Oggi sono in pochi a considerare il venti settembre una data rilevante, degna di essere festeggiata. Questo è un male, perché è il frutto della scarsa memoria storica del paese; ma è anche un bene, perché alla festa parteciperebbero troppi ospiti indesiderati. E soprattutto perché l’anniversario simbolo della laicità dello Stato rischierebbe di trasformarsi nella celebrazione del suo funerale.

Che cosa avrebbero da dire i politici italiani, che hanno fatto a gara per accreditarsi presso le gerarchie ecclesiastiche, cercandovi quella legittimazione culturale che non possedevano in proprio? Che cosa avrebbero da dire i giornalisti, soprattutto quelli del servizio pubblico, che in molti casi hanno fatto dei loro spazi una dépendance del Vaticano e della Cei, oltre che – spesso nello stesso momento – una lussuosa foresteria dei partiti? Che cosa avrebbero da dire questi nuovi leader – di cui non facciamo i nomi per carità di patria, e forse persino per carità di Dio – che sul piano della laicità riescono a far rimpiangere i vecchi, i quali già facevano rimpiangere i vecchissimi?

Allora diciamo qualcosa noi, nel nostro piccolo: una breve riflessione sui rapporti fra Stato e Chiesa nella storia d’Italia può essere infatti di una qualche utilità anche per il presente. Benché il primo articolo dello Statuto Albertino designasse la religione cattolica come religione di Stato, i governanti dell’età liberale erano perfettamente consapevoli della necessità di una politica laica, che non confondesse i piani di Dio e di Cesare. Il modo in cui si era realizzata l’unificazione rendeva questo atteggiamento quasi inevitabile, e l’anticlericalismo – inteso in primo luogo come contestazione del potere temporale del Papa – fu uno dei tratti caratterizzanti di quella fase storica.
Pur animati da ispirazioni differenti, la destra e la sinistra concordavano in linea di massima su questa linea, sia per ragioni politiche che di principio. Vi erano coloro i quali si appellavano al primato della scienza contro la religione, traendo spunto dalla filosofia positivista allora molto in voga. Vi era chi difendeva l’indipendenza dello stato nazionale da ingerenze esterne, sulla base di considerazioni che discendevano da un certo hegelismo di destra. Vi era poi chi – come i cattolici liberali – riteneva improprio e nocivo per la stessa Chiesa l’esercizio del potere temporale. Le cose cambiarono quando gli echi delle antiche lotte iniziarono a spegnersi, a cavallo tra i due secoli. Ci si era resi conto che i cattolici si erano integrati nello stato nazionale e non coltivavano più, almeno nella loro grande maggioranza, propositi di rivincita.

Sebbene alcuni uomini politici considerassero come una minaccia tanto i neri (i clericali) quanto i rossi (i socialisti), si affermò presto la convinzione che questi fossero più minacciosi di quelli, e che potesse essere utile guadagnare i primi alla propria causa. Fu soprattutto Giolitti ad adottare un diverso atteggiamento nei loro confronti, pensando di poterli utilizzare per la stabilizzazione del sistema. Ma fu la Grande Guerra a mutare completamente lo scenario. Alla fine del conflitto nacquero nuovi partiti; e tra questi il Partito popolare di don Sturzo, che replicava con maggior successo il precedente tentativo di Romolo Murri. Era un modo per integrare le masse cattoliche nella vita nazionale, con un programma di tipo riformatore.
Ma qualche anno dopo, il Papa fece la sua scelta, e scelse Mussolini abbandonando Sturzo, che dovette partire per il suo lungo esilio. Quello tra il fascismo e la Chiesa cattolica fu un patto di potere, che sarebbe sfociato nella firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929. Il secondo dopoguerra vide la sconfitta del fronte laico sull’articolo 7 della Costituzione: una sconfitta amara, dovuta tra l’altro alla diserzione di molti presunti laici, a cominciare dai comunisti.

Gli anni successivi furono caratterizzati da significative battaglie per la laicità, sul piano culturale e del costume, che contribuirono alla secolarizzazione e alla modernizzazione del paese. Il risultato del referendum sul divorzio – una legge che era stata introdotta quattro anni prima grazie allo sforzo congiunto del radicalsocialista Fortuna e del liberale Baslini – rese esplicito il rifiuto, da parte di una larga maggioranza di cittadini, di bardature che percepivano come imposte, e che non rappresentavano più il sentimento profondo della società italiana.
In questi casi, si conclude spesso rimpiangendo i grandi laici di una volta, da Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi, fino – perché no? – a Marco Pannella. E invece di questi tempi viene spontaneo rimpiangere i cattolici di una volta, che erano cattolici veri, e non baciapile improvvisati che agitano rosari mai sgranati e Vangeli mai letti. Era un cattolico vero e non un clericale De Gasperi, che seppe dire no a Pio XII, comportandosi con la dignità di un uomo delle istituzioni: ed è impietoso il confronto con gli attuali protagonisti della nostra vita pubblica. Altri uomini, e forse anche altre istituzioni. Montanelli scrisse che De Gasperi entrava in chiesa per parlare con Dio, mentre Andreotti parlava col prete. I clericali di oggi – che meno credono, più fingono di credere – non parlano né con l’uno né con l’altro. Non con il prete, che spesso è molto meno clericale di loro. Non con Dio, perché probabilmente – se hanno una coscienza – in fondo temono si faccia vivo.

 

Saro Freni
29 settembre 2020

Fatto finalmente questo stupido referendum che non servirà a niente è venuto il momento di affrontare i veri problemi istituzionali importanti che non riguardano il numero dei deputati ma la loro qualità e i loro poteri; il che, in termini concreti, significa mettere mano alla nuova legge elettorale e superare il bicameralismo integrale che caratterizza da settant’anni il nostro sistema legislativo.

Legge elettorale
Il modo di eleggere i nostri rappresentanti in Parlamento è fondamentale: la Costituzione non dice nulla in proposito lasciando alle leggi ordinarie il compito di determinarlo. Il che ha significato nel tempo che ogni maggioranza ha cercato di disegnare una legge elettorale che garantisse il suo mantenimento (con maggiore o minore successo). La fantasia degli studiosi della materia si è in questi ultimi anni scatenata immaginando sistemi complicati che spesso hanno dato risultati assai diversi dalle previsioni, dovendo anche tenere conto dell’esistenza del Senato per il quale la Costituzione prevede un vincolo di rappresentanza regionale non facilmente eludibile. Ma, gira e rigira, il dilemma, – da noi come in ogni altra democrazia parlamentare – è relativamente semplice: si tratta di decidere se privilegiare il principio di rappresentanza o invece quello della governabilità, essendo praticamente impossibile garantirli entrambi nella stessa misura.
Il principio di rappresentanza assicura lo stesso peso ad ogni voto espresso e si traduce in un sistema proporzionale (tanti voti, tanti deputati), corretto di solito da uno sbarramento per evitare un frazionamento eccessivo (in Germania, per esempio, è il 5%); esso rispecchia fedelmente l’effettiva composizione dell’opinione politica degli elettori ma spesso non consente la formazione di maggioranze stabili e quindi incide sulla governabilità (obbligando i partiti ad alleanze talvolta eterogenee).
Il principio di governabilità presuppone una legge elettorale uninominale per la quale il territorio nazionale viene diviso in collegi in cui il candidato deputato viene eletto a maggioranza (con turno unico o ballottaggio), un po’ come avviene nelle elezioni comunali; essa garantisce maggioranze certe e quindi la governabilità, ma spesso non riflette l’effettiva composizione delle diverse opinioni (escludendo di fatto dalla rappresentanza i partiti minori). Il sistema è normalmente adottato nei paesi di tradizione anglosassone (Gran Bretagna, Stati Uniti, ed altri), dove infatti può succedere (ed è accaduto) che la maggioranza parlamentare non coincida coi voti popolari complessivamente considerati.
Una variabile del sistema proporzionale pensata per conciliare almeno in parte la rappresentanza e la governabilità, è il sistema maggioritario che assegna alla lista vincente (o a un gruppo di liste alleate) un “premio di maggioranza” costituito da un numero di seggi aggiuntivo rispetto a quelli effettivamente conseguiti.

Naturalmente tutti i sistemi possono essere integrati da correttivi che ne attutiscano gli effetti negativi ma, in sostanza, quando si discute una legge elettorale è tra i primi due principi (rappresentanza o governabilità) che si deve scegliere.

L’esperienza di questi settant’anni ha dimostrato:

  1. che i sistemi proporzionali (anche nella versione maggioritaria) consentono ai partiti di esercitare un potere determinante nella formazione delle liste e quindi nella scelta dei parlamentari. Anche quando le liste non sono bloccate gli elettori di fatto danno la preferenza al partito dal quale si sentono maggiormente rappresentati più che ai singoli candidati. La prima repubblica che a lungo aveva adottato sistemi proporzionali è stata definita infatti “partitocratica”. In realtà essi hanno dimostrato di funzionare in maniera accettabile soltanto quando il contesto politico è caratterizzato da un sostanziale bipartitismo, con pochi grandi formazioni politiche in grado di alternarsi al potere senza produrre cambiamenti eccessivamente radicali (come accadeva in Germania e in Spagna fino a poco tempo fa). Essi inoltre privilegiano il rapporto tra candidati-deputati e partito di appartenenza rispetto a quello tra candidati-deputati e territorio.
  2. che peraltro i sistemi uninominali possono, in talune circostanze, non riflettere la reale volontà politica dell’elettorato perchè l’elezione dei deputati dipende dall’estensione dei collegi e dal radicamento territoriale dei partiti (in Italia, per esempio, penalizzerebbe un movimento come i Cinque Stelle). Essi consentono però di instaurare un rapporto molto stretto tra rappresentati e rappresentanti (che da un lato dà a questi ultimi maggiore autonomia rispetto al partito che li ha candidati, ma d’altra parte favorisce il clientelismo e i condizionamenti localistici delle scelte politiche). I sistemi uninominali hanno indubbiamente il vantaggio di indicare subito con certezza la maggioranza di governo, determinando nei paesi che li hanno adottati forme di alternanza abbastanza riconoscibili da parte dell’elettorato (secondo lo schema “progressisti”/“conservatori”, talvolta con liberali e verdi a far da terzi incomodi).
  3. che naturalmente l’efficacia dei modelli elettorali dipende anche dalle altre variabili istituzionali. Se adottati in regimi presidenziali (come quello americano e, in parte, quello francese) hanno una valenza, se utilizzati in monarchie costituzionali (dove il Capo dello Stato non è elettivo e non esercita funzioni di direzione politica), come avviene nell’Europa settentrionale, ne hanno una completamente diversa.
  4. infine che bisogna tenere conto dell’esistenza dei tanti livelli intermedi dotati di poteri legislativi (come gli “States” negli Stati Uniti, i “Lander” in Germania, le autonomie speciali in Spagna e in Gran Bretagna e, naturalmente, delle Regioni a casa nostra).

Senato

E’ raro trovare nelle democrazie parlamentari due assemblee sostanzialmente simili nella modalità di elezione, nella durata e nei poteri legislativi, come avviene in Italia. Ciò ha sempre comportato lentezze nei procedimenti legislativi e talvolta maggioranze instabili. Tutti i tentativi di riformare su questo aspetto la Costituzione sono abortiti ma adesso, con la riduzione dei parlamentari, il nodo diventa centrale.
Prima domanda: non conviene a questo punto sopprimere semplicemente il Senato?
Io credo di no, perchè una seconda camera “di riflessione” può essere utile per depurare l’attività legislativa dai fattori emozionali che talvolta la condizionano (un po’ come le corti d’appello rispetto ai tribunali). A condizione però che il Senato non abbia gli stessi poteri della Camera dei deputati (per esempio in materia di fiducia al governo o di approvazione del bilancio) e svolga invece una funzione utile e complementare rispetto alla prima Camera, per esempio nei controlli di qualità sulle nomine ai vertici della pubblica amministrazione, nei trattati internazionali, nelle leggi (non di bilancio) che coinvolgono il ruolo e le funzioni delle Regioni.
A tal fine il Senato deve essere composto in maniera diversa dalla Camera dei deputati. I costituenti nel 1947 avevano indicato alcune differenziazioni: durata diversa, età differente per elettori e eleggibili, ma la tendenza di tutte le mini-riforme è stata di rendere le due Camere sempre più omogenee.
Seconda domanda: come hanno risolto il problema quei paesi europei che hanno mantenuto forme di bicameralismo?
In Gran Bretagna la Camera dei Lord, al netto dei membri ereditari che provengono da poche famiglie di antica nobiltà, è costituita da personalità nominate a vita dalla Regina su indicazione del primo ministro, un po’ come avveniva nel Senato regio della monarchia italiana. Di fatto essa svolge un’utile funzione di “consulenza” giuridica e costituzionale e molto raramente respinge una legge approvata dai Comuni, e quando lo fa la Camera elettiva può sempre confermare le proprie scelte obbligando il Capo dello Stato a promulgare la legge contestata.
In Germania la struttura federale dello Stato ha consigliato di prevedere una seconda Camera (Bundesrat) composta da rappresentanti delle Regioni (Lander). I suoi poteri sono specificati dalla Costituzione ma in linea di massima il Bundesrat partecipa alla funzione legislativa in maniera limitata, restando al Bundestag (parlamento federale, eletto con sistema proporzionale previo sbarramento del 5%) il potere di nominare e sfiduciare il Cancelliere federale (capo del governo), approvare le leggi di bilancio, ecc. Al Bundesrat peraltro sono riconosciuti alcuni poteri specifici (per esempio in materia di politica europea) e di fatto esso esercita un potere di controllo sull’attività del parlamento federale; insieme ad esso elegge i giudici costituzionali (metà e metà). La sua composizione è variabile perchè ogni nuova maggioranza nei lander può sostituire la propria rappresentanza nell’assemblea, ragione per la quale spesso (come adesso) la maggioranza che sostiene il governo al Bundestag può non coincidere con quella esistente nel Bundesrat, senza che ciò incida sulla governabilità.
In Francia il Senato partecipa a pieno titolo alla funzione legislativa ma ha poteri limitati; quelli essenziali infatti (come la fiducia al governo) spettano all’assemblea nazionale (elettiva) che ha sempre l’ultima parola in caso di disaccordo. I senatori sono eletti con procedura indiretta attraverso i dipartimenti coinvolgendo deputati, senatori, consiglieri dipartimentali e regionali, consigli municipali. Il Senato viene rinnovato per metà ogni tre anni. Il sistema è un po’ macchinoso ma serve a coinvolgere gli enti locali – seppure indirettamente – nell’attività legislativa. Si tenga presente inoltre che in Francia vige un sistema semi-presidenziale che concentra nel presidente della repubblica (elettivo) molti poteri che in altri paesi sono svolti dai capi di governo designati dai parlamenti.
Anche in Spagna il Senato non ha gli stessi poteri della Camera bassa (Cortes) in quanto, per esempio, soltanto quest’ultima vota la fiducia al governo e in caso di conflitto con il Senato prevale la volontà della Camera se la legge viene riapprovata con una maggioranza qualificata (salvo che per le leggi costituzionali). Il sistema di elezione dei senatori è molto diverso da quello della Camera perchè tiene conto delle differenti autonomie locali (58 su 266 senatori sono eletti dalle 17 assemblee delle Comunità autonome).

Come si vede molte sono le soluzioni possibili: la peggiore era quella individuata da Maria Elena Boschi nella riforma costituzionale proposta da Renzi e bocciata nel referendum confermativo del 2018 che, per risparmiare sugli stipendi dei senatori, li trasformava in commessi viaggiatori dalle regioni di provenienza (di cui erano anche consiglieri) a Roma, col risultato che o facevano una cosa o l’altra. Un pasticcio memorabile che ancora ricordiamo con orrore.
L’importante è mantenere al Senato la connotazione di rappresentanza degli interessi locali che la Costituzione già aveva prefigurato nel 1947, sancirne compiti e funzioni in modo chiaro che non dia adito a troppe interpretazioni controverse, cercare su questa riforma un consenso trasversale coinvolgendo le opposizioni, come sempre si dovrebbe fare in materia di revisioni costituzionali, e iniziare al più presto l’iter legislativo perchè il nuovo Senato possa essere funzionante in coincidenza con lo scadere della legislatura.

 

Franco Chiarenza
22 settembre 2020

E’ la domanda che molti mi fanno. Come se io possedessi capacità divinatorie in una materia così complicata come la politica italiana (complicata perchè sono complicati gli italiani!).
Posso soltanto fare qualche riflessione che lascia il tempo che trova.

  1. Non credo che l’esito del referendum sul numero dei parlamentari abbia grande importanza. Se vince il sì (come è molto probabile) i Cinque Stelle si sbracceranno per attribuirsene il merito ma il fatto che persino il PD (dopo un po’ di giravolte) si sia orientato per il sì e la sostanziale convergenza delle destre attutiranno la percezione trionfalistica di Grillo e Di Maio. Se vince il no l’immagine dei Cinque Stelle ne resterà incrinata ma le conseguenze per il governo saranno minime. Il problema viene dopo. Per rendere realmente funzionale il nuovo assetto parlamentare occorre non soltanto una appropriata legge elettorale ma anche mettere all’ordine del giorno il superamento del bicameralismo integrale.
  2. Neanche i risultati delle elezioni regionali saranno determinanti per la tenuta della maggioranza a meno che il PD non subisca una sconfitta in Toscana, sua roccaforte storica. Per le altre Regioni in cui si vota ho pochi dubbi sulla vittoria della destra in Puglia (oltre alla conferma in Veneto e Liguria), e di De Luca (sinistra) in Campania. Un’eventuale sconfitta del PD nelle Marche non sarebbe sufficiente a mettere in crisi la maggioranza di governo.
  3. Il vero nodo politico che dovrà essere sciolto in ottobre è la resa dei conti all’interno del movimento Cinque Stelle. Si tratta di misurare (anche nei gruppi parlamentari) i rapporti di forza tra l’ala moderata favorevole a mantenere l’alleanza col PD (che fa capo a Di Maio e può contare sull’appoggio di Grillo) e la parte “movimentista” di cui potrebbe assumere la guida Di Battista (con la benedizione del clan Casaleggio). Ne uscirà probabilmente un compromesso ma bisognerà vedere quali saranno le conseguenze su una base militante che mostra segni crescenti di disagio.
  4. Il problema più importante che dovrà essere risolto entro ottobre non è politico ma piuttosto economico e sociale, quando il governo dovrà presentare alla Commissione dell’Unione Europea il programma di investimenti strutturali per i quali si apre la possibilità di accedere ai finanziamenti del recovery fund faticosamente strappati da Conte al vertice europeo dello scorso luglio. La gravissima situazione economica e sociale che si prospetta, anche per il permanere delle misure restrittive dello stato di emergenza connesse alla pandemia, produrrà pressioni fortissime per l’allargamento di misure assistenziali incompatibili con gli impegni assunti a Bruxelles ma che naturalmente la destra di Salvini e Meloni cavalcheranno senza remore. Senza una maggioranza solida in grado di ridimensionare le preoccupazioni elettorali dei Cinque Stelle sarà impossibile andare avanti e in tal caso lo scenario si complicherebbe. La soluzione più logica sarebbe lo scioglimento anticipato delle Camere e il conseguente ricorso alle urne (come vorrebbero le destre, convinte, in base ai sondaggi, di potersi avvicinare alla maggioranza assoluta). Ma Mattarella potrebbe giocare una carta di riserva prima che il semestre bianco metta fuori gioco il Quirinale: la conosciamo tutti: ha un nome e un cognome Mario Draghi. Ma con quale maggioranza?

 

Franco Chiarenza
13 settembre 2020

Ero abituato ad attribuire al termine “negazionista” un preciso significato per connotare chi nega la “shoà”. Vedo che adesso nel linguaggio neo- politically correct indica più generalmente chi nega la pericolosità della pandemia da virus Covid 19. E siccome mi sono trovato a condividere alcune obiezioni sulle strategie messe in atto per contrastare l’epidemia, mi domando se anch’io sono un “negazionista”. Rispondo con poche brevi considerazioni:

