Presi dalle inevitabili usanze natalizie e dalle restrizioni da Covid che le hanno rese un po’ più originali del solito non ci siamo quasi accorti dell’unica cosa importante di questo fine d’anno: raggiunto in “zona Cesarini” un accordo, dal 1 gennaio la Gran Bretagna non farà più parte dell’Unione Europea. Trovare un’intesa in tempo utile sembrava ormai impossibile, e il no deal (cioè l’uscita senza accordo) pareva inevitabile. Poi, dopo il volo improvviso di Johnson a Bruxelles, il barometro ha volto al bello e la convenzione che consentirà di mantenere un’area di libero scambio tra tutti i 27 paesi è stato firmato. La domanda è: come mai? E quella successiva: chi ci ha guadagnato (e chi ci rimette)?

Accordo necessario
La prima risposta è relativamente semplice: un no deal avrebbe messo in forti difficoltà Johnson, soprattutto nei tempi brevi. Troppe circostanze giocavano contro di lui: il timore di un’improvvisa impennata dei prezzi di alcuni generi di prima necessità importati dal continente (erano già cominciati gli accaparramenti, migliaia di autocarri sostavano a Calais per raggiungere l’Inghilterra prima che i dazi si facessero sentire), l’allarme della finanza che continuava a traslocare dalla City di Londra in cerca di siti più accoglienti, le nuove fibrillazioni indipendentiste della Scozia, la stessa elezione di Biden che faceva venir meno l’asse preferenziale (più presunto che vero) con Trump. In tali circostanze il volo di Johnson tra le braccia di Ursula von der Leyen sembrava quasi una disperata richiesta di aiuto.
Tuttavia la risposta alla seconda domanda è in netta contraddizione con la prima perchè, almeno in apparenza, chi esce vincente dal compromesso è proprio Johnson, il quale, non a caso, ha subito lanciato messaggi trionfalistici.
Le questioni ancora sul tappeto dopo un anno di trattative erano infatti tre: la frontiera irlandese, i diritti di pesca nel mare del nord e le regole del libero scambio per evitare che di fatto gli operatori britannici potessero fruire di un vantaggio non concorrenziale (come un fisco più favorevole, eventuali aiuti di Stato o normative meno onerose in campo ambientale, ecc.). Di questi problemi il più importante è il terzo (non certo la pesca che interessa una percentuale trascurabile degli scambi) e la soluzione trovata che esclude la competenza giurisdizionale dell’UE rimettendo eventuali (inevitabili) controversie a un indefinito “arbitrato internazionale” sembra accogliere le richieste britanniche. Johnson sembra quindi avere ottenuto quanto voleva: il mantenimento di una zona di libero scambio (che conviene al Regno Unito, importatore netto) senza regole vincolanti per gli imprenditori britannici che non siano passate da Westminster. C’è di più: un accordo così favorevole mette in crisi il progetto secessionista degli indipendentisti scozzesi per la difficoltà di dimostrare la convenienza di tornare a far parte dell’Unione. Perchè dunque tanta improvvisa accondiscendenza da parte della von der Leyen (e, dietro di lei, dell’asse Macron – Merkel) nei confronti del governo di Londra?
L’ovvia risposta che un’intesa qualsivoglia conviene a tutti i partner non spiega perchè se ciò è vero non si sia chiusa l’intesa molto prima. Resta da capire se qualcosa di nuovo è intervenuto e in tal caso di che si tratti.

Europa a due velocità
Forse la vera risposta arriverà nel corso del prossimo anno e consistere nel rilancio di un’Europa a due velocità: da una parte una zona di libero scambio molto ampia (che potrebbe comprendere anche paesi che oggi non fanno parte dell’Unione come la Norvegia, la Svizzera, l’Ucraina, la Serbia, l’Albania) con istituzioni in grado di regolarne gli scambi commerciali, dall’altra una più solida confederazione politica e militare, dotata di una moneta comune e di una autentica costituzione fondata sul riconoscimento delle regole dello stato di diritto (tale quindi da spingere paesi esplicitamente illiberali e intolleranti come la Polonia e l’Ungheria a decidere definitivamente da che parte stare). Se di questo si tratta si capisce meglio perchè anche un accordo apparentemente vantaggioso per il Regno Unito può essere accettato dall’Unione Europea. Tanto più se – come ci si augura – l’amministrazione Biden rilancerà il multilateralismo democratico non soltanto rafforzando la NATO ma anche costruendo nuovi rapporti di alleanza con i paesi che in Occidente e in Oriente si riconoscono nei principi dello stato liberale e che non sono soltanto quelli legati da tradizioni di origine anglosassone (come nel caso di Canadà, Australia, Nuova Zelanda) ma anche altri che hanno ormai da molto tempo inserito quei valori nelle proprie culture politiche e sociali.

 

Franco Chiarenza
28 dicembre 2020

La domanda che mi sono posto subito dopo il vertice dell’Unione che ha sbloccato il piano di rilancio economico “Next generation” (con annesso Recovery Fund) su cui i governi di Polonia e Ungheria minacciavano di porre il veto è stata: chi ha vinto (o perso) nel tiro alla fune che da molti giorni contrapponeva Angela Merkel ai premier di Budapest e Varsavia?
Poco se ne capisce dai nostri media tutti concentrati al sollievo per la conferma dei 200 miliardi (sul cui utilizzo già si sta litigando) che parevano compromessi dall’ostinazione di alcuni partner europei (e del Parlamento di Strasburgo) di condizionare gli aiuti europei al rispetto delle regole dello stato di diritto, principio apertamente contestato da paesi che ostentatamente dichiarano di essere democrazie populiste lontane dal modello liberal-democratico degli altri 25 partner. A leggere certi giornali sembra che agli italiani interessi soprattutto incassare i soldi e che per il resto si tratti di impuntature di scarsa importanza. Ma per i liberali non è così: il rispetto dello stato di diritto vale più di qualsiasi finanziamento.

