che il PLI presenterebbe suoi candidati nella Lega di Salvini. Spero di essere smentito ma non mi faccio illusioni. Dopo avere pericolosamente attraversato alleanze con Berlusconi e con la Meloni non mi stupisce questo nuovo approdo del PLI. Ognuno fa le sue scelte e chi è liberale rispetta sempre quelle degli altri anche quando non le condivide. Ma non posso evitare di esprimere la mia profonda amarezza nel vedere un simbolo che ha contrassegnato il mio impegno giovanile finire confuso con un partito come la Lega che di liberale non ha nulla, non solo per la sua storia ma anche per le caratteristiche programmatiche che Salvini gli ha imposto: contro l’Europa sovranazionale, contro l’apertura dei mercati, contro gli immigrati (con evidenti connotazioni razzistiche), contro la riduzione del debito pubblico.
Senza scomodare Zanone che si è fatto cremare, temo che Einaudi, Croce, Malagodi, Martino (Gaetano), e tanti altri si rivolterebbero nella tomba, non per altro, soltanto per non guardare.

 

Franco Chiarenza
1 febbraio 2018

Il panorama elettorale, per esso intendendo quali sono le reali possibilità di scelta degli elettori, si presente ormai definito. Partendo da sinistra: “Liberi e Uguali” che, sotto l’ombrello rassicurante di Grasso e Boldrini, raccoglie l’estrema sinistra e gli anti-renziani che hanno abbandonato il PD; il partito democratico al quale sono associate componenti significative come i radicali di Emma Bonino e i post-democristiani di Casini; il movimento cinque stelle, sempre più centrato sulla leadership di Di Maio; “Forza Italia” che, sotto le ali del sempre vegeto Berlusconi, raccoglie di fatto anche i contributi della cosiddetta “quarta gamba” della destra (e quindi personaggi come Parisi, Fitto, Tosi e altri profughi di varia provenienza); la Lega ex-lombarda, ex-nord, ora semplicemente Lega come Salvini l’ha voluta; “Fratelli d’Italia” guidata energicamente da Giorgia Meloni alla testa di nostalgici vecchi e nuovi dell’estremismo di destra, ieri nazionalista oggi “sovranista” (che è poi la stessa cosa).

Quali differenze?
A sinistra renziani e anti-renziani sono divisi da contrasti personali che appaiono più forti di quelli – che pure esistono – programmatici. Questi ultimi comunque in sostanza si riducono alla difesa delle leggi più importanti varate dal governo Renzi (in particolare job act e buona scuola) che l’estrema sinistra vorrebbe abolire o comunque rivedere profondamente; per il resto si respira un po’ più di demagogia spendereccia sotto le ali di Grasso piuttosto che in quelle del PD, ma nulla di irrimediabile. Sulle grandi questioni (Europa, riduzione del disavanzo, incentivi fiscali per promuovere gli investimenti) non ci sono differenze incolmabili.
Al centro si sono prepotentemente insediati i grillini. Il loro programma però, per le poche cose effettivamente realizzabili, appare più compatibile con quelli delle sinistre che non con la destra (almeno nella versione berlusconiana); Di Maio può strumentalmente schiacciare l’occhio a Salvini ma non potrebbe mai farlo con Berlusconi senza rischiare la scomunica di Grillo e il linciaggio mediatico dei pentastellati. Saranno certamente l’ago della bilancia e tuttavia è improbabile che il presidente della Repubblica affidi un incarico – anche soltanto esplorativo – a un candidato premier che non si proponga di raggiungere un accordo di maggioranza; con il partito democratico quindi Di Maio dovrà trattare e non sarà una passeggiata (anche per la scarsa propensione di Renzi a governare con Grillo).
A destra Berlusconi è riuscito a mettere insieme un programma comune con Salvini e Meloni, ma, contrariamente a quanto accade a sinistra, le differenze sono profonde soprattutto sulle grandi tematiche del futuro: a cominciare dall’Europa, per continuare con la riduzione del disavanzo, con la politica dell’immigrazione e via continuando con la “cancellazione” della riforma Fornero ed altre amenità che costituiscono il nocciolo duro del programma dell’estrema destra. E’ difficile immaginare che una coalizione così eterogenea possa durare dopo le elezioni (e molti indizi fanno ritenere che non lo pensino nemmeno loro; ma gli indizi non sono prove e il potere rappresenta un collante da non sottovalutare).

