Vi ricordate di Gioia Tauro? Almeno i più anziani dovrebbero rammentare la quasi guerra civile che scoppiò in Calabria nel 1971 per lo spostamento del capoluogo regionale a Catanzaro e la pressante richiesta “compensativa” di realizzare nella provincia di Reggio Calabria a Gioia Tauro, al posto degli splendidi e giganteschi ulivi che da secoli erano il vanto di quel territorio, un quinto centro siderurgico sul modello di quello realizzato dall’IRI a Taranto, L’acciaio era considerato fondamentale per lo sviluppo economico e ospitare un’acciaieria era sinonimo di benessere e di piena occupazione. Poi il centro siderurgico non si fece e al suo posto sorse il primo porto attrezzato per i “containers” realizzato in Italia, tuttora esistente.
I tempi cambiano: oggi gli impianti siderurgici sono accolti con ostilità. Prevalgono le preoccupazioni sanitarie ed ambientali, e il fenomeno non riguarda soltanto l’acciaio ma in generale tutta la grande industria non più considerata come un’opportunità ma piuttosto fonte di conseguenze negative soprattutto di carattere ambientale. Si tratta di un fenomeno culturale complesso che non riguarda soltanto l’Italia.

De-industrializzazione. E poi?
Per questo la vicenda di Taranto va oltre Taranto e non si esaurirà nemmeno se, prima o poi, il “mostro” verrà abbattuto e le diecimila famiglie messe sul lastrico saranno impiegate, come ho sentito dire, nella bonifica dei terreni inquinati (che peraltro non potrà essere eterna), nel turismo, in fantomatiche industrie agro-alimentari “leggere”. Perchè la spinta alla destrutturazione della nostra economia industriale è molto forte e rappresenta una delle componenti del successo dei Cinque Stelle. Il primo risultato è già visibile: non soltanto diminuisce ulteriormente l’attrattività del sistema-Italia per gli investimenti esteri ma i capitali nostrani fuggono nelle forme più diverse all’estero. In tale contesto anche la fusione FCA – PSA non promette nulla di buono perchè il suo asse portante sarà in Francia e, nonostante le assicurazioni in contrario, nulla garantisce che nella ristrutturazione che ne seguirà, oppure in caso di crisi, a farne le spese saranno soprattutto gli stabilimenti Fiat in Italia. Non si tratta soltanto di convenienze economiche e fiscali ma di un clima di ostilità alimentato anche da settori consistenti dei mass-media e della magistratura consapevolmente complici.
Si vuole cambiare il modello produttivo del Paese, già in crisi per i limiti evidenti dimostrati dal “nanismo” delle imprese? Bene, ma per sostituirlo con cosa?
Le risposte a questa fondamentale domanda sono confuse: si immagina un futuro “bio” basato su una economia “circolare” (che sta a significare il riuso sistemico di tutti gli scarti), energie alternative a ogni forma di combustione, piste ciclabili, infrastrutture mirate soprattutto ai territori municipali, e, in fin dei conti, una riduzione dei consumi non necessari. Un bellissimo sogno fondato sulla sostenibilità ambientale ispirato alle giuste preoccupazioni delle future generazioni per i cambiamenti climatici che avanzano minacciosamente.
Quel che si dimentica in questa visione del futuro è la compatibilità tra i servizi gratuiti o semi-gratuiti che si vogliono assicurare a tutti e le risorse disponibili per farlo. Le risorse provengono dall’imposizione fiscale sui redditi e sui consumi; riducendo gli uni e gli altri diminuiscono inevitabilmente le possibilità di finanziamento pubblico. Ulteriori indebitamenti sono impossibili non soltanto per il debito gigantesco già accumulato ma anche perchè un indebolimento delle tradizionali fonti di reddito (imprese industriali e commerciali) suscita la diffidenza dei mercati e rende problematico il collocamento dei titoli di debito.

Due certezze
Come uscirne? Nessuno può dirlo, tutti hanno le loro ragioni e il dibattito alle volte si trasforma in un dialogo tra sordi, come appunto avviene a Taranto tra chi difende il suo pane quotidiano e chi invoca le priorità sanitarie e ambientali. Credo però che ci sono due condizioni imprescindibili di cui ogni governo – di destra o di sinistra – dovrebbe tener conto. La prima è la gradualità; certi processi, per giusti che possano sembrare, devono comunque essere realizzati riducendo al massimo i costi sociali che comportano. La seconda è la dimensione globale; certi obiettivi devono essere condivisi e perseguiti insieme agli altri, altrimenti si regalano posizioni di vantaggio alla concorrenza internazionale che aggravano ulteriormente la nostra economia. Serve un grande progetto di riconversione industriale a lungo termine da condividere almeno con gli altri paesi dell’Eurozona, se non vogliamo ridurci a diventare un resort di lusso per turisti americani e cinesi in cui l’unica occupazione possibile sarà quella di camerieri. Ecologicamente soddisfatti.