Il compromesso Merkel
Alla fine il compromesso che la leader tedesca ha strappato ha consentito alla Germania di chiudere con un successo non scontato il semestre della sua presidenza dell’Unione. Ma a quale prezzo? Come ne esce la credibilità politica e – diciamolo pure – ideologica di quella che dovrebbe avviarsi a diventare (soprattutto dopo la Brexit) una vera e propria confederazione fondata su principi condivisi? Per capirlo bisognerebbe analizzare il contenuto del compromesso, cosa che i nostri giornali non fanno in maniera adeguata.
Per quel che ne ho capito e fatte salve le inevitabili precisazioni che arriveranno mi pare si possa affermare:
a) – che sulla questione di principio (riconoscimento dello stato di diritto come fondamento dell’Unione) gli altri 25 paesi dell’Unione non hanno fatto alcun passo indietro.
b) – che sulla clausola che condiziona la distribuzione dei fondi europei al rispetto di tale principio la Merkel ha dovuto cercare un compromesso perchè purtroppo i trattati prevedono in molti casi (tra cui quello in oggetto) l’unanimità dei consensi e Polonia e Ungheria hanno minacciato di farla mancare. Portare avanti lo scontro fino alle estreme conseguenze avrebbe comportato una rottura dannosa soprattutto per le popolazioni polacche e ungheresi, in quanto entrambi i paesi sono beneficiari netti delle varie erogazioni europee. Si è preferito, almeno per il momento, evitare il peggio.
c) – che il compromesso è basato su un’interpretazione del vincolo non retroattiva e anzi spostata in avanti al momento in cui eventuali violazioni dello stato di diritto saranno confermate da pronunce definitive della Corte di giustizia europea. Clausola a cui teneva molto il leader ungherese Orban che l’anno prossimo dovrà affrontare elezioni politiche il cui esito non appare del tutto scontato, malgrado i condizionamenti posti ai mezzi di informazione non allineati.
d) – che infine Ungheria e Polonia hanno ottenuto (e questa sarebbe la cosa più grave) che la condizionalità del rispetto dello stato di diritto sia limitata al piano “Next generation” votato dal Parlamento europeo e non ad altri finanziamenti e vantaggi di cui già godevano.
Se questa mia lettura dell’accordo è corretta bisogna riconoscere che per non provocare una frattura dagli esiti incerti si è accettato di pagare un prezzo elevato in termini di credibilità politica. I liberali avrebbero certamente preferito una soluzione più drastica ma la Merkel e Macron (che anche in questa occasione hanno confermato la loro intesa strategica) hanno optato per una soluzione ispirata alla prudenza della “real-politik” nella convinzione che anche i partiti populisti al potere in alcuni paesi europei capiscano che c’è un limite al principio di sovranità oltre il quale scatta inevitabilmente l’incompatibilità con l’appartenenza all’Unione Europea.
A buon intenditor……

 

Franco Chiarenza
14 dicembre 2020

A 94 anni se n’è andata Gianna Radiconcini. Non era una donna liberale, né diceva di esserlo: la sua stessa passionalità, l’intransigenza un po’ settaria di alcune scelte, le certezze in cui si rifugiava non si conciliavano con lo spirito di tolleranza che del liberalismo è parte essenziale. Tuttavia faceva parte a pieno titolo di quell’ampia area di democrazia laica in cui molti liberali si sono riconosciuti nelle grandi battaglie che anche la Radiconcini ha combattuto, a cominciare da quelle sui diritti. Amica e compagna di partito di Oronzo Reale apportò un contributo significativo alla prima riforma del diritto di famiglia che nel 1975 il ministro repubblicano approntò per superare le norme assurde che erano rimaste invariate dai tempi del regime fascista, per continuare, in sintonia con i radicali e noi liberali le battaglie per il divorzio, l’aborto, il diritto di decidere quando e come morire.

L’altro fronte su cui si è dispiegata l’attività di Gianna Radiconcini è quello europeista, non soltanto per essere stata corrispondente della RAI a Bruxelles, ma anche in quanto amica e collaboratrice di Altiero Spinelli, di cui condivideva la visione federalista espressa nel manifesto di Ventotene. Sosteneva che soltanto attraverso un allargamento progressivo dei poteri del Parlamento Europeo sarebbe stato possibile pervenire alla creazione di uno stato federale sul modello americano in grado di esercitare nei nuovi equilibri globali il peso che gli spettava per la sua storia, la sua cultura e le dimensioni economiche e sociali. Ha passato i suoi ultimi mesi tra una partecipazione appassionata alla campagna elettorale per il Parlamento Europeo e la scrittura del suo ultimo libro, dopo il successo di “Semafori rossi”, un’autobiografia romanzata che aveva già destato molto interesse.

I suoi amici la ricorderanno sempre coi suoi maestosi capelli bianchi, circondata da bellissime orchidee nel suo salotto romano di via Cassiodoro dove organizzava riunioni di ottimo livello su tematiche europee, sempre fiduciosa che la logica delle cose avrebbe infine prevalso mettendo d’accordo i rissosi partner dell’Unione.
Giornalista, scrittrice, animatrice di incontri politici, Gianna Radiconcini racchiudeva nella sua esistenza la complessità di una generazione che ha vissuto sulla propria pelle una trasformazione epocale senza precedenti. Non si arrendeva mai; l’ho vista in difficoltà soltanto di fronte a Internet, di cui comprendeva le potenzialità ma rifiutava la logica dei suoi automatismi. Per lei il computer era soltanto una macchina da scrivere più perfezionata della vecchia Lettera 22 con cui aveva scritto i suoi reportage.

Con me liberale il suo azionismo idealistico spesso non andava d’accordo ma in realtà per molti aspetti era più liberale lei di tanti che dicono di esserlo.

Franco Chiarenza
12 dicembre 2020

Il “gran signore” del liberalismo europeo, Valery Giscard d’Estaing, ci ha lasciato.
E’ stato una personalità di rilievo non soltanto per la Francia ma per l’intera Europa. Eletto presidente della Repubblica francese nel 1974 dopo la morte di Georges Pompidou (il successore di De Gaulle) restò all’Eliseo fino alla scadenza del mandato nel 1981. Una presidenza caratterizzata dalla sua formazione liberale, quindi molto attenta ai diritti umani e al rispetto dello stato di diritto, con in più la consapevolezza che l’unità dell’Europa non andava considerata soltanto un’opportunità da cogliere con cautela ma rappresentava ormai una necessità per la stessa sopravvivenza delle nazioni che ne facevano parte: da qui una linea di politica estera che cercava nell’asse con la Germania e l’Italia il perno su cui costruire forme di integrazione sempre più strette. Quando finalmente nel 2002 i paesi aderenti all’Unione Europea decidono di dotare le nuove istituzioni di una carta costituzionale e viene istituita per elaborarla una speciale Convenzione Giscard d’Estaing viene chiamato a presiederla (vice presidenti Giuliano Amato e l’ex premier del Belgio Jean Luc Dehaene). Il progetto, come è noto, naufragò nel referendum confermativo in Francia e in Olanda e, obiettivamente, per come era stato emendato dagli interventi cautelativi degli Stati, meritava questa fine: era farraginoso, confuso nelle competenze, poco innovativo nelle procedure decisionali, certamente insufficiente a configurare un salto di qualità verso una autentica confederazione europea. Non fu colpa della presidenza che lo aveva abbozzato in modo assai diverso, ma piuttosto di un’infinità di compromessi al ribasso che si rivelarono paralizzanti. Col trattato di Lisbona nel 2007 alcuni punti qualificanti del progetto furono ripresi e l’Unione potè compiere qualche passo avanti, ben lontano peraltro dalle aspirazioni degli europeisti.

