Era un “corpo estraneo”, mi dicevano sempre gli amici del PD. Ma era vero fino a un certo punto: non proveniva dalla tradizionale “ditta” dell’ex-PCI ma faceva parte a pieno titolo di quella componente cattolica che era stata dominante nel nuovo partito disegnato da Veltroni. Da un certo momento in poi (con la prima “Leopolda”) si era convinto che per restare in Europa l’Italia dovesse fare un passo decisivo per superare la tradizione dirigista e tendenzialmente egualitaria della sinistra e adottare una politica più “liberal” (nell’accezione anglosassone del termine). Era un progetto intelligente di modernizzazione del Paese (già delineato da Veltroni nel famoso discorso del Lingotto nel 2007) che aveva sedotto molti liberali e trovato ampi consensi nel mondo delle piccole e medie imprese, e che lo ha portato fino al grande successo elettorale delle europee del 2014. Poi il crollo dovuto a molte ragioni, tutte ampiamente rilevate e discusse dalla pubblicistica politica: eccesso di autoreferenzialità, tentativo di modificare la Costituzione condotto male e affidato all’incompetenza della Boschi, riforme anche incisive ma varate contemporaneamente creando una coalizione di interessi contro il suo governo, pessima strategia di comunicazione, atteggiamenti scostanti. Un disastro.
Da allora Renzi invece di attendere pazientemente costruendosi una nuova immagine e rilanciando il progetto – sempre valido – di Veltroni, ha dato di sé l’immagine di un bambino scontroso e incompreso, dispettoso e pronto a vendicarsi. Un altro disastro.
Infine, dopo avere minacciato una scissione dopo le elezioni del 2018 se il PD avesse accettato di costituire un governo con Grillo, ha cambiato idea l’anno successivo entrando a gamba tesa nel varco che si era creato con la frattura tra Di Maio e Salvini, costringendo Zingaretti a un difficile accordo mal digerito da entrambe le basi (e ottenuto soltanto per l’impuntatura di Grillo).
E adesso che fa? Nel momento meno opportuno, due giorni dopo il giuramento dei nuovi ministri, precipita i tempi di una scissione che era nell’aria già da tempo. Precisando però che la sua adesione alla nuova maggioranza di governo resta intatta. Una frittata.
“Italia viva” si chiamerà la nuova formazione; ricorda un po’ “Italia dei valori” di Di Pietro, speriamo che non faccia la stessa fine, Povera Italia sempre evocata con Forza (FI) circondata da Fratelli (FdI), presente in tutte le sigle, assente nelle azioni concrete di governo.

Perchè?
Tutti se lo domandano e tutti danno risposte diverse. Quella di Renzi è di voler fare chiarezza, ma non è una risposta sui tempi e sui modi. E nemmeno sulle diversità che dividono in maniera così drastica i renziani dai democratici. E allora?
A mio avviso le ragioni principali sono due: la prima è quella di indebolire Zingaretti proponendosi come mediatore indispensabile nella nuova maggioranza. Ma potrebbe rivelarsi un calcolo sbagliato se nella nuova mobilità parlamentare (che investe anche la destra con i malumori di Forza Italia) i voti di Renzi non dovessero più essere determinanti.
La seconda ragione si chiama Calenda. Uscendo dal PD su una chiara posizione contraria all’alleanza con i Cinque Stelle Calenda pone seriamente le premesse per una formazione di centro che taglierebbe l’erba sotto i piedi di Renzi. Ma se si continua di questo passo, con l’ennesimo suicidio del centro-sinistra, finirà che si andrà al voto anticipato nelle peggiori condizioni.
Salvini ringrazia. Non è il solo a fare gli autogol.