  1. Non nego l’esistenza e la pericolosità del virus. E non credo possa farlo nessuna persona ragionevole.
  2. Nego invece che le drastiche misure di lockdown adottate in Italia siano state determinanti per diminuirne gli effetti. Il numero dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva è, in rapporto alla popolazione, non molto diverso da quello di altri paesi che si sono limitati a misure più contenute. Il danno economico invece è misurabile in almeno dieci punti di pil e forse un milione di disoccupati in più.
  3. Nego che la dannosità (e in particolare la letalità) del virus sia uguale a quella della fase più aggressiva (che da noi si è manifestata tra febbraio e giugno del 2020). Lo ammettono molti virologi e clinici ma lo dicono sottovoce per paura di essere etichettati come “negazionisti” che trasmettono messaggi sbagliati perchè inducono a comportamenti più rilassati. La gente deve continuare ad avere paura. Io sono invece convinto che i contagi possono essere curati nella grande maggioranza dei casi in maniera adeguata senza eccessivi allarmismi: abbiamo strutture meglio attrezzate e, probabilmente, difese immunitarie aumentate. La gente non deve essere continuamente tenuta in stato d’allarme, al contrario va rassicurata e indotta a tornare a una vita normale.
  4. Nego l’efficacia della campagna terroristica a cui si sono abbandonati alcuni media (per indurre alla prudenza, dicono), ostinandosi per esempio a considerare gli infettati come ammalati. Tutti sanno che così non è e lo dimostra il gran numero di positivi sottoposti semplicemente alla cosiddetta “quarantena” (15 giorni a casa in isolamento). Mentre è evidente, come si è visto sin dal primo momento, che il virus diventa realmente pericoloso quando colpisce persone già affette da infermità pregresse soprattutto se anziane (come avviene anche in molte forme di “normale” influenza). Ciò era palese già nella prima fase dell’epidemia e sarebbe stato possibile adottare nei confronti delle persone a rischio e nei territori maggiormante colpiti misure di controllo preventive anche attraverso screening generalizzati, cosa che non si è fatta, optando invece per una chiusura indifferenziata del Paese (che era stata sconsigliata anche dal CTS) i cui costi economici e sociali sono ancora da verificare nella loro effettiva dimensione.
  5. Nego la possibilità di rendere permanenti le misure di distanziamento proclamate dai famigerati decreti concordati tra il CTS e il ministro Speranza. Per i giovani si tratta di divieti innaturali, impossibili da rispettare e irragionevoli nella loro motivazione. Contribuiscono però a rendere disagevoli le comunicazioni, a danneggiare le relazioni sociali e l’enorme indotto che su di esse fa affidamento (ristoranti, alberghi, competizioni sportive). Altri miliardi andati in fumo, altre centinaia di migliaia di disoccupati. Poi basta prendere un autobus per rendersi conto di quanto siano ridicoli certi divieti che ricordano le “grida” di manzoniana memoria. Sarà divertente vedere cosa succederà nelle nostre scuole alle prese con mascherine metti e togli, banchi con le rotelle, distanziamenti impossibili, insegnanti in tuta da palombaro.
  6. Nego alcuna seria validità anti-virus alle mascherine ormai mantenute più come simbolo di allarme sociale che per la loro reale efficacia. Se infatti il virus si trasmette soltanto a distanza ravvicinata (come dicono i virologi) e non viaggia liberamente nell’atmosfera (come molti pensano) le mascherine servono soltanto a ostacolare l’emissione di sostanze potenzialmente virali (tosse, starnuti, contatti ravvicinati) in ambienti chiusi, ma per essere efficaci dovrebbero essere cambiate ogni giorno, disinfettate, corrispondere a modelli “chirurgici” che quasi nessuno in realtà adotta. Se poi se ne proclama l’obbligo di usarle soltanto in alcune ore del giorno e della notte si può capire l’ilarità che tale normativa ha scatenato nei social.
  7. Nego al Comitato Tecnico Scientifico il potere che si è attribuito di sospendere i diritti civili in base a considerazioni sanitarie mai sottoposte a seri contraddittori scientifici. Certo, il CTS fa il suo mestiere che è allarmistico per definizione (in base al principio di precauzione) ma spetta al potere politico mediare tra le esigenze sanitarie (accertando che siano reali e non immaginarie, come quelle predittive non verificate) e le drammatiche emergenze sociali ed economiche che il terrorismo mediatico sta creando attraverso una narrazione catastrofista basata su una lettura dei dati scorretta e in alcuni casi palesemente falsa.
  8. Nego che si debba aspettare che guarisca l’ultimo infettato in val Brembana per abolire il regime di emergenza. Potremmo attendere fino al 2025 (fatte salve le terze, quarte, quinte, ondate che gli apocalittici continuano a preannunciare, ansiosi di rinchiudere tutti in casa).
  9. Nego infine a chiunque la facoltà di definirmi come militante dell’estrema destra perchè sostengo le tesi di cui sopra. Anche perchè da cittadino consapevole quale ritengo di essere rispetto le leggi pure quando non le condivido. Di conseguenza esco pochissimo e solo in automobile per non dovermi continuamente mettere e levare l’inutile mascherina, non vado più al ristorante, cinema, teatri, librerie mi sono preclusi, non viaggio per evitare stazioni e aereoporti trasformati in presidi militarizzati. Contribuisco così ad aumentare la voragine economica e occupazionale che produce molti più danni del coronavirus.

P.S. – La Svezia, che non ha adottato alcuna forme estrema di lockdown , ha avuto 5.000 morti su una popolazione di 10 milioni di abitanti. La Lombardia che ha, più o meno, lo stesso numero di abitanti, ne ha avuti 17.000.

 

Franco Chiarenza
12 settembre 2020

Per tre persone su quattro che incontrate per strada se domandate cosa gli ricorda il 20 settembre vi risponderà, forse, che si vota per la riduzione dei deputati e per il rinnovo di alcuni consigli regionali. Pochi ricordano che è il 150° anniversario di Porta Pia, della fine del potere temporale della Chiesa, di Roma capitale dell’Italia unificata, avvenimenti che hanno cambiato la storia d’Italia, della religione cattolica, e quindi, in una certa misura, del mondo.
Certo, ci saranno le solite cerimonie commemorative alimentate soprattutto dai radicali e dalla Massoneria, la sindaca si farà viva in qualche modo di malavoglia, forse il presidente della Repubblica, governo e parlamento, dedicheranno all’avvenimento parole di circostanza, ma mai come in questa occasione mi rendo conto di quanto ci siamo allontanati dai valori risorgimentali che sono anche, nel bene e nel male, il fondamento della società civile in cui operiamo quotidianamente. Persino a Roma, che non sarebbe quella che è senza il 20 settembre 1870, il disinteresse è palpabile.
Molto diverso fu il centenario nel 1970: grande folla a porta Pia, seduta celebrativa congiunta di Camera e Senato, ricevimento al Quirinale, rievocazioni storiche, convegni di studio conditi da inevitabili (e salutari) tentativi di rilettura degli eventi in chiave revisionista. Nulla nemmeno di paragonabile a quanto si è fatto a Torino nel 2011 per i 150 anni della proclamazione del regno d’Italia.

Le ragioni di questa indifferenza (che è peggio della contestazione) sono molte e risalgono certamente al modo stesso in cui l’unità d’Italia si completò con l’occupazione di Roma. Ma i motivi più recenti e forse più pregnanti sono altri:

  1. il Paese non percepisce più la Capitale come punto di riferimento culturale e politico; anche perchè la moltiplicazione dei centri decisionali (le Regioni all’interno e le istituzioni dell’Unione Europea all’esterno) ne ha ridotto l’importanza.
  2. Roma è diventata sinonimo di cattivo funzionamento della pubblica amministrazione, identificato sommariamente con la burocrazia statale, considerata un apparato lento, costoso e inefficiente.
  3. La Capitale è assurta alla ribalta di tutti i media mondiali per vicende giudiziarie inquietanti e anche per il pessimo stato di manutenzione della città: rifiuti, condizioni delle strade, trasporti, ecc..
  4. Roma è considerata una città parassitaria che vive a spese del resto del Paese senza assicurare in modo efficiente i servizi corrispondenti. Al “palazzo” si addebita ogni sorta di nefandezza: intrighi, corruzione, privilegi della classe politica, anche oltre la verità dei fatti, come facile scarico di responsabilità che sono in realtà dell’intero Paese.
  5. Roma è sentita oggi più come sede della Chiesa e proscenio mondiale della sua predicazione apostolica che non la capitale di uno stato laico nella sua dimensione secolare, laica, aperta a tutte le culture.

Ognuno di questi punti richiederebbe un’analisi specifica e ad essi probabilmente altri se ne potrebbero aggiungere. Ma consentite a me, romano come tanti altri di adozione, di esprimere amarezza e sconforto per un anniversario che avrei voluto diverso.

 

Franco Chiarenza
11 settembre 2020