Non sempre le elezioni sciolgono i nodi della politica; spesso il problema non è se votare o meno ma come farlo, con quale legge elettorale, con quali obiettivi, se privilegiando la governabilità oppure rispettando integralmente la rappresentanza del pluralismo delle opinioni. Nè vale l’obiezione, spesso ripetuta, che si possano trovare soluzioni intermedie che salvino capra e cavoli perchè, nonostante i marchingegni dell’ingegneria costituzionale, si arriva sempre al punto di dovere privilegiare uno dei due corni del dilemma. Le soluzioni contorte provocano talvolta esiti paradossali perchè studiate in base ad aspettative che poi si dimostrano infondate. L’esperienza dimostra che ogni cambiamento della legge elettorale produce variazioni nelle intenzioni di voto, dando luogo a un avvitamento indecoroso al quale sarebbe bene mettere fine attraverso una seria riflessione che coinvolga non solo le principali forze politiche (tese a privilegiare le proprie presunte convenienze elettorali) ma anche l’opinione pubblica la quale da tempo reclama regole che garantiscano la governabilità del Paese una volta per sempre. Occorre in sostanza compiere quel passo che l’assemblea costituente settant’anni fa non volle fare: costituzionalizzare la legge elettorale, almeno nei suoi principi fondamentali.

Per procedere in questa direzione sottraendo il dibattito ai conciliaboli degli specialisti di ingegneria costituzionale sarebbe opportuno innanzi tutto ricordare che le leggi elettorali possono grosso modo dividersi in due sistemi: proporzionale oppure uninominale.
Quelle ispirate al principio proporzionale cercano di rispettare principalmente il criterio della rappresentanza per il quale ogni formazione, anche di modeste dimensioni, abbia accesso in parlamento. Corrisponde a un ideale di democrazia partecipata e dialogante in cui il ricorso alla contrapposizione tra maggioranza e opposizione costituisca un fatto increscioso, anche se talvolta inevitabile. In realtà però i sistemi proporzionali – anche con i possibili correttivi – generano sempre instabilità e quindi non sono mai stati in grado di garantire la governabilità, a meno che l’elettorato non sia fondamentalmente costante e concentrato su pochi partiti alternativi, determinando di fatto una sorta di bipolarismo, come accadeva da noi nella prima repubblica (DC vs/PCI) o in Germania (CDU/CSU vs/ SPD). In quest’ultimo paese, per evitare i rischi della frammentazione e garantire la governabilità sono previste una soglia elettorale del 5% (al di sotto della quale non scatta il diritto di rappresentanza) e la “sfiducia costruttiva” (cioè l’obbligo di costituire una maggioranza alternativa prima di mandare a casa quella esistente). Un altro correttivo per limitare i danni di una eccessiva frammentazione è il cosiddetto “premio di maggioranza”, cioè un certo numero di seggi parlamentari da attribuire alle liste o coalizioni vincenti; che però non impedisce la creazione di alleanze fittizie che si dissolvono subito dopo avere conseguito il “premio”.
Ma al di là della difficile governabilità (resa ancor più complicata dal bicameralismo perfetto esistente in Italia) i sistemi proporzionali, rimettendo ai partiti il potere di formare le liste, privilegiano il legame degli eletti con il partito di appartenenza a scapito del rapporto con il territorio che dovrebbe rappresentare il fulcro di ogni democrazia che sia tale nella sostanza e non soltanto nelle forme. Il che non è questione da poco in un momento in cui la democrazia attraversa una fase di crisi di legittimità per la sua (vera o presunta) incapacità di interpretare il “paese reale”.

