Presi dalle inevitabili usanze natalizie e dalle restrizioni da Covid che le hanno rese un po’ più originali del solito non ci siamo quasi accorti dell’unica cosa importante di questo fine d’anno: raggiunto in “zona Cesarini” un accordo, dal 1 gennaio la Gran Bretagna non farà più parte dell’Unione Europea. Trovare un’intesa in tempo utile sembrava ormai impossibile, e il no deal (cioè l’uscita senza accordo) pareva inevitabile. Poi, dopo il volo improvviso di Johnson a Bruxelles, il barometro ha volto al bello e la convenzione che consentirà di mantenere un’area di libero scambio tra tutti i 27 paesi è stato firmato. La domanda è: come mai? E quella successiva: chi ci ha guadagnato (e chi ci rimette)?

Accordo necessario
La prima risposta è relativamente semplice: un no deal avrebbe messo in forti difficoltà Johnson, soprattutto nei tempi brevi. Troppe circostanze giocavano contro di lui: il timore di un’improvvisa impennata dei prezzi di alcuni generi di prima necessità importati dal continente (erano già cominciati gli accaparramenti, migliaia di autocarri sostavano a Calais per raggiungere l’Inghilterra prima che i dazi si facessero sentire), l’allarme della finanza che continuava a traslocare dalla City di Londra in cerca di siti più accoglienti, le nuove fibrillazioni indipendentiste della Scozia, la stessa elezione di Biden che faceva venir meno l’asse preferenziale (più presunto che vero) con Trump. In tali circostanze il volo di Johnson tra le braccia di Ursula von der Leyen sembrava quasi una disperata richiesta di aiuto.
Tuttavia la risposta alla seconda domanda è in netta contraddizione con la prima perchè, almeno in apparenza, chi esce vincente dal compromesso è proprio Johnson, il quale, non a caso, ha subito lanciato messaggi trionfalistici.
Le questioni ancora sul tappeto dopo un anno di trattative erano infatti tre: la frontiera irlandese, i diritti di pesca nel mare del nord e le regole del libero scambio per evitare che di fatto gli operatori britannici potessero fruire di un vantaggio non concorrenziale (come un fisco più favorevole, eventuali aiuti di Stato o normative meno onerose in campo ambientale, ecc.). Di questi problemi il più importante è il terzo (non certo la pesca che interessa una percentuale trascurabile degli scambi) e la soluzione trovata che esclude la competenza giurisdizionale dell’UE rimettendo eventuali (inevitabili) controversie a un indefinito “arbitrato internazionale” sembra accogliere le richieste britanniche. Johnson sembra quindi avere ottenuto quanto voleva: il mantenimento di una zona di libero scambio (che conviene al Regno Unito, importatore netto) senza regole vincolanti per gli imprenditori britannici che non siano passate da Westminster. C’è di più: un accordo così favorevole mette in crisi il progetto secessionista degli indipendentisti scozzesi per la difficoltà di dimostrare la convenienza di tornare a far parte dell’Unione. Perchè dunque tanta improvvisa accondiscendenza da parte della von der Leyen (e, dietro di lei, dell’asse Macron – Merkel) nei confronti del governo di Londra?
L’ovvia risposta che un’intesa qualsivoglia conviene a tutti i partner non spiega perchè se ciò è vero non si sia chiusa l’intesa molto prima. Resta da capire se qualcosa di nuovo è intervenuto e in tal caso di che si tratti.

Europa a due velocità
Forse la vera risposta arriverà nel corso del prossimo anno e consistere nel rilancio di un’Europa a due velocità: da una parte una zona di libero scambio molto ampia (che potrebbe comprendere anche paesi che oggi non fanno parte dell’Unione come la Norvegia, la Svizzera, l’Ucraina, la Serbia, l’Albania) con istituzioni in grado di regolarne gli scambi commerciali, dall’altra una più solida confederazione politica e militare, dotata di una moneta comune e di una autentica costituzione fondata sul riconoscimento delle regole dello stato di diritto (tale quindi da spingere paesi esplicitamente illiberali e intolleranti come la Polonia e l’Ungheria a decidere definitivamente da che parte stare). Se di questo si tratta si capisce meglio perchè anche un accordo apparentemente vantaggioso per il Regno Unito può essere accettato dall’Unione Europea. Tanto più se – come ci si augura – l’amministrazione Biden rilancerà il multilateralismo democratico non soltanto rafforzando la NATO ma anche costruendo nuovi rapporti di alleanza con i paesi che in Occidente e in Oriente si riconoscono nei principi dello stato liberale e che non sono soltanto quelli legati da tradizioni di origine anglosassone (come nel caso di Canadà, Australia, Nuova Zelanda) ma anche altri che hanno ormai da molto tempo inserito quei valori nelle proprie culture politiche e sociali.

