Di fronte al problema dell’immigrazione illegale un liberale qualunque – come me – si trova in difficoltà perché (al netto di ogni speculazione elettoralistica) si tratta di una questione complessa che presenta diversi aspetti tra loro non sempre componibili. Ancora una volta cerchiamo di capire, lasciando le opposte faziosità scontrarsi in modi talvolta francamente indecorosi.

Aspetto umanitario
E’ certamente il più importante perché coinvolge vite di uomini, donne e, sempre più spesso, bambini e adolescenti. Esso va però affrontato non soltanto dal punto di vista del salvataggio in mare di quanti sono riusciti a partire (anche perché su questo punto – al di là delle forzature polemiche – tutti sono d’accordo) ma anche in una dimensione più ampia che potremmo definire come politica di deterrenza per contrastare i flussi migratori dall’Africa all’Italia.
Quando si parla di immigrati molti (soprattutto di sinistra) sostengono che la percezione dell’opinione pubblica è più allarmistica della realtà concreta dimostrata dai numeri, il che probabilmente è vero; ma è altrettanto vero che non bisogna alimentare in Africa la percezione opposta che l’Italia rappresenti un porto franco a cui tutti possono approdare, magari volendo proseguire altrove ma restando poi imbottigliati nel nostro Paese dove si disperdono senza meta creando comprensibili timori. Gli smartphone e internet funzionano anche in Africa. Se un addebito va fatto alle ONG è quello di avere – consapevolmente o no – avvalorato questa percezione, incrementando quindi i flussi migratori col seguito spaventoso di morti annegati che ne è seguito. Anche questo è un aspetto umanitario.

Aspetto giuridico
Dal punto di vista giuridico la questione è molto complicata. Si intrecciano norme di diritto marittimo internazionale, legislazione nazionale, trattati europei (tra i quali emerge l’infausto trattato di Dublino), sentenze contraddittorie. In ogni caso comunque appare sensato pensare che se una nave batte bandiera di un paese è alla sua legislazione e alla sua competenza territoriale che ci si debba riferire: se trasporta immigrati dovrebbe essere il paese della nazionalità del natante ad occuparsene. Il trattato di Dublino dice però diversamente (primo porto di accoglienza) e la giurisprudenza della Corte di giustizia europea è ancora in formazione.
Di fronte al rifiuto di tutti i paesi europei di ridiscuterlo, o anche soltanto di accogliere quote significative di emigranti africani, la chiusura dei porti italiani alle navi delle ONG rappresentava forse una misura inevitabile.

Aspetto politico
Il punto più importante per le ricadute elettorali che comporta è quello politico. Mi riferisco alla percezione che ampi strati di opinione pubblica – anche di tradizione liberale – hanno delle possibili conseguenze di un’immigrazione non controllata. Il timore di perdere l’identità nazionale, di vedere messi in discussione principi e costumi che la caratterizzano, di perdere posti di lavoro in una competizione senza regole che penalizza conquiste sindacali faticosamente conquistate nei decenni trascorsi, costituiscono una miscela confusa che desta paura e consente alle forze politiche che la strumentalizza di raccogliere ampi consensi su indirizzi politici repressivi. Non a caso la diffidenza più forte si rivolge contro i musulmani, portatori di una cultura che è considerata alternativa e non compatibile con la nostra.
Il centro- sinistra non ha fatto nulla negli anni in cui ha governato per rassicurare la parte più preoccupata dell’opinione pubblica, che non è quella che abita i “quartieri alti” (comunque abbastanza indenni da possibili contaminazioni), ma piuttosto le grandi periferie dove il confronto è immediato e quotidiano e la presenza degli immigrati è vissuta come un ulteriore elemento di disagio. Si poteva fare diversamente? Certamente sì a cominciare dal dissuadere gli oltranzisti del “multiculturalismo” a promuovere iniziative inconsulte che vengono lette come una rinuncia alle nostre tradizioni culturali (e religiose) per “venire incontro” alle suscettibilità degli immigrati non cristiani, consentendo così alla destra più reazionaria di brandire con successo i principi dell’identità culturale e del primato nazionale. L’integrazione non può essere intesa come rinuncia all’identità ma deve essere gestita come assimilazione: chi vuole restare in Italia deve accettarne le regole esistenziali, cominciando da quelle che definiscono i diritti e i doveri di cittadinanza nel pieno rispetto dei principi etici in cui noi ci riconosciamo. Per questo la battaglia del centro-sinistra per concedere la nazionalità automaticamente a tutti coloro che sono nati in Italia e che frequentano le nostre scuole, e magari sono figli di immigrati che intendono invece mantenere la loro nazionalità, è stata percepita come una forzatura ideologica; diverso sarebbe stato prevedere al compimento della maggiore età il diritto di acquisire la nazionalità. Parità di diritti alle prestazioni sociali (che può essere collegata alla residenza) e nazionalità sono cose diverse.

