Al centro del panorama politico italiano dell’anno appena trascorso c’è lui: Giuseppe Conte.
Chi l’avrebbe detto; quando comparve sulla scena dopo il faticoso accordo tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini nessuno lo conosceva. Era un avvocato con una cattedra universitaria a contratto come ce ne sono tanti e pareva una delle molte figure scialbe e sprovvedute che la piattaforma Rousseau candidava ai vertici del potere in nome del principio “uno vale uno”.
Tutti i commentatori (me compreso) lo descrivevano come un Arlecchino servo di due padroni, intento a comporre i dissidi tra gli alleati ma privo di iniziativa politica. Però ci si dimenticava che la maschera goldoniana rappresentava sì un “servo” ma sveglio e furbo.

Conte Uno
Ci volle poco al nuovo presidente per capire che la coalizione di maggioranza era intrinsecamente fragile e che il compromesso raggiunto nelle segrete stanze della Casaleggio§C consisteva in una sommatoria di promesse elettorali disorganica e destinata a esplodere in tempi brevi. Lasciando a Salvini e Di Maio tutto lo spazio necessario per le loro velleitarie riforme da sventolare dal balcone (quello d’angolo di palazzo Chigi è anche un po’ più grande di quello storico di palazzo Venezia) il presidente Conte si è dedicato ai rapporti con l’Europa, individuando in essi la vera chiave di volta per la sopravvivenza del governo. Insieme al ministro dell’economia Giovanni Tria ha messo in atto una strategia di contenimento dei colpi che a fasi alterne venivano sparati contro le istituzioni comunitarie da Salvini e Di Maio i quali pensavano così di cavalcare un’ondata populista e sovranista che avrebbe dovuto travolgere con le elezioni europee del 2019 le tradizionali maggioranze del parlamento di Strasburgo. Tria si occupava di ammorbidire le preoccupazioni create dagli sbandamenti del bilancio (poco compatibili con gli impegni che l’Italia aveva preso un anno prima), ma la parte più importante, quella di smussare le ripicche politiche e di garantire ai principali partner europei quell’affidabilità che i leader della maggioranza non davano, la svolgeva Conte. La sua faccia sorridente, le sue dichiarazioni fintamente ingenue, i suoi colloqui riservati (di cui ovviamente non conosciamo i contenuti), contribuivano a spegnere gli incendi che i suoi “padroni” avrebbero invece voluto alimentare. A cominciare dalle scabrose vicende dell’immigrazione clandestina che costituisce la prima ragione del consenso politico della Lega. La tranquilla sicurezza che il premier ostentava lascia pensare che tra l’avvocato pugliese e Beppe Grillo qualche intesa già ci fosse, anche alle spalle di Di Maio.