Franco Chiarenza
18 novembre 2019

L’acqua alta a Venezia non è una novità. Il fatto che quest’anno abbia assunto dimensioni inusuali era prevedibile e infatti era stato previsto sin dall’analogo allagamento del 1966. Che si dovesse perciò trovare un modo per mettere in sicurezza la città lagunare fu oggetto di un dibattito internazionale perchè l’integrità di Venezia è considerata da sempre un valore culturale unico al mondo (al di là dei fin troppo facili riconoscimenti dell’UNESCO). Le “leggi speciali” per Venezia si sono infatti susseguite da quel fatidico 1966 fino ad approdare, dopo lunghi dibattiti che divisero gli ambienti culturali e i veneziani, alla decisione di realizzare il MOSE, un sistema di dighe mobili in grado di sbarrare le inondazioni provocate dall’”acqua alta”. I lavori cominciarono nel 2003 (malgrado la decisione fosse di molti anni prima), sono stati più volte interrotti anche per gli scandali legati alle tangenti, sono costati quasi sei miliardi, e non è ancora in grado di funzionare, come ha dimostrato il disastro di questi giorni. Vi sembra normale?

Opere pubbliche infinite
Non è normale ma non è neanche un’eccezione. In Italia la costruzione delle opere pubbliche, anche quando sono decise e finanziate (il che richiede sempre tempi lunghissimi), procede a singhiozzo con continue interruzioni fino a raggiungere tempi infiniti. Vogliamo ricordare il ponte di Messina la cui costruzione fu deliberata con legge nel 1971 e si dovettero attendere 42 anni perchè un altro governo decidesse di non farlo? Pare che molti vogliano riproporlo, mi vien da ridere, se penso che il ponte sull’Oresund tra la Danimarca e la Svezia è stato costruito in sette anni e la galleria sottomarina che congiunge l’Inghilterra alla Francia in otto anni. O vogliamo parlare dell’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Bari, decisa dieci anni fa e i cui cantieri si sono finalmente aperti quest’anno, o della grottesca vicenda del traforo della Val di Susa?
Io non entro nel merito dei progetti; ognuno ha i suoi punti di vista ed è lecito discuterne anche a lungo; quello che non funzione è la mancanza di certezze. In uno stato moderno che si rispetti una decisione presa diventa definitiva perchè chi la realizza deve poterla programmare senza interruzioni, senza impedimenti politici, giudiziari, o di ogni altro genere. Ogni interruzione produce danni gravissimi: aumentano i costi, si licenziano le maestranze fino a nuovo ordine, si compromette l’indotto che si attiva attorno a qualsiasi opera di un certo respiro. Da noi è prassi costante che ogni gara d’appalto venga contestata davanti al TAR, ogni ente locale ponga veti e impedimenti per ottenere adegute compensazioni, ogni comitato di cittadini che si ritengono danneggiati chiedano all’autorità giudiziaria di sospendere i lavori, spesso riuscendoci. In questo modo non si va da nessuna parte, le opere pubbliche restano incompiute per decenni, quando vengono realizzate costano il doppio di quanto dovrebbero, le imprese, se non hanno robusti sostegni finanziari, falliscono, la disoccupazione aumenta.