 

Franco Chiarenza
28 dicembre 2020

La domanda che mi sono posto subito dopo il vertice dell’Unione che ha sbloccato il piano di rilancio economico “Next generation” (con annesso Recovery Fund) su cui i governi di Polonia e Ungheria minacciavano di porre il veto è stata: chi ha vinto (o perso) nel tiro alla fune che da molti giorni contrapponeva Angela Merkel ai premier di Budapest e Varsavia?
Poco se ne capisce dai nostri media tutti concentrati al sollievo per la conferma dei 200 miliardi (sul cui utilizzo già si sta litigando) che parevano compromessi dall’ostinazione di alcuni partner europei (e del Parlamento di Strasburgo) di condizionare gli aiuti europei al rispetto delle regole dello stato di diritto, principio apertamente contestato da paesi che ostentatamente dichiarano di essere democrazie populiste lontane dal modello liberal-democratico degli altri 25 partner. A leggere certi giornali sembra che agli italiani interessi soprattutto incassare i soldi e che per il resto si tratti di impuntature di scarsa importanza. Ma per i liberali non è così: il rispetto dello stato di diritto vale più di qualsiasi finanziamento.

Il compromesso Merkel
Alla fine il compromesso che la leader tedesca ha strappato ha consentito alla Germania di chiudere con un successo non scontato il semestre della sua presidenza dell’Unione. Ma a quale prezzo? Come ne esce la credibilità politica e – diciamolo pure – ideologica di quella che dovrebbe avviarsi a diventare (soprattutto dopo la Brexit) una vera e propria confederazione fondata su principi condivisi? Per capirlo bisognerebbe analizzare il contenuto del compromesso, cosa che i nostri giornali non fanno in maniera adeguata.
Per quel che ne ho capito e fatte salve le inevitabili precisazioni che arriveranno mi pare si possa affermare:
a) – che sulla questione di principio (riconoscimento dello stato di diritto come fondamento dell’Unione) gli altri 25 paesi dell’Unione non hanno fatto alcun passo indietro.
b) – che sulla clausola che condiziona la distribuzione dei fondi europei al rispetto di tale principio la Merkel ha dovuto cercare un compromesso perchè purtroppo i trattati prevedono in molti casi (tra cui quello in oggetto) l’unanimità dei consensi e Polonia e Ungheria hanno minacciato di farla mancare. Portare avanti lo scontro fino alle estreme conseguenze avrebbe comportato una rottura dannosa soprattutto per le popolazioni polacche e ungheresi, in quanto entrambi i paesi sono beneficiari netti delle varie erogazioni europee. Si è preferito, almeno per il momento, evitare il peggio.
c) – che il compromesso è basato su un’interpretazione del vincolo non retroattiva e anzi spostata in avanti al momento in cui eventuali violazioni dello stato di diritto saranno confermate da pronunce definitive della Corte di giustizia europea. Clausola a cui teneva molto il leader ungherese Orban che l’anno prossimo dovrà affrontare elezioni politiche il cui esito non appare del tutto scontato, malgrado i condizionamenti posti ai mezzi di informazione non allineati.
d) – che infine Ungheria e Polonia hanno ottenuto (e questa sarebbe la cosa più grave) che la condizionalità del rispetto dello stato di diritto sia limitata al piano “Next generation” votato dal Parlamento europeo e non ad altri finanziamenti e vantaggi di cui già godevano.
Se questa mia lettura dell’accordo è corretta bisogna riconoscere che per non provocare una frattura dagli esiti incerti si è accettato di pagare un prezzo elevato in termini di credibilità politica. I liberali avrebbero certamente preferito una soluzione più drastica ma la Merkel e Macron (che anche in questa occasione hanno confermato la loro intesa strategica) hanno optato per una soluzione ispirata alla prudenza della “real-politik” nella convinzione che anche i partiti populisti al potere in alcuni paesi europei capiscano che c’è un limite al principio di sovranità oltre il quale scatta inevitabilmente l’incompatibilità con l’appartenenza all’Unione Europea.
A buon intenditor……

 

Franco Chiarenza
14 dicembre 2020

A 94 anni se n’è andata Gianna Radiconcini. Non era una donna liberale, né diceva di esserlo: la sua stessa passionalità, l’intransigenza un po’ settaria di alcune scelte, le certezze in cui si rifugiava non si conciliavano con lo spirito di tolleranza che del liberalismo è parte essenziale. Tuttavia faceva parte a pieno titolo di quell’ampia area di democrazia laica in cui molti liberali si sono riconosciuti nelle grandi battaglie che anche la Radiconcini ha combattuto, a cominciare da quelle sui diritti. Amica e compagna di partito di Oronzo Reale apportò un contributo significativo alla prima riforma del diritto di famiglia che nel 1975 il ministro repubblicano approntò per superare le norme assurde che erano rimaste invariate dai tempi del regime fascista, per continuare, in sintonia con i radicali e noi liberali le battaglie per il divorzio, l’aborto, il diritto di decidere quando e come morire.

L’altro fronte su cui si è dispiegata l’attività di Gianna Radiconcini è quello europeista, non soltanto per essere stata corrispondente della RAI a Bruxelles, ma anche in quanto amica e collaboratrice di Altiero Spinelli, di cui condivideva la visione federalista espressa nel manifesto di Ventotene. Sosteneva che soltanto attraverso un allargamento progressivo dei poteri del Parlamento Europeo sarebbe stato possibile pervenire alla creazione di uno stato federale sul modello americano in grado di esercitare nei nuovi equilibri globali il peso che gli spettava per la sua storia, la sua cultura e le dimensioni economiche e sociali. Ha passato i suoi ultimi mesi tra una partecipazione appassionata alla campagna elettorale per il Parlamento Europeo e la scrittura del suo ultimo libro, dopo il successo di “Semafori rossi”, un’autobiografia romanzata che aveva già destato molto interesse.

I suoi amici la ricorderanno sempre coi suoi maestosi capelli bianchi, circondata da bellissime orchidee nel suo salotto romano di via Cassiodoro dove organizzava riunioni di ottimo livello su tematiche europee, sempre fiduciosa che la logica delle cose avrebbe infine prevalso mettendo d’accordo i rissosi partner dell’Unione.
Giornalista, scrittrice, animatrice di incontri politici, Gianna Radiconcini racchiudeva nella sua esistenza la complessità di una generazione che ha vissuto sulla propria pelle una trasformazione epocale senza precedenti. Non si arrendeva mai; l’ho vista in difficoltà soltanto di fronte a Internet, di cui comprendeva le potenzialità ma rifiutava la logica dei suoi automatismi. Per lei il computer era soltanto una macchina da scrivere più perfezionata della vecchia Lettera 22 con cui aveva scritto i suoi reportage.

Con me liberale il suo azionismo idealistico spesso non andava d’accordo ma in realtà per molti aspetti era più liberale lei di tanti che dicono di esserlo.