Conte Due
La vera svolta – del tutto imprevedibile – è avvenuta nel parlamento europeo eletto in maggio col voto di fiducia a Ursula von der Leyen, dove l’inatteso voto favorevole dei Cinque Stelle è stato determinante. Soltanto allora Salvini ha capito che la partita era finita, che non c’erano più le condizioni per proseguire un’alleanza di governo sempre più incomprensibile per la sua base, e, da quel giocatore d’azzardo che è, ha rovesciato il tavolo. Probabilmente hanno contribuito a una decisione così improvvisa e traumatica (per i modi e i tempi in cui si è prodotta) anche altre ragioni: la difficoltà di arrivare a fine anno con un bilancio condiviso, la vicenda poco chiara dei rapporti con la Russia (la quale, oltre che all’Europa, non era piaciuta affatto neanche agli americani), i segni di nervosismo che provenivano dai piccoli imprenditori, l’ostilità crescente della Chiesa (malgrado l’ostensione continua di simboli religiosi). Ma il punto fondamentale era l’Europa e a Bruxelles Conte aveva giocato bene la partita.
Certo, Salvini sperava che i Cinque Stelle non si alleassero con il partito democratico e conseguentemente il Quirinale fosse obbligato a sciogliere le Camere, ma aveva puntato sul cavallo sbagliato. Di Maio, di cui conosceva la radicata ostilità nei confronti della vecchia “casta” democratica, non aveva nel suo movimento una posizione paragonabile alla propria nella Lega (malgrado il pomposo titolo di “capo politico”); c’era sempre dietro le quinte il capo vero, il fondatore Beppe Grillo, il quale con Salvini non ha mai avuto un rapporto di empatia.
A questo punto Giuseppe Conte, dopo una requisitoria contro Salvini al Senato che ricordava ai pochi cultori di storia le “catilinarie” di Cicerone (si parva licet componere magnis), ha rapidamente cambiato cappello avviando un rapido confronto con il partito democratico e andando a presiedere un nuovo governo con i nemici di un tempo. Ha pensato Grillo a spegnere i sussulti e le prese di distanza che si manifestavano nel movimento, mentre Prodi e Veltroni non facevano fatica a convincere un Zingaretti riluttante. Renzi da parte sua, per non restare schiacciato in una tenaglia che lo avrebbe distrutto, ha anticipato i tempi per far credere che la nuova intesa fosse merito suo (il che ovviamente non è stato).
E’ nato così e vivacchia tuttora il governo giallo-rosso (che i tifosi della Roma lo perdonino!). Conte Due ha ricominciato a fare i conti con l’Europa (trovando ovviamente un terreno più favorevole) mentre Di Maio blindato nel faraonico palazzo della Farnesina si occupa del resto del mondo con minori possibilità di fare danni.

Conte Tre?
Adesso la figura di Conte giganteggia come quella di un “salvatore della Patria”. Zingaretti gli riconosce grandi doti politiche, Renzi cerca di non contraddirlo, Di Maio appena si azzarda a uscire dal seminato viene bacchettato da Grillo, lo stesso Salvini, facendone il suo nemico numero uno, ne accredita l’importanza.
Quanto durerà il suo secondo governo è impossibile prevedere; ci sono troppe variabili che emergeranno nei prossimi mesi, a cominciare dal cruciale processo di chiarimento all’interno del movimento Cinque Stelle. In ogni caso la sua sorprendente performance ne fa una risorsa politica anche per il futuro. Non c’è due senza tre, recita un famoso proverbio.

 

Franco Chiarenza
22 dicembre 2019

 

P.S. Dopo avere ascoltato la tradizionale conferenza stampa di fine d’anno confermo il mio giudizio: ho sentito un presidente del consiglio sicuro di sé, non banale nell’esposizione e nelle risposte, dotato di un suo stile, usare un linguaggio finalmente diverso dagli slogan e dai twitter utilizzati fastidiosamente, tanto per imitare Trump, dalla nuova classe politica per diffondere slogan semplicistici e talvolta ingannevoli. Anche il modo rapido e intelligente con cui è stata risolta la vicenda delle dimissioni del ministro Fioravanti è condivisibile: nominare nuovo ministro l’attuale sottosegretaria in quota Cinque Stelle (Lucia Azzolina) e nel contempo sciogliere l’innaturale matrimonio tra pubblica istruzione e università/ricerca collocando al vertice del nuovo ministero Gaetano Manfredi, rettore dell’università Federico II di Napoli, in quota PD. Me ne faccio una ragione: Conte funziona, anche se la prova del nove deve ancora arrivare con i molti ostacoli che lo attendono già nei primi mesi dell’anno entrante. Fch.

