Chiamiamolo così: coronavirus. E’ meno freddo di Covid 19, ci accompagna sin dall’inizio della pandemia, gli siamo quasi affezionati. Come si sono comportati gli italiani al suo cospetto? Dividendosi ma dicendosi uniti in un comune sentire, come sempre; con tanta retorica e poca seria informazione, come sempre.

I catastrofisti
Pensano che si tratti di un castigo di Dio, un’occasione di redenzione, un ritorno ai buoni costumi di un tempo. Non evocano santi e madonne perché non sono più di moda ma in cuor loro vorrebbero che l’epidemia durasse a lungo, quanto basta perché tutti si pentano del loro passato, e perciò sono fervidi assertori del lockdown che avrebbero voluto ancora più rigido. Sono convinti che in autunno il virus si ripresenterà ancora più cattivo (e resterebbero delusi se così non fosse). Attendono ansiosamente il momento in cui potranno dire “ve lo avevamo detto!!!” Sono per la maggior parte pensionati o dipendenti della pubblica amministrazione che comunque non hanno subito danni economici. Accusano Giuseppe Conte di essere troppo sensibile agli interessi economici.

Gli irriducibili
Somigliano ai catastrofisti ma se ne differenziano per le motivazioni. Ritengono di avere il “senso dello Stato”, eseguono scrupolosamente le regole complicate e contraddittorie emanate dalla presidenza del consiglio, dai presidenti delle Regioni, dai sindaci, dai carabinieri sotto casa. Quando escono (soltanto dove, quando e come consentito) si portano appresso un metro per rispettare il “distanziamento”. Aggrottano severamente le ciglia se incontrano qualcuno senza mascherina. Si fidano di Giuseppe Conte.

Gli impauriti
Sono rimasti terrorizzati dai messaggi lugubri trasmessi dagli “esperti” e dalle immagini dei camion pieni di bare che uscivano da Bergamo. Si sono chiusi in casa in preda allo spavento ma non riescono a comprendere come vanno letti i dati che giornalmente la Protezione Civile trasmette. Quando hanno capito che il virus stava perdendo forza, che i morti diminuivano e che magari nella loro regione il virus non aveva fatto grandi danni hanno cominciato a uscire fingendo che non fosse successo nulla. Si tratta spesso di giovani che non lavorano. Del presidente Conte non pensano nulla ma sono contenti quando dice che la pandemia è stata sconfitta per merito loro perchè hanno appeso le bandiere ai balconi.

Gli scettici
Pensano che la pandemia sia una realtà (e come negarlo?) ma che non ci sia nulla da fare e che alla fine si porta via un po’ di vecchietti anticipando di qualche mese la loro inevitabile sortita da questo mondo. Buon per l’INPS che risparmia un po’ di pensioni. Il lockdown? Non serve a niente e fa più danni che altro, soprattutto all’economia del Paese. Sono convinti che i virologhi non ne capiscano nulla e si limitino a vietare tutto tanto per non sbagliare. Sono quasi tutti lavoratori autonomi che subiscono perdite consistenti da questo stato di cose. Considerano il presidente Conte un birillo sballottato tra finti esperti e i timori elettorali dei partiti.

Gli indignati
Ritengono che l’emergenza Coronavirus sia servita a “testare” il grado di reattività della popolazione se si creano le condizioni per mandare al macero le garanzie costituzionali. Considerano perciò incostituzionali i decreti del presidente del consiglio e inaccettabili le privazioni obbligatorie a cui sono stati tenuti. Vorrebbero sostituire i vincoli dei decreti con esortazioni volontarie (tipo regina Elisabetta in Gran Bretagna). Sono in prevalenza persone di cultura superiore alla media e appartengono all’esigua minoranza che legge i giornali. Il presidente Conte non vogliono nemmeno sentirlo nominare.

Gli indifferenti
Sono fatalisti: quel che deve accadere succeda, non ci si può far nulla. Si rompono le scatole a restare a casa ma lo fanno se no la moglie, la sorella, la nonna, ecc. si incazzano. Restano tutta la giornata incollati ai video-giochi. Molti di loro appartengono all’ampia categoria di parassiti per i quali il maggior danno dell’epidemia consiste nel non potere prendere il caffè al bar. Ascoltano distrattamente le notizie catastrofiche che gli vengono ammannite e concludono sempre i loro rari interventi con la frase di Eduardo “ha da finì a’ nuttata”. Non sanno che Giuseppe Conte è il presidente del consiglio (o quanto meno lo hanno appreso solo in questa occasione).

I ragionevoli
Leggono con attenzione i dati, non danno per oro colato le variabili considerazioni che provengono dalle conferenze stampa della Protezione Civile, fanno i confronti con gli altri paesi, ritengono il lockdown necessario come misura precauzionale (anche se applicato talvolta con modalità irragionevoli, contraddittorie e talvolta grottesche), escludono che la scomparsa del virus sia merito del “senso civile” dei compatrioti, sorridono benevolmente alle bandiere esposte ai balconi a testimonianza del “martirio”. Sono talmente pochi da essere statisticamente irrilevanti. Sanno perfettamente chi è il presidente Conte e per questo ne diffidano.

Franco Chiarenza
30 giugno 2020

Giulio Giorello rivendicava la libertà del laico, in un paese di finti laici e laici pentiti. È una libertà difficile da esercitare, perché non si affida all’autorità di alcuna chiesa, fosse pure un’ipotetica chiesa dei laici. Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Raffaello Cortina Editore, 2005) è certamente un manifesto, ma non è un sermone; è un libro colto senza essere pedante. Giorello scriveva in modo limpido e comprensibile, come tutti quelli che hanno le idee chiare. Rifuggiva dalle filosofie arcane e criptiche che si baloccano con giochi di parole e funambolismi verbali, allusioni e rimandi. Era anche – e così i suoi libri – un uomo ironico, come lo sono in genere le persone serie.

Il suo non era un laicismo da mangiapreti, ma la riaffermazione continua di un metodo, fatto di apertura alle ragioni dell’altro e di accettazione della possibilità dell’errore. Riteneva che ogni discussione dovesse avere una base razionale, e che andasse difesa con argomenti confutabili. Scriveva infatti che “la questione non riguarda tanto l’abusata contrapposizione tra fides e ratio, quanto quella tra fallibilismo e infallibilismo, tra una verità che non pretende di salvare neanche se stessa e una verità che promette salvezza a chiunque si sottometta, tra una ragione che misura la propria gratuità e finitezza senza aver nostalgia di un fondamento e una ragione che nell’imposizione del fondamento trova il proprio sostegno e la propria giustificazione.” Esaltava il confronto e la discussione come modo per selezionare gli argomenti migliori e farli prevalere. E soprattutto criticava i molti che, in nome di più o meno precisati valori, pretendevano di imporli anche a coloro che non li riconoscevano come tali. Difendeva le conquiste del progresso scientifico da chi ne metteva in luce i potenziali pericoli, come la distruzione dei legami sociali e lo sgretolamento delle vecchie certezze. “Tali certezze non sono che idoli, cui spesso si sacrificano i destini di esseri viventi che quelle certezze non nutrono. Quanto a una società che non si riveli robusta rispetto alle perturbazioni prodotte dalla crescita della conoscenza tecnico-scientifica, è davvero responsabile difenderla?”. In questo pamphlet, Giorello si richiama a Bertrand Russell, Karl Popper, John Stuart Mill, e anche a quel Luigi Einaudi che esaltava la bellezza della lotta, contro ogni forma di paternalismo e di unanimismo. Eppure si accorge che queste idee suonano spesso inattuali, “perché l’indifferenza e la tolleranza di cui ci parlano sembrano agli antipodi degli stereotipi e modelli correnti.”

Per concludere, è opportuno spendere qualche parola sul tema dell’identità, oggi al centro di parecchie contese. Giorello osserva acutamente che si tratta di un approccio profondamente erroneo, nel modo in cui viene generalmente impostato. “Non ritengo che i rischi legati a una possibile degenerazione della società aperta e libera (o il riconoscimento del suo carattere contingente e storico) siano motivi sufficienti per ripiegare sulla clausura. Sappiamo tutti che la vita finisce con la morte: questa non è una ragione per non vivere.” Per di più, è dubbio che queste identità siano davvero definite come realtà solide e cristallizzate, se non applicando schemi semplicistici e a volte mistificatori. Senza contare che – replica ai paladini dei valori immutabili – “ben da poco sarebbero quei valori se non fossero capaci di resistere non solo a un attacco dall’esterno, ma anche e soprattutto alla critica dall’interno. E se mediante l’esercizio della critica ne troviamo di migliori, ben vengano.”