Franco Chiarenza
18 settembre 2019

Il governo Conte-bis è partito attraversando indenne il coro di contestazioni che la Lega e il partito di Giorgia Meloni hanno inscenato dentro e fuori il Parlamento. Non mi pare che ci siano dubbi che si tratti di un governo debole partorito da una maggioranza parlamentare consapevole di non rappresentare – almeno in questo momento – la maggioranza dell’elettorato. Un governo nato dall’improvvisazione di un leader, forse sopravalutato, come Salvini il quale ha realizzato in pochi giorni uno degli auto-gol più clamorosi della storia repubblicana, consentendo a tutti coloro che gli si oppongono (ivi comprese le cancellerie europee più influenti) di vincere la partita cogliendo a volo l’occasione che si offriva. Resta da capire se l’auto-gol sia stato volontario (come molti sostengono) per non affrontare le scadenze di fine anno, o se invece si sia trattato semplicemente di un errore di valutazione sulla possibilità che i Cinque Stelle, dopo un anno di alleanza cementata dall’avversione al PD e alle istituzioni europee, potessero davvero ancora utilizzare i “due forni” con la stessa disinvoltura che avevano esibito dopo le elezioni del 2018; il che coincide con un’errata conoscenza della galassia pentastellata e del ruolo determinante che in essa vi svolge ancora Beppe Grillo.
Adesso tutto ciò non ha più alcuna importanza. E’ prevedibile che Lega e Fratelli d’Italia faranno un’opposizione senza sconti in attesa di un possibile inciampo che renda necessarie le elezioni, che Berlusconi invece cerchi di occupare uno spazio di “destra moderata e europeista” (compatibilmente con quanto resta ancora del suo elettorato, minato anche dalla scissione di Toti), che sul versante opposto Calenda cerchi a sua volta di creare una formazione di centro-sinistra in grado di raccogliere un elettorato di centro che non si riconosce nel PD e nelle sue tentazioni dirigistiche (chiaramente avvertibili nel programma di governo) e facendo i conti con il protagonismo sempre imprevedibile di Renzi. Quello che conta, adesso, è l’azione di governo.

Che fare.
Al di là di un programma farraginoso e difficilmente realizzabile senza perdere ulteriori consensi, il governo Conte-bis è chiamato a fare poche cose, subito e nel miglior modo possibile.
La prima è sciogliere il nodo dell’immigrazione clandestina nel suo duplice aspetto, quello degli sbarchi (dove si è concentrata l’azione repressiva di Salvini) e l’altro – più importante – della gestione degli immigrati sul territorio. Per risolvere il problema la solidarietà europea è imprescindibile e sembra che finalmente Macron e Merkel abbiano capito che abbandonare l’Italia a un destino di contenitore senza limiti dei flussi migratori dall’Africa è una politica che genera i Salvini e, conseguentemente, mina la stabilità dell’assetto liberal-democratico delle istituzioni comunitarie. Anche la nuova Commissione Von der Leyen pare muoversi nella direzione giusta che è una sola: modificare radicalmente il trattato di Dublino del 1997.
La seconda cosa da fare è l’aggiustamento del bilancio 2019. Anche in questo caso una maggiore propensione degli stati europei e della Commissione a facilitare politiche espansive sembra a portata di mano ma non bisogna illudersi che ciò significhi potere spendere in maniera illimitata aumentando ulteriormente il debito. L’attribuzione a Gentiloni del “dicastero” dell’economia è stata una mossa assai abile della nuova presidente ma non ci aiuta affatto; al contrario ci costringe a fare i conti con le compatibilità europee più di quanto abbiamo fatto fino ad oggi. La reazione positiva dei mercati internazionali alla nascita del Conte-bis costituisce un incoraggiamento a indirizzare la spesa pubblica nelle infrastrutture e in una politica fiscale che aiuti le imprese, evitando misure esclusivamente assistenziali che non risolvono alcun problema strutturale; il che è difficile da far capire ai Cinque Stelle ma anche a una parte del PD imbevuti di una cultura che riduce la socialità a redistribuzione delle (poche) risorse disponibili. Si tratta di un punto cruciale: se i ceti produttivi del nord (che hanno accolto la svolta di agosto con molta perplessità) avvertono di essere ancora una volta nel mirino di una politica fiscale penalizzante si traferiranno in massa sotto l’ala protettiva di Salvini, e sono molti di più e molto più seri delle “folle” di scalmanati in bermuda che hanno festeggiato il leader della Lega in alcune spiagge italiane.
Il terzo punto prioritario, collegato al secondo, è quello di avviare una riforma profonda delle infrastrutture materiali e culturali che rendono il nostro Paese non competitivo. Il lavoro dipende dalle imprese e dalla loro capacità di stare sui mercati nazionali e internazionali; aiutare le imprese in tutti quegli aspetti non salariali che incidono fortemente sulla produttività (costi energetici, complicazioni burocratiche, deficienze nelle strutture territoriali e nei trasporti, mancanza di una formazione di quadri preparati al futuro 4.0, ecc.) è l’unico modo serio di combattere la disoccupazione.
Il quarto punto riguarda il contrasto all’evasione fiscale senza proseguire nella politica dei condoni, immorale prima ancora che inefficace, capace tutt’al più di rastrellare qualche miliardo “una tantum”. Non dovrebbe essere difficile mettere a punto con le nuove tecnologie sistemi di incrocio dei dati in grado di fare emergere, almeno in parte, l’immensa platea sommersa che caratterizza nel nostro paese soprattutto le attività di servizio.
Infine il Mezzogiorno. Continuare nella politica degli aiuti finanziari a chi apre delle attività nel sud si traduce in un inutile spreco di risorse se non è accompagnata da modifiche strutturali profonde (anche salariali e fiscali in questo caso) che rendano convenienti gli investimenti e facciano emergere l’imprenditoria sommersa (che pure esiste); altrimenti gli “aiuti” si prendono e poi si fugge, come è avvenuto innumerevoli volte negli anni passati.

Di tutto il resto, compresa la riduzione dei parlamentari e le modifiche costituzionali che dovrebbero esservi connesse, ne riparliamo tra un anno se il governo sarà ancora in piedi (cosa di cui dubito).

 

Franco Chiarenza
12 settembre 2019

Il secondo Governo presieduto da Giuseppe Conte ha ottenuto la fiducia tanto da parte della Camera dei deputati, quanto dal Senato della Repubblica. Alla Camera i SI sono stati 343, ottanta voti in più rispetto ai NO; al Senato i SI sono stati 169, trentasei voti in più rispetto ai NO.
Il Governo, pertanto, è pienamente legittimato, sul piano costituzionale. Indipendentemente dalle scomposte reazioni manifestate dalla Lega e da Fratelli d’Italia. É veramente mortificante che molti parlamentari delle due destre non sappiano distinguere le Aule parlamentari da uno stadio di calcio. Che non riescano ad ascoltare l’intervento del Presidente del Consiglio, o di altri oratori che dicono cose a loro non gradite, senza continuamente interromperli con urla ritmate, come appunto avviene in uno stadio di calcio. Ma, anche negli stadî, i tifosi che si comportano così sono molesti. Chi urla ossessivamente la parola “dignità”, ma poi dimostra con i propri concreti comportamenti di non avere alcun rispetto per la dignità degli interlocutori, né alcun rispetto per la dignità delle Istituzioni, si rivela per quel che è: un portatore del più volgare e becero spirito antidemocratico.
Si possono esprimere contenuti radicali, radicalissimi, manifestare la volontà della più ferma opposizione, senza che sia necessario, nel contempo, gridare, insultare gli avversari, minacciare che, se gli altri continueranno ad ignorare le proprie tesi, si è pronti a commettere non si sa bene quale sproposito, o quale sfracello. La pace civile è il massimo bene. Affinché perduri bisogna, però, che tutti si preoccupino seriamente di salvaguardare tale valore. Nessuno pensi di poter imporre una linea politica con la violenza. Nessuno pensi di poter contrapporre le piazze al Parlamento. Potrebbe scoprire che, dall’altra parte, non ci sono soltanto miti pecorelle disposte a farsi guidare docilmente, ma persone molto determinate, pronte a lottare per difendere le proprie convinzioni ed i propri valori. Ed allora sarebbe tropo tardi. Resistenza contro il nazi-fascismo. Costituzione democratica repubblicana. Ordinamento rappresentativo improntato ai valori della liberal-democrazia. L’Italia che si è ricostituita dopo la seconda guerra mondiale porta in sé questi tre momenti fondamentali, che contraddistinguono la propria storia. Chi vuole alterare questa fisionomia storico-ideale sappia che non potrà farlo gratis.
Una volta sgombrato il campo da questa premessa, pur necessaria, veniamo a considerazioni più serie ed utili, da rivolgere alle persone ragionevoli.
Quanto all’analisi dei comportamenti delle forze politiche, risultanti dal dibattito parlamentare sulla fiducia, vengono in considerazione le scelte dissonanti di Carlo Calenda (parlamentare europeo) e di Matteo Richetti nel Partito Democratico. Emerge anche la frattura di Più Europa. Dei quattro parlamentari di cui questa formazione dispone, i tre deputati Alessandro Fusacchia, Riccardo Magi e Bruno Tabacci hanno votato SI alla fiducia; invece la senatrice Emma Bonino ha votato NO, in ciò d’accordo con il Segretario politico di Più Europa, Benedetto Della Vedova. Quando si ascoltino i discorsi di Calenda, Richetti, Bonino, sembra che non facciano una grinza sul piano strettamente logico: l’intesa fra il Movimento Cinque Stelle ed il Partito Democratico è stata troppo affrettata e permangono troppi margini di ambiguità perché si possa dare credito al fatto che queste due forze politiche riusciranno a lavorare seriamente insieme, superando un recente passato che le ha viste nettamente contrapposte.
É vero che l’intesa è stata affrettata; ma i tempi stretti sono stati, giustamente, imposti dal Presidente della Repubblica, il quale si preoccupava di mettere al riparo il nostro Paese da una possibile tempesta speculativa nei mercati finanziari, e poneva l’accento sulle procedure per la formazione della legge di bilancio dello Stato, procedure che richiedono scadenze serrate. Cos’è la politica se non la capacità di trovare risposte immediate a problemi gravi, urgenti ed indifferibili? Quando ci sono reali difficoltà e reali urgenze, serve a poco compiacersi della propria coerenza: al diavolo la coerenza e si adottino le misure che servono, nell’interesse superiore dell’Italia, cioè di tutti gli italiani, per evitare guai e danni, altrimenti inevitabili. Bene hanno fatto, dunque, il Movimento Cinque Stelle, il Partito Democratico e Liberi ed Uguali ad adottare una linea di responsabilità, a servizio del Paese. Linea difficile e politicamente rischiosa, certo; ma, nelle circostanze date, inevitabile. Sia dato loro merito.
Si trattava, inoltre, di ripristinare l’armonia fra l’Italia e le Istituzioni dell’Unione Europea. Il nuovo Governo Conte ha immediatamente designato Paolo Gentiloni quale membro italiano della Commissione Europea. Gentiloni sarà commissario per gli “Affari economici e monetari”. La persona è abile ed ha statura internazionale; ottima scelta. Ora alcuni storcono il naso perché, nella medesima Commissione Europea, il lettone Valdis Dombrovskis sarà Vicepresidente esecutivo per l’Economia. Probabilmente, meglio così. In questo modo Gentiloni, che è stato espresso da uno Stato Membro quale l’Italia, che ha oggi serissimi problemi nei conti pubblici, a partire dall’entità del debito pubblico italiano, sarà meno esposto e potrà lavorare più tranquillamente. Anche alla Commissione Europea, guidata dalla tedesca Ursula von der Layen, formuliamo i più sinceri auguri di un proficuo lavoro, nell’interesse di un rilancio delle Istituzioni Europee.
Per tornare a Carlo Calenda, si tratta certo di una persona intelligente, brillante e competente. Purtroppo, gli fa difetto proprio l’intelligenza politica. É rigido e dogmatico. Spesso mi sorprendo malinconicamente a pensare al curioso destino che fa sì che in Italia, proprio fra quanti si professano “liberaldemocratici”, l’intelligenza politica sovente faccia difetto. Altrettanta rigidità ho riscontrato in Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. Peccato per Più Europa, la cui vicenda rischia di chiudersi qui. Ho, invece, molto apprezzato l’intervento del senatore a vita Mario Monti. Il quale non ha risparmiato le sue critiche ed i suoi moniti al nascente Esecutivo, ma poi, con senso di responsabilità, ha votato SI alla fiducia.
Oltre all’avvio degli adempimenti necessari per la definizione della legge di bilancio, che sarà al centro dell’attività del nuovo Governo Conte, una delle prossime scadenze temporali importanti sarà l’approvazione, in quarta lettura, alla Camera dei deputati, della legge costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari. Al riguardo, anche organi di informazione che dovrebbero essere autorevoli, continuano a riportare cose inesatte.
Mi voglio limitare a ricordare le disposizioni di due articoli della Costituzione. Ai sensi dell’articolo 138, secondo comma, Cost., una legge costituzionale non entra immediatamente in vigore dopo essere stata approvata.
Viene pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, per fini meramente conoscitivi. A partire dalla pubblicazione decorrono tre mesi, entro i quali si può chiedere che la legge sia sottoposta a Referendum per essere valutata, e confermata, o meno, dall’intero Corpo elettorale. Com’è noto, possono chiedere il Referendum: a) un quinto dei membri di una delle due Camere; b) cinquecentomila elettori; c) cinque Consigli regionali. Di conseguenza, la legge costituzionale entra in vigore: se, dopo tre mesi, non è stato chiesto un Referendum nelle forme e modalità prescritte; oppure quando, dopo lo svolgimento del Referendum, risulti approvata dalla maggioranza dei voti validi. Nel Referendum costituzionale confermativo non c’è quorum di validità; prevale, dunque, la maggioranza relativa dei votanti.
Tutto ciò premesso, nei tre mesi che intercorrono fra la pubblicazione ed il Referendum, le forze politiche hanno il tempo di preparare una legge elettorale conseguente alla riforma costituzionale; così come possono individuare le opportune modifiche dei Regolamenti parlamentari.
L’altra disposizione della Costituzione da richiamare è l’articolo 83, secondo comma, Cost.; questo stabilisce il numero dei cosiddetti “grandi elettori” delle Regioni nell’elezione del Presidente della Repubblica. Si tratta di 58 grandi elettori: tre delegati per ogni Regione, scelti in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze, mentre la Valle d’Aosta ha un solo delegato.
É evidente che, dopo l’approvazione della riforma costituzionale, il peso di questi 58 elettori regionali sarebbe accresciuto: infatti, mentre finora si sono aggiunti al numero di 945 elettori, fra deputati e senatori, dopo la riforma il numero dei rappresentanti del Parlamento scenderebbe a 600. Tale questione, tuttavia, è stata già valutata da chi ha proposto la riforma costituzionale ora in discussione. Si è ritenuto che il rapporto tra i 58 ed i 600 sia comunque accettabile, anche se un po’ più favorevole alle Regioni; tale, comunque, da garantire piena legittimazione al Presidente della Repubblica che sarà eletto da questo Collegio.
Tutti i discorsi di “necessario riequilibrio” delle rappresentanze regionali sono tanto pretestuosi, quanto fumosi. Mezzucci ai quali ricorre chi è contrario alla riforma costituzionale.
Ultimo punto. É, ovviamente, possibile avviare nuove riforme costituzionali, per superare il Bicameralismo paritario, per stabilire in Costituzione il principio della tutela dell’ambiente, e per le mille altre cose di cui in questi giorni si discute. Le nuove riforme costituzionali proposte inizieranno, ciascuna, il proprio iter e avranno la sorte che deriverà dalla razionalità del loro impianto, tale da essere condivisa, o meno, dalle prescritte maggioranze parlamentari. Intanto, però, si approvi definitivamente la riforma costituzionale in discussione. Senza bloccare questa, aspettando quelle.

 

Livio Ghersi
11 settembre 2019

Il secondo governo Conte è nato. Non era questo certamente l’obiettivo di Salvini quando ha scatenato la crisi di Ferragosto. Resta ancora da capire perchè lo abbia fatto; non era difficile prevedere come possibile l’esito che poi si è realizzato. Ma in politica spesso è complicato comprendere le vere ragioni di certe scelte perchè ci sono cose che si sanno e altre che si tengono più nascoste. Certamente però il capo della Lega ha sopravalutato Di Maio ritenendo che potesse svolgere nel suo movimento un ruolo di leadership analogo al suo, mentre una migliore conoscenza della galassia pentastellata avrebbe dovuto indurlo quanto meno alla prudenza; è vero infatti che Grillo si era messo “in sonno” (come si usa dire nella massoneria per gli adepti non attivi) ma restava sempre il possessore delle chiavi (insieme a Casaleggio) pronto ad esercitare le funzioni di padrone di casa. E lo ha fatto senza esitazioni mettendo nell’angolo Di Maio e costringendolo a un’alleanza con il partito democratico che certamente l’uomo di Pomigliano avrebbe preferito evitare. Sottovalutare gli altri competitors è un errore grave per un uomo politico che pretende di governare un paese; soprattutto se si compie due volte di seguito. Anche nel caso dell’Europa infatti ho l’impressione che Salvini abbia sottovalutato la capacità di tenuta dell’establishment europeo e americano (Russiagate) che egli ha sfidato apertamente mettendosi nelle condizioni di non potere gestire i difficili appuntamenti di fine d’anno.

Tutto ciò premesso vediamo dunque (per punti essenziali) il nuovo governo per come io lo vedo.

a) – governo debole

Il nuovo governo appare minato da forti contraddizioni interne, esposto al fuoco di un’opposizione che non gli lascerà tregua, con i Cinque Stelle richiamati continuamente all’esperienza del Conte 1, obbligato a una manovra di bilancio che – anche con una Commissione “amica” – comporterà comunque sacrifici difficilmente mimetizzabili. A ciò si aggiunge una “debolezza politica” costituita dalla risicata maggioranza di cui esso dispone al Senato. Ragioni tutte che inducono a ritenere possibili elezioni anticipate nel 2020, una volta superati i motivi di emergenza che ne hanno giustificato la nascita.

b) – governo equilibrato

Nella sua composizione il governo si presenta abbastanza equilibrato. Di Maio è stato retrocesso agli Esteri, un ministero sempre meno importante da quando le scelte e le presenze internazionali che contano vengono garantite dal presidente del Consiglio (e non soltanto in Italia), come è avvenuto a partire dal governo Monti (e poi con Letta, Renzi, Gentiloni e lo stesso Conte). Franceschini ha preferito spendere la sua esperienza tornando ai Beni Culturali (che invece è un dicastero sempre più importante). Preoccupa un liberale come me l’assegnazione dell’Economia a un personaggio come Gualtieri, certamente competente e serio ma ex-comunista e convinto assertore di un’economia dirigistica; anche se la sua intensa frequentazione delle istituzioni europee e il pragmatismo che ne è derivato gli hanno valso l’endorsement della Lagarde (BCE). Allo Sviluppo Economico (altro ministero-chiave) Di Maio è riuscito a imporre Patuanelli, capogruppo al Senato, probabilmente poco gradito a chi avrebbe preferito una scelta di discontinuità rispetto al passato (anche se proviene da Trieste). Le Infrastrutture, infelicemente governate dal fin troppo noto Toninelli nel precedente governo, sono state assegnate a Paola De Micheli (PD) che sembra avere le carte in regola per dirigere questo importante ministero. Il resto è costituito da conferme (talvolta discutibili come quella di Bonafede alla Giustizia) o da new entries che poco contano ai fini dell’azione complessiva di governo che sarà fortemente condizionata dalla scarsità di risorse disponibili. Un vincolo che purtroppo condizionerà anche il nuovo titolare della Pubblica Istruzione Fieramonti. L’assegnazione del ministero dell’Interno a una funzionaria rigida e competente, estranea ad appartenenze politiche come Luciana Lamorgese è stata una scelta saggia in grado di ammortizzare i prevedibili conflitti che su temi come immigrazione e sicurezza non mancheranno di manifestarsi nella nuova maggioranza.
Infine, importantissima perchè va ben oltre la durata di un governo nazionale, la designazione di Gentiloni nella futura Commissione dell’Unione Europea: una vittoria per il PD che si assicura, dopo l’elezione di Sassoli alla presidenza del parlamento di Strasburgo, una solida presenza nelle istituzioni comunitarie.

c) – programma di governo

Un elenco di 26 propositi e buone intenzioni in cui si auspica tutto e il suo contrario non è un programma di governo. Un serio programma politico indica le priorità (che non possono essere 26) e le risorse per farvi fronte. Quelle indicate al primo punto del programma della nuova maggioranza sono talmente numerose, onnicomprensive e intrinsecamente contraddittorie da essere difficilmente considerate tali. Speriamo che qualcosa di più concreto emerga dal discorso di Conte alla Camera. Ciò non toglie tuttavia che alcuni punti del programma, anche se si tratta di mere enunciazioni, possano preoccupare un liberale come me. I punti 4 e 7 per esempio, pur nella loro confusione dettata da esigenze di “identità politica” e di ricerca del consenso elettorale, prefigurano una concezione dirigistica e punitiva per le imprese di cui certamente il nostro sistema produttivo, già imbrigliato da svantaggi burocratici, fiscali ed energetici che ne minano la competitività, non sentiva la necessità. L’idea, prefigurata nel punto 14, di “promuovere” il pluralismo nell’informazione sembra un ritorno alle sovvenzioni pubbliche che, alla mercè di variabili maggioranze parlamentari, costituiscono una minaccia grave alla libertà di informazione. Per il resto si tratta di un lungo elenco di buone intenzioni (c’è perfino il contrasto al maltrattamento degli animali) di difficile realizzazione, enunciate in maniera ambigua, complessivamente costose oltre ogni limite di compatibilità con un’economia di mercato e con la stabilità finanziaria. Ma naturalmente tutti lo sanno, anche quelli che hanno perso giornate intere a compilarlo; dejà vu. Il programma dell’Ulivo di Romano Prodi di vent’anni fa (300 pagine, se non ricordo male) non ha insegnato nulla?

d) – Quale futuro

Quali siano le cose da fare con assoluta priorità, al di là degli elenchi programmatici, lo sappiamo tutti: 1) ricreare le condizioni di competitività delle imprese attraverso la diminuzione del cuneo fiscale, unico modo per riassorbire la disoccupazione. 2) introdurre meccanismi fiscali di controlli incrociati (oggi facilitati dalle nuove tecnologie) unico modo per ridurre davvero in maniera sensibile l’evasione fiscale. 3) rivedere le politiche sulla sicurezza eliminando alcune asprezze ma mantenendo alcune misure del precedente governo che andavano incontro a una percezione (vera o no poco importa) diffusa soprattutto nelle realtà sociali più disagiate, e in tale contesto promuovere una nuova politica di integrazione basata sull’inserimento territoriale e non su inutili e discutibili battaglie di bandiera come quella della concessione automatica della cittadinanza a chi nasce (anche casualmente) in Italia. 4) affrontare in maniera decisa il problema dell’emersione dell’economia sommersa, strettamente collegato con la questione meridionale, anche attraverso politiche fiscali e contrattuali differenziate. 5) puntare tutte le risorse disponibili sulla riqualificazione della scuola restituendole, almeno ai livelli superiori, quella funzione di selezione meritocratica (per studenti e docenti) indispensabile per assicurare un corretto funzionamento dell’”ascensore sociale”.

Per fare queste cose un governo come il Conte bis non sembra il più adatto per ragioni strutturali e negli obiettivi che sembra volere conseguire. Intendo dire che per realizzare una strategia di lungo respiro occorre un governo di legislatura, fondato su una maggioranza concorde almeno sulle questioni fondamentali, diretto da una personalità seria, affidabile, accreditata a livello internazionale, possibilmente non troppo narcisista (un identikit tutto da scoprire).
Ma non basta. Il nuovo governo, al di là della sua precarietà strutturale, non sembra orientato su queste priorità liberali; al contrario, dalla lettura del suo confuso programma molti hanno tratto la convinzione che si tratti di una vera e propria “svolta a sinistra”. Se così fosse e se il governo si comportasse di conseguenza, si darebbe spazio a una destra moderata in grado di assorbire il consenso di chi non condivide la demagogia della redistribuzione sociale di risorse che non ci sono, associata a un ambientalismo dirigista tendenzialmente fondamentalista.

Staremo a vedere.

 

Franco Chiarenza
6 settembre 2019