E’ passato, quasi in silenzio, accanto a quello della Liberazione, un altro anniversario, quello dell’uccisione di Benito Mussolini avvenuta tre giorni dopo. Lo ricordo perché sulle circostanze che portarono alla sua frettolosa soppressione non c’è mai stata chiarezza e molti sono gli interrogativi che ancora oggi possiamo porci.
Mussolini e la sua storica amante Claretta Petacci erano stati catturati dalle brigate partigiane mentre tentavano la fuga nascosti in una carovana militare tedesca che, secondo gli accordi presi con gli alleati, stava abbandonando il Paese ormai quasi completamente occupato dalle truppe anglo-americane. Sulla loro morte le testimonianze furono contraddittorie e parziali, le ambiguità imbarazzanti, i dettagli stessi dell’improvvisata esecuzione poco credibili.

Mussolini aveva governato l’Italia come dittatore per circa vent’anni. Le sue responsabilità erano indiscutibili. Ne ricordo tre che mi paiono le più gravi: l’eliminazione di ogni forma di democrazia pluralista col suo seguito di persecuzioni violente nei confronti degli oppositori, l’alleanza con il nazismo di Hitler e la conseguente vergogna delle leggi razziali, la cinica e dilettantesca entrata in guerra in condizioni di impreparazione che è costata al popolo italiano centinaia di migliaia di morti e distruzioni immense materiali e morali. Ce n’è abbastanza per una condanna esemplare, perché preoccuparsi di come realmente è stata eseguita? Per almeno due ragioni: perché per un liberale, soprattutto in casi esemplari come quello di cui trattiamo, la forma è importante quanto la sostanza, e soprattutto perché è stata un’occasione mancata per fare i conti non con uomo ma con un’ideologia.
Un vero processo a Mussolini fatto da una Corte italiana (senza delegarlo a tribunali costituiti dalle potenze vincitrici, come fu quello di Norimberga) avrebbe consentito di esprimere solennemente un giudizio sulle responsabilità storiche del fascismo e sulla sua natura illiberale e anti-democratica ottenendo due importanti risultati: un coinvolgimento popolare che avrebbe rappresentato il fondamento della nuova nazione, e, non meno rilevante, la dimostrazione davanti al mondo che il nostro Paese era in grado di fare da solo il proprio esame di coscienza e punire i responsabili della soppressione della libertà. Perché non si volle fare? Quali interessi spingevano ad eliminare rapidamente e silenziosamente il maggiore responsabile della nostra tragedia nazionale e i suoi complici? E poi: perché uccidere Claretta Petacci, la quale non aveva avuto alcun ruolo politico nelle vicende del fascismo?

Se è vero che l’uccisione immediata di Mussolini fu autorizzata dal CLNAI (ma una documentazione convincente in proposito, non creata ex-post, in realtà non esiste) si trattò di un errore gravissimo. C’era forse un pericolo di fuga o che l’ex-dittatore potesse essere messo in salvo da formazioni militari fasciste? Non risulta.
Si è detto che si voleva impedire che Mussolini cadesse nelle mani degli anglo-americani perché ciò avrebbe comportato un processo intentato dai vincitori come quello che fu poi imbastito a Norimberga nei confronti dei criminali di guerra nazisti. Ma la spiegazione non regge a un’analisi attenta dei fatti. Cosa impediva al CLN di prendere in consegna il prigioniero e chiedere che fosse giudicato in Italia da un tribunale speciale dato che, a differenza di ciò che avverrà in Germania, un governo legittimo riconosciuto dagli alleati esisteva e, a quell’epoca, era già espressione del CLN (governo Bonomi)? Perché quell’esecuzione frettolosa davanti al cancello di una casa semi-abbandonata in una strada secondaria?
Si è detto che un processo pubblico avrebbe fatto emergere le corresponsabilità dell’intero popolo italiano; e allora? Ragione di più per farlo, distinguendo le responsabilità di chi impose un regime di violenza anche psicologica e di chi lo subì più o meno passivamente. Se quindi questa è stata la ragione dell’esecuzione sommaria si trattò di una valutazione cinica ed errata che inevitabilmente si rifletteva sul futuro creando le condizioni per un ritorno alla normalità pieno di ambiguità, come di fatto avvenne.
Si è detto che Mussolini portava con sé documenti che provavano la simpatia di Churchill per il fascismo. Vero o no si tratta di questione irrilevante. Tali simpatie erano ampiamente note come pure i tentativi di Roosevelt e Churchill per mantenere l’Italia estranea al conflitto (anche chiudendo un occhio sul regime totalitario che la governava). E poi sembra francamente difficile che Audisio (che secondo la versione ufficiale avrebbe da solo effettuato l’esecuzione), esponente di primo piano del PCI e più tardi deputato comunista, agisse per proteggere gli interessi degli inglesi.
Si è detto che conveniva alla Corona fare scomparire un testimone scomodo delle connivenze tra la dinastia sabauda e il fascismo. Ma, anche in questo caso, nulla di più di ciò che era stato evidente a tutti si poteva rivelare e, in ogni caso, non si vede la convenienza dei comunisti ad assecondare un tale disegno.
Le perplessità aumentano se si pensa a quel che avvenne dopo l’uccisione di Mussolini e che si sarebbe potuto evitare con un regolare processo, qualunque ne fosse l’esito, anche la condanna a morte. Chi autorizzò la macabra esposizione dei cadaveri appesi con un gancio a testa in giù, sotto lo sguardo ironico dei cineoperatori americani che ne diffondevano le immagini in tutto il mondo e che non giovarono certo al nostro prestigio internazionale?
Quando la soppressione dei dittatori avviene con modalità poco trasparenti, più simili a un linciaggio che a una regolare esecuzione, la ragione è sempre la volontà di evitare un processo pubblico: come avvenne, tanto per fare esempi più recenti, nel caso di Ceasescu in Romania nel 1989 e di Gheddafi in Libia nel 2011.

In conclusione le domande sono tante e non hanno mai ricevuto risposte convincenti neanche da parte dei protagonisti dell’epoca. Non so se ci sono ancora archivi sconosciuti da aprire: ma se ci sono vanno cercati nell’ex PCI o in quelli dei suoi principali dirigenti di allora, a cominciare da Luigi Longo che nella vicenda dell’esecuzione di Mussolini svolse – a quanto pare – un ruolo decisivo.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2020

La gente comune, in maggioranza priva di una laurea in economia, non ci capisce più nulla: MES no, eurobond sì, BEI bòh, fondi speciali non si sa. Poi c’è la BCE col QI, il SAFE. Tutti si improvvisano economisti e aumentano la confusione. Si litiga tanto ma non si comprende bene su che cosa. Certo si tratta di soldi, questo almeno è chiaro; soldi nostri che l’Europa non vuole restituirci (secondo Salvini e Meloni) e di cui sdegnosamente potremmo anche fare a meno chiedendoli a Cina, Giappone, (e perchè no alla Corea?); soldi europei di cui abbiamo bisogno (secondo Conte e Gualtieri) e che non possiamo ottenere da nessuno al di fuori dell’Europa. Allora, come stanno realmente le cose?
Secondo il Liberale Qualunque stanno semplicemente così.

Cosa intendiamo per Europa
L’Europa non è quella che gli europeisti vorrebbero e nemmeno quella che i sovranisti (meglio chiamarli nazionalisti) immaginano. Si tratta, oggi come oggi, di un club di stati nazionali che si sono associati per convenienze economiche e a tal fine hanno messo insieme alcune risorse finanziarie creando strumenti adatti per amministrarle: alcuni di essi hanno addirittura rinunciato a battere moneta in favore di una moneta unica in grado di fronteggiare l’egemonia del dollaro americano sui mercati internazionali. Tutto il resto è fumo negli occhi: parlamento europeo, corte di giustizia, burocrazia di Bruxelles. Certo, molti di noi, i liberali più di tutti, vorrebbero che fosse molto di più, ma dobbiamo essere realisti: oggi l’Unione Europea è sostanzialmente quella che abbiamo descritto e quindi, come in qualsiasi club che si rispetti, bisogna fare i conti con tutti i suoi soci ognuno dei quali ha un voto e le decisioni quasi sempre vanno prese all’unanimità. Ma come accade in tutti i club, i soci sembrano tutti uguali ma qualcuno di loro conta di più (per ricchezza, prestigio, origini familiari, ecc.). E’ il caso di Francia e Germania, ma pure l’Italia, per varie ragioni che qui sarebbe troppo lungo elencare, fa parte del gruppo di soci più autorevoli anche se la sua immagine si è molto incrinata negli ultimi anni.
Quando uno dei soci si trova in difficoltà ha il diritto di chiedere l’aiuto degli altri ma chi deve garantire i prestiti necessari ha anche il diritto di chiedere adeguate garanzie; funziona così ovunque, nelle famiglie, nelle collettività, nei mercati. Se uno dei soci bara e dichiara situazioni che non corrispondono alla realtà i casi sono due: o viene espulso dal club oppure i soci gli danno l’aiuto necessario a precise condizioni e con vincoli molto stringenti. E’ quello che è avvenuto con la Grecia e tra i soci che chiedevano garanzie per aiutarla c’eravamo anche noi. Piaccia o meno così ha funzionato l’Unione Europea fino ad oggi; chi non ci sta può sempre andarsene (come ha deciso di fare la Gran Bretagna).

Coronavirus
Con l’arrivo micidiale della pandemia Covid 19 le regole esistenti sono sembrate insufficienti a tutti i soci; non è di questo che si discute. Per fare ripartire l’economia dopo la batosta occorrono misure straordinarie e ciò vale per l’Italia ma anche per gli altri paesi. La Banca Centrale Europea si è attivata (dopo qualche esitazione) e acquisterà titoli (anche italiani) per centinaia di miliardi. Quali sono allora i problemi? Sono due: la quantità di risorse da immettere nel sistema per impedire strozzature finanziarie (che potrebbero venire anche dai mercati extra-europei) ma che non possono superare certi limiti senza il rischio di innescare processi inflattivi incontrollabili, e come distribuire i fondi cash immediatamente disponibili. Ed è qui che casca l’asino, o meglio si fa sentire il pregiudizio dei nostri partner nei confronti della capacità dei nostri governi di utilizzare correttamente risorse che provengono dalla cassa dell’intero circolo, e cioè di tutti i suoi componenti. Hanno torto?
Bisogna essere onesti: in passato l’Italia si era impegnata a ridurre il debito pubblico almeno della metà per allinearlo a quello degli altri soci e non lo ha fatto. Ha chiesto tempo e deroghe per sistemare alcune condizioni strutturali che strozzavano l’economia e non lo ha fatto; al contrario ha disperso le risorse disponibili in misure assistenziali di dubbia efficacia. Ha ottenuto l’assegnazione di fondi europei destinati alle aree meno sviluppate (in cui rientrava il nostro Mezzogiorno) e non li ha utilizzati, tanto che per la maggior parte sono finiti dirottati in altri paesi (come Spagna e Portogallo). Cosa pensereste se foste tedeschi o olandesi qualunque? Uno dei “difetti” della democrazia è che bisogna tenere conto non soltanto dei governi ma anche delle opinioni pubbliche, e queste si formano anche su pregiudizi amplificati dai mass-media; non sempre i governi, soprattutto se dispongono di maggioranze deboli, riescono a mediare tra la “pancia” delle credenze populiste e i veri interessi del loro paese. E’ sempre stato così, figurarsi in tempi di social-network.
Detto questo resta il fatto che il “club Europa” – piaccia o no – si fonda su un’economia di mercato regolata in cui i problemi del disagio e dell’emarginazione si risolvono aumentando l’efficienza produttiva e con essa i posti di lavoro, riservando le misure di assistenza sociale a quanti si trovano realmente in condizioni di povertà; il che, almeno nella percezione delle pubbliche opinioni dei paesi settentrionali, il nostro paese non ha fatto. In sostanza, per non farla troppo lunga, i nostri partner non si fidano di come spenderemo le risorse che il club potrebbe metterci a disposizione e vorrebbero essere certi che i soldi vadano realmente alle persone e alle strutture produttive danneggiate dal coronavirus e non vengano dispersi in altre direzioni. L’opposizione (Salvini e Meloni) indignata invoca l’orgoglio nazionale, la maggioranza si batte sui tavoli europei per strumenti flessibili che non implichino controlli e supervisioni; ma l’Italia col suo deficit da record mondiale si trova in difficoltà e rischia l’isolamento. Ecco in cosa consiste la partita che si sta giocando a Bruxelles.

Italexit?
Inutile girarci troppo intorno: nel club o ci si sta con le regole che noi stessi abbiamo contribuito a scrivere o se ne esce. Cambiare le regole si può ma è un lavoro lungo e difficile che certo non si risolve in poche settimane, e anche l’ipotesi di creare un altro club più esclusivo con i soci disposti a trasformarlo in una vera comunità politica fondata su valori condivisi richiede tempi lunghi. Adesso non ci sono alternative: cercare aiuti fuori dall’Unione significa fare un passo verso l’uscita come appunto vorrebbero le minoranze nazionaliste (non soltanto in Italia).
Ma poi: chi ci dovrebbe aiutare e a quale prezzo? Perchè gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone o chiunque altro (a prescindere dal fatto che sono anch’essi duramente colpiti dalla pandemia) dovrebbero darci consistenti aiuti senza adeguate garanzie? Certo, il “piano Marshall” – spesso evocato – era un aiuto a fondo perduto ma era stato concepito per aiutare un paese distrutto dalla guerra e che non aveva risorse sufficienti per superare l’emergenza; l’Italia di oggi, malgrado tutto, non è nelle stesse condizioni. E poi dove va a finire la “dignità nazionale” sempre evocata dalla coppia Salvini-Meloni?
“Faremo da soli” è la sdegnata risposta di Salvini, e non è una minaccia da prendere alla leggera perchè in realtà fare da soli si può. Basta uscire dall’euro, deprezzare la moneta che lo sostituisce, rapinare il risparmio privato trasformandolo forzosamente in titoli di credito garantiti dallo Stato, difendere la produzione nazionale creando barriere doganali, evitare i fallimenti attraverso indiscriminate nazionalizzazioni; ma il prezzo che pagherebbero gli italiani sarebbe altissimo.
Buona parte delle esportazioni non troverebbe sbocchi adeguati, merci e servizi esteri dovrebbero essere pagati in dollari (il cui cambio sui mercati finanziari ci penalizzerebbe), il potere d’acquisto reale diminuirebbe e con esso i consumi interni; insomma un avvitamento all’indietro che ci riporterebbe agli anni ’30 del secolo scorso. E magari, passo dopo passo, dopo avere riesumato dal fascismo autarchia e corporativismo, anche il modello politico potrebbe modificarsi per passare da una democrazia liberale a una democrazia illiberale (come propongono gli esempi di Putin e di Orban).
Prima di buttare alle ortiche quello che abbiamo costruito negli ultimi settant’anni stateve accorte.

Franco Chiarenza
16 aprile 2020

Se esiste un Aldilà Luciano Pellicani sorriderà di questa sua postuma iscrizione al liberalismo; lui, socialista doc, consigliere e amico di Craxi e di Martelli. Eppure raramente, anche tra i liberali che credono di essere tali, ho conosciuto una persona che meglio di Pellicani sollecitasse la mia curiosità intellettuale ed esercitasse con le sue teorie sociologiche e politiche un’attrazione del tutto compatibile col mio essere liberale.
Ho collaborato con Pellicani alla scuola di giornalismo della LUISS e in seguito ho avuto occasione di incontrarlo alla Fondazione Einaudi di Roma e a “Mondo Operaio” quando si cercava di immaginare qualche soluzione all’annoso problema del servizio pubblico radio-televisivo.
Colto, intelligente, chiaro nelle sue esposizioni, aperto anche alle contestazioni non pretestuose, era molto apprezzato dai suoi studenti alla LUISS.
Prima che la Fondazione Einaudi sprofondasse avevo cercato di costituire una sorta di “accademia” liberal-democratica (Consulta Liberale) col compito di adeguare concettualmente il liberalismo alle nuove esigenze che scaturivano dai processi che esso stesso aveva innescato nel secolo scorso; gli chiesi di farne parte insieme ad altri esponenti della cultura politica di quegli anni che ritenevo culturalmente contigui ai più recenti sviluppi del pensiero liberale. Accettò senza riserve e si rammaricò quando il progetto fallì per il venir meno della Fondazione stessa, passata poi in mano ad altri meno interessati ad approfondire tali tematiche.

Si deve a Pellicani se il partito socialista, superando l’impasse marxiana e riscoprendo antiche matrici umanitarie e libertarie, riuscì ad approdare con la leadership di Craxi a una concezione democratica socialista molto contigua a quella liberal-democratica. La sua avversione al leninismo, documentata in molti suoi scritti, si traduceva non soltanto in un rifiuto del comunismo come si era storicamente realizzato ma anche dei maldestri tentativi riformisti di quanti dopo il crollo del 1989 si ostinavano a mantenere forma e sostanza superati dalla storia accontentandosi di una sommaria riverniciatura che rendesse accettabile l’alternativa di sinistra in un contesto irreversibilmente pluralista. Fu l’ispiratore della fase migliore del “craxismo”, quando la leadership socialista si propose come soggetto di una profonda riforma istituzionale, politica e sociale, in grado di allineare l’Italia ai paesi più avanzati dell’Occidente. La sua speranza di realizzare anche in Italia un bipolarismo costruttivo fondato su un’alternanza che si riconoscesse in alcuni principi fondamentali dello stato di diritto non si è mai realizzata. Dall’egemonia monopartitica della DC il Paese è scivolato in un’alternanza di maggioranze populiste e ambigue, caratterizzate da leadership personalizzate che si delegittimano reciprocamente; un esito che Pellicani non aveva previsto, come d’altronde nessuno di noi.

Franco Chiarenza

Quanto questo virus sia straordinariamente pericoloso è innegabile. Se ne è detto e scritto da ogni parte e resterà oggetto di discussione se le misure prese per contenerlo siano proporzionate alle conseguenze economiche che ne deriveranno e soprattutto se fosse necessario sospendere alcuni diritti fondamentali in nome dell’emergenza. Quando Covid 19 allenterà la sua presa i sostenitori delle misure draconiane diranno che è merito loro, gli avversari (pochi, per la verità) sosterranno che il virus ha esaurito la sua carica mortale per ragioni naturali; e probabilmente avranno ragione entrambi nel senso che la riduzione della circolazione di uomini e cose avrà certamente favorito il contenimento dei contagi ma probabilmente la sconfitta del virus dipenderà essenzialmente da ragioni naturali, come è stato in passato per analoghe infezioni.
Non di questo però si dovrebbe discutere, ma delle conseguenze politiche ed economiche che potranno derivare da questa emergenza.

Conseguenze politiche
Il sistema politico italiano si è rivelato impreparato alla gestione delle emergenze. Se si fa eccezione per la legge che ha istituito la Protezione Civile, non esistono – a quanto ne so – altri strumenti giuridici che la regolano; non a caso l’emergenza Coronavirus è stata governata da decreti del presidente del consiglio di dubbia costituzionalità trattandosi della sospensione di diritti costituzionalmente garantiti. E poiché le emergenze continueranno ad esserci e per loro natura sono imprevedibili si tratta di una falla che – appena sarà possibile – occorre riempire di nuovi contenuti. Non ho dubbi che nuove regole in proposito debbano avere carattere costituzionale e comprendere oltre a una precisa definizione delle emergenze le procedure corrette per farvi fronte. Sarebbe opportuno attribuire al Capo dello Stato (in quanto “super partes”) il potere di proclamare lo stato di emergenza e affiancare al governo un ristretto comitato parlamentare in caso di sospensione dei lavori delle Camere. Non a caso anche in questa occasione si sono levate voci autorevoli che richiedevano un intervento del presidente della Repubblica, il quale peraltro nell’attuale ordinamento poco può fare al di là di una “moral suasion” che comunque ha puntualmente esercitato.
Un altro punto da sottolineare è che le misure emergenziali devono avere sempre un carattere transitorio e non possono costituire il pretesto per cambiamenti sostanziali degli equilibri politici e istituzionali, come forse qualcuno vorrebbe; altro che “nulla sarà come prima”! Al contrario, almeno dal punto di vista delle istituzioni politiche e dei diritti civili che ne discendono, tutto deve tornare come prima. E se cambiamenti saranno necessari non sarà l’emergenza a dettarli.

Conseguenze economiche
Il nostro Paese rischia – secondo le previsioni di Confindustria – di perdere diversi punti di prodotto interno lordo, il che, in una situazione già difficile come quella esistente prima della pandemia, costituisce un rischio di crisi irreversibile. L’immissione di liquidità nel sistema economico per impedirne la paralisi è quindi certamente necessaria ma tutto dipende da tre condizioni: come, quanto e fino a quando.
Come: ci sono molti modi di immettere liquidità. Si possono favorire i consumi attraverso forme di sostegno familiare soprattutto per coloro che sono stati economicamente danneggiati dall’epidemia: ma come accertarli e come impedire che misure generalizzate si trasformino in un assalto alla diligenza (cosa in cui noi italiani siamo bravissimi)? Si possono aiutare soprattutto le imprese a riprendere la produzione; il che peraltro non sarà facile per un’industria e un’agricoltura come le nostre che vivono in gran parte di esportazioni e per le quali i mercati tedesco e americano costituiscono sbocchi importanti. Si può agire sulla leva del credito facilitando le garanzie sui prestiti finalizzati alle attività produttive, ma per far questo non bisogna penalizzare le banche. Naturalmente si possono fare tutte queste cose ed altre ancora ma è anche necessario non disperdere le risorse in una distribuzione a pioggia (altra cosa in cui siamo bravissimi) perché non si tratta di risorse illimitate.
Quanto: esiste un limite all’immissione di liquidità? Credo di sì. Non sono un economista ma mi pare di ricordare che un eccesso di liquidità monetaria, soprattutto se concentrato sui consumatori finali, può produrre inflazione, definita da Luigi Einaudi una tassa occulta tanto più iniqua in quanto pesa proporzionalmente sulle classi sociali meno abbienti. E inoltre: finché restiamo nell’euro sarà la BCE a stabilire il “quantitative easing” ed essa non potrà non tenere conto delle preoccupazioni dei paesi del nord Europa che temono un’inflazione incontrollata come una sciagura (anche per le esperienze storiche che hanno vissuto).
Quando: tempestività, equità ed efficienza sono qualità che dovrebbero sempre caratterizzare gli interventi pubblici se si vuole ottenere una rapida ripresa dell’economia. La burocrazia nostrana non ha mai brillato per tali caratteristiche, anzi è sempre stata vista come un logorante percorso a ostacoli in cui (se non si cade prima) si ottengono risultati solo dopo molto tempo. D’altra parte è la stessa farraginosità delle norme che spesso intralcia qualsiasi buona volontà e non è facile di colpo cambiare abitudini senza il rischio di cadere nell’arbitrio discrezionale. Anche perché le misure di sostegno non possono essere a tempo indeterminato senza produrre effetti devastanti; prima o poi un termine dovrà essere stabilito.

Infine un liberale qualunque non può non essere preoccupato di un pericolo non ancora evidente ma che sente aleggiare nello slogan “nulla sarà come prima”: l’idea che nazionalizzando imprese e servizi e rifiutando la competizione che premia l’efficienza si risolva ogni problema superando finalmente quei vincoli di compatibilità economica che tanto infastidiscono gli avversari del liberalismo, spicciativamente liquidato come “liberismo selvaggio”, egoista e incurante del benessere delle famiglia. Ovviamente si dimentica quanto è costata in passato l’assistenza generalizzata alle imprese decotte, responsabile in gran parte dell’eredità del debito pubblico più elevato d’Europa.
Naturalmente si può fare tutto: uscire dall’Europa, tornare alle “svalutazioni competitive” pagate dai consumatori, evitare il confronto coi mercati globali, rifugiarsi nell’autarchia. Basta sapere che il prezzo da pagare è la decrescita; quanto sia felice resta da dimostrare.

 

Franco Chiarenza
2 aprile 2020