In un altro brillante volumetto – Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi, 2010) – Giorello spiega molto eloquentemente il suo punto di vista in tema di tolleranza e anticonformismo, di autonomia individuale nei confronti della società. L’ateo è per lui “colui che non aderisce: colui per il quale ogni comunità è al più una locanda dove sostare e non una dimora per tutta l’esistenza; una collettività di cui si impegna a rispettare le norme di coesistenza, ma di cui non necessariamente vuole o deve introiettare i valori profondi – perché ha uno stile diverso, o venera altri dei o nessun dio, o non ritiene che alcun valore sia così profondo da imporgli il sacrificio della propria autonomia o indipendenza di giudizio.” Oggi come ieri, sono molti i censori e gli oscurantisti che pretendono – senza averne alcun titolo – di essere i padroni della locanda, trasformandola nella loro bettola o peggio nella loro caserma. E invece clienti come Giorello – che ci ha lasciato il 15 giugno, a settantacinque anni – avremmo voluto si fermassero di più.

 

Saro Freni
25 giugno 2020

Leader storico della destra liberale, Alfredo Biondi fu tra i tanti convinti che l’avventura berlusconiana potesse trasformarsi in una proiezione di liberalismo popolare, facendolo uscire dalla condizione di minorità in cui era stato relegato dopo la seconda guerra mondiale. Una grande illusione che si infranse davanti all’evidenza che il culto della personalità e il populismo sono irrimediabilmente antitetici alla cultura liberale di qualsivoglia orientamento.
Per un biennio fu nel primo governo Berlusconi ministro della giustizia dove svolse il suo compito in un momento difficile quando le inchieste del pool di “mani pulite” stavano dissolvendo l’intera classe politica della prima repubblica aprendo la strada a una pericolosa deriva giustizialista; il suo tentativo di restaurare lo stato di diritto riportando il problema del finanziamento illecito ai partiti nell’ambito della rappresentanza parlamentare (seguendo peraltro la traccia già indicata dal guardasigilli che lo aveva preceduto, Giovanni Conso) fu bloccato da una protesta pubblica dei magistrati milanesi che costituì un pericoloso precedente di intrusione nei poteri che la Costituzione attribuisce esclusivamente al Parlamento.

Ho conosciuto Biondi nel breve periodo in cui ho fatto parte della Direzione Centrale del PLI (1988/89) dove, malgrado il mio stretto legame con la maggioranza che sosteneva la segreteria Altissimo (mentre ovviamente lui capeggiava l’opposizione interna), ci trovammo talvolta d’accordo nel criticare la politica sostanzialmente immobilista che il partito svolgeva in quegli anni. Conservo ancora i biglietti che mi passava in quelle occasioni. Era una persona corretta, animata da una profonda buona fede anche nelle sue scelte più discutibili, quando ancora la politica si basava sul confronto delle idee e non sulla contrapposizione di slogan dietro i quali c’è spesso il vuoto.
Altri tempi; non so se migliori o peggiori, certamente diversi.

Franco Chiarenza
24 giugno 2020

FCA (controllata dalla famiglia Agnelli) e Autostrade per l’Italia (controllata dalla famiglia Benetton) hanno chiesto di usufruire della garanzia statale prevista dalla recente legge di rilancio dopovirus per accedere a finanziamenti bancari straordinari (7 miliardi per FCA, 1 e mezzo per Autostrade). Si sono levate proteste sdegnate contro chi paga le tasse all’estero e vuole soldi dallo Stato italiano (sarebbe il caso di FCA) e chi specula su concessioni capestro di cui hanno fatto le spese le vittime del crollo del viadotto di Genova. In entrambi i casi emergono una preoccupante superficialità demagogica (e probabilmente una sostanziale ignoranza della realtà) e un atteggiamento moralistico incompatibile con chi pensa che l’economia di mercato abbia una funzione sociale quando ottimizza i fattori di produzione e rispetta le regole fissate dallo Stato per garantire la concorrenza.

FCA
L’ex Fiat non ha semplicemente cambiato nome. E’ diventata, per merito di quel grande dirigente d’azienda che fu Sergio Marchionne, una multinazionale che incorpora l’americana Chrysler (con i suoi marchi tra cui la famosa Jeep) e i marchi italiani Ferrari, Maserati, Lancia, Alfa Romeo. Ha 100 stabilimenti in tutto il mondo (Brasile, Stati Uniti, Polonia, Turchia, Serbia) di cui 9 in Italia (basti ricordare Pomigliano, Cassino, Melfi). E’ controllata dal gruppo Exor quotato in borsa (come d’altronde la stessa FCA) che fa capo alla famiglia Agnelli. E’ quotata in borsa: ai risparmiatori e agli investitori (compresi i fondi sovrani e i fondi pensione) che ne consentono la necessaria capitalizzazione deve garantire un’adeguata remunerazione. E’ in procinto di realizzare una fusione col gruppo francese PSA (Peugeot Citroen) per raggiungere le dimensioni necessarie per affrontare la grande sfida mondiale che comporterà la riconversione del parco automobilistico mondiale verso la trazione elettrica. Se chiude gli stabilimenti italiani (che sono tra i più onerosi) chi ci rimetterà saranno i lavoratori (86.000 circa).
Si rimprovera a FCA di non pagare le tasse in Italia. In realtà le sedi di produzione di FCA nel nostro paese fanno capo a FCA Italy (con sede a Torino), una società ovviamente controllata da FCA group ma che ha un proprio bilancio e in base ad esso paga le tasse in Italia. Non vengono pagate invece le tasse sui profitti della holding perchè ha trasferito la sua sede legale ad Amsterdam (quella fiscale è a Londra). Tuttavia le ragioni riguardano più il diritto civile olandese (che consente assetti societari più agili e convenienti per la controllante) che non il tornaconto fiscale. Fino a quando le norme del diritto societario non saranno unificate in Europa (ma ho forti dubbi che ciò possa avvenire per la forte differenza tra le diverse tradizioni giuridiche) le imprese (soprattutto se multinazionali) cercheranno sempre di mettere la sede legale dove le tasse sui profitti sono più basse. Forse un modo di fare pagare le tasse in Italia ci sarebbe: diminuirle allo stesso livello degli altri paesi concorrenti e semplificare le procedure giudiziarie e burocratiche che complicano la vita agli imprenditori.

Autostrade
Se esistono responsabilità penali per il crollo del ponte Morandi di Genova lo accerterà la magistratura; le nostre leggi sono in proposito tra le più severe del mondo. Il problema del rinnovo delle concessioni è invece una questione politica ed economica (per le eventuali penali che lo Stato dovrebbe pagare in caso di rescissione anticipata). Il governo deve decidere se mantenere il sistema delle concessioni o nazionalizzare tutte le autostrade affidandole all’ANSA; in entrambi i casi la pubblica amministrazione deve dimostrare di essere affidabile per i controlli nel primo caso o per la gestione diretta nel secondo. Quello che non si può fare in uno stato di diritto è escludere dalle gare una ditta per ragioni che la magistratura deve ancora accertare.
Entrando nel merito della scelta che bisogna fare osservo soltanto che un confronto è possibile: da una parte la storia infinita e tormentata della Salerno-Reggio Calabria (a gestione diretta dell’ANSA) dall’altra il funzionamento delle autostrade private come la Milano – Napoli, autentica dorsale strategica del Paese, che insieme ad altre affidate in concessione a società diverse dall’ASI costituisce la maggior parte della rete autostradale. Ombre e luci in entrambi i casi ma il bilancio complessivo non lascia adito a dubbi sulla convenienza di un sistema di concessioni. Esso tuttavia non consentendo alcuna concorrenza richiede un controllo molto severo da parte dello Stato ed è questo il vero punto debole del sistema italiano. Il problema dunque non è di sostituirsi ai privati nella gestione (quando lo ha fatto i risultati non sono mai stati soddisfacenti) ma impiegare risorse umane ed economiche competenti in grado di esercitare in maniera efficiente i controlli previsti dalla legge, fino alla revoca delle concessioni quando si accertino violazioni significative.
Va aggiunto che la famiglia Benetton, controllante di Autostrade, è anch’essa una multinazionale che gestisce autostrade in altri paesi e che attraverso la Aeroporti di Roma ha consentito al “Leonardo da Vici” di Fiumicino di pervenire a un livello di efficienza che finalmente lo colloca nel novero dei migliori in Europa.
Resta la macchia tragica del crollo del ponte di Genova che poteva e doveva essere evitato. Ma, anche in questo caso, dov’era lo Stato nella sua funzione di controllo? E perché Grillo ha rimosso un vecchio post sul suo blog in cui nel ribadire la sua contrarietà alla costruzione della bretella autostradale della Gronda (che avrebbe liberato Genova dall’intenso traffico di transito che premeva sul viadotto crollato) affermava che il ponte Morandi sarebbe durato ancora cent’anni? Domande a cui nessuno dà risposte se non nella ricerca di un facile capro espiatorio che ha certamente le sue colpe ma rappresenta anche un’eccellenza dell’imprenditoria italiana a cui migliaia di risparmiatori hanno dato fiducia.

Giuseppe Conte batta un colpo. Non sempre e non tutto si può mediare: viene il momento che bisogna decidere sapendo che qualunque essa sarà verrà sepolto da insulti e grossolane semplificazioni. Il popolo dei social non ragiona, sentenzia.

Franco Chiarenza
7 giugno 2020