Noi liberali: che fare?
Di fronte a tale panorama è difficile per chi è liberale orientarsi. Il liberalismo – quello vero – è per noi merce d’importazione: in questo momento soprattutto dalla Francia. Ma poiché per Macron non si può votare l’unica soluzione è quella di individuare all’interno dei contendenti coloro che per formazione, per convinzione, per esperienze fatte, danno le maggiori garanzie di volersi spendere per “liberalizzare” la nostra società; ce n’è probabilmente in tutti gli schieramenti.
Non certo Grasso, esponente massimo del giustizialismo politicamente orientato che dello stato di diritto è l’antitesi; e nemmeno molti dei suoi compagni di squadra. Ma Bersani, per esempio, pur provenendo dal marxismo militante, è stato il ministro che più di ogni altro ha ridimensionato la presenza pubblica nei servizi attraverso l’ultima deregolamentazione che si ricordi; depurato dall’astio anti-renziano e dalla subordinazione culturale a D’Alema può persino essere considerato un liberale inconsapevole.
In materia di diritti e in politica estera Renzi è un personaggio ambiguo; ma il sostegno di Emma Bonino e di Paolo Gentiloni garantiscono che non vi saranno derive illiberali. Anche la presenza di Franceschini, il quale, pur provenendo dalla sinistra cattolica, ha introdotto nella gestione dei beni culturali criteri di efficienza e di meritocrazia che non possono dispiacere ai liberali, dimostra che nel partito democratico è possibile incuneare principi compatibili con una moderna cultura liberale.
Nella palude di arrivisti, demagoghi, populisti, affaristi che si sono scoperti grillini e che Di Maio sta cercando ansiosamente di prosciugare a suo vantaggio per trasformare il movimento in un partito tradizionale, vi sono certamente alcuni liberali in buona fede. Certe battaglie contro la corruzione e i privilegi di casta della classe politica, insieme alla domanda di semplificazione legislativa, rappresentano storiche richieste della cultura politica liberale e incontrano un comprensibile consenso. Sul resto è confusione, ma nella nebbia che ne consegue qualche fendente “liberale” potrebbe andare a segno.
“Forza Italia” nacque venticinque anni fa dall’illusione di creare anche in Italia un “partito liberale di massa”. Il Berlusconi che oggi si propone come salvatore d’Italia è lo stesso che ha contribuito invece alla sua decadenza per non averne mai seriamente affrontato i nodi strutturali che facevano del nostro Paese l’ultima repubblica sovietica: il suo modello non è mai stato il bilanciamento dei poteri di Montesquieu ma piuttosto il potere autoritario e populista di Putin. E’ paradossale ammettere che i destini post-elettorali saranno probabilmente nelle sue mani; ma bisogna prendere atto che con lui, ancora una volta, si sono schierati alcuni autentici liberali che pensano di arginare la deriva populista di destra affidandosi alla saggezza senile del signore di Arcore.
Per quanto riguarda la Lega è difficile trovare in un partito “anti” (tenuto insieme soltanto dall’odio per gli immigrati, da un demagogico anti-europeismo e da una rozza avversione alla riforma Fornero assurdamente imputata di tutte le difficoltà dei pensionati) qualche spirito liberale. Ma tutto è possibile. L’imprevisto smarcamento di Maroni dimostra che anche nella Lega qualcosa si muove e non tutto si identifica con la demagogia di Salvini.
Persino la Meloni non ha trovato difficoltà ad allearsi in alcune elezioni locali (tra cui le amministrative a Roma) con il piccolo partito liberale di De Luca, sostenendo che i veri liberali sono loro – i Fratelli d’Italia – confondendo il nazionalismo conservatore con il liberalismo e cercando nell’avversione all’esistente una ragione di improbabili confluenze politiche e culturali.
Come sempre tutto sta nell’intendersi sul significato delle parole.

Astensione?
L’astensione sarà prevedibilmente massiccia. Ma non è una soluzione liberale.
Chi crede che una democrazia liberale rappresenti ancora l’unico modello di governabilità in grado di garantire insieme il rispetto della volontà popolare (anche quando non piace) e il mantenimento dello stato di diritto che i nostri progenitori ci hanno trasmesso, non può rifugiarsi nell’astensione.
Resto sempre dell’idea che votare è un diritto e non un dovere; ma anche se non può essere trasformato in un dovere giuridico resta sempre un dovere morale al quale i liberali non dovrebbero sottrarsi. Anche quando la tentazione è forte. Bisogna fare come diceva Montanelli: il 4 marzo turarsi il naso e andare a votare.