Ma a noi liberali preme ricordare con quanto vigore Giscard difese una visione laica della cosa pubblica, nazionale o europea che fosse, quando sorse la questione del “preambolo” della Costituzione nel quale si voleva includere un esplicito riferimento alle “radici” cristiane dell’Europa (poi rettificate in giudaico-cristiane per paura delle proteste degli ebrei). L’opposizione di Giscard fu intransigente: un preambolo caratterizzato da un qualsiasi riferimento religioso costituisce la premessa di discriminazioni incompatibili con i principi laici e liberali su cui sin dalle origini si è fondata la comunità europea. Le pressioni della Chiesa (e in particolare di Wojtila e di Ratzinger) furono fortissime ma, nonostante la richiesta fosse stata fatta propria dal governo italiano (allora presieduto da Berlusconi), la proposta non passò.
Si disse di tutto, si interpretò in maniera disinvolta la storia di mille anni di intolleranza religiosa, si fece ricorso al preambolo della Costituzione americana (“In God We trust”) scritto due secoli fa in ben diverso contesto storico e comunque lontano da espliciti connotati confessionali (come poi viene stabilito nel successivo primo emendamento), si paventò l’islamizzazione del Vecchio Continente (rivelando così le reali intenzioni dei proponenti) e dobbiamo all’intransigenza di Giscard se il tentativo non sortì alcun effetto se non quello di aprire un interessante dibattito su come i partiti di ispirazione cristiana intendevano la laicità delle istituzioni pubbliche.
La questione in effetti non era secondaria, come sostenevano quanti la consideravano un innoquo dettaglio su cui si poteva transigere dato che esso non avrebbe comunque trovato nessun concreto riscontro nei successivi articoli della Costituzione. In realtà accettare la formulazione proposta da alcuni movimenti cristiani e dalla Chiesa cattolica significava rovesciare il principio di separazione tra lo Stato e le convinzioni personali, stabilendo che per ragioni storiche una determinata religione dovesse rappresentare una imprescindibile e privilegiata fonte di ispirazione negli orientamenti morali, in piena contraddizione con la concezione laica e liberale scaturita dall’Illuminismo (duramente contestata dalla Chiesa proprio per la sua intrinseca incompatibilità con le verità assolute che nella dottrina cristiana imponevano il rifiuto anche violento di ogni diversità religiosa o filosofica). Una distinzione dunque tra fede religiosa e diritti individuali che Giscard riteneva un punto fermo affinchè nella costruzione europea non trovassero spazio gli integralismi e le intolleranze che già in passato ne avevano minato le fondamenta.
Che il cristianesimo sia parte integrante della storia d’Europa è ovviamente innegabile (così come si può dire della civiltà greco-romana o di altre culture religiose come quella giudaica) ma nulla autorizza a collocarlo in posizione preminente in un testo costituzionale fondato su principi che col cristianesimo – comunque interpretato – poco hanno a che fare.

Non sempre la Francia col suo sciovinismo nazionalista e il suo statalismo invadente può essere considerata un modello per i liberali; ma sulla difesa della laicità delle istituzioni pubbliche Parigi ha sempre tenuto alta l’attenzione. Per questo saremo sempre grati a Giscard d’Estaing per un no che garantisce al Vecchio Continente un futuro non confessionale.

 

Franco Chiarenza
7 dicembre 2020

 

Inutile nasconderselo: da qualche mese Carlo Calenda ha imposto con un’abile campagna che utilizza largamente i social-network la sua candidatura, non soltanto a sindaco di Roma, ma in realtà a “sindaco d’Italia” (per utilizzare un vecchio slogan di Mario Segni di trent’anni fa). Lo fa argomentando in maniera convincente in netta controtendenza rispetto al mainstream corrente della politica nostrana, basato su approssimazioni, fake news, scambi di insulti, volgarità di vario genere.
I liberali lo seguono con simpatia e qualche perplessità, anche se il personaggio non si è mai dichiarato “liberale” in senso ideologico ma piuttosto appartenente a un più largo ambito culturale che potremmo definire liberal-democratico.
La sua originalità (e la conseguente attrattività) consiste proprio nel rifiuto delle gabbie ideologiche e partitiche che continuamente vengono riproposte sotto mentite spoglie, e spingere invece la riflessione sulle azioni piuttosto che sulle idee astratte: non a caso il suo movimento si chiama “Azione”. Il problema centrale del Paese, secondo Calenda, non è “fare cose di sinistra” piuttosto che “cose di destra” (salvo capire cosa ciò significhi realmente), ma semplicemente fare qualcosa.
La sua vis polemica si indirizza all’incapacità della politica di realizzare i propri progetti, qualunque siano: non per responsabilità di una burocrazia inerte e depotenziata, non per colpe altrui, ma per avere perso l’abilità di utilizzare gli strumenti e le strutture esistenti (e le condizioni esterne più o meno favorevoli) al fine di conseguire obiettivi chiari, riconoscibili, su cui i cittadini possano compiere scelte consapevoli. Qualunque liberale autentico non può che avere un riflesso positivo, come il cane di Pavlov quando sente la campanella: gli si presenta subito davanti il volto accigliato di Camillo Benso di Cavour. Purtroppo con una differenza, che Cavour muoveva su una scacchiera complessa forze non sempre omogenee facendole convergere su un obiettivo comune avendo dietro di sé sostegni che gli consentivano di passare rapidamente dal pensiero all’azione, la monarchia, l’esercito, la parte più colta e influente non soltanto del Piemonte ma (attraverso la Società Nazionale) anche degli altri regni italiani, senza parlare della nascente borghesia imprenditoriale che dell’unificazione vedeva tutti i possibili vantaggi. Calenda invece, anche quando dice cose condivisibili appare un isolato, guardato con diffidenza dal partito democratico che in lui teme un nuovo Renzi, detestato da Renzi per la stessa ragione, troppo debole per attivare un consenso deciso da parte di un mondo imprenditoriale indebolito e scottato da precedenti endorsment non corrisposti, e considerato pericoloso dai sindacati sempre timorosi di perdere potere contrattuale senza il mantenimento di quei riti defatiganti che non sembrano compatibili col messaggio calendiano.

Sindaco di Roma?
Così stando le cose il leader di Azione (forte della sua militanza nel gruppo social-democratico del Parlamento Europeo) ha fatto la mossa del cavallo: non ha aspettato che eventuali trattative sottobanco tra Zingaretti e Di Maio si concludessero abbandonando una capitale ingovernabile al dilettantismo dei Cinque Stelle in cambio di altre possibili “conquiste” del PD (Torino, Napoli, Palermo?). Pettegolezzi, fake, falsità, smentirebbero subito i vertici del Nazareno, ma, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.
Non c’è dubbio comunque che la mossa di Calenda ha messo in difficoltà il partito democratico anche perchè la sua candidatura, debitamente appoggiata, sarebbe l’unica in grado di battere la destra, e tutti lo sanno. Da parte sua Calenda rischia poco: da un lato affronta una campagna che gli dà grande visibilità , d’altra parte costringe il PD – anche in vista di elezioni politiche che potrebbero arrivare subito dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato nel 2022, a definire la vera natura dei suoi rapporti (secondo Calenda incestuosi) col movimento Cinque Stelle.