L’ unica alternativa che garantisce stabilità e credibilità al parlamento è costituita dai sistemi ispirati al principio uninominale (anche in questo caso con numerose variabili che sono state “inventate” per limitarne alcuni aspetti negativi). Il Paese viene diviso in tanti collegi elettorali quanti sono i seggi in palio ed essi sono attribuiti al candidato che prende più voti (talvolta con l’obbligo di ballottaggio quando nessuno di essi supera una soglia determinata). I sistemi uninominali privilegiano il legame tra il candidato e il territorio, consentono agli elettori di conoscere meglio i loro deputati e di controllarne l’operato, spingono a un tendenziale bipolarismo e quindi a una più sicura governabilità; dove sono stati adottati infatti sono rarissime le crisi di governo tra un’elezione e l’altra. Il principio uninominale è generalmente applicato nei paesi anglosassoni dove può accadere – senza che nessuno ne meni scandalo – che le maggioranze parlamentari non coincidano col numero complessivo dei voti riportati dai partiti (come è spesso avvenuto in Gran Bretagna). D’altronde si tratta di un sistema che conosciamo bene per essere stato adottato nel 2000 anche da noi, con generale soddisfazione, nelle elezioni amministrative. I punti di debolezza sono: il rischio di un voto di scambio (peraltro presente anche in altri sistemi), la prevalenza dell’elettorato periferico (spesso arretrato su posizioni più conservatrici) rispetto a quello urbano (maggiormente sensibile ai processi di trasformazione sociale) ma ciò dipende naturalmente da come vengono disegnati i collegi elettorali.

La domanda che sorge spontanea è: se tutto ciò è vero perchè il sistema proporzionale è sostenuto da quasi tutti i partiti? La risposta è semplice: perchè dà più potere ai partiti, non perchè rappresenta un vantaggio per la governabilità del Paese.

 

Franco Chiarenza

 

Questo articolo è tratto da Paradoxa Forum che lo ha pubblicato l’11 febbraio 2021.
Lo storico e politologo Dino Cofrancesco lo ha commentato dicendosi pienamente d’accordo.

Cosa pensa il liberale qualunque del nuovo governo presieduto da Mario Draghi?
Poche cose, ma fondamentali.

I) – Il governo, per come è costituito e per come ci si è arrivati, non rappresenta la “salvezza della democrazia” ma, al contrario, un momento buio e drammatico che ha messo in luce i problemi strutturali del nostro sistema politico. Quando bisogna affidarsi a un chirurgo, per bravo che sia, vuol dire che gli anticorpi non sono riusciti a impedire alla malattia di diffondersi; per tornare in buona salute l’operazione non basta, occorre rimuovere le cause che hanno prodotto la malattia.

II) – Proprio per questo il governo Draghi, mettendo insieme, volenti o nolenti, tutti i partiti con la sola esclusione di Fratelli d’Italia, costituisce un’occasione forse unica per mettere mano ad alcune riforme strutturali che, per essere efficaci, richiedono un consenso molto ampio che le sottragga alla tentazione di speculazioni elettorali. Si tratta di cose di non poco conto: una riforma della magistratura che restituisca credibilità e prestigio alla funzione giudiziaria (gravemente compromessi da quanto è emerso clamorosamente col “caso Palamara”), una riforma della scuola in senso meritocratico che consenta alle nuove generazioni di confrontarsi a parità di conoscenze e competenze con quelle che emergono dagli altri paesi, una riforma del Senato che differenzi i suoi compiti rispetto a quelli primari della Camera dei deputati realizzando quel monocameralismo di fatto che caratterizza tutte le democrazie parlamentari del mondo, una legge elettorale che (almeno per la Camera) garantisca la governabilità e trovi definitiva sistemazione (per lo meno nei suoi principi generali) nella Costituzione, una riforma del titolo V della Carta che chiarisca definitivamente poteri e limiti delle Regioni eliminando le incongruenze e i difetti che la sciagurata riforma del 2001 ha introdotto (con evidenti ripercussioni anche nella gestione dell’epidemia Covid 19).