Era il titolo di una canzone quando nel 1911 gli italiani iniziarono la guerra per conquistare la Libia, considerata necessaria da Giolitti nella disgregazione dell’impero turco per salvaguardare gli equilibri geo-politici nel Mediterraneo, soprattutto dopo che la Francia si era impadronita del Marocco, dell’Algeria e soprattutto della Tunisia dove viveva una numerosa e attiva minoranza italiana. La Libia in realtà non esisteva: c’erano, assai diverse tra loro, la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan che la colonizzazione italiana unificò dandogli l’antico nome romano. Un’annessione contrastata, segnata anche da repressioni violente (soprattutto nel periodo fascista), cessata dopo la seconda guerra mondiale quando la Libia ottenne l’indipendenza sotto lo scettro del senusso di Cirenaica Idris. Cose da ricordare oggi che la Libia è di nuovo al centro di una crisi che rischia di esplodere alle soglie di casa nostra.

Il dopo-Gheddafi
La Libia, considerata uno “scatolone di sabbia” utile soltanto come valvola di sfogo per l’emigrazione contadina italiana, scoprì dopo la guerra sotto la sabbia rilevanti giacimenti petroliferi, molto importanti sia dal punto di vista quantitativo che per la qualità del prodotto. L’Italia, cacciata dalla porta, rientrò così dalla finestra attraverso importanti concessioni estrattive all’ENI. La politica del dittatore Gheddafi, subentrato al vecchio re Idris nel 1969, fu sempre ambigua nei confronti dell’Italia: alla violenza verbale contro le responsabilità coloniali seguita da un’indiscriminata espulsione di migliaia di italiani, facevano riscontro comportamenti più accomodanti come appunto le concessioni petrolifere, gli investimenti in Italia del fondo sovrano libico, una politica di contenimento dei flussi migratori che dal centro dell’Africa puntavano all’Europa passando dall’Italia.
Dopo l’uccisione di Gheddafi nel 2011, probabilmente organizzata dai paesi occidentali (Francia e Gran Bretagna soprattutto) perchè considerato fonte di instabilità e protettore dei terroristi islamici (ma forse anche per malcelati interessi petroliferi), è comincita una guerra civile tuttora in corso e di cui soprattutto noi italiani rischiamo di pagare le conseguenze non soltanto per il rischio che corrono le concessioni petrolifere ma soprattutto per la rottura di ogni argine ai flussi migratori verso il nostro Paese, causa non ultima del successo dell’estrema destra nel contesto politico italiano. Tanto basta per capire perchè quel che succede a Tripoli ci riguarda da vicino.

Guerra per procura
Da otto anni la Libia è in balia di una guerra tribale in cui si era inserita anche l’ISIS. Le potenze occidentali si sono comportate come chi dopo avere innescato un incendio si volta dall’altra parte e finge di non vederlo; finchè si sono finalmente rese conto del pericolo e hanno fatto la cosa sbagliata. Invece di accordarsi per spegnere l’incendio e poi creare le condizioni di un nuovo assetto politico necessariamente federale, si sono mosse ciascuna per proprio conto appoggiando e armando le diverse fazioni; lo stesso hanno fatto i paesi medio-orientali e i loro protettori, Russia e Stati Uniti.
Oggi la situazione è drammatica ma abbastanza chiara. Khalifa Haftar, un generale libico della vecchia generazione, è riuscito a mettere insieme un esercito nazionale, legittimato dal governo cirenaico, finanziato e armato dall’Egitto e dagli Emirati Arabi, protetto politicamente dalla Russia e dalla Francia, che ha ridotto il governo legittimo di Tripoli a difendersi in una parte sempre più ridotta del paese. Il presidente del governo riconosciuto dall’ONU Fayez Sarraj è appoggiato dall’Italia e gode del sostegno della Turchia (che minaccia un intervento armato). Gli Stati Uniti, che potrebbero essere determinanti (anche per l’appoggio militare e logistico) oscillano incerti sul da farsi; per Trump il mondo musulmano è un rebus incomprensibile e l’unica cosa che gli preme è l’alleanza con l’Arabia Saudita (con cui fa ottimi affari) e con il governo israeliano di Netanyahu per garantirsi l’appoggio della lobby ebraica americana, tanto più importante in quanto si avvicinano le elezioni presidenziali.
Di Maio, e con lui tutto il governo italiano, tenta la via dell’accordo a tutti i costi. Ma la domanda è: qualora la situazione dovesse precipitare che fare? Se prevale Haftar ci troveremo un interlocutore a Tripoli poco disposto nei nostri confronti, se Serraj viene salvato dalla Turchia il nostro “patronato” su Tripoli verrebbe meno. Un intervento militare, proprio per la nostra condizione di ex-potenza coloniale, è da escludere, salvo non avvenga nell’ambito di una forza di interposizione europea o promossa dalle Nazioni Unite. Non resta che attendere Berlino, dove dovrebbe svolgersi ai primi di gennaio una conferenza internazionale per cercare una soluzione. Ma mentre tutti discutono e si scambiano telefonate intorno a Tripoli si scambiano colpi d’arma da fuoco in quantità e Haftar guadagna posizioni.

 

Franco Chiarenza
28 dicembre 2019

Da che mondo è mondo le regole servono per proteggere i più deboli dalla prepotenza di chi potrebbe farne a meno. E’ così che nascono gli stati di diritto sin dall’antica repubblica romana e ancora oggi sono le regole che tutelano i cittadini, tornati ad essere nei paesi democratici la fonte primaria del potere politico, dalle fragilità che possono condizionarne i comportamenti. La libertà di espressione, sacra per i liberali e fondamento del moderno costituzionalismo, va non soltanto enunciata ma anche protetta da chi, magari in suo nome, la distorce per utilizzarla contro la verità dei fatti e spesso anche a danno della dignità delle persone. Un problema che si è posto sin dalle origini degli stati moderni, quando con la stampa il mondo è entrato nell’era della comunicazione di massa dovendosi difendere da due nemici: da chi la voleva utilizzare per gettare discredito sugli avversari in base a false informazioni, ma anche da chi attraverso l’esercizio del potere voleva subordinarla a interessi privati, giustificandone l’intervento come una necessaria tutela del bene pubblico. Se non si vuole gettare il bambino insieme all’acqua sporca (eliminando la libertà di espressione) i possibili rimedi vanno trovati in regole condivise che ne limitino gli abusi mantenendone intatta la funzione di controllo sul potere, da chiunque esercitato. Ma essere “watch dog”, un cane da guardia che non si fa intimidire dai poteri forti, è una cosa (anzi una condizione necessaria per le democrazie liberali), trasformarsi in un cane idrofobo che azzanna indiscriminatamente seminando odio e contrapposizioni irragionevoli è ben altro; ed è quanto sta avvenendo con i social-network diffusi in rete.
La libertà di espressione è sacra per i liberali, ma in nessun caso essa può tradursi in una informazione priva di regole, consentendo di trasformare l’informazione in disinformazione; tanto che in passato, quando essa era gestita quasi esclusivamente dai giornalisti, laddove non arrivavano le leggi che puniscono la diffamazione, l’oltraggio, le false comunicazioni, giungevano i codici deontologici che impegnavano a comportamenti corretti (il primo di essi compilato negli Stati Uniti è del 1926). Al di là delle tante inevitabili complicazioni, si consolidava quindi per qualsiasi mezzo di informazione il principio di responsabilità personale per ciò che si scrive e si pubblica; non a caso i direttori dei giornali (e telegiornali) sono definiti “responsabili”.
Oggi, nel momento in cui gran parte delle informazioni circolanti si serve dei “socialnetwork”, e tutti, in qualche modo, possono fare informazione, possiamo dire che il principio di responsabilità venga rispettato? Evidentemente no, ma ogni volta che si accenna alla necessità di imporre regole di identificazione che facciano capo ai gestori dei “social” insorgono i difensori della “libertà della rete” parificando la responsabilità alla censura. Un’affermazione falsa e non convincente, a meno che per tale non si intenda la libertà di diffamazione, di diffondere false informazioni, di ingiuriare senza limiti di decenza, di violare la riservatezza personale, di commettere in sostanza reati che, non perchè attuati in rete, sono meno dannosi. Falsificare la realtà per dare sfogo a livori e frustrazioni personali non costituisce una novità: lettere anonime, pubblicazioni clandestine, pettegolezzi senza fondamento hanno sempre accompagnato l’esistenza degli uomini, ma in passato non si disponeva di strumenti così invasivi come quelli oggi consentiti dalle nuove tecnologie. Da quando poi si è constatato, con il venir meno delle grandi contrapposizioni ideologiche, che la disinformazione costituisce un efficace strumento di condizionamento elettorale, la politica se ne è impadronita, utilizzandola anche in modo volgare. E poiché in effetti il voto ha ormai perso il suo carattere di scelta programmatica per diventare soltanto un modo di esprimere il proprio malcontento, si capisce perchè le competizioni elettorali siano divenute una gara per catturare un consenso “negativo”, non per un progetto a lunga scadenza (salvo le solite generiche banalità) ma contro qualcuno o qualcosa. Avviando tuttavia questo meccanismo di reciproca continua delegittimazione (personale oltre che politica) si finisce per restare incastrati in un “effetto boomerang” che impedisce qualsiasi seria attività di governo (i Cinque Stelle ne sanno qualcosa).

Per uscire da questa situazione bisogna tornare a regole condivise e alla volontà politica trasversale di farle rispettare. Non entro in dettagli tecnici che richiederebbero altri approfondimenti. Ma ciò che si può fare intanto è stabilire per legge (possibilmente a livello europeo) il principio di responsabilità per chi comunica sui social-network. Può essere facilmente aggirata? Può darsi ma almeno stabilisce un principio e complica la vita ai fabbricanti di fake news. Occorre, utilizzando gli stessi strumenti interattivi, fare capire con chiarezza quali sono i limiti di liceità del loro utilizzo e le ragioni per le quali essi sono necessari a tutela della libertà individuale di ciascuno di noi. Contrastiamo i “fake makers” utilizzando i loro stessi strumenti, convincendo tutti che i reati commessi in rete sono gravissimi, possono uccidere a distanza senza che si sappia da chi e perchè; potrebbe capitare a tutti. Conviene a tutti quindi stabilire delle regole e farle rispettare senza abbandonarsi, ancora una volta, all’arbitrio dei “signori della rete”.

 

Franco Chiarenza
Articolo pubblicato il 9 dicembre sulla rivista Paradoxa.

L’agenda politica italiana segnala una singolare continuità: i problemi non si risolvono, si rinviano.
L’Alitalia è tecnicamente fallita e, dopo il rifiuto di possibili acquirenti privati, continua a perdere soldi ripianati dal governo con “prestiti-ponte” che naturalmente non verranno mai restituiti. Ponte verso cosa se tutti gli interlocutori possibili si sono tirati indietro? Il gruppo Atlantia (Benetton) sembrava disposto a tenerla in piedi anche perdendoci un po’ di soldi ma l’evidente contropartita era il rinnovo delle concessioni autostradali; un prezzo che ovviamente il movimento Cinque Stelle, molto esposto in una concezione “punitiva” della concessionaria ritenuta responsabile del crollo del ponte Morandi, non poteva pagare.
Ma anche il nodo delle concessioni verrà al pettine e non potrà essere risolto con la demagogia. Il fatto è che la galassia delle concessioni Atlantia (con al centro “Autostrade per l’Italia”) ha acquisito nel tempo un’esperienza e una capacità di gestione che non sono sostituibili in tempi brevi; il problema evidenziato dalla sciagura di Genova e dallo stato di crisi di molte strutture autostradali non consiste soltanto nella colpevole incuria della concessionaria ma anche nell’assoluta mancanza di controlli da parte del concedente (cioè lo Stato). La soluzione più razionale sarebbe quella di rinnovare la concessione ad Atlantia, ponendo a suo carico le ingenti spese di ristrutturazione della rete oltre al completamento della “Gronda” di Genova, indispensabile a prescindere dalla ricostruzione del ponte Morandi, e al contempo rendendo i controlli più incisivi. Le responsabilità penali e civili del crollo del ponte Morandi verranno accertate dalla magistratura e dovrebbero restare separate dalle ragioni di convenienza che determinano la scelta del concessionario. Ma spesso la politica deve fare i conti con i sentimenti più che con la ragione, e l’indignazione per quanto è avvenuto a Genova e continua a succedere in altri tratti autostradali è troppo forte per consentire una scelta che poteva salvare contemporaneamente la continuità di gestione delle autostrade (con nuove condizioni più stringenti) e Alitalia.
Anche a Taranto la situazione dell’ex-ILVA è in stallo dopo il clamoroso gesto di Arcelor Mittal di denunciare un contratto firmato soltanto un anno fa. Naturalmente le accuse si rimpallano: da una parte si denuncia la mancata attuazione dello scudo penale nei confronti di reati commessi dalle gestioni precedenti, a cui si aggiunge un atteggiamento pregiudizialmente ostile della magistratura che impedirebbe di fatto la realizzazione del piano industriale. D’altra parte si sostiene che la decisione di Arcelor sia in realtà dovuta alla crisi mondiale della produzione di acciaio e forse all’intenzione di fare fallire Taranto per concentrare altrove gli impianti del produttore franco-indiano. Come che sia i sindacati assistono terrorizzati al precipitare della situazione verso una chiusura che aprirebbe una crisi occupazionale ed economica di ampie dimensioni.

Ma il problema è più ampio e profondo. Gli investimenti stranieri se ne vanno dall’Italia e non ne arrivano di nuovi, né i capitali italiani imboscati nei depositi bancari si sognano di emergere. Il nostro paese è considerato ostile alla cultura industriale e non bastano i fattori vantaggiosi che il sistema-Paese può vantare (manovalanza qualitativamente eccellente, centri di ricerca scarsi ma di buon livello, infrastrutture insufficienti ma decorose). Essi non compensano gli aspetti negativi (energia più cara, costi della mano d’opera aggravati da contributi sociali molto elevati, formazione professionale scadente e non corrispondente alla domanda delle imprese, burocrazia invadente, numero eccessivo di livelli di competenza della pubblica amministrazione). E soprattutto la sensazione che non funzioni con la rapidità e l’imparzialità necessarie il sistema giudiziario il quale non appare in grado di garantire un corretto “rule of law”. Questa percezione è aggravata da una situazione politica condizionata da un movimento come i Cinque Stelle apertamente ostile all’economia di mercato che si è manifestata nel precedente governo con un sostanziale blocco di quei pochi adeguamenti infrastrutturali già in cantiere (emblematici i casi della Val di Susa, del terzo valico tra Liguria e Lombardia, della “Gronda” di Genova, e molti altri).
Tutto ciò dovrebbe preoccupare molto di più del debito pubblico, malgrado le dimensioni assurde che esso ha raggiunto. Se un debitore è dinamico e produttivo nessuno spinge perchè riduca la sua posizione debitoria, se è statico e resta chiuso in casa a curare il suo giardinetto, la fiducia dei creditori viene meno e le sollecitazioni speculative diventano incontenibili; non siamo ancora a questo punto ma il rischio comincia ad essere percepibile

In queste condizioni logica vorrebbe che l’attuale esperienza di governo non vada oltre l’approvazione del bilancio e che ci si avvii fatalmente a nuove elezioni. Ma non tutti sono d’accordo; non tanto (o non soltanto) perchè in primavera scadono i consigli d’amministrazione di molte aziende pubbliche o partecipate dallo Stato (anche se il sospetto è lecito), quanto per consentire ai Cinque Stelle di fare definitivamente i conti con se stessi prima di una verifica elettorale. Il movimento infatti sembra spaccato tra due linee di tendenza che la leadership di Di Maio non è riuscita a comporre: da una parte Grillo, tornato prepotentemente sulla scena, favorevole a un’alleanza permanente con la sinistra democratica (accentuando le caratteristiche ambientalistiche delle sue origini), dall’altra i moralisti “puri e duri”, ostili pregiudizialmente a qualsiasi collegamento col passato, fautori di uno “splendido” isolamento in Parlamento e nel Paese. Dalla soluzione di questo conflitto, assai più che da un’improbabile nuova forza centrista, dipendono probabilmente le future maggioranze di governo.

Franco Chiarenza
7 dicembre 2019

Chi, come me, sperava che il presidente Trump sarebbe stato per necessità e condizionamenti provenienti dal soft power dell’establishment di Washington persona diversa dal candidato alle presidenziali del 2016, deve ricredersi. Ogni volta che ha potuto Trump ha cercato di realizzare il suo modello di isolazionismo rivendicato nella campagna elettorale preferendo, anche nella scelta dei mezzi di comunicazione, le rozze semplificazioni e gli slogan di twitter a interventi più ragionati. Alla fine la sua idea di un’America militarmente potente, in grado di bastare a se stessa e quindi non legata a impegni multilaterali, arrogante e paternalistica nei rapporti con gli altri paesi (anche quelli europei più legati alla sua storia), forse non si è pienamente realizzata ma comunque ha sconvolto tutte le tradizionali alleanze che dopo la seconda guerra mondiale facevano perno su un’ idea diversa di America, fondata sull’accoglienza, sugli accordi multilaterali, sulla responsabilità di guidare tutto il mondo occidentale nella difficile sfida della globalizzazione.

Gli errori del presidente
Trump è però inciampato in due punti fondamentali: i rapporti con la Russia (al cui appoggio doveva in parte la sua elezione) e il potere di un’informazione indipendente che in America è ancora molto forte.
La sua idea di un accordo con la Russia che in sostanza lasciasse mano libera a Putin (al quale andava tutta la sua personale simpatia come si conviene tra convinti populisti) si è infranta su una resistenza dell’opinione pubblica che aveva sottovalutato; lo scandalo delle interferenze russe nelle elezioni presidenziali lo ha costretto a giocare in difesa accantonando ogni velleità di alleanza organica con Mosca. In questa ritirata la stampa e i mezzi di informazione indipendenti hanno giocato un ruolo fondamentale mentre il Congresso, dopo la vittoria democratica nelle elezioni mid term del 2018, tornava a farsi sentire avviando una procedura di impeachment basata su accuse più dimostrabili di quelle precedenti: le pressioni di Trump sul governo ucraino per ottenere rivelazioni sulle attività economiche del figlio di Joe Biden (ex vice presidente di Obama e possibile candidato democratico alle elezioni presidenziali del 2020), fino al punto di condizionare gli aiuti necessari a quel paese al soddifacimento delle sue richieste. La rimozione del presidente sarà ovviamente impossibile per la resistenza del Senato, ancora a maggioranza repubblicana, ma il colpo alla credibilità di Trump lascerà le sua tracce.
Un altro grave errore è stato la pagliacciata delle relazioni con la Corea del Nord che si è risolta con un nulla di fatto consentendo però al dittatore comunista Kim-Jong Un un successo di immagine che ne ha rafforzato il potere e soprattutto dimostrando il crescente potere di interdizione della Cina. Anche l’inasprimento delle sanzioni all’Iran (capovolgendo la politica di appeasement portata avanti da Obama) ha rafforzato la posizione dei “falchi” all’interno del regime islamico senza arrecare alcun vantaggio agli Stati Uniti. Non c’è partita di politica estera in cui Trump si sia impegnato che non sia stata fallimentare: dalla Cina al Medio Oriente. Il suo agitarsi menando fendenti a destra e manca fa pensare alle marionette di un tempo; ma purtroppo si tratta del capo della più grande potenza del mondo.

Le guerre commerciali
Un capitolo a parte riguarda i rapporti con l’Europa e il Giappone, paesi alleati che con gli Stati Uniti hanno condiviso la gestione di tutti gli strumenti multilaterali che ruotavano intorno all’egemonia americana: la NATO, il WTO, l’OCDE, il FMI, la Banca Mondiale, ecc. Una ragnatela che ha consentito in qualche misura di governare i processi di globalizzazione, una rete che ha protetto certamente i paesi europei da “invasioni di campo” destabilizzanti ma ha pure consentito agli Stati Uniti di mantenere una posizione centrale negli sviluppi dell’economia mondiale. Il prezzo da pagare era l’apertura del mercato americano alle importazioni dai paesi europei e dal Giappone che in effetti ha prodotto nel tempo un forte squilibrio della bilancia commerciale. Ad esso Trump ha attribuito la responsabilità dei processi di de-industrializzazione in atto da tempo e su tale convinzione ha avviato una politica di autarchia protezionistica che comporta la rottura di tutte le strutture e le alleanze costruite dagli Stati Uniti nel dopoguerra.
Ma le guerre commerciali provocano, prima o poi, le ritorsioni degli altri paesi, e quanto più estesi saranno i mercati e il potere d’acquisto che essi rappresentano tanto maggiore sarà il danno per gli Stati Uniti. Per questo Trump boicotta l’Unione Europea e preferisce trattare con i singoli paesi del Vecchio Continente; se infatti l’Unione si dotasse di strumenti politici adeguati rappresenterebbe un mercato equivalente a quello americano e quindi potenzialmente in grado di danneggiarne gli interessi in molti settori.
Trump non ha perso tempo: prima che l’Europa si riprendesse da questo brusco cambio di politica economica e cominciasse a reagire coi suoi tempi lunghi il governo americano ha avviato dazi protettivi che colpiscono soprattutto le esportazioni tedesche (ma anche francesi e italiane) riportando indietro l’orologio della storia. Se verrà rieletto l’anno prossimo è certo che le reazioni europee diverranno più consistenti soprattutto se si avvierà finalmente quel processo di unificazione politica (che non a caso Trump teme come il fumo negli occhi) e si procederà alla creazione di nuovi soggetti europei nel campo della comunicazione interattiva e delle nuove tecnologie in generale dove oggi le aziende americane sono egemoni. La decisione della Francia e di altri paesi europei di tassare le grandi imprese americane (Google, Amazon, ecc.) per i profitti realizzati nei loro territori costituisce un segnale che il presidente americano ha colto in tutta la sua gravità (minacciando ulteriori sanzioni). In pratica la politica di Trump, i cui effetti si vedranno tra qualche anno, finirebbe per favorire la creazione di nuovi poli di aggregazione potenzialmente in grado di arginare la supremazia americana: l’Europa unita innanzi tutto, ma anche la Cina (che potrebbe rappresentare un nuovo punto di riferimento per paesi come la Corea del Sud e lo stesso Giappone), la galassia dell’Asia sud orientale attraverso nuove forme di aggregazione (di cui l’ASEAN già rappresenta in qualche misura una prima struttura portante) e naturalmente la Russia che tornerebbe ad essere protagonista non soltanto in Europa ma anche in Medio ed Estremo Oriente. Con buona pace dell’idea infantile (ma elettoralmente accattivante) di un’America forte e priva di vincoli in grado di condizionare tutti gli interlocutori come un elefante può fare con creature infinitamente più modeste. Perchè prima o poi anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, come un famoso libro ci ha rivelato.

 

Franco Chiarenza
4 dicembre 2019