Il Liberale Qualunque sta a guardare: un po’ scettico, un po’ divertito, un po’ ammirato. Ma in fondo al cuore ha una speranza: e se ce la dovesse fare?

 

Franco Chiarenza
1 dicembre 2020

Quanto durerà la pandemia?
LQ: Nessuno lo sa. Secondo alcuni potrà anche prolungarsi, sia pure in forme striscianti, per tutto l’anno prossimo. Per questo bisogna abituarsi all’idea che con questa emergenza (e con altre che potrebbero presentarsi) dobbiamo imparare a convivere per evitare che i suoi effetti collaterali siano più dannosi della causa principale. Per farlo senza traumi occorre adeguare tutti gli strumenti necessari: politici e istituzionali, sanitari, di previdenza e assistenza sociale, rendendoli compatibili con una normale attività economica, produttiva e di servizio.

Il vaccino risolverà definitivamente il problema del Covid?
LQ: Del vaccino sappiamo ancora troppo poco. Gli annunci trionfalistici si susseguono da mesi ma in realtà, al di là dei diversi approcci scientifici di differenti centri di ricerca, vi sono problemi da risolvere che richiedono tempo: sperimentazione sicura, conservazione, distribuzione che eviti forme di speculazione. Speriamo che le autorità pubbliche si preparino tempestivamente e non soltanto a parole. Il che significa che le prevedibili criticità non vanno esorcizzate ma affrontate predisponendo sin d’ora strategie adeguate.

La strategia adottata dal Governo per contrastare la “seconda ondata” è quella giusta?
LQ: A prescindere dagli strumenti legislativi utilizzati (che suscitano in ogni liberale fondate riserve di costituzionalità) nel merito dei provvedimenti si può concordare su due punti fondamentali: il rifiuto del lockdown generalizzato e la gradualità delle limitazioni in rapporto alle situazioni oggettive di ciascuna Regione. Entrambi i punti tuttavia hanno messo in luce criticità che risalgono alle infelici modifiche al titolo V della Costituzione apportate nel 2001.

Quali sono le riserve di costituzionalità che suscitano preoccupazioni in un liberale?
LQ: Rovescio la domanda. Può un semplice decreto del presidente del Consiglio dei ministri sospendere – sia pure in una situazione di emergenza – diritti e facoltà che discendono direttamente dalla Costituzione? Per di più in maniera generalizzata come avvenne col lockdown di primavera?

Cosa c’è che non funziona nel rapporto tra Regioni e Stato?
LQ: Il principio delle “competenze concorrenti” che attribuisce in alcune materie (come la sanità) poteri prevalenti alle Regioni, ma mantiene allo Stato compiti di coordinamento non ben definiti che hanno aperto la strada a conflitti infiniti (anche prima del Covid). Con i DCPM il Governo, spinto dall’emergenza, si è attribuito dei poteri di intervento ( peraltro convalidati dal Parlamento) che sono in contrasto con quelli costituzionalmente assegnati alle Regioni; il che ha creato il caos che stiamo vivendo.

Perché ciò non si è verificato nella prima fase, quando fu decretato un lockdown generalizzato?
LQ: Perché nel clima di terrore che si era diffuso (ampiamente favorito dai mass media) l’opinione pubblica non avrebbe tollerato alcun dissenso sulla linea rigida adottata dal Governo e men che meno conflitti di competenza (che pure ci furono con la Lombardia); qualunque critica veniva considerata un’inaccettabile polemica strumentale. La stessa opposizione di destra, pur non scalfita nei sondaggi, ha avuto comportamenti esitanti e contraddittori tra gli stessi governatori eletti nelle loro liste (Piemonte, Lombardia, Veneto, Sicilia, Liguria, Calabria, Sardegna).

La divisione in zone differenziate nell’adozione delle misure di contenimento è giusta?
LQ: Fondamentalmente sì perché non ha senso limitare le libertà personali e il funzionamento degli esercizi commerciali nella stessa misura in situazioni completamente diverse; provvedimenti coercitivi adottati in base al principio di precauzione senza che vi sia un’emergenza immediata e dimostrabile sono incostituzionali e rappresentano un precedente pericoloso che potrebbe mettere in discussione la concezione stessa di stato di diritto.

Molti hanno sostenuto che la dimensione regionale non rispecchia la varietà delle situazioni. Hanno ragione?
LQ: In effetti la “colorazione” delle Regioni (rosso, arancione, giallo) è apparsa incongrua per una strategia realmente mirata a circoscrivere le zone infette perché all’interno delle Regioni (soprattutto delle più estese) coesistono situazioni molto differenti; la dimensione più adatta sarebbe stata quella provinciale ma le Regioni rappresentano entità amministrative ben definite (e dotate di poteri specifici in materia) le Province non più.

I negazionisti sono davvero soltanto incoscienti rabbiosi da isolare?
LQ: Bisogna distinguere. Quelli che negano l’esistenza del virus e considerano ciò che sta avvenendo un complotto internazionale teso a perseguire fini inconfessabili (chi, quali?) sono semplicemente degli esaltati che fanno parte della falange degli imbecilli che credono che la terra sia piatta; non vanno isolati, vanno ignorati. Altro discorso riguarda quanti sono preoccupati per le conseguenze economiche, sociali e politiche delle misure adottate che potrebbero riflettersi in cambiamenti anche rilevanti degli equilibri istituzionali (per noi liberali tanto importanti!). Essi, e il liberale qualunque tra loro, si chiedono semplicemente se una strategia basata su un inseguimento defatigante degli “infettati” fosse la migliore e se non convenisse, sin dall’inizio, concentrare risorse e strutture sulla cura degli ammalati con sintomi gravi piuttosto che pagare prezzi così alti in termini di vita civile; che, in fondo, è stata la strategia adottata da alcuni paesi come la Svezia, il Giappone, la Corea del sud (e, in pratica, da molti Stati nord-americani). Alla fine il numero dei morti da Covid non è stato in quei paesi, in rapporto alla loro popolazione, superiore a quello che si è dovuto registrare da noi.

L’obbligo della mascherina e il coprifuoco dopo le 22 sono apparsi a molti misure esagerate e inefficaci, utili soltanto a drammatizzare una situazione perfettamente controllabile.
LQ: Ecco il punto. Nessuno mi convincerà mai che l’uso della mascherina (specialmente se fatto in modo approssimativo, come si fa) o la indiscriminata chiusura serale dei ristoranti siano utili a contenere i contagi. Ma il problema è altrove: l’inadeguatezza delle nostre strutture sanitarie a fronteggiare la “seconda ondata”, malgrado essa fosse stata prevista. Le misure adottate dal Governo sono in gran parte strumentali, non servono a contenere il contagio ma a contrarre la circolazione delle persone sperando in tal modo di diminuire la pressione sulle strutture sanitarie. Ma se prima si spaventa la gente e poi ci si lamenta che in troppi si presentano ai pronto soccorso al primo colpo di tosse, qualcosa non ha funzionato nella politica comunicativa adottata dal Governo. E poiché i sintomi iniziali del coronavirus sono assai simili a quelli di una normale influenza il “liberale qualunque” trova assai grave che non si sia provveduto per tempo a distribuire in grandi quantità i vaccini adatti a prevenire l’ordinaria influenza.