III) – La scelta dell’ex-presidente della BCE per guidare un governo d’emergenza è ovviamente dovuta alla priorità dei problemi economici. Si tratta in sostanza di condurre in porto il piano italiano per il “Recovery fund” in maniera efficiente e funzionale rispetto agli obiettivi fissati dal progetto “Next generation” di Ursula von der Leyen, secondo le compatibilità fissate dal Consiglio Europeo (e quindi anche dal nostro governo) e le indicazioni operative approvate dal Parlamento Europeo. Che Draghi voglia gestire questo compito fondamentale senza eccessivi condizionamenti esterni appare evidente dalla composizione del ministero dove gli incarichi strategici sono stati assegnati a Daniele Franco (Banca d’Italia), Roberto Cingolani (fisico responsabile dell’innovazione tecnologica di “Leonardo”, ex Finmeccanica) al quale spetterà coordinare quella transizione ecologica (probabilmente assorbendo qualche delega dal ministero dello Sviluppo economico e da quello delle infrastrutture) che sta tanto a cuore a Grillo e che non è incompatibile con gli obiettivi di Draghi, Vittorio Colao (ex dirigente di diverse aziende attive nella comunicazione) all’innovazione tecnologica, Enrico Giovannini (economista, ex presidente dell’Istituto centrale di statistica, già ministro nel governo Letta) alle infrastrutture. E’ questa infatti la squadra che compilerà nel dettaglio il piano italiano del “Recovery fund”.

IV) – La conferma di Speranza al ministero della sanità indica che sulla questione della lotta contro la pandemia il nuovo governo intende muoversi in sostanziale continuità con quello precedente. L’attribuzione dell’importante dicastero dello Sviluppo economico a Giancarlo Giorgetti (anche se privato probabilmente di qualche competenza a favore della transizione ecologica) indica non soltanto l’ampiezza della svolta impressa alla Lega ma anche l’intenzione di Draghi di privilegiare una nuova intesa tra i soggetti della produzione (imprese e sindacati) che consenta all’iniziativa privata, sorretta da investimenti infrastrutturali pubblici, di rilanciare l’occupazione. La nomina di Andrea Orlando, infaticabile mediatore del partito democratico, al ministero del lavoro potrebbe facilitare tale strategia.

V) – La scelta di un giurista indipendente come Roberto Garofoli nell’incarico cruciale di sottosegretario alla presidenza indica l’intenzione di Draghi di mantenersi al di sopra delle parti anche nella quotidianità dei rapporti intergovernativi (spesso affidata al suo “braccio destro”).

VI) – La discesa in campo di Draghi ha “sparigliato” i tradizionali schieramenti politici: se questo era davvero l’obiettivo di Renzi è perfettamente riuscito. A destra la clamorosa “conversione” della Lega da una linea nazionalistica e sovranista a un’altra più moderata, filo-europea e certamente più consona agli interessi imprenditoriali della Lega nelle regioni settentrionali, segna il ritorno alla tradizione nordista di quel partito e probabilmente l’attenuazione dei toni populistici anti-immigrati che hanno caratterizzato la leadership di Salvini. I primi riflessi si sono avuti a Strasburgo dove i deputati della Lega hanno votato a favore del “Recovery plan” in discontinuità col passato. Al centro Grillo, malgrado il prestigio di cui gode all’interno del suo movimento, ha dovuto faticare molto per portare la maggioranza del gruppo parlamentare ad appoggiare Draghi, fino al referendum sulla piattaforma Rousseau che, malgrado il quesito già incorporasse la risposta, non ha superato il 60% dei consensi, mettendo in evidenza una fronda (guidata da Di Battista e Casaleggio) che potrebbe presto trasformarsi in scissione; un fatto importante in grado di accelerare la trasformazione del movimento in un partito ecologista compatibile con i partiti “verdi” che in Europa hanno assunto un peso elettorale rilevante. E che tale sia la tendenza lo dimostra l’insistenza di Grillo per i temi della “transizione ecologica” mentre passano in secondo piano i moralismi giustizialisti su cui i “Cinque Stelle” avevano in gran parte fondato il loro consenso (e non a caso Bonafede è rimasto escluso dal governo).
Non è poco. Resta l’incognita di Giuseppe Conte; se prenderà la guida del movimento oppure vorrà lanciarsi “in proprio” nella competizione elettorale, forte di quel 15% che tuttora i sondaggi gli attribuiscono.