Franco Chiarenza
12 dicembre 2020

Il “gran signore” del liberalismo europeo, Valery Giscard d’Estaing, ci ha lasciato.
E’ stato una personalità di rilievo non soltanto per la Francia ma per l’intera Europa. Eletto presidente della Repubblica francese nel 1974 dopo la morte di Georges Pompidou (il successore di De Gaulle) restò all’Eliseo fino alla scadenza del mandato nel 1981. Una presidenza caratterizzata dalla sua formazione liberale, quindi molto attenta ai diritti umani e al rispetto dello stato di diritto, con in più la consapevolezza che l’unità dell’Europa non andava considerata soltanto un’opportunità da cogliere con cautela ma rappresentava ormai una necessità per la stessa sopravvivenza delle nazioni che ne facevano parte: da qui una linea di politica estera che cercava nell’asse con la Germania e l’Italia il perno su cui costruire forme di integrazione sempre più strette. Quando finalmente nel 2002 i paesi aderenti all’Unione Europea decidono di dotare le nuove istituzioni di una carta costituzionale e viene istituita per elaborarla una speciale Convenzione Giscard d’Estaing viene chiamato a presiederla (vice presidenti Giuliano Amato e l’ex premier del Belgio Jean Luc Dehaene). Il progetto, come è noto, naufragò nel referendum confermativo in Francia e in Olanda e, obiettivamente, per come era stato emendato dagli interventi cautelativi degli Stati, meritava questa fine: era farraginoso, confuso nelle competenze, poco innovativo nelle procedure decisionali, certamente insufficiente a configurare un salto di qualità verso una autentica confederazione europea. Non fu colpa della presidenza che lo aveva abbozzato in modo assai diverso, ma piuttosto di un’infinità di compromessi al ribasso che si rivelarono paralizzanti. Col trattato di Lisbona nel 2007 alcuni punti qualificanti del progetto furono ripresi e l’Unione potè compiere qualche passo avanti, ben lontano peraltro dalle aspirazioni degli europeisti.

Ma a noi liberali preme ricordare con quanto vigore Giscard difese una visione laica della cosa pubblica, nazionale o europea che fosse, quando sorse la questione del “preambolo” della Costituzione nel quale si voleva includere un esplicito riferimento alle “radici” cristiane dell’Europa (poi rettificate in giudaico-cristiane per paura delle proteste degli ebrei). L’opposizione di Giscard fu intransigente: un preambolo caratterizzato da un qualsiasi riferimento religioso costituisce la premessa di discriminazioni incompatibili con i principi laici e liberali su cui sin dalle origini si è fondata la comunità europea. Le pressioni della Chiesa (e in particolare di Wojtila e di Ratzinger) furono fortissime ma, nonostante la richiesta fosse stata fatta propria dal governo italiano (allora presieduto da Berlusconi), la proposta non passò.
Si disse di tutto, si interpretò in maniera disinvolta la storia di mille anni di intolleranza religiosa, si fece ricorso al preambolo della Costituzione americana (“In God We trust”) scritto due secoli fa in ben diverso contesto storico e comunque lontano da espliciti connotati confessionali (come poi viene stabilito nel successivo primo emendamento), si paventò l’islamizzazione del Vecchio Continente (rivelando così le reali intenzioni dei proponenti) e dobbiamo all’intransigenza di Giscard se il tentativo non sortì alcun effetto se non quello di aprire un interessante dibattito su come i partiti di ispirazione cristiana intendevano la laicità delle istituzioni pubbliche.
La questione in effetti non era secondaria, come sostenevano quanti la consideravano un innoquo dettaglio su cui si poteva transigere dato che esso non avrebbe comunque trovato nessun concreto riscontro nei successivi articoli della Costituzione. In realtà accettare la formulazione proposta da alcuni movimenti cristiani e dalla Chiesa cattolica significava rovesciare il principio di separazione tra lo Stato e le convinzioni personali, stabilendo che per ragioni storiche una determinata religione dovesse rappresentare una imprescindibile e privilegiata fonte di ispirazione negli orientamenti morali, in piena contraddizione con la concezione laica e liberale scaturita dall’Illuminismo (duramente contestata dalla Chiesa proprio per la sua intrinseca incompatibilità con le verità assolute che nella dottrina cristiana imponevano il rifiuto anche violento di ogni diversità religiosa o filosofica). Una distinzione dunque tra fede religiosa e diritti individuali che Giscard riteneva un punto fermo affinchè nella costruzione europea non trovassero spazio gli integralismi e le intolleranze che già in passato ne avevano minato le fondamenta.
Che il cristianesimo sia parte integrante della storia d’Europa è ovviamente innegabile (così come si può dire della civiltà greco-romana o di altre culture religiose come quella giudaica) ma nulla autorizza a collocarlo in posizione preminente in un testo costituzionale fondato su principi che col cristianesimo – comunque interpretato – poco hanno a che fare.

Non sempre la Francia col suo sciovinismo nazionalista e il suo statalismo invadente può essere considerata un modello per i liberali; ma sulla difesa della laicità delle istituzioni pubbliche Parigi ha sempre tenuto alta l’attenzione. Per questo saremo sempre grati a Giscard d’Estaing per un no che garantisce al Vecchio Continente un futuro non confessionale.

 

Franco Chiarenza
7 dicembre 2020

 

Inutile nasconderselo: da qualche mese Carlo Calenda ha imposto con un’abile campagna che utilizza largamente i social-network la sua candidatura, non soltanto a sindaco di Roma, ma in realtà a “sindaco d’Italia” (per utilizzare un vecchio slogan di Mario Segni di trent’anni fa). Lo fa argomentando in maniera convincente in netta controtendenza rispetto al mainstream corrente della politica nostrana, basato su approssimazioni, fake news, scambi di insulti, volgarità di vario genere.
I liberali lo seguono con simpatia e qualche perplessità, anche se il personaggio non si è mai dichiarato “liberale” in senso ideologico ma piuttosto appartenente a un più largo ambito culturale che potremmo definire liberal-democratico.
La sua originalità (e la conseguente attrattività) consiste proprio nel rifiuto delle gabbie ideologiche e partitiche che continuamente vengono riproposte sotto mentite spoglie, e spingere invece la riflessione sulle azioni piuttosto che sulle idee astratte: non a caso il suo movimento si chiama “Azione”. Il problema centrale del Paese, secondo Calenda, non è “fare cose di sinistra” piuttosto che “cose di destra” (salvo capire cosa ciò significhi realmente), ma semplicemente fare qualcosa.
La sua vis polemica si indirizza all’incapacità della politica di realizzare i propri progetti, qualunque siano: non per responsabilità di una burocrazia inerte e depotenziata, non per colpe altrui, ma per avere perso l’abilità di utilizzare gli strumenti e le strutture esistenti (e le condizioni esterne più o meno favorevoli) al fine di conseguire obiettivi chiari, riconoscibili, su cui i cittadini possano compiere scelte consapevoli. Qualunque liberale autentico non può che avere un riflesso positivo, come il cane di Pavlov quando sente la campanella: gli si presenta subito davanti il volto accigliato di Camillo Benso di Cavour. Purtroppo con una differenza, che Cavour muoveva su una scacchiera complessa forze non sempre omogenee facendole convergere su un obiettivo comune avendo dietro di sé sostegni che gli consentivano di passare rapidamente dal pensiero all’azione, la monarchia, l’esercito, la parte più colta e influente non soltanto del Piemonte ma (attraverso la Società Nazionale) anche degli altri regni italiani, senza parlare della nascente borghesia imprenditoriale che dell’unificazione vedeva tutti i possibili vantaggi. Calenda invece, anche quando dice cose condivisibili appare un isolato, guardato con diffidenza dal partito democratico che in lui teme un nuovo Renzi, detestato da Renzi per la stessa ragione, troppo debole per attivare un consenso deciso da parte di un mondo imprenditoriale indebolito e scottato da precedenti endorsment non corrisposti, e considerato pericoloso dai sindacati sempre timorosi di perdere potere contrattuale senza il mantenimento di quei riti defatiganti che non sembrano compatibili col messaggio calendiano.

Sindaco di Roma?
Così stando le cose il leader di Azione (forte della sua militanza nel gruppo social-democratico del Parlamento Europeo) ha fatto la mossa del cavallo: non ha aspettato che eventuali trattative sottobanco tra Zingaretti e Di Maio si concludessero abbandonando una capitale ingovernabile al dilettantismo dei Cinque Stelle in cambio di altre possibili “conquiste” del PD (Torino, Napoli, Palermo?). Pettegolezzi, fake, falsità, smentirebbero subito i vertici del Nazareno, ma, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.
Non c’è dubbio comunque che la mossa di Calenda ha messo in difficoltà il partito democratico anche perchè la sua candidatura, debitamente appoggiata, sarebbe l’unica in grado di battere la destra, e tutti lo sanno. Da parte sua Calenda rischia poco: da un lato affronta una campagna che gli dà grande visibilità , d’altra parte costringe il PD – anche in vista di elezioni politiche che potrebbero arrivare subito dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato nel 2022, a definire la vera natura dei suoi rapporti (secondo Calenda incestuosi) col movimento Cinque Stelle.

Il Liberale Qualunque sta a guardare: un po’ scettico, un po’ divertito, un po’ ammirato. Ma in fondo al cuore ha una speranza: e se ce la dovesse fare?

 

Franco Chiarenza
1 dicembre 2020

Quanto durerà la pandemia?
LQ: Nessuno lo sa. Secondo alcuni potrà anche prolungarsi, sia pure in forme striscianti, per tutto l’anno prossimo. Per questo bisogna abituarsi all’idea che con questa emergenza (e con altre che potrebbero presentarsi) dobbiamo imparare a convivere per evitare che i suoi effetti collaterali siano più dannosi della causa principale. Per farlo senza traumi occorre adeguare tutti gli strumenti necessari: politici e istituzionali, sanitari, di previdenza e assistenza sociale, rendendoli compatibili con una normale attività economica, produttiva e di servizio.

Il vaccino risolverà definitivamente il problema del Covid?
LQ: Del vaccino sappiamo ancora troppo poco. Gli annunci trionfalistici si susseguono da mesi ma in realtà, al di là dei diversi approcci scientifici di differenti centri di ricerca, vi sono problemi da risolvere che richiedono tempo: sperimentazione sicura, conservazione, distribuzione che eviti forme di speculazione. Speriamo che le autorità pubbliche si preparino tempestivamente e non soltanto a parole. Il che significa che le prevedibili criticità non vanno esorcizzate ma affrontate predisponendo sin d’ora strategie adeguate.

La strategia adottata dal Governo per contrastare la “seconda ondata” è quella giusta?
LQ: A prescindere dagli strumenti legislativi utilizzati (che suscitano in ogni liberale fondate riserve di costituzionalità) nel merito dei provvedimenti si può concordare su due punti fondamentali: il rifiuto del lockdown generalizzato e la gradualità delle limitazioni in rapporto alle situazioni oggettive di ciascuna Regione. Entrambi i punti tuttavia hanno messo in luce criticità che risalgono alle infelici modifiche al titolo V della Costituzione apportate nel 2001.

Quali sono le riserve di costituzionalità che suscitano preoccupazioni in un liberale?
LQ: Rovescio la domanda. Può un semplice decreto del presidente del Consiglio dei ministri sospendere – sia pure in una situazione di emergenza – diritti e facoltà che discendono direttamente dalla Costituzione? Per di più in maniera generalizzata come avvenne col lockdown di primavera?

Cosa c’è che non funziona nel rapporto tra Regioni e Stato?
LQ: Il principio delle “competenze concorrenti” che attribuisce in alcune materie (come la sanità) poteri prevalenti alle Regioni, ma mantiene allo Stato compiti di coordinamento non ben definiti che hanno aperto la strada a conflitti infiniti (anche prima del Covid). Con i DCPM il Governo, spinto dall’emergenza, si è attribuito dei poteri di intervento ( peraltro convalidati dal Parlamento) che sono in contrasto con quelli costituzionalmente assegnati alle Regioni; il che ha creato il caos che stiamo vivendo.

Perché ciò non si è verificato nella prima fase, quando fu decretato un lockdown generalizzato?
LQ: Perché nel clima di terrore che si era diffuso (ampiamente favorito dai mass media) l’opinione pubblica non avrebbe tollerato alcun dissenso sulla linea rigida adottata dal Governo e men che meno conflitti di competenza (che pure ci furono con la Lombardia); qualunque critica veniva considerata un’inaccettabile polemica strumentale. La stessa opposizione di destra, pur non scalfita nei sondaggi, ha avuto comportamenti esitanti e contraddittori tra gli stessi governatori eletti nelle loro liste (Piemonte, Lombardia, Veneto, Sicilia, Liguria, Calabria, Sardegna).