Che fare?
Occorre coraggiosamente disboscare innanzi tutto i tanti enti che a diverso titolo esercitano poteri di interdizione; dico coraggiosamente perchè dietro di essi si nascondono spesso interessi inconfessabili e, nel migliore dei casi, condizionamenti politici. La filosofia del “not in my courtyard” è sempre elettoralmente vincente. Occorre poi separare le responsabilità personali degli appaltatori dalla normale prosecuzione dei lavori; se un magistrato rileva degli illeciti l’opera non venga sospesa, si nominino dei commissari giudiziari che subentrano nella direzione dei lavori, salvo poi, a giudizio definitivo, stabilire le rispettive responsabilità e i danni che ne sono derivati. Basterebbe questo per fare diminuire i tanti ricorsi e denunce strumentali mirati soltanto alla sospensione delle opere (anche nella speranza di poterle rimettere in discussione).
Non si ha idea quanto pesi nella valutazione del sistema-Paese per gli investimenti privati (dall’estero ma anche italiani) questa incertezza del diritto travestita da giustizia. Insieme ad altre cause (lentezza e incoerenza della giurisdizione, sistema formativo inadeguato e non rispondente alle esigenze delle imprese, ecc.) essa è più importante di una tassazione elevata e del costo della mano d’opera. E, al contrario di esse, si tratta di riforme a costo zero, anzi che producono molti vantaggi. C’è chi rema contro coprendo il proprio interesse al mantenimento delle inefficienze del sistema con il richiamo all’onestà (che, secondo loro, richiede controlli e vincoli burocratici sempre più stringenti). Se vogliamo uscire dal pantano bisogna liberarsi di quei rematori e sostituirli con altri che riportino la barca nella corrente della convenienza collettiva. Altrimenti molti cominceranno a pensare che la democrazia non sia in grado di risolvere i problemi del Paese; è già successo esattamente un secolo fa.

 

Franco Chiarenza
17 novembre 2019

Ne sento parlare da quando ero bambino (ho 85 anni). L’evasione fiscale era sempre il grande fantasma evocato come responsabile di tutti i mali, quella che costringeva lo Stato ad aumentare le tasse, prototipo di ingiustizia sociale, mostro con tante teste che non si riusciva mai ad abbattere, come l’Idra di Lerna della mitologia greca.
Anche i governi Conte (uno e due) non hanno mancato di evocarla e di prevedere una seria lotta per contrastarla. Ma sarebbe ora di chiederci seriamente: chi sono gli “evasori fiscali” e perchè in cinquant’anni non si è mai riusciti a fargli pagare le tasse? Se non rispondiamo a queste domande il resto sono chiacchiere.

Chi sono gli evasori
Tutti pensano ai “grandi evasori”, personaggi della finanza e dell’industria che nascondono i loro profitti e conseguentemente evitano la tassazione che sarebbe dovuta. E in effetti i grandi evasori esistono e nei loro confronti una politica di contrasto è in atto già da tempo anche se non dà i risultati sperati per due fondamentali ragioni: la prima va ricondotta alla libera circolazione di capitali (di per sé fondamentale per gli scambi internazionali) di cui alcuni soggetti approfittano per collocare i profitti nei cosiddetti “paradisi fiscali” (cioè paesi che sfuggono agli accordi internazionali e ai conseguenti obblighi), la seconda alla dimensione multinazionale di grandi imprese (non soltanto industriali) come per esempio Google o Amazon che hanno le loro sedi in paesi fiscalmente convenienti (“concorrenza fiscale”). Nei loro confronti, al di là di ciò che già oggi si fa (come far pagare alcune imposte in base al fatturato in Italia) poco si può senza accordi internazionali più vincolanti. Aumentare le pene carcerarie (che già esistono nella nostra legislazione) come vuole Di Maio è una misura inutile e demagogica: non farà entrare un euro nelle casse dello Stato e non farà fare nemmeno un giorno di galera agli evasori.
Ma la sorpresa è un’altra: i tre quarti dell’evasione fiscale calcolata dalle varie istituzioni che se ne occupano (ministero dell’economia, guardia di finanza, inps, istat, ricerche universitarie) non proviene dai “grandi evasori” ma invece dai medi e piccoli evasori che nel nostro paese sono milioni: dai mancati scontrini ai servizi forniti in nero fino a forme più gravi collegate con l’economia sommersa. E ciò spiega perchè le forze politiche sono sempre riluttanti a contrastarli seriamente per le conseguenze elettorali che possono derivarne.

Perchè non si è fatto tutto ciò che si poteva (e si può) fare
Dunque il balletto intorno al tesoro sommerso dell’evasione fiscale è stato soltanto una grande ipocrisia; il tesoro era in mezzo a noi comuni mortali assai più che nei forzieri dei grandi “paperoni”per la semplice ragione che se venti milioni di persone evadono la trascurabile cifra di 1000 euro l’anno (ma la stima è per difetto) lo Stato perde venti miliardi, molto di più di quanto dovrebbero versare i perfidi paperoni.
Ma cosa si può fare per contrastare questa mini-evasione tanto diffusa? Molto, ed è con piacere che abbiamo notato che il nuovo ministro dell’Economia Gualtieri sembra finalmente muoversi in questa direzione attraverso la tracciabilità di ogni pagamento mediante le carte di credito e quindi la limitazione del contante. Ma non basta: perchè l’evasione venga ridotta soprattutto nel settore dei servizi alle persone occorre aumentare sensibilmente la detraibilità delle spese (inserendo per esempio quelle di manutenzione degli immobili, a partire dagli idraulici, elettricisti, fornitori di servizi, ecc.), e promuovere una seria campagna di informazione (anche sui social) che spinga i cittadini a richiedere sempre regolari ricevute per ragioni di convenienza (detraibilità) e per ragioni di etica politica. Altre cose si potrebbero fare ma si dovrebbe scendere in dettagli tecnici troppo circostanziati per questo spazio.
Una prova che quanto ho detto risponde al vero? Quando Di Maio ha capito che un serio contrasto all’evasione fiscale riguardava anche l’economia sommersa si è affrettato a specificare che la lotta va fatta soltanto ai “grandi evasori”. Altrimenti come fa a rimettere piede a Pomigliano?

 

Franco Chiarenza
5 novembre 2019

Il governo Conte 2 procede il suo accidentato cammino cercando intanto di conseguire il primo obiettivo per cui è nato: fare quadrare i conti del 2019 e soprattutto la previsione di bilancio per il 2020 superando indenne il vaglio della Commissione europea. La manovra di bilancio si presenta ancora una volta confusa, piena di micro-tasse più o meno visibili, con trascurabili misure strutturali, frenata dalle preoccupazioni politiche del movimento Cinque Stelle. Bisogna riconoscere che con questa maggioranza e in così poco tempo non era possibile fare molto di più, ma resta l’impressione di una manovra tappa-buchi priva di un orizzonte che vada oltre la congiuntura.

Fragilità politica
La debolezza politica della compagine governativa è evidente. Il movimento Cinque Stelle è sostanzialmente diviso tra la linea dettata da Grillo (e che Di Maio segue con visibile riluttanza), favorevole a una collaborazione a oltranza con il PD, e quella di chi vorrebbe un “ritorno alle origini” anche a costo di un isolamento politico e di una verifica elettorale probabilmente penalizzante. Ma anche tra i democratici e i renziani il clima non è dei migliori; l’ex presidente del consiglio sembra poco interessato alle sorti del governo, attento piuttosto ad accaparrarsi adesioni tra i democratici più scettici ma anche tra la destra moderata delusa dalla linea politica di appiattimento su Salvini che Berlusconi continua a sostenere. Il futuro di Renzi (come lui lo vede) è chiaro: un blocco centrale che rappresenti l’ago della bilancia in un futuro parlamento eletto con una legge proporzionale pura (con una soglia di sbarramento molto bassa) nella speranza che né la destra di Salvini e Meloni né il partito democratico raggiungano comunque la maggioranza. Ma anche il movimento Cinque Stelle, per ridimensionato che sia, potrebbe trovarsi in una posizione tatticamente analoga.

Fragilità strategica
La grande questione che l’attuale maggioranza non riesce ad affrontare in maniera coerente, in parte per le contraddizioni interne ma anche per mancanza di risorse sufficienti, è quella della ripresa della crescita. Per raggiungere l’obiettivo la ricetta è nota ed è quella chiaramente illustrata da Carlo Bonomi all’assemblea degli industriali lombardi: abbattere il cuneo fiscale che penalizza la produzione, completare le infrastrutture sul territorio (ferrovie, strade, porti, trasporti urbani) e quelle per realizzare reti di comunicazione ad elevata potenzialità; e così facendo rendere attraente il sistema Italia agli investimenti stanando anche i capitali che restano inutilizzati nei canali finanziari. Infine concentrare gli investimenti pubblici disponibili nelle maggiori criticità a partire dalla scuola. Ma una politica siffatta, orientata alla crescita, impone una forte riduzione della spesa assistenziale – comunque mascherata – e una sforbiciata molto sostanziosa agli sprechi della pubblica amministrazione (non soltanto centrale ma anche regionale). Soltanto un governo forte con una prospettiva a lungo termine può affrontare un programma che garantisca tali priorità affrontando anche l’impopolarità che può derivarne. E qui mi fermo.

Franco Chiarenza
4 novembre 2019