VII) – Il governo Draghi ha un anno di tempo, non di più. Dovrà gestire le elezioni amministrative (che sarebbe opportuno rinviare a settembre) con i risvolti politici che ne deriveranno ma non potrà andare oltre la scadenza del mandato di Mattarella (febbraio 2022). A quel punto, chiunque sia il futuro presidente della Repubblica, nuove elezioni politiche saranno inevitabili. Il compito di Draghi è di arrivarci non soltanto avendo varato il Recovery fund ma anche, almeno in parte, riattivato gli anticorpi demandati al salvataggio della nostra fragile democrazia.

Così la pensa il liberale qualunque che sono io.

 

Franco Chiarenza
16 febbraio 2021

Una buona informazione è fondamentale per una buona democrazia: senza l’una, l’altra non può prosperare. In questo recente volumetto – I diritti dei lettori. Una proposta liberale per l’informazione in catene (Biblion Edizioni, 2020) – Enzo Marzo affronta questo inscindibile legame, riprendendo e aggiornando alcune sue precedenti riflessioni. Leggendo il libro – così come il più vecchio Le voci del padrone. Saggio sul liberalismo applicato alla servitù dei media – si capisce che padroni e catene esistono anche perché molti giornalisti trovano utile mettersi al servizio e farsi incatenare. A giudizio dell’autore, un serio rinnovamento della nostra vita nazionale “non potrà realizzarsi senza una vera resa dei conti, senza una riflessione critica di quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni, quando la gran parte della classe dirigente (non solo quella politica) ha immiserito il Paese, ha violato, addirittura irriso, le regole dello Stato di diritto, ha svuotato le istituzioni e ha fatto dilagare corruzione, evasione fiscale, egoismi. Ha inoltre depenalizzato ogni mascalzonata ed eliminato ogni sanzione effettiva, non solo in termini giuridici, ma, ciò che è più grave, nel giudizio morale e politico degli individui.” Enzo Marzo non sposa l’idea di un giornalismo notarile, fintamente neutrale. Pensa piuttosto ad un giornalismo indipendente, animato da forti idealità e da una rigorosa etica professionale. Propone uno statuto dei lettori, che ne metta al centro i legittimi interessi ad un’informazione non manipolata.
Il libro aiuta a ragionare su alcune significative questioni generali che riguardano il rapporto fra il cittadino e il potere. Vi sono infatti numerosi problemi strutturali che ostacolano la nascita di un sistema informativo valido e credibile: la vicinanza con il potere politico e talvolta la vera e propria identificazione di alcuni mezzi d’informazione con interessi di partito o di fazione; il ruolo giocato dal monopolio della Rai e poi dal duopolio tra questa e Mediaset, quella spartizione del mercato televisivo che ha consolidato gli equilibri creatisi negli anni ottanta a dispetto delle regole della concorrenza e del mercato; l’anomalia costituita dal conflitto d’interessi berlusconiano, che ha inquinato per anni la vita pubblica senza mai giungere ad una soluzione accettabile; il lungo e pervasivo condizionamento dei principali gruppi industriali italiani – pubblici e privati – su giornali che si rivolgono a una platea di lettori sempre più striminzita. A questi elementi di fondo bisogna aggiungere i problemi legati al costume civile del nostro Paese, su cui si è sedimentato un antico retaggio di servilismo e cortigianeria, conformismo di massa e ossequio verso quelli che Ernesto Rossi chiamava i padroni del vapore. Su questi tratti del nostro carattere nazionale hanno pesato e pesano anche i limiti delle nostre élite, incapaci di assumere la direzione politica del Paese fungendo da esempio e da guida, e propense invece ad assecondare gli umori peggiori e le facili demagogie mescolando cinico paternalismo, populismo plebiscitario, massimalismi di ogni sorta e astuzie curiali, nel quadro del vecchio e collaudato sovversivismo delle classi dirigenti.
Questi fattori hanno impedito – o comunque reso molto difficile – la nascita di un’opinione pubblica attenta ed esigente. “Se le masse non hanno strumenti corretti e plurimi” – scrive Marzo – “per farsi un’idea appropriata dell’agenda politica, sarà sempre più illusoria la loro trasformazione in ‘società civile’ in grado di svolgere costantemente una verifica e una valutazione dell’operato del governo e delle forze politiche che si candidano alla sua sostituzione.” Non è stato sufficiente il lavoro encomiabile di quei giornalisti che – spesso pagandone grossi prezzi – hanno dato e danno ripetute prove di autonomia e coraggio. E tuttavia le trasformazioni tecnologiche – che consentono oggi la proliferazione di nuove voci attraverso internet – aprono uno scenario molto interessante, che va guardato con grande attenzione. Esiste il rischio della cacofonia, della dispersione, dell’improvvisazione; ma anche una notevole opportunità di arricchimento culturale, fondato sulla più ampia pluralità di idee e punti di vista.
Hegel diceva che la lettura del giornale è la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Di questa preghiera oggi molti fanno a meno, rivolgendosi altrove per ottenere notizie e commenti. Fanno bene, se questa scelta nasce dalla considerazione dei limiti dell’informazione tradizionale; fanno male, se pensano di poter trovare di meglio nella cosiddetta informazione televisiva, fatta molto spesso – al netto delle ovvie eccezioni – di urla, liti, risse da comari, slogan, propaganda, sensazionalismo, superficialità, servi sciocchi, conduttori compiacenti e fenomeni da baraccone. È molto più istruttivo – per comprendere il mondo che ci circonda – leggere un libro come quello di Enzo Marzo. Non prenderà il posto della preghiera del mattino, come la lettura del quotidiano; ma potrà costituire un ottimo e laicissimo breviario per sostituire quella della sera.