Però tutti i paesi europei (esclusa la Svezia) hanno finito per adottare misure di contenimento della diffusione del virus simili alle nostre.
LQ: Infatti il nostro Governo si è mosso in sostanziale sincronia con la Francia e la Germania (anche se in qualche caso con maggior rigore formale); ma ciò non toglie che la discussione sull’analisi costi- benefici della strategia adottata resti aperta. Ma non ora.
Adesso bisogna rispettare anche le disposizioni che non ci piacciono e che abbiamo motivo di contestare; uno stato di diritto consiste pure nel rispettare le responsabilità di governo di chi è stato chiamato dal Parlamento ad esercitarle, soprattutto in un momento di emergenza come quello che indiscutibilmente stiamo vivendo.

La vittoria di Biden sembra, a tutti gli effetti, la rivincita di Obama. Non a caso l’ex-presidente aveva esercitato tutta la sua influenza per fare prevalere nelle primarie la candidatura di Biden, suo vice presidente, nella sfida epocale contro Trump; una sfida tanto più difficile in quanto un presidente uscente è sempre avvantaggiato nel rinnovo del mandato e, per di più, per ragioni complesse che tutti gli analisti hanno abbondantemente illustrato, in un contesto di ripresa economica solo in parte compromesso dall’epidemia Covid 19.
Certo, immaginare la presidenza di Biden come una semplice prosecuzione di quella di Obama, mettendo tra parentesi i quattro anni di Trump, è una semplificazione provocatoria che non va presa troppo sul serio: la storia non conosce parentesi e nessun presidente ricalca fedelmente le orme dei propri predecessori, anche quando appartengono allo stesso partito. Ma non vi è dubbio che le loro radici culturali e politiche siano molto convergenti e che dietro la figura del nuovo presidente molti elettori hanno individuato la proiezione carismatica di Obama. Le prossime scelte del nuovo presidente nella formazione del governo mostreranno in che misura ciò sia vero ma sin d’ora i nomi che circolano sembrano in gran parte confermare un orientamento di sostanziale continuità con l’amministrazione Obama, anche se l’inversione di rotta rispetto alle strategie di Trump non sarà così netta come molti osservatori europei ritengono, non soltanto perché i repubblicani mantengono posizioni predominanti in molti stati e potrebbero confermarsi in maggioranza nel Senato, ma anche per ragioni obiettive che spingeranno il nuovo presidente a seguire in parte le orme del suo predecessore soprattutto sul punto cruciale dei rapporti con la Cina. Ci sarà tempo per analizzare i nodi più importanti che Biden dovrà sciogliere in politica estera (oltre la Cina, la NATO, l’ Europa, l’Afganistan, il Medio Oriente) e in politica interna (riequilibrio fiscale, politica energetica, conflitti etnici, ecc.). Per ora cerchiamo di capire cosa hanno significato per la tenuta della democrazia americana queste elezioni che hanno visto la più elevata partecipazione di sempre.

La frattura

Si è sempre detto che gli Stati Uniti rappresentano un modello di democrazia liberale non soltanto per averne recepito i principi fondamentali riassunti nel Bill of Rights ma anche per essere riusciti a contenere la necessaria dialettica politica e sociale dentro i parametri invalicabili di valori condivisi. Da questa diffusa convinzione discendeva la tolleranza per comportamenti non sempre coerenti con i presupposti ma comunque ispirati a un fair play istituzionale che non era un orpello formale ma il contenitore obbligato delle mediazioni che un sistema politico fondato sull’equilibrio dei poteri rendeva necessarie. La presidenza di Trump è stata vissuta con preoccupazione (non solamente nell’ establishment tendenzialmente democratico), non tanto per il rifiuto provocatorio dei codici del politically correct quanto per essere percepita come un tentativo di rovesciamento dei principi basilari su cui l’America aveva – soprattutto dopo la seconda guerra mondiale – fondato la propria immagine: democrazia partecipata, economia di mercato regolata, multilateralismo per governare la globalizzazione. Il rozzo sovranismo di Trump prefigurava un modello opposto: rifiuto di qualsiasi vincolo internazionale, trasformazione della democrazia partecipata in democrazia plebiscitaria, soppressione di ogni regolamentazione del mercato e ritorno a un capitalismo aggressivo. Intendiamoci: queste due Americhe sono sempre esistite e, quando non hanno trovato un ragionevole terreno di incontro, hanno mostrato anche in passato quanto aspra possa essere la loro conflittualità (basti ricordare in proposito le tensioni istituzionali durante le presidenze di F.D. Roosevelt nella prima metà del secolo scorso). Tuttavia gli apparati dei due partiti maggiori sono sempre riusciti a trovare un accettabile compromesso garantito da un’alternanza che rendeva conveniente a entrambe le parti rispettare il fair play istituzionale.

La tenuta
Con la presidenza di Trump il compromesso è saltato e il tycoon ha cercato di rovesciare il tavolo delle regole trasformando la dialettica politica in una guerra a oltranza, in modo da produrre ferite profonde negli assetti istituzionali. Ci è riuscito? Per ora sembra di no; i suoi tentativi di condizionare la giurisdizione (attraverso il controllo della Corte Suprema), le forze armate, i mass media, le prerogative degli Stati, non sono andati in porto e la macchina istituzionale ha rapidamente archiviato i suoi eccessi come bizzarrie da non prendere troppo sul serio. Malgrado tutto quindi, nonostante quattro anni dedicati a delegittimare il check and balance americano e a trasformarlo in una lotta senza quartiere resa aspra da fanatismi irragionevoli, il sistema ha retto e l’alternanza ha potuto esprimersi salvaguardando l’essenza della democrazia liberale.
La mobilitazione elettorale senza precedenti ha dimostrato che gli americani, o gran parte di essi, hanno capito che la posta in gioco questa volta implicava la credibilità del modello americano e che le motivazioni economiche (ragione principale in passato degli orientamenti elettorali) dovevano segnare il passo a fronte di ragioni che coinvolgevano la natura stessa dello stato di diritto. Anche quella parte di classe media bianca che, secondo molti analisti, aveva riversato le sue frustrazioni sul voto a Trump quattro anni fa, si è resa conto che, al netto di alcuni vantaggi che certamente ne ha ricavato, una presidenza così violentemente antagonista rischiava di trasformarsi in un boomerang incontrollabile. La mancanza di sensibilità istituzionale di Trump, dimostrata anche in occasione della sua sconfitta elettorale, fa parte del gioco ma non costituisce la parte più preoccupante della situazione.

E adesso?
Anche se il sistema istituzionale ha retto altro discorso è quello che attiene alla sostanza delle politiche di Trump, sulle quali il consenso popolare è evidentemente rimasto molto elevato. Ed è questo il punto: confermata la “tenuta” degli assetti istituzionali (almeno per ora) non è tempo di facili illusioni: Trump non è la causa della frattura americana ma la conseguenza di una strategia politica inadeguata che il partito democratico (e i repubblicani moderati) hanno portato avanti in questi anni. Detto in altri termini: forse Trump è finito ma il trumpismo è vivo e vegeto e trascurarne la rilevanza sarebbe un ennesimo errore. Per questo, ferme restando le affinità politiche e culturali, la presidenza di Biden non potrà essere una semplice prosecuzione di quanto le presidenze di Obama avevano lasciato in sospeso.

Franco Chiarenza
16 novembre 2020

La vicenda delle mascherine “anti-Covid” sta diventando un fatto ideologico piuttosto che, come dovrebbe essere, di semplice prevenzione sanitaria. Colpa anche del Governo che invece di sensibilizzare l’opinione pubblica con una ragionevole persuasione si affida a bandi terroristici con minacce sanzionatorie tanto sproporzionate quanto inefficaci. Se qualcuno avanza delle obiezioni viene subito criminalizzato come “negazionista” (cioè una specie di nazista), ma, se ci si parla a quattr’occhi, lontani da intercettazioni, videocamere e quant’altro, verrà fuori la filosofia tutta italiana del “per lo meno”. Sì, forse servono a poco all’aria aperta, ma “così almeno la mettono nei locali chiusi”, forse mille euro di multa sono esagerati ma “così almeno ci stanno più attenti”, effettivamente dipende anche dalle mascherine, quelle che tutti si tengono in tasca e tirano fuori soltanto quando vedono arrivare i carabinieri, sono inefficaci però “così almeno riducono gli assembramenti da movida”. Un vizio diffuso, come quei sindaci che mettono all’ingresso del paese un divieto di velocità di 10 km. orari (manco a piedi!) perchè “così almeno vanno a 50”.

La polemica Mattarella – Johnson

Dietro questo atteggiamento si nasconde un fastidioso paternalismo, purtroppo largamente condiviso perchè gli italiani stessi si considerano inaffidabili e ritengono necessario essere trattati come discoli, con un adeguato apparato di minacce e sanzioni (poco importa se realisticamente efficaci). Quando Manzoni nei “Promessi Sposi” descriveva le “grida” delle autorità spagnole aveva presenti, come in altre parti del libro, vizi e comportamenti a lui contemporanei e che da allora purtroppo si sono mantenuti. Ciò che manca a noi italiani è una cosa importantissima che si chiama principio di responsabilità: certe cose si fanno o no non per paura delle sanzioni ma per convinzione e perchè di ciò che si fa (o non si fa) ci si assume la responsabilità. Quando il premier britannico Boris Johnson ha spiegato che certe misure di “lockdown” erano impossibili nel suo paese perchè gli inglesi “amano la libertà” più degli italiani, si riferiva in realtà al fatto che la società britannica quando si tratta di misure che limitano la libertà personale si affidano alla propria valutazione assumendosene la responsabilità. Quanto ciò sia vero è molto discutibile, ma la piccata risposta del nostro presidente (non a caso ex democristiano di sinistra), non ha colto il punto essenziale, limitandosi a contrapporre un principio di “serietà” stabilito dall’alto con decreti e sanzioni, a quello della libertà responsabile.
La “serietà” deve essere un fatto individuale, basato su informazioni corrette (molto diverse da quelle che i mass media italiani continuano a diffondere, anch’essi condizionati dalla filosofia che bisogna spaventare anche quando basterebbe ragionare perchè “così almeno…”. In Gran Bretagna, ma anche altrove, misure drastiche come il lockdown imposte in regioni e località che mostravano di essere state attaccate dal virus solo marginalmente, non sarebbero state possibili.
L’altro giorno in una delle solite interviste a un virologo (ormai divenuti tutti star del video) la fanciulla che poneva le domande, dopo la scontata risposta ispirata a un sano e prudente terrorismo sanitario, ebbe l’ardire di osservare che però il numero dei morti era drasticamente diminuito, ma di fronte all’imbarazzata ammissione del virologo, ha subito aggiunto che naturalmente non bisognava mettere l’accento su questo dato altrimenti la gente abbassa la guardia. Appunto.

Franco Chiarenza
10 ottobre 2020

Oggi sono in pochi a considerare il venti settembre una data rilevante, degna di essere festeggiata. Questo è un male, perché è il frutto della scarsa memoria storica del paese; ma è anche un bene, perché alla festa parteciperebbero troppi ospiti indesiderati. E soprattutto perché l’anniversario simbolo della laicità dello Stato rischierebbe di trasformarsi nella celebrazione del suo funerale.

Che cosa avrebbero da dire i politici italiani, che hanno fatto a gara per accreditarsi presso le gerarchie ecclesiastiche, cercandovi quella legittimazione culturale che non possedevano in proprio? Che cosa avrebbero da dire i giornalisti, soprattutto quelli del servizio pubblico, che in molti casi hanno fatto dei loro spazi una dépendance del Vaticano e della Cei, oltre che – spesso nello stesso momento – una lussuosa foresteria dei partiti? Che cosa avrebbero da dire questi nuovi leader – di cui non facciamo i nomi per carità di patria, e forse persino per carità di Dio – che sul piano della laicità riescono a far rimpiangere i vecchi, i quali già facevano rimpiangere i vecchissimi?

Allora diciamo qualcosa noi, nel nostro piccolo: una breve riflessione sui rapporti fra Stato e Chiesa nella storia d’Italia può essere infatti di una qualche utilità anche per il presente. Benché il primo articolo dello Statuto Albertino designasse la religione cattolica come religione di Stato, i governanti dell’età liberale erano perfettamente consapevoli della necessità di una politica laica, che non confondesse i piani di Dio e di Cesare. Il modo in cui si era realizzata l’unificazione rendeva questo atteggiamento quasi inevitabile, e l’anticlericalismo – inteso in primo luogo come contestazione del potere temporale del Papa – fu uno dei tratti caratterizzanti di quella fase storica.
Pur animati da ispirazioni differenti, la destra e la sinistra concordavano in linea di massima su questa linea, sia per ragioni politiche che di principio. Vi erano coloro i quali si appellavano al primato della scienza contro la religione, traendo spunto dalla filosofia positivista allora molto in voga. Vi era chi difendeva l’indipendenza dello stato nazionale da ingerenze esterne, sulla base di considerazioni che discendevano da un certo hegelismo di destra. Vi era poi chi – come i cattolici liberali – riteneva improprio e nocivo per la stessa Chiesa l’esercizio del potere temporale. Le cose cambiarono quando gli echi delle antiche lotte iniziarono a spegnersi, a cavallo tra i due secoli. Ci si era resi conto che i cattolici si erano integrati nello stato nazionale e non coltivavano più, almeno nella loro grande maggioranza, propositi di rivincita.

Sebbene alcuni uomini politici considerassero come una minaccia tanto i neri (i clericali) quanto i rossi (i socialisti), si affermò presto la convinzione che questi fossero più minacciosi di quelli, e che potesse essere utile guadagnare i primi alla propria causa. Fu soprattutto Giolitti ad adottare un diverso atteggiamento nei loro confronti, pensando di poterli utilizzare per la stabilizzazione del sistema. Ma fu la Grande Guerra a mutare completamente lo scenario. Alla fine del conflitto nacquero nuovi partiti; e tra questi il Partito popolare di don Sturzo, che replicava con maggior successo il precedente tentativo di Romolo Murri. Era un modo per integrare le masse cattoliche nella vita nazionale, con un programma di tipo riformatore.
Ma qualche anno dopo, il Papa fece la sua scelta, e scelse Mussolini abbandonando Sturzo, che dovette partire per il suo lungo esilio. Quello tra il fascismo e la Chiesa cattolica fu un patto di potere, che sarebbe sfociato nella firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929. Il secondo dopoguerra vide la sconfitta del fronte laico sull’articolo 7 della Costituzione: una sconfitta amara, dovuta tra l’altro alla diserzione di molti presunti laici, a cominciare dai comunisti.

Gli anni successivi furono caratterizzati da significative battaglie per la laicità, sul piano culturale e del costume, che contribuirono alla secolarizzazione e alla modernizzazione del paese. Il risultato del referendum sul divorzio – una legge che era stata introdotta quattro anni prima grazie allo sforzo congiunto del radicalsocialista Fortuna e del liberale Baslini – rese esplicito il rifiuto, da parte di una larga maggioranza di cittadini, di bardature che percepivano come imposte, e che non rappresentavano più il sentimento profondo della società italiana.
In questi casi, si conclude spesso rimpiangendo i grandi laici di una volta, da Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi, fino – perché no? – a Marco Pannella. E invece di questi tempi viene spontaneo rimpiangere i cattolici di una volta, che erano cattolici veri, e non baciapile improvvisati che agitano rosari mai sgranati e Vangeli mai letti. Era un cattolico vero e non un clericale De Gasperi, che seppe dire no a Pio XII, comportandosi con la dignità di un uomo delle istituzioni: ed è impietoso il confronto con gli attuali protagonisti della nostra vita pubblica. Altri uomini, e forse anche altre istituzioni. Montanelli scrisse che De Gasperi entrava in chiesa per parlare con Dio, mentre Andreotti parlava col prete. I clericali di oggi – che meno credono, più fingono di credere – non parlano né con l’uno né con l’altro. Non con il prete, che spesso è molto meno clericale di loro. Non con Dio, perché probabilmente – se hanno una coscienza – in fondo temono si faccia vivo.

 

Saro Freni
29 settembre 2020

Fatto finalmente questo stupido referendum che non servirà a niente è venuto il momento di affrontare i veri problemi istituzionali importanti che non riguardano il numero dei deputati ma la loro qualità e i loro poteri; il che, in termini concreti, significa mettere mano alla nuova legge elettorale e superare il bicameralismo integrale che caratterizza da settant’anni il nostro sistema legislativo.

Legge elettorale
Il modo di eleggere i nostri rappresentanti in Parlamento è fondamentale: la Costituzione non dice nulla in proposito lasciando alle leggi ordinarie il compito di determinarlo. Il che ha significato nel tempo che ogni maggioranza ha cercato di disegnare una legge elettorale che garantisse il suo mantenimento (con maggiore o minore successo). La fantasia degli studiosi della materia si è in questi ultimi anni scatenata immaginando sistemi complicati che spesso hanno dato risultati assai diversi dalle previsioni, dovendo anche tenere conto dell’esistenza del Senato per il quale la Costituzione prevede un vincolo di rappresentanza regionale non facilmente eludibile. Ma, gira e rigira, il dilemma, – da noi come in ogni altra democrazia parlamentare – è relativamente semplice: si tratta di decidere se privilegiare il principio di rappresentanza o invece quello della governabilità, essendo praticamente impossibile garantirli entrambi nella stessa misura.
Il principio di rappresentanza assicura lo stesso peso ad ogni voto espresso e si traduce in un sistema proporzionale (tanti voti, tanti deputati), corretto di solito da uno sbarramento per evitare un frazionamento eccessivo (in Germania, per esempio, è il 5%); esso rispecchia fedelmente l’effettiva composizione dell’opinione politica degli elettori ma spesso non consente la formazione di maggioranze stabili e quindi incide sulla governabilità (obbligando i partiti ad alleanze talvolta eterogenee).
Il principio di governabilità presuppone una legge elettorale uninominale per la quale il territorio nazionale viene diviso in collegi in cui il candidato deputato viene eletto a maggioranza (con turno unico o ballottaggio), un po’ come avviene nelle elezioni comunali; essa garantisce maggioranze certe e quindi la governabilità, ma spesso non riflette l’effettiva composizione delle diverse opinioni (escludendo di fatto dalla rappresentanza i partiti minori). Il sistema è normalmente adottato nei paesi di tradizione anglosassone (Gran Bretagna, Stati Uniti, ed altri), dove infatti può succedere (ed è accaduto) che la maggioranza parlamentare non coincida coi voti popolari complessivamente considerati.
Una variabile del sistema proporzionale pensata per conciliare almeno in parte la rappresentanza e la governabilità, è il sistema maggioritario che assegna alla lista vincente (o a un gruppo di liste alleate) un “premio di maggioranza” costituito da un numero di seggi aggiuntivo rispetto a quelli effettivamente conseguiti.

Naturalmente tutti i sistemi possono essere integrati da correttivi che ne attutiscano gli effetti negativi ma, in sostanza, quando si discute una legge elettorale è tra i primi due principi (rappresentanza o governabilità) che si deve scegliere.

L’esperienza di questi settant’anni ha dimostrato:

  1. che i sistemi proporzionali (anche nella versione maggioritaria) consentono ai partiti di esercitare un potere determinante nella formazione delle liste e quindi nella scelta dei parlamentari. Anche quando le liste non sono bloccate gli elettori di fatto danno la preferenza al partito dal quale si sentono maggiormente rappresentati più che ai singoli candidati. La prima repubblica che a lungo aveva adottato sistemi proporzionali è stata definita infatti “partitocratica”. In realtà essi hanno dimostrato di funzionare in maniera accettabile soltanto quando il contesto politico è caratterizzato da un sostanziale bipartitismo, con pochi grandi formazioni politiche in grado di alternarsi al potere senza produrre cambiamenti eccessivamente radicali (come accadeva in Germania e in Spagna fino a poco tempo fa). Essi inoltre privilegiano il rapporto tra candidati-deputati e partito di appartenenza rispetto a quello tra candidati-deputati e territorio.
  2. che peraltro i sistemi uninominali possono, in talune circostanze, non riflettere la reale volontà politica dell’elettorato perchè l’elezione dei deputati dipende dall’estensione dei collegi e dal radicamento territoriale dei partiti (in Italia, per esempio, penalizzerebbe un movimento come i Cinque Stelle). Essi consentono però di instaurare un rapporto molto stretto tra rappresentati e rappresentanti (che da un lato dà a questi ultimi maggiore autonomia rispetto al partito che li ha candidati, ma d’altra parte favorisce il clientelismo e i condizionamenti localistici delle scelte politiche). I sistemi uninominali hanno indubbiamente il vantaggio di indicare subito con certezza la maggioranza di governo, determinando nei paesi che li hanno adottati forme di alternanza abbastanza riconoscibili da parte dell’elettorato (secondo lo schema “progressisti”/“conservatori”, talvolta con liberali e verdi a far da terzi incomodi).
  3. che naturalmente l’efficacia dei modelli elettorali dipende anche dalle altre variabili istituzionali. Se adottati in regimi presidenziali (come quello americano e, in parte, quello francese) hanno una valenza, se utilizzati in monarchie costituzionali (dove il Capo dello Stato non è elettivo e non esercita funzioni di direzione politica), come avviene nell’Europa settentrionale, ne hanno una completamente diversa.
  4. infine che bisogna tenere conto dell’esistenza dei tanti livelli intermedi dotati di poteri legislativi (come gli “States” negli Stati Uniti, i “Lander” in Germania, le autonomie speciali in Spagna e in Gran Bretagna e, naturalmente, delle Regioni a casa nostra).

Senato

E’ raro trovare nelle democrazie parlamentari due assemblee sostanzialmente simili nella modalità di elezione, nella durata e nei poteri legislativi, come avviene in Italia. Ciò ha sempre comportato lentezze nei procedimenti legislativi e talvolta maggioranze instabili. Tutti i tentativi di riformare su questo aspetto la Costituzione sono abortiti ma adesso, con la riduzione dei parlamentari, il nodo diventa centrale.
Prima domanda: non conviene a questo punto sopprimere semplicemente il Senato?
Io credo di no, perchè una seconda camera “di riflessione” può essere utile per depurare l’attività legislativa dai fattori emozionali che talvolta la condizionano (un po’ come le corti d’appello rispetto ai tribunali). A condizione però che il Senato non abbia gli stessi poteri della Camera dei deputati (per esempio in materia di fiducia al governo o di approvazione del bilancio) e svolga invece una funzione utile e complementare rispetto alla prima Camera, per esempio nei controlli di qualità sulle nomine ai vertici della pubblica amministrazione, nei trattati internazionali, nelle leggi (non di bilancio) che coinvolgono il ruolo e le funzioni delle Regioni.
A tal fine il Senato deve essere composto in maniera diversa dalla Camera dei deputati. I costituenti nel 1947 avevano indicato alcune differenziazioni: durata diversa, età differente per elettori e eleggibili, ma la tendenza di tutte le mini-riforme è stata di rendere le due Camere sempre più omogenee.
Seconda domanda: come hanno risolto il problema quei paesi europei che hanno mantenuto forme di bicameralismo?
In Gran Bretagna la Camera dei Lord, al netto dei membri ereditari che provengono da poche famiglie di antica nobiltà, è costituita da personalità nominate a vita dalla Regina su indicazione del primo ministro, un po’ come avveniva nel Senato regio della monarchia italiana. Di fatto essa svolge un’utile funzione di “consulenza” giuridica e costituzionale e molto raramente respinge una legge approvata dai Comuni, e quando lo fa la Camera elettiva può sempre confermare le proprie scelte obbligando il Capo dello Stato a promulgare la legge contestata.
In Germania la struttura federale dello Stato ha consigliato di prevedere una seconda Camera (Bundesrat) composta da rappresentanti delle Regioni (Lander). I suoi poteri sono specificati dalla Costituzione ma in linea di massima il Bundesrat partecipa alla funzione legislativa in maniera limitata, restando al Bundestag (parlamento federale, eletto con sistema proporzionale previo sbarramento del 5%) il potere di nominare e sfiduciare il Cancelliere federale (capo del governo), approvare le leggi di bilancio, ecc. Al Bundesrat peraltro sono riconosciuti alcuni poteri specifici (per esempio in materia di politica europea) e di fatto esso esercita un potere di controllo sull’attività del parlamento federale; insieme ad esso elegge i giudici costituzionali (metà e metà). La sua composizione è variabile perchè ogni nuova maggioranza nei lander può sostituire la propria rappresentanza nell’assemblea, ragione per la quale spesso (come adesso) la maggioranza che sostiene il governo al Bundestag può non coincidere con quella esistente nel Bundesrat, senza che ciò incida sulla governabilità.
In Francia il Senato partecipa a pieno titolo alla funzione legislativa ma ha poteri limitati; quelli essenziali infatti (come la fiducia al governo) spettano all’assemblea nazionale (elettiva) che ha sempre l’ultima parola in caso di disaccordo. I senatori sono eletti con procedura indiretta attraverso i dipartimenti coinvolgendo deputati, senatori, consiglieri dipartimentali e regionali, consigli municipali. Il Senato viene rinnovato per metà ogni tre anni. Il sistema è un po’ macchinoso ma serve a coinvolgere gli enti locali – seppure indirettamente – nell’attività legislativa. Si tenga presente inoltre che in Francia vige un sistema semi-presidenziale che concentra nel presidente della repubblica (elettivo) molti poteri che in altri paesi sono svolti dai capi di governo designati dai parlamenti.
Anche in Spagna il Senato non ha gli stessi poteri della Camera bassa (Cortes) in quanto, per esempio, soltanto quest’ultima vota la fiducia al governo e in caso di conflitto con il Senato prevale la volontà della Camera se la legge viene riapprovata con una maggioranza qualificata (salvo che per le leggi costituzionali). Il sistema di elezione dei senatori è molto diverso da quello della Camera perchè tiene conto delle differenti autonomie locali (58 su 266 senatori sono eletti dalle 17 assemblee delle Comunità autonome).

Come si vede molte sono le soluzioni possibili: la peggiore era quella individuata da Maria Elena Boschi nella riforma costituzionale proposta da Renzi e bocciata nel referendum confermativo del 2018 che, per risparmiare sugli stipendi dei senatori, li trasformava in commessi viaggiatori dalle regioni di provenienza (di cui erano anche consiglieri) a Roma, col risultato che o facevano una cosa o l’altra. Un pasticcio memorabile che ancora ricordiamo con orrore.
L’importante è mantenere al Senato la connotazione di rappresentanza degli interessi locali che la Costituzione già aveva prefigurato nel 1947, sancirne compiti e funzioni in modo chiaro che non dia adito a troppe interpretazioni controverse, cercare su questa riforma un consenso trasversale coinvolgendo le opposizioni, come sempre si dovrebbe fare in materia di revisioni costituzionali, e iniziare al più presto l’iter legislativo perchè il nuovo Senato possa essere funzionante in coincidenza con lo scadere della legislatura.

 

Franco Chiarenza
22 settembre 2020