 

Franco Chiarenza
29 gennaio 2018

La legislatura si è conclusa. Qual è il bilancio che ne trae il liberale qualunque? Ombre e luci, naturalmente, da cui trarre come sempre qualche insegnamento.

Nel nome di Renzi
Anche se la vittoria delle precedenti elezioni è stata solo parziale non vi è dubbio che la legislatura si è svolta all’insegna del partito democratico e del programma riformista disegnato da Renzi e dal suo gruppo nel convegno fiorentino della Leopolda. Quanto di quel programma, che aveva convinto parti importanti dell’opinione pubblica e che il “liberale qualunque” (depurandolo di qualche smagliatura demagogica e velleitaria) aveva sostanzialmente condiviso, è stato realmente realizzato?
Alcune cose sono state fatte: mi riferisco sostanzialmente alla riforma della legislazione del lavoro (il cosiddetto jobs act) e alla riforma della scuola; entrambe parziali e insufficienti ma abbastanza orientate in senso liberale. La prima per la diminuzione dei vincoli e una maggiore flessibilità, condizioni necessarie per rendere più attrattivi gli investimenti nel nostro Paese e quindi contrastare la disoccupazione; la seconda per avere dato un taglio significativo al precariato dei docenti, avere regolarizzato i concorsi, avere spinto l’ordinamento a ritrovare quei principi di responsabilità e di meritocrazia che sono fondamentali per una concezione liberale della scuola.
Difetti, insufficienze? Molti, ma considerevoli anche le resistenze corporative che, come sempre, hanno trovato nei sindacati (e nella minoranza del PD) un sostegno a oltranza.
A favore dell’azione di governo possiamo mettere un altro paio di cose: la gestione dei beni culturali da parte del ministro Franceschini, il quale è riuscito a scuotere le inerzie di una macchina burocratica farraginosa attuando una riforma che – al netto di polemiche qualche volta pretestuose, talvolta anche fondate per taluni aspetti – ha comunque dato risultati positivi, a cominciare dal rilancio di Pompei e di Caserta. Pure Carlo Calenda ha dato buona prova al ministero dello Sviluppo economico, anche a costo talvolta di prendere le distanze da Renzi. Ad essi va aggiunto Marco Minniti, al quale Gentiloni ha affidato il difficile compito di affrontare e contenere il flusso degli immigrati; una gatta da pelare che l’ex-comunista ha cercato di risolvere con decisione, sollevando naturalmente critiche come avviene sempre per chi fa qualcosa. Sta di fatto che l’ondata degli sbarchi è diminuita, l’intervento (anche militare) italiano in Africa è stato accettato a livello internazionale, e se il processo di stabilizzazione della Libia andrà avanti lo si dovrà anche alla presenza italiana.
Merita inoltre molta comprensione il ministro Padoan per la pazienza di cui ha saputo dar prova dovendo contenere le intemperanze di Renzi e contemporaneamente far quadrare il cerchio di un bilancio su cui grava sempre più pesantemente un debito pubblico che non si riesce a diminuire.

Cosa invece non ha funzionato?
Parrà strano ma ciò che non ha funzionato è stato proprio il leader protagonista di questa stagione – Matteo Renzi – il quale ha dato prova non soltanto di arroganza e di presunzione (difetti che si possono anche perdonare a fronte di risultati positivi) ma soprattutto di incapacità politica. Erratica e sbagliata si è dimostrata la sua strategia di comunicazione, dilettantesca è stata la gestione del patto di non belligeranza con Berlusconi, spavaldamente sottovalutate le opposizioni interne. La riforma costituzionale – che di tutto il disegno renziano doveva rappresentare il punto centrale – è stata portata avanti malissimo: non si è cercato un accordo (anche formale) con l’opposizione (almeno con Berlusconi), e, in mancanza di esso, invece di procedere a piccoli passi (che avrebbero messo in difficoltà gli avversari costringendoli a misurarsi sui contenuti senza consentire la loro aggregazione su pregiudiziali politiche), cominciando dai punti su cui un accordo era possibile (riforma del Senato, soppressione del CNL, revisione dell’ordinamento regionale) si è cercato lo scontro frontale. Questa idea, un po’ “mussoliniana”, di sfidare tutti con la presunzione che bastasse metterci la faccia per travolgere ogni dissenso ha trasformato il referendum sulla riforma costituzionale in un voto su Renzi, il che ha consentito ad ogni forma di opposizione, anche le più diverse tra loro, di sommarsi ai rancori suscitati da una gestione personalistica del governo e di affondare insieme alla riforma lo stesso Renzi.