La divisione in zone differenziate nell’adozione delle misure di contenimento è giusta?
LQ: Fondamentalmente sì perché non ha senso limitare le libertà personali e il funzionamento degli esercizi commerciali nella stessa misura in situazioni completamente diverse; provvedimenti coercitivi adottati in base al principio di precauzione senza che vi sia un’emergenza immediata e dimostrabile sono incostituzionali e rappresentano un precedente pericoloso che potrebbe mettere in discussione la concezione stessa di stato di diritto.

Molti hanno sostenuto che la dimensione regionale non rispecchia la varietà delle situazioni. Hanno ragione?
LQ: In effetti la “colorazione” delle Regioni (rosso, arancione, giallo) è apparsa incongrua per una strategia realmente mirata a circoscrivere le zone infette perché all’interno delle Regioni (soprattutto delle più estese) coesistono situazioni molto differenti; la dimensione più adatta sarebbe stata quella provinciale ma le Regioni rappresentano entità amministrative ben definite (e dotate di poteri specifici in materia) le Province non più.

I negazionisti sono davvero soltanto incoscienti rabbiosi da isolare?
LQ: Bisogna distinguere. Quelli che negano l’esistenza del virus e considerano ciò che sta avvenendo un complotto internazionale teso a perseguire fini inconfessabili (chi, quali?) sono semplicemente degli esaltati che fanno parte della falange degli imbecilli che credono che la terra sia piatta; non vanno isolati, vanno ignorati. Altro discorso riguarda quanti sono preoccupati per le conseguenze economiche, sociali e politiche delle misure adottate che potrebbero riflettersi in cambiamenti anche rilevanti degli equilibri istituzionali (per noi liberali tanto importanti!). Essi, e il liberale qualunque tra loro, si chiedono semplicemente se una strategia basata su un inseguimento defatigante degli “infettati” fosse la migliore e se non convenisse, sin dall’inizio, concentrare risorse e strutture sulla cura degli ammalati con sintomi gravi piuttosto che pagare prezzi così alti in termini di vita civile; che, in fondo, è stata la strategia adottata da alcuni paesi come la Svezia, il Giappone, la Corea del sud (e, in pratica, da molti Stati nord-americani). Alla fine il numero dei morti da Covid non è stato in quei paesi, in rapporto alla loro popolazione, superiore a quello che si è dovuto registrare da noi.

L’obbligo della mascherina e il coprifuoco dopo le 22 sono apparsi a molti misure esagerate e inefficaci, utili soltanto a drammatizzare una situazione perfettamente controllabile.
LQ: Ecco il punto. Nessuno mi convincerà mai che l’uso della mascherina (specialmente se fatto in modo approssimativo, come si fa) o la indiscriminata chiusura serale dei ristoranti siano utili a contenere i contagi. Ma il problema è altrove: l’inadeguatezza delle nostre strutture sanitarie a fronteggiare la “seconda ondata”, malgrado essa fosse stata prevista. Le misure adottate dal Governo sono in gran parte strumentali, non servono a contenere il contagio ma a contrarre la circolazione delle persone sperando in tal modo di diminuire la pressione sulle strutture sanitarie. Ma se prima si spaventa la gente e poi ci si lamenta che in troppi si presentano ai pronto soccorso al primo colpo di tosse, qualcosa non ha funzionato nella politica comunicativa adottata dal Governo. E poiché i sintomi iniziali del coronavirus sono assai simili a quelli di una normale influenza il “liberale qualunque” trova assai grave che non si sia provveduto per tempo a distribuire in grandi quantità i vaccini adatti a prevenire l’ordinaria influenza.

Però tutti i paesi europei (esclusa la Svezia) hanno finito per adottare misure di contenimento della diffusione del virus simili alle nostre.
LQ: Infatti il nostro Governo si è mosso in sostanziale sincronia con la Francia e la Germania (anche se in qualche caso con maggior rigore formale); ma ciò non toglie che la discussione sull’analisi costi- benefici della strategia adottata resti aperta. Ma non ora.
Adesso bisogna rispettare anche le disposizioni che non ci piacciono e che abbiamo motivo di contestare; uno stato di diritto consiste pure nel rispettare le responsabilità di governo di chi è stato chiamato dal Parlamento ad esercitarle, soprattutto in un momento di emergenza come quello che indiscutibilmente stiamo vivendo.