Accoglienza
La politica dei rimpatri degli immigrati irregolari è inutile, dannosa e difficilmente praticabile.
Inutile perché non serve ad eliminare il problema, dannosa perché respinge gli immigrati verso un destino inumano e talvolta drammatico, difficilmente praticabile perché per rimpatriare occorre il consenso del paese da cui provengono ed è molto difficile ottenerlo. Si pone quindi il problema dell’accoglienza per quelli che già si trovano in Italia (e per i pochi che ancora arrivano) e su questo i governi passati e quello attuale hanno grandi responsabilità. Essa è stata organizzata male senza un progetto organico, determinando nel Paese situazioni diverse a macchia di leopardo, senza mettere in funzione un sistema efficiente di identificazione che consentisse di separare gli aventi diritto all’asilo da quelli che non ne avevano titolo. Non si è modificata la legge Bossi-Fini che tutt’oggi impedisce l’integrazione anche laddove è possibile, alimentando lavoro nero e mano d’opera per la delinquenza organizzata. Non si è proceduto a una campagna di sensibilizzazione sui mass-media e sui social-network per contrastare le falsificazioni su cui in buona parte Salvini ha costruito il suo successo elettorale.

Futuro
Ciò che abbiamo detto riguarda l’emergenza del presente. Ma ciò di cui si deve discutere è l’emergenza del futuro quando l’inesorabile calo demografico renderà l’immigrazione non soltanto inevitabile ma assolutamente necessaria, in coincidenza peraltro col problema inverso dei paesi africani per i quali l’emigrazione in Europa è questione di sopravvivenza. Aiutarli a casa loro, come recita un facile slogan, è possibile e doveroso ma non basterà, almeno per qualche decennio, ad eliminare il fenomeno, come dimostra la storia della nostra emigrazione che si esaurì soltanto quando il tenore di vita in Italia si avvicinò in maniera significativa a quello dei paesi destinatari.
In proposito però bisogna essere chiari: il problema non è soltanto italiano ma piuttosto europeo e gli altri paesi del vecchio continente lo sanno benissimo; se c’è qualcuno lassù che pensa di fare dell’Italia una zona-cuscinetto che si assume per conto degli altri la funzione di filtro dell’immigrazione proveniente dal Mediterraneo (come si è fatto con la Turchia per l’immigrazione dal Vicino Oriente), magari anche pagandone i costi, occorre che sappia che l’opinione pubblica italiana, innervosita e arrabbiata, non lo consentirà mai, anche a costo di uscire dall’Unione Europea. Le soluzioni sono altre e costituiscono l’impegno più gravoso della nuova legislatura del parlamento europeo che inizierà alla fine dell’anno.
Si tratta di una sfida che i partiti europeisti devono vincere nei confronti dei nazionalisti e degli isolazionisti dei propri paesi, senza ipocrisie. Occorre riaprire le frontiere in Europa, affrontare i problemi dell’immigrazione con strumenti sovranazionali, disegnare una grande politica per l’Africa mettendo in gioco ingenti risorse economiche, le diverse eredità storiche, le influenze culturali ancora forti, per stabilizzare le democrazie africane e arginare le spinte neo-colonialiste della Cina (delle quali – chissà perché – Di Battista, preoccupato soltanto di quelle francesi, non parla mai).
Se ne discute poco, anche tra gli europeisti; sarebbe il caso di cominciare.

 

Franco Chiarenza
13 febbraio 2019

 

L’11 febbraio ricorre il novantesimo anniversario della firma dei patti lateranensi e del concordato, un insieme di accordi tra lo Stato italiano e la Santa Sede meglio conosciuti come “Conciliazione”.
Ricordarlo, e valutare al contempo qual è oggi la situazione dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa cattolica, sembra opportuno. Almeno per un liberale.

11 febbraio 1929
Cosa avvenne in quel giorno quando Benito Mussolini, capo del governo italiano, e il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato della Chiesa cattolica, sancirono la conciliazione tra il regno d’Italia nato dal Risorgimento e la Chiesa romana che da quell’evento era stata privata del suo secolare dominio temporale su vaste regioni della penisola?
Non è questa la sede per raccontare e interpretare per l’ennesima volta un evento su cui si è nel tempo accumulata una pubblicistica esauriente; basta ricordare alcuni punti essenziali.

  1. il Concordato fu possibile con il fascismo mentre non riuscì mai con i governi liberali (che pure lo avevano cautamente cercato) perché potè configurarsi come un patto tra due assolutismi, quello religioso e intollerante della Chiesa di allora (ancora condizionata dal “Sillabo” di Pio IX) e quello politico che il fascismo stava consolidando in Italia. Il riconoscimento del cattolicesimo come “religione di Stato” e il giuramento di fedeltà dei vescovi allo Stato italiano ne rappresentano l’elemento emblematico.
  2. la Chiesa otteneva col Concordato non soltanto una posizione privilegiata ma soprattutto il rovesciamento del principio cavourriano “Libera Chiesa in libero Stato”. Il fascismo riceveva una legittimazione politica e morale che rafforzava le deboli basi costituzionali su cui poggiava essendo ancora vigente lo Statuto del 1848. Mussolini diventava così nelle parole del papa “un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale”.
  3. lo Stato versò a vario titolo alla Chiesa una somma considerevole che ha costituito la base dei privilegi economici e fiscali su cui il Vaticano ha costruito il suo potere finanziario sovranazionale.

26 marzo 1947
L’Assemblea costituente eletta l’anno prima per redigere la nuova Costituzione approvava dopo un’aspra discussione l’articolo 7 che incorpora i patti lateranensi nel testo costituzionale malgrado le evidenti contraddizioni con i principi costituzionali, lasciando aperta una finestra a una possibile revisione soltanto col consenso della Chiesa. I comunisti sorprendentemente votarono a favore e il loro consenso fu determinante. Si trattò, visto col senno di poi, di una prova generale del compromesso storico in salsa togliattiana. Il leader comunista sapeva che una presenza comunista nel governo di un Paese allora profondamente cattolico, priva dell’”assistenza” dell’armata rossa (che era stata determinante in altri paesi dell’Europa orientale), sarebbe necessariamente passata attraverso un accordo con la Chiesa; intesa fattibile perché fondata su una comune avversione ai principi della democrazia liberale occidentale e a una possibile convergenza su politiche economiche dirigiste a forte contenuto sociale. Contava molto nell’atteggiamento comunista anche la consapevolezza che il voto femminile, molto condizionato in quegli anni da preoccupazioni di ordine religioso, potesse indebolire la posizione elettorale dell’estrema sinistra.

18 febbraio 1984
Passarono 37 anni prima che finalmente un governo italiano ponesse con decisione il problema di una revisione del Concordato che eliminasse almeno le clausole più anacronistiche del trattato. Il nuovo Concordato fu firmato a villa Madama da Bettino Craxi e dal cardinale Agostino Casaroli; si trattò naturalmente di un compromesso che peraltro eliminava alcune assurdità come il riconoscimento di religione di Stato al cattolicesimo, la riduzione di alcuni privilegi ecclesiastici e la non obbligatorietà dell’insegnamento della religione nelle scuole. Apprezzabile apparve anche il nuovo sistema di finanziamento del sostentamento del clero posto, almeno in linea di principio, ai contribuenti che destinavano l’8 per mille dell’imposta a tal fine (principio poi esteso ad altre confessioni religiose). Purtroppo l’attuazione concreta delle nuove norme mostrò tutta la sua ambiguità: l’8 per mille fu calcolato sull’intero ammontare delle entrate tributarie, consentendo alla Chiesa di incassare centinaia di milioni, l’insegnamento della religione cattolica è restato prevalente per la resistenza dei ministri che si sono succeduti alla pubblica istruzione di istituire corsi alternativi, l’immenso patrimonio immobiliare della Chiesa è stato praticamente esentato dalle tasse (fino a quando, un anno fa, è intervenuta in proposito la Corte di giustizia dell’Unione Europea).

Oggi
Sono passati altri 35 anni. A che serve ancora un Concordato, non sarebbe ora di abolirlo e di mantenere nella sua essenza liberale e pluralista soltanto l’articolo 19 della Costituzione? L’Italia è profondamente cambiata, è un paese secolarizzato in cui la questione religiosa ha perso buona parte della sua rilevanza, il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, con la definitiva costituzione di uno Stato della Città del Vaticano, non si pone più in termini conflittuali. Anche la Chiesa è cambiata: con il Concilio Vaticano II (che ha legittimato il pluralismo religioso) e soprattutto con le encicliche di Giovanni XXIII ha definitivamente abbandonato le posizioni illiberali e oltranziste che avevano caratterizzato il Concilio Vaticano I (interrotto il 20 settembre 1870 dall’irruzione dei bersaglieri nella città). La successiva elezione di pontefici non italiani ha accentuato la dimensione planetaria del suo magistero e ha diminuito la pressione temporale che continuava a esercitare sul nostro paese e la presenza cattolica, ormai minoritaria, è sentita soprattutto come attività assistenziale.
A che serve dunque un Concordato? Un papa come Bergoglio, molto attento a restituire alla Chiesa una dimensione morale e spirituale, dovrebbe essere il primo a rendersi conto che l’esistenza di accordi privilegiati con gli Stati – perchè tale è l’essenza dei Concordati – non ha alcuna ragione di essere se davvero la Chiesa intende ridurre la sua dimensione temporale.
Consegniamo dunque alla storia per sempre la “questione romana” con tutte le sue evoluzioni. Mai come oggi Stato e Chiesa sono indipendenti, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, come recita l’apertura dell’articolo 7; il resto è superfluo e dannoso a entrambi.

 

Franco Chiarenza
11 febbraio 2019