Nel nome di Gentiloni
Inutile negarlo: Paolo Gentiloni, succeduto a Renzi in punta di piedi con l’umiltà di chi si riconosce nel suo leader e si limita a raccoglierne l’eredità con una discreta e breve ordinaria amministrazione in attesa del ritorno del Capo, ha sorpreso tutti. Ha governato con uno stile opposto a quello del suo predecessore ma non per questo meno efficiente; il suo ministero doveva durare poche settimana ed è arrivato alla scadenza della legislatura, ha assicurato una presenza internazionale dell’Italia dignitosa e meno volubile di quando Renzi pretendeva di guidarla da palazzo Chigi, ha portato a compimento una difficile legge di bilancio stretto tra la pressione pre-elettorale dei partiti e le preoccupazioni della Commissione di Bruxelles. I sondaggi hanno visto progressivamente aumentare il suo gradimento nella pubblica opinione, a dimostrazione che non è poi tanto vero che oggi la politica si debba fare a colpi di twitter e cercando sempre di alzare i toni fino a raggiungere la provocazione.
Gentiloni ha saputo abilmente schivare anche le trappole che Renzi gli ha messo tra i piedi quando ne ha visto crescere la popolarità, a cominciare dall’infelice vicenda della Banca d’Italia; ha dovuto promuovere una brutta legge elettorale con un voto di fiducia del tutto anomalo, ma questo era un prezzo da pagare alle preoccupazioni del partito democratico.

Nel nome di Letta
L’ho messo per ultimo anche se il governo di Enrico Letta, promosso dal presidente Napolitano dopo l’impasse delle elezioni del 2013, è stato il primo della legislatura. Aveva le carte in regola per svolgere una funzione di transizione verso un nuovo assetto istituzionale; una triangolazione tra palazzo Chigi, Quirinale e Nazareno (con Renzi alla segreteria del partito) avrebbe rappresentato una cornice politica e istituzionale in cui incardinare la riforma costituzionale già disegnata per sommi capi dal gruppo di lavoro che il presidente della Repubblica aveva costituito con esperti di diverso orientamento politico. Le modalità della brusca destituzione di Letta nel 2014 sono state rivelatrici dell’arroganza di Renzi e della sua scarsa attitudine a rispettare le regole del pur necessario “galateo” istituzionale; nella sua voglia infantile di rottamare il passato il sindaco di Firenze ha rischiato di rottamare il Paese, e comunque ha finito per rottamare se stesso.

 

Franco Chiarenza
7 gennaio 2018

Lo si dice sempre tutti gli anni. Tuttavia quello che è iniziato sarà davvero importante, non soltanto per le elezioni italiane, le quali, al di là del tradizionale teatrino a chi la spara più grossa, rivestono nel contesto europeo un rilievo indiscutibile, ma soprattutto per i cambiamenti che porterà negli equilibri internazionali. Vediamo.

Stati Uniti
La linea politica di Trump tesa a disfare a colpi di maglio la complessa rete di relazioni internazionali che aveva consentito a tutti i suoi predecessori di inserire l’egemonia militare americana in un contesto di crescita globale mantenendo una funzione se non di guida quanto meno di arbitraggio obbligato, comincerà a far sentire i suoi effetti negativi. Non produrrà vantaggi economici per gli Stati Uniti (anche se Trump cercherà di dimostrare il contrario) e determinerà turbolenze che i mercati finanziari registreranno con fastidio. La presidenza di Trump appare debole, incerta e sottoposta ad attacchi che ormai non provengono più soltanto dall’opposizione democratica ma anche da estremisti di destra come Bannon, le cui rivelazioni sui rapporti tra la famiglia Trump e il Cremlino non possono che creare sgomento nei settori più tradizionali del partito repubblicano. E’ troppo presto per parlare seriamente di impeachment, (anche perché un subentro del vice-presidente Mike Pence è considerato dagli stessi ambienti repubblicani una sciagura peggiore di Trump) ma non bisogna dimenticare che il 2018 è anche l’anno delle elezioni parlamentari di mezzo termine e Trump rischia seriamente di perderle, trasformandosi così in quella che nel colorito gergo politico americano si chiama “un’anatra zoppa”, cioè un presidente non più in grado di dirigere il paese senza un accordo con l’opposizione.

Europa
Per l’Europa l’anno che arriva è davvero cruciale. Il nodo tedesco che l’ha tenuta paralizzata nella seconda metà dell’anno scorso comunque si scioglierà, probabilmente con un nuovo accordo tra democristiani e socialisti o, in caso contrario, con una nuova consultazione elettorale. Le istituzioni di Bruxelles sono da tempo inceppate e occorre un salto di qualità che soltanto Macron e Merkel possono imprimergli anche per affrontare con decisione il problema posto dal gruppo di Visegard (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) che si configura sempre più non soltanto animato da tendenze anti-europee e neo-nazionaliste ma anche pericolosamente incline a adottare forme di governo poco compatibili col modello dello stato di diritto che caratterizza l’Unione. Il tutto in un contesto in cui i radicali cambiamenti che si preannunciano in Medio Oriente richiederebbe una forte presenza europea che certo non può essere assicurata dalla signora Mogherini.

Medio Oriente
La “rivoluzione bianca” intrapresa dal giovane erede al trono dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman per spingere il suo paese verso la modernizzazione utilizzando le rendite petrolifere – sempre più incerte – per incentivare lo sviluppo di un’economia differenziata, abbandonando il regime semi-feudale e l’integralismo religioso wahabita, ha buone probabilità di riuscire perché corrisponde a una forte spinta che arriva dalle zone più urbanizzate del regno saudita (Riyad, Medina, Gedda, Dhahran, ecc.) le quali si riconoscono sempre più in modelli di vita occidentali, dai giovani (che rappresentano la grande maggioranza degli abitanti) e soprattutto dalle donne intenzionate a liberarsi dai vincoli feudali dell’estremismo islamico. In Iran, in modi diversi e circostanze non paragonabili, si assiste a ribellioni che provengono dal basso, spesso tra loro contraddittorie nelle motivazioni e negli obiettivi, ma che dimostrano la crisi ormai evidente del regime imposto dal clero scita e l’impossibilità di arrestare i processi di trasformazione che, partendo dalla borghesia urbana di Teheran e delle grandi città, stanno modernizzando la mentalità e la cultura dei giovani. In Turchia, fallito il tentativo di agganciare il paese all’Europa, Erdogan sta gradualmente imponendo un regime autoritario personale di stampo islamico che tuttavia deve fare i conti – ancora una volta – con la parte più progredita e attiva della Turchia ormai definitivamente laicizzata e che rappresenta la maggior parte delle popolazioni urbanizzate (soprattutto nella fascia mediterranea) dove si concentrano cultura e ricchezza. In questo rimescolamento di carte che verrà prepotentemente alla luce con la sconfitta definitiva dell’incubo dell’ISIS resta centrale la questione palestinese in tutta la sua complessità ma non vi è dubbio che – ancora una volta – se Trump distruggerà quegli equilibri che il suo predecessore, pur tra molti errori, cercava in qualche modo di garantire (congelamento della questione di Gerusalemme, graduale revoca delle sanzioni all’Iran, delegittimazione di Assad, questione curda, ecc.) si apriranno scenari inquietanti dominati da una grande instabilità.

Estremo Oriente
Infine vi è l’Estremo Oriente. La minaccia nucleare della Corea del nord si sta rivelando quel bluff che molti avevano previsto; non perché non sia reale ma semplicemente perché conferma il suo carattere strumentale. Kim Jong un, il monarca comunista di Pyongyang, stretto tra una Cina che rafforza sempre più la sua presenza egemonica nell’area del Pacifico, e un’area di influenza occidentale incardinata sul Giappone e sulla Corea del sud, vuol vender cara la pelle. Se Trump avesse fatto meno chiasso una soluzione sarebbe stata trovata prima.
Ma le bravate contrapposte di Kim e di Donald lasciano comunque conseguenze che non possono che preoccupare gli equilibri dell’Estremo Oriente, e, tra queste, fondamentale, l’avvio del riarmo del Giappone; una prospettiva inquietante per la Cina ma anche per altri paesi di quell’area. Realizzandosi la quale l’impero del Sol Levante rimette anche in moto la sua economia ormai statica e caratterizzata da una stagnazione decennale.

Ce n’è dunque abbastanza per non annoiarci neanche nel 2018. Auguri di buon anno.

 

Franco Chiarenza
5 gennaio 2018