La pandemia da coronavirus Covid-19 è in evidente fase di stallo o di regressione, avendo superato, almeno in Italia, il suo picco di letalità. Quanto abbiano contribuito a questo esito le misure di isolamento adottate da molti paesi (tra cui il nostro) e quanto invece si debba a una naturale evoluzione del virus sarà motivo di discussione quando tutto sarà finito. Non sono un epidemiologo ma di storia un po’ me ne intendo e ricordo che in passato altre pandemie non sono cessate certamente per misure di contenimento e nemmeno per l’intercessione di santi e madonne.
Quel che è sicuro è che più dall’epidemia i danni maggiori provengono in epoca contemporanea dal lockdown che l’accompagna i quali in tempi di globalizzazione dei fattori produttivi non sono paragonabili a quelli delle epidemie di un tempo. Adesso dobbiamo preoccuparci quindi di due priorità: come uscire dal blackout economico che si è venuto a creare e come prepararci ad analoghe emergenze (non necessariamente sanitarie) quando si riproporranno.

Come uscirne
Sulla exit strategy da adottare le opinioni sono tutt’altro che condivise. Nella maggioranza parlamentare che sostiene il governo una inedita alleanza tra l’estrema sinistra e i “cinque stelle” non nasconde l’intenzione di approfittare dell’occasione per insistere in una politica di sovvenzioni e aiuti a pioggia che compensi tutti coloro che sono stati danneggiati dall’epidemia; se poi un po’ di pioggia cade anche al di fuori del limite, pazienza! Naturalmente impiegare la maggior parte delle risorse disponibili a fini sostanzialmente assistenziali comporta una riduzione del sostegno alle imprese e l’avvio di un diffuso intervento pubblico che potrebbe portare al superamento dell’economia di mercato e a un rafforzamento del dirigismo paternalistico. La parte più moderata del partito democratico non condivide certamente questa direzione di marcia ma appare molto timida nelle contromosse, forse per il timore di non apparire abbastanza “di sinistra” e non lasciare ai Cinque Stelle uno spazio elettorale fondato sul voto di scambio assistenziale.
Il presidente Conte, ormai collaudato mediatore, forte di un imprevedibile consenso, procede col solito sistema delle addizioni per accontentare tutti: cinquecento pagine di provvedimenti che faranno a pugni tra loro per assicurarsi le risorse di copertura.
L’opposizione, dopo qualche esitazione dovuta al richiamo irresistibile del populismo demagogico, sembra avere imboccato la strada delle priorità imprenditoriali come presupposto del rilancio economico. Ma anche questa scelta urta con le tentazioni anti-europeiste sempre affioranti e con una visione autarchica che, soprattutto nel partito di Giorgia Meloni, continua a esercitare una forte attrazione. Salvini, per la sua formazione politica, sarebbe in perfetta sintonia con Fratelli d’Italia ma deve fare i conti con Zaia, Giorgetti e quanti nella Lega difendono prospettive più legate agli interessi dei ceti produttivi.
Berlusconi fa storia a sé. Ha finalmente capito l’importanza di restare al centro e in qualche modo proporsi come ago della bilancia in un confronto elettorale che potrebbe risolversi in un pareggio tra l’attuale maggioranza di governo e l’opposizione di destra. Di conseguenza contesta il governo proprio sul terreno delle prospettive dirigistiche e dello scarso sostegno alle imprese, avendo però cura di condividerne sostanzialmente la politica europeista (anche per quanto riguarda il MES che è l’unico strumento che possa farci avere i soldi subito e non in un futuro tutto ancora da definire come gli eurobond o il recovery fund).
Nel frattempo il mondo imprenditoriale si accinge a dar battaglia non appena il nuovo presidente di Confindustria diverrà operativo e sarà interessante vedere in quale misura egli riuscirà a rappresentare la protesta e le preoccupazioni di tutti i ceti produttivi (non soltanto industria ma anche commercio, artigianato, servizi, ecc.) proponendo alternative effettivamente praticabili. In autunno le elezioni regionali rappresenteranno uno step inevitabile e l’attuale governo si troverà comunque al capolinea: per essere sostituito da un altro con la stessa maggioranza oppure per accelerare lo showdown di elezioni anticipate. Non vedo politicamente realizzabile l’ipotesi di cui tanto si parla di mettere in piedi un nuovo governo tecnico che metta tutti d’accordo affidato a Draghi come avvenne in passato col governo Monti. Ma mai come adesso i tempi dell’economia non coincidono con quelli della politica: i mesi che ci separano dall’autunno saranno cruciali per le scelte che dovranno essere fatte.
Per i liberali la strada da percorrere è obbligata: alleggerire il peso fiscale sulle imprese (in particolare l’IRAP), sostenere con garanzie pubbliche l’indebitamento finalizzato alle attività produttive (come in parte si è fatto con i più recenti provvedimenti) ma soprattutto cogliere l’occasione in un momento in cui le resistenze corporative sono più deboli per realizzare quelle riforme di struttura che si invocano da sempre: introduzione nelle scuole di conoscenze sul funzionamento delle istituzioni democratiche e sui principi dell’economia di mercato, riforme per accelerare le cause civili e per semplificare le procedure degli appalti, liberalizzazione del commercio e dei servizi superando il sistema corporativo e corruttivo delle licenze (sostituendolo con accertamenti ex-post del rispetto delle regole), superamento del reddito di cittadinanza come attualmente erogato convertendolo in misure di sostegno all’occupazione per i giovani e in aumenti significativi delle pensioni sociali per gli anziani. Servirebbe anche istituire un servizio civile obbligatorio per giovani di entrambi i sessi al compimento del diciottesimo anno di età ma forse è chiedere troppo.

Le future emergenze
La seconda priorità, meno urgente ma di fondamentale importanza, proviene dall’esperienza del Covid 19, affrontata a colpi di decreti del presidente del consiglio, uno strumento amministrativo che mal si concilia coi suoi contenuti quando incidono sulle libertà costituzionalmente garantite.
Dobbiamo aggiornare le norme di legge, anche eventualmente ritoccando la Costituzione, per affrontare tempestivamente le emergenze che si riproporranno e che potrebbero essere non soltanto sanitarie (terremoti, eventi climatici, terrorismo, ecc.). Occorre concordare tra maggioranza e opposizione procedure chiare, garanzie per il mantenimento del controllo parlamentare, principi inderogabili sulla transitorietà delle misure da adottare. Un utile esercizio per accordarsi in modo diverso dal passato anche su altre modifiche costituzionali cercando intese su singole questioni e rinunciando a palingenetiche riforme complessive che allarmano l’opinione pubblica e favoriscono convergenze negative. Proprio l’esperienza del Covid-19 per esempio ripropone la revisione dell’ordinamento regionale e il riordino delle competenze sanitarie. E con la stessa procedura si potrebbero affrontare altri nodi che appesantiscono la governabilità (ben più importanti della riduzione del numero dei parlamentari su cui andremo a votare entro l’anno) come per esempio il superamento del bicameralismo perfetto.
Si potrebbe, volendo.

Franco Chiarenza
26 maggio 2020

 

P,S. Invito i miei lettori a vedere su You Tube la “War Room” di Enrico Cisnetto del 25 maggio con gli interventi di Paolo Mieli, Massimo Cacciari e Giuseppe De Rita. Uno scenario cupo e pessimistico: speriamo che sbaglino. All’insegna di “Io speriamo che me la cavo”.

Caro Direttore, la recessione senza precedenti causata dalla pandemia da coronavirus rende indispensabile l’intervento dello Stato, adeguatamente supportato – si auspica- dall’Unione europea.
Uno Stato impegnato a sostegno delle famiglie e delle imprese, con l’obiettivo di scongiurarne gli esiziali esiti.
Questo intervento ha comprensibilmente assunto, fin qui, la forma di una terapia palliativa, prevalentemente fatta di sussidi e sovvenzioni e dettata dall’urgenza di dare sollievo alle sofferenze e di attenuare le ansie più immediate e gravi della popolazione . Ma ha il limite di non incidere in alcun modo sulle cause della crisi recessiva che ci affligge e comporta il rischio di dare avvio nel Paese a un’economia sovvenzionata che perduri oltre l’emergenza in atto e degradi – il caveat viene da uno studioso dell’autorevolezza di Giuseppe De Rita – in un’economia sovvenzionata ad personam.

Anche perciò, credo che lo Stato, debba, nel prosieguo, focalizzare il suo impegno sul rilancio degli investimenti,
pubblici e privati, nella scuola, nella ricerca, nelle infrastrutture, materiali e immateriali – la cui carenza e obsolescenza penalizza il nostro sviluppo – e nelle iniziative imprenditoriali.

Mi soffermo sull’intervento – che viene qui sollecitato e che credo sia lecito attendersi, per il superamento della crisi – dello Stato imprenditore, non solo perché è un tema importante, ma anche perché è culturalmente e politicamente controverso.

Angelo Panebianco, in un fondo sul Corriere della Sera del 15 aprile, ha sostenuto che la tentazione dello statalismo
sarebbe di grave impedimento alla ripresa della nostra economia in recessione mentre io ritengo che una exit strategy di successo dalla crisi non possa prescindere dall’iniziativa imprenditoriale dello Stato.

Da quando, nel 1933, Alberto Beneduce, per rimettere in piedi l’industria e la finanza italiane dissestate dalla Grande depressione della fine degli anni ’20, fondò l’Iri – Istituto per la Ricostruzione Industriale – l’Italia ha un’economia mista, nel senso che l’anzidetta iniziativa pubblica si affianca a quella degli operatori privati.

Le conseguenze della pandemia che stiamo sperimentando sono ancora più gravi di quelle provocate da quella terribile recessione d’antan, ma l’Iri, che per decenni ebbe riconosciute benemerenze nell’ammodernamento
e nello sviluppo del nostro paese, non c’è più.

Il suo smantellamento, negli anni tra il 1993 e il 2000, coincise con la crisi politica che determinò la scomparsa di tutti i partiti storici dell’Italia repubblicana e fu motivato – malgrado le obiezioni sollevate e le lungimiranti soluzioni alternative prospettate da Giuseppe Guarino, allora ministro delle Partecipazioni statali e di recente scomparso – con le indubbie disfunzioni e devianze che l’Istituto aveva manifestato, ma che avrebbero potuto e dovuto essere corrette, senza privare il Paese di uno strumento di politica economica così utile ed efficace.

Questa cupio dissolvi fu attuata con la privatizzazione delle grandi società delle quali l’Istituto deteneva il controllo e che per lo più presidiavano settori chiave dell’economia nazionale. Ma, purtroppo, gli operatori privati ai quali furono cedute, risultarono in molti casi inadeguati a questo passaggio di testimone e andarono in crisi e perciò o cessarono le attività o alienarono le imprese loro cedute a operatori internazionali o ne chiesero e ottennero il ritorno
in mano pubblica.

Al tirar delle somme, oggi il nostro sistema-Paese non dispone più della forza e della capacità strategica che il colosso Iri le conferiva, ha visto ridursi numero e dimensione delle sue maggiori imprese e non ha più il presidio (visto che non vi operano più imprenditori italiani) di settori chiave dell’economia nazionale (ad esempio le Tlc e la siderurgia dei prodotti piani e degli acciai speciali): in breve, ha visto notevolmente ridursi la sua competitività internazionale.

Tuttavia, nonostante questa grave menomazione, l’Italia ha ancora un’economia mista perché agli imprenditori
privati si affiancano imprese (Eni, Enel, Fs, Leonardo, Fincantieri), efficaci e competitive anche a livello internazionale. È la dimostrazione del fatto che lo Stato, se si dota di adeguati presidi manageriali, può e sa fare l’imprenditore.

C’è, inoltre nel Paese, un’elevata e non latente domanda di presenza pubblica nel mondo dell’impresa e cioè, fuor di metafora, c’è una gran voglia di Iri, perché si avverte il bisogno di quella sua funzione di supporto e supplenza all’imprenditoria privata che ne giustificò la nascita e che, nella sua lunga vita l’Istituto seppe assolvere.

L’imprenditoria privata italiana ha grandi valenze positive e meriti indubbi (è diffusa capillarmente su tutto il territorio nazionale, ha fatto dell’Italia la seconda manifattura d’Europa ed esporta in tutto il mondo), ma ha anche limiti tipologici, dimensionali, finanziarie di vocazione (essendo fatta, in larghissima prevalenza, di imprese familiari, di piccole e piccolissime dimensioni, poco capitalizzate e poco orientate a impegnarsi nei settori più innovativi e dinamici dell’economia globale), che postulano le ricordate funzioni (di supporto e supplenza)
dello Stato imprenditore.

Per quanto ho ricordato a proposito della nostra storia industriale, questa figura, non può essere considerata in Italia un misterioso e minaccioso Ircocervo e tuttavia è fuor di dubbio che esistano nei suol confronti forti pregiudizi negativi, di natura sia culturale che politica, che credo vadano ragionevolmente superati.

Anche per evitare che il nostro governo debba rinunciare – in questo, difficilissimo frangente della nostra vita, ma anche in prospettiva – ad avvalersi di questo validissimo strumento di politica economica o sia costretto a utilizzarlo solo dopo averlo mimetizzato, quasi che la sua scelta non avesse valenza strategica e piena legittimazione.

 

Mario Lupo

(Articolo pubblicato il 30 aprile 2020 su Il Sole 24 ore)

Si torna a parlare di “Stato imprenditore” per il dopo “coronavirus”. Ne ha scritto, tra gli altri, Mario Lupo sul “Sole 24 ore” e il suo intervento merita particolare attenzione non soltanto perché essendo ospitato dal quotidiano della Confindustria può apparire un segnale di disponibilità a discuterne da parte degli imprenditori, ma anche perché proviene da una persona nota per il suo impegno nell’impresa pubblica e privata e di chiaro orientamento liberale avendo anche presieduto la Fondazione Einaudi di Roma prima di prendere le distanze dalla sua attuale gestione.
Parliamone dunque serenamente e senza pregiudizi e tenendo conto della situazione di emergenza in cui si trova dopo la pandemia Covid-19 l’Europa e in particolare il nostro Paese.

In passato
Come è ben noto l’Italia ha una lunga tradizione di interventismo pubblico nell’economia che risale alle sue stesse origini industriali e che aveva trovato negli anni’30 una sistemazione giuridica con la creazione dell’IRI dopo la crisi mondiale del 1929. Non a caso a una nuova IRI tutti pensano quando si parla di intervento dello Stato. Hanno torto quanti lo ricordano semplicemente come un “carrozzone” costoso che salvava in perdita aziende decotte e serviva soprattutto a sistemare i tanti “clientes” dell’apparato politico (prima fascista, poi democristiano). Esso fu anche questo ma non possiamo negare la meritoria funzione di sostegno che svolse prima della guerra salvando importanti settori del credito e dell’imprenditoria, come pure dobbiamo riconoscere quanto dobbiamo all’IRI per la rapida realizzazione negli anni ’50 di quelle infrastrutture senza le quali la ripresa economica del Paese non sarebbe partita. Hanno però torto anche quanti ritengono che sopprimerlo sia stato un errore: in realtà alla fine del secolo scorso l’intervento pubblico non aveva più ragione di essere in settori non più strategici che con l’abbattimento delle barriere doganali dovevano confrontarsi con la concorrenza europea e, in parte, anche mondiale. Dove ancora la presenza dello Stato aveva senso, nell’approvvigionamento energetico per esempio, essa è stata mantenuta (seppure con partecipazioni di minoranza) rispettando le logiche di mercato e affidandola a un management che quasi sempre si è dimostrato efficiente (e quando non lo è stato ciò si deve a interferenze politiche le quali, anche con le migliori intenzioni, costituiscono sempre il vero rischio di degenerazione implicito nelle partecipazioni pubbliche).

Nel presente
Oggi lo Stato è ancora molto attivo, non soltanto nelle infrastrutture e nell’approvvigionamento energetico, ma anche in settori produttivi di grande importanza: basti pensare a Fincantieri e a Leonardo (ex-Finmeccanica) che, governate con criteri di efficienza imprenditoriale, rappresentano punte di eccellenza in Italia e nel mondo. Il problema non è dunque se possa esistere uno “stato imprenditore”: c’è già, come anche in Francia (è il caso di Renault) e altrove. E neanche se sia opportuno un suo ampliamento per fare ripartire l’economia dopo il Coronavirus; laddove se ne riscontri la convenienza nulla lo impedisce, anche in un contesto liberale, però ad alcune precise condizioni.
La prima è che si tratti di un intervento emergenziale dovuto alla necessità di ristabilire le condizioni di mercato preesistenti alla crisi. Nessun salvataggio dunque di aziende che erano già decotte e fuori mercato, e limitazione nel tempo dell’intervento pubblico che deve cessare appena l’impresa è in grado di affrontare il mercato (anche per non distorcere la concorrenza la cui tutela resta un punto fondamentale dell’economia liberale).
La seconda condizione è che la partecipazione pubblica sia di regola minoritaria, in modo da garantire un management qualificato non condizionato da logiche politiche. Quando ciò non sia possibile (vedi Alitalia) occorre procedere alla nomina dei vertici con procedure trasparenti soggette al controllo parlamentare (come avviene negli Stati Uniti quando il Senato verifica le competenze e i curricula dei candidati a incarichi pubblici di rilievo).
La terza condizione è che non vi siano privilegi sindacali rispetto alla normativa comune.

Per fare questo è necessario ricostituire l’IRI o qualcosa che gli somigli? Non credo. Se le intenzioni sono quelle di superare l’emergenza e tornare al più presto alle logiche di mercato una struttura centrale è inutile e rischia di trasformarsi in un carrozzone burocratico dominato da esigenze clientelari. Esiste già Fintecna che può perfettamente adempiere allo scopo.
Mi permetto però di suggerire, arrivati a questo punto, due altre priorità che mi paiono anche più urgenti di quella di una partecipazione pubblica nelle imprese.

Lavori pubblici
Con i soldi che verranno (dall’Europa o altrove) occorre fare ripartire le tante opere pubbliche impantanate nelle paralizzanti procedure burocratiche. Le regole stabilite per la ricostruzione del ponte di Genova (che, a quel che pare, hanno funzionato bene) vengano estese ad altre che abbiano una valenza strategica riconosciuta.
Forse è venuto anche il momento di riprendere il progetto per il ponte sullo stretto di Messina: un’opera imponente la cui costruzione darebbe fiato per alcuni anni all’economia e all’occupazione e apporterebbe indubbi benefici alla Calabria e alla Sicilia, e per la quale è certamente possibile ottenere un co-finanziamento dell’Unione Europea. Infiltrazioni mafiose? Se non sappiamo difendercene da soli non faremo più nessuna opera pubblica nel sud mentre nulla garantisce che le infiltrazioni emigrino al nord (come è già avvenuto).

Debiti della pubblica amministrazione
Basterebbe che la pubblica amministrazione (Stato, Regioni, enti territoriali) pagassero i debiti arretrati con le imprese che hanno vinto ed eseguito da tempo gli appalti perché molte aziende possano ricapitalizzarsi, diminuire i costi finanziari e ripartire senza altri sostegni pubblici. Non lo dico soltanto io, lo affermano coralmente tutti gli imprenditori, piccoli e grandi. Non si tratta infatti, come molti pensano, soltanto di liberare risorse per le grandi imprese ma soprattutto per quelle medie e piccole, più esposte ai condizionamenti bancari. Ditte, fornitori locali, aziende che maledicono il giorno in cui hanno partecipato a un appalto pubblico.

Sono cose che si possono fare subito. Purtroppo invece molti preferiscono un’ambigua politica di sussidi, sostegni, finanziamenti pubblici politicamente condizionati che appaiono finalizzati al superamento delle stringenti logiche di mercato, in una parola l’anticipazione di una pianificazione industriale dettata dallo Stato approfittando del Covid-19 per voltare le spalle all’economia liberale (che è cosa diversa dal liberismo senza regole). Per conseguire tale obiettivo (che non è soltanto di alcuni settori della destra sopranista) serve davvero un nuovo IRI e anche bello grosso; un serbatoio gigantesco dove piazzare amici e sostenitori incompetenti e spesso invadenti. Le smentite pioveranno da ogni parte ma diceva l’infido e diffidente Andreotti che a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.

Franco Chiarenza
19 maggio 2020

Ai sovranisti di ogni latitudine la risposta più convincente è venuta dal Coronavirus. Sprezzante dei divieti di Erdogan e di Putin ha superato ogni confine e si è diffuso senza chiedere il permesso ai governi nazionali, come d’altronde avevano fatto in passato i suoi antenati Sars, Asiatica, Spagnola, Aviaria, e via enumerando. Come sempre i tentativi di isolamento sono falliti, la condivisione di ricerche su farmaci e vaccini è stata invece risolutiva. Il Covid 19 non rappresenta la condanna della globalizzazione come qualcuno ha sostenuto ma, al contrario, la conferma della sua validità.
Chiudere di nuovo i popoli dentro angusti confini non è soltanto poco conveniente è semplicemente inutile. Tutte le cose che contano viaggiano oggi al di sopra delle frontiere: malattie infettive ma anche ricerca di contrasto, capitali finanziari ma anche regole per garantirne un utilizzo virtuoso, scambi e mercati ma anche norme per assicurare una concorrenza imparziale, multinazionali prepotenti ma anche adeguate imposizioni fiscali, riscaldamento globale ma anche comportamenti efficaci per limitarlo, reti di comunicazione ma anche strumenti per contrastarne un uso scorretto, flussi migratori ma anche misure per regolamentarli . Non c’è oggi un solo problema, tra quelli che contano davvero per il nostro futuro, che non passi attraverso soluzioni globali perché ogni provvedimento a livello nazionale si rivela impotente. Chi può negare che le cose stiano così?

Eppure sono in tanti in America, in Europa e altrove a pensare che, avendo raggiunto un elevato tenore di vita, l’unico modo di mantenerlo salvandolo da incursioni predatorie esterne sia quello del “fai da te”, tornando alle politiche protezioniste del “tutti contro tutti”. Si tratta di un’idea miope e controproducente anche per i grandi paesi che per le loro dimensioni e ricchezza possono illudersi di non avere bisogno degli altri, ma semplicemente suicida per piccoli stati come il nostro, con un mercato interno limitato e un indebitamento drammatico, e che si è permesso il lusso di utilizzare le poche risorse disponibili per distribuzioni assistenziali. Il nostro interesse quindi è il contrario di quanto sostengono i “sovranisti”: occorre battersi in ogni sede perchè regole globali consentano il libero gioco della concorrenza competitiva. Anche per questo partecipare all’Unione Europea e rafforzare la sua capacità rappresentativa è per noi molto importante. Tornare ai bracci di ferro e alle guerre commerciali può inizialmente soddisfare un po’ di amor proprio ma quando il virus del nazionalismo autarchico (ben più dannoso di quelli influenzali) avrà drammaticamente dimostrato ai consumatori che a pagare il prezzo di queste esibizioni muscolari alla fine sono loro, si tornerà a invocare il fairplay delle organizzazioni internazionali e a chiedere regole comuni. Perché le regole, da che mondo è mondo, servono a proteggere i più deboli; i più forti ne hanno ugualmente bisogno ma possono più facilmente illudersi di poterne fare a meno perché mettono sulla bilancia il peso della loro superiorità (economica, politica, militare, tecnologica).

Essere convinti che processi globali vadano regolati con accordi multinazionali e significative cessioni di sovranità non significa però che non si possano mettere in atto alcuni strumenti di garanzia per proteggersi da pratiche distorsive che producono danni irreversibili all’economia nazionale; ma essi servono soltanto da tampone e hanno una scarsa efficacia nei tempi lunghi. Più è grande la dimensione politica in cui ci si colloca e meglio si potranno garantire gli interessi strategici; per questo l’unità europea non è un’opzione ma una strada obbligata. Il futuro sarà dominato da grandi blocchi che graviteranno non soltanto intorno agli Stati Uniti d’America ma anche alla Cina e probabilmente all’India e alla Russia. L’Europa potrà svolgere in tale contesto un ruolo importante soltanto se sarà unita e avrà titolo e forza per tutelare i propri interessi; e sarà meglio per tutti se ciò avverrà nell’ambito di strumenti multilaterali a livello globale in grado di difenderci dalla prepotenza dei mercati finanziari, dall’inquinamento globale, dalla minaccia che proviene da un uso scorretto delle nuove tecnologie informatiche, dalle emigrazioni indiscriminate di milioni di esseri umani spinti dalle guerre e dalla fame, ecc. Occorre mettersi insieme, potenziare le strutture sovranazionali che esistono e, se necessario, costruirne delle altre.
Certo, esiste, e non da oggi, la necessità di mettere all’ordine del giorno la riforma di alcuni degli organismi già esistenti, non soltanto in Europa ma anche a livello globale. A cominciare dall’ONU, che, per esercitare un ruolo più incisivo deve essere sottratta dal ricatto dell’”uno vale uno” che rischia sempre di paralizzare ogni decisione. Perchè se, per esempio, il voto di Malta (400,000 abitanti) può paralizzare l’Europa (446, milioni di abitanti) oppure il voto del Togo (6 milioni di abitanti) bloccare le Nazioni Unite (che rappresentano circa sette miliardi di esseri umani) c’è qualcosa che non va. Non bastano le soluzioni empiriche, spesso poco trasparenti, che hanno consentito fino ad oggi di andare avanti, occorre affrontare il problema in maniera chiara e in base a principi innovativi che non siano soltanto improntati all’uguaglianza giuridica e formale delle nazioni. Sono stati studiati per esempio sistemi istituzionali ponderati in cui il principio di nazionalità viene bilanciato da altri criteri di valutazione (popolazione, pil,ed eventualmente altri purché oggettivamente misurabili). L’importante è dare nuovo vigore alle istituzioni sovranazionali più significative realizzate nel secolo scorso dopo gli orrori della seconda guerra mondiale le quali, malgrado i loro limiti, hanno comunque ottenuto in molti casi risultati positivi.

Quando nel 1945 l’America era in grado di imporre a tutto il mondo occidentale, all’Africa decolonizzata e a una parte rilevante dell’Oriente (a cominciare dal Giappone) il suo modello politico ed economico, i suoi governanti fecero una scelta intelligente. Imposero sì quel modello (che d’altronde si era dimostrato vincente) ma ne proposero una gestione condivisa: una partnership che si concretizzò negli accordi monetari di Bretton Woods, nella creazione del WTO (per regolare gli scambi commerciali), nella Banca Mondiale, nel FMI e in numerose altre organizzazioni, alcune delle quali facenti capo all’ONU e in gran parte finanziate dal governo di Washington (UNESCO, FAO, OMS, ILO, ecc.) con lo scopo di affrontare insieme i problemi posti dai cambiamenti universali e promuovere regole comuni su ogni aspetto della vita umana. Persino nella difesa militare durante la guerra fredda gli USA preferirono coinvolgere i partner in un trattato (NATO) che, per molti aspetti, ha caratteristiche multinazionali. Questo grandioso progetto, riuscito solo in parte, era comunque nuovo nella storia più recente e dimostrava la consapevolezza della potenza egemone che i problemi dell’umanità si risolvono tutti insieme o non si risolvono. Quest’epoca, tra alti e bassi durata settant’anni, sembra finita con la presidenza Obama. Con l’avvento di Trump, al di là della volgarità del personaggio, l’America pare avere voltato le spalle a questa mirabile costruzione e preferire richiudersi in se stessa, come già aveva fatto negli anni dell’isolazionismo tra le due guerre mondiali. Eleggendo Trump (sia pure con i limiti di una votazione poco convincente) gli americani hanno inteso chiudere l’epoca del multilateralismo che essi stessi avevano promosso, convinti forse di non avere bisogno di nessuno e comunque certi che ciò che occorre si può comprare senza cedere una briciola del proprio potere. Speriamo si tratti soltanto di una parentesi, non mancano indizi di resipiscenza e il sistema americano dei contrappesi sembra funzionare ancora, ma il segnale “sovranista” e autarchico si è diffuso ovunque e minaccia la stabilità più seriamente del “coronavirus”. Perché, come diceva Bastiat, dove non passano le merci, prima o poi, passano i cannoni.

 

Franco Chiarenza
4 maggio 2020