 

Saro Freni
15 febbraio 2021

La locuzione white knight è utilizzata dagli economisti per indicare qualcuno che interviene a salvare un’azienda pericolante. In politica lo chiamiamo enfaticamente “salvatore della Patria” ma il concetto è lo stesso.
Ogni qualvolta il sistema politico italiano si inceppa (per le ragioni più diverse) il Capo dello Stato chiama un “cavaliere bianco” a scioglierne i nodi: è successo con Guido Carli (ministro del tesoro negli anni difficili della lira dal 1989 al 1992), con Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini nella lunga crisi istituzionale che segnò il passaggio dalla prima alla seconda repubblica (dal 1993 al 1996), con Mario Monti nel 2011 quando il Paese pareva avviato a precipitare in un default finanziario ed economico senza precedenti. I “cavalieri bianchi” devono avere alcune caratteristiche: essere esperti di economia (e conseguentemente quasi sempre provenienti dalla Banca d’Italia), rivestire incarichi accademici prestigiosi, godere di buona considerazione negli ambienti politici europei e nella finanza internazionale, conoscere quanto basta i complicati meccanismi del sistema politico italiano senza lasciarsene troppo condizionare. Mario Draghi, giunto nel 2011 a presiedere la Banca Centrale Europea inserendosi abilmente come soluzione di mediazione nel conflitto che divideva francesi e tedeschi sulla politica monetaria europea, risponde perfettamente a tali requisiti.

Draghi
Naturalmente ogni cavaliere bianco costituisce una storia a sé; Draghi è stato convocato al Quirinale in condizioni assai differenti dai precedenti che ho ricordato e chiamato a risolvere problemi del tutto diversi. Non si tratta di imporre sacrifici ma, al contrario, di spendere bene le importanti risorse già acquisite in sede europea senza disperderle in tanti rivoli assistenziali e clientelari per concentrarle su alcune leve fondamentali per il futuro del Paese: infrastrutture materiali (trasporti, reti di comunicazione) e culturali (scuola e ricerca), rimodulazione fiscale che favorisca le imprese che generano occupazione stabile, efficienza della giustizia civile, modifica delle procedure decisionali ed esecutive per renderle più rapide e fluide. Se poi il “cavaliere bianco” riesce ad avere sufficiente consenso potrà anche avviare quelle riforme istituzionali di cui tutti riconoscono la necessità ma che sempre si arenano tra veti e convenienze elettorali di poco conto: per esempio una riforma del Senato che faccia uscire l’Italia (unica in Europa) da un paralizzante bicameralismo “perfetto”, una revisione del titolo V della Costituzione che chiarisca le competenze delle Regioni e degli enti locali, una definitiva legge elettorale “costituzionalizzata” che metta fine allo scandalo ