Al centro del panorama politico italiano dell’anno appena trascorso c’è lui: Giuseppe Conte.
Chi l’avrebbe detto; quando comparve sulla scena dopo il faticoso accordo tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini nessuno lo conosceva. Era un avvocato con una cattedra universitaria a contratto come ce ne sono tanti e pareva una delle molte figure scialbe e sprovvedute che la piattaforma Rousseau candidava ai vertici del potere in nome del principio “uno vale uno”.
Tutti i commentatori (me compreso) lo descrivevano come un Arlecchino servo di due padroni, intento a comporre i dissidi tra gli alleati ma privo di iniziativa politica. Però ci si dimenticava che la maschera goldoniana rappresentava sì un “servo” ma sveglio e furbo.
Conte Uno
Ci volle poco al nuovo presidente per capire che la coalizione di maggioranza era intrinsecamente fragile e che il compromesso raggiunto nelle segrete stanze della Casaleggio§C consisteva in una sommatoria di promesse elettorali disorganica e destinata a esplodere in tempi brevi. Lasciando a Salvini e Di Maio tutto lo spazio necessario per le loro velleitarie riforme da sventolare dal balcone (quello d’angolo di palazzo Chigi è anche un po’ più grande di quello storico di palazzo Venezia) il presidente Conte si è dedicato ai rapporti con l’Europa, individuando in essi la vera chiave di volta per la sopravvivenza del governo. Insieme al ministro dell’economia Giovanni Tria ha messo in atto una strategia di contenimento dei colpi che a fasi alterne venivano sparati contro le istituzioni comunitarie da Salvini e Di Maio i quali pensavano così di cavalcare un’ondata populista e sovranista che avrebbe dovuto travolgere con le elezioni europee del 2019 le tradizionali maggioranze del parlamento di Strasburgo. Tria si occupava di ammorbidire le preoccupazioni create dagli sbandamenti del bilancio (poco compatibili con gli impegni che l’Italia aveva preso un anno prima), ma la parte più importante, quella di smussare le ripicche politiche e di garantire ai principali partner europei quell’affidabilità che i leader della maggioranza non davano, la svolgeva Conte. La sua faccia sorridente, le sue dichiarazioni fintamente ingenue, i suoi colloqui riservati (di cui ovviamente non conosciamo i contenuti), contribuivano a spegnere gli incendi che i suoi “padroni” avrebbero invece voluto alimentare. A cominciare dalle scabrose vicende dell’immigrazione clandestina che costituisce la prima ragione del consenso politico della Lega. La tranquilla sicurezza che il premier ostentava lascia pensare che tra l’avvocato pugliese e Beppe Grillo qualche intesa già ci fosse, anche alle spalle di Di Maio.
Conte Due
La vera svolta – del tutto imprevedibile – è avvenuta nel parlamento europeo eletto in maggio col voto di fiducia a Ursula von der Leyen, dove l’inatteso voto favorevole dei Cinque Stelle è stato determinante. Soltanto allora Salvini ha capito che la partita era finita, che non c’erano più le condizioni per proseguire un’alleanza di governo sempre più incomprensibile per la sua base, e, da quel giocatore d’azzardo che è, ha rovesciato il tavolo. Probabilmente hanno contribuito a una decisione così improvvisa e traumatica (per i modi e i tempi in cui si è prodotta) anche altre ragioni: la difficoltà di arrivare a fine anno con un bilancio condiviso, la vicenda poco chiara dei rapporti con la Russia (la quale, oltre che all’Europa, non era piaciuta affatto neanche agli americani), i segni di nervosismo che provenivano dai piccoli imprenditori, l’ostilità crescente della Chiesa (malgrado l’ostensione continua di simboli religiosi). Ma il punto fondamentale era l’Europa e a Bruxelles Conte aveva giocato bene la partita.
Certo, Salvini sperava che i Cinque Stelle non si alleassero con il partito democratico e conseguentemente il Quirinale fosse obbligato a sciogliere le Camere, ma aveva puntato sul cavallo sbagliato. Di Maio, di cui conosceva la radicata ostilità nei confronti della vecchia “casta” democratica, non aveva nel suo movimento una posizione paragonabile alla propria nella Lega (malgrado il pomposo titolo di “capo politico”); c’era sempre dietro le quinte il capo vero, il fondatore Beppe Grillo, il quale con Salvini non ha mai avuto un rapporto di empatia.
A questo punto Giuseppe Conte, dopo una requisitoria contro Salvini al Senato che ricordava ai pochi cultori di storia le “catilinarie” di Cicerone (si parva licet componere magnis), ha rapidamente cambiato cappello avviando un rapido confronto con il partito democratico e andando a presiedere un nuovo governo con i nemici di un tempo. Ha pensato Grillo a spegnere i sussulti e le prese di distanza che si manifestavano nel movimento, mentre Prodi e Veltroni non facevano fatica a convincere un Zingaretti riluttante. Renzi da parte sua, per non restare schiacciato in una tenaglia che lo avrebbe distrutto, ha anticipato i tempi per far credere che la nuova intesa fosse merito suo (il che ovviamente non è stato).
E’ nato così e vivacchia tuttora il governo giallo-rosso (che i tifosi della Roma lo perdonino!). Conte Due ha ricominciato a fare i conti con l’Europa (trovando ovviamente un terreno più favorevole) mentre Di Maio blindato nel faraonico palazzo della Farnesina si occupa del resto del mondo con minori possibilità di fare danni.
Conte Tre?
Adesso la figura di Conte giganteggia come quella di un “salvatore della Patria”. Zingaretti gli riconosce grandi doti politiche, Renzi cerca di non contraddirlo, Di Maio appena si azzarda a uscire dal seminato viene bacchettato da Grillo, lo stesso Salvini, facendone il suo nemico numero uno, ne accredita l’importanza.
Quanto durerà il suo secondo governo è impossibile prevedere; ci sono troppe variabili che emergeranno nei prossimi mesi, a cominciare dal cruciale processo di chiarimento all’interno del movimento Cinque Stelle. In ogni caso la sua sorprendente performance ne fa una risorsa politica anche per il futuro. Non c’è due senza tre, recita un famoso proverbio.
Franco Chiarenza
22 dicembre 2019
P.S. Dopo avere ascoltato la tradizionale conferenza stampa di fine d’anno confermo il mio giudizio: ho sentito un presidente del consiglio sicuro di sé, non banale nell’esposizione e nelle risposte, dotato di un suo stile, usare un linguaggio finalmente diverso dagli slogan e dai twitter utilizzati fastidiosamente, tanto per imitare Trump, dalla nuova classe politica per diffondere slogan semplicistici e talvolta ingannevoli. Anche il modo rapido e intelligente con cui è stata risolta la vicenda delle dimissioni del ministro Fioravanti è condivisibile: nominare nuovo ministro l’attuale sottosegretaria in quota Cinque Stelle (Lucia Azzolina) e nel contempo sciogliere l’innaturale matrimonio tra pubblica istruzione e università/ricerca collocando al vertice del nuovo ministero Gaetano Manfredi, rettore dell’università Federico II di Napoli, in quota PD. Me ne faccio una ragione: Conte funziona, anche se la prova del nove deve ancora arrivare con i molti ostacoli che lo attendono già nei primi mesi dell’anno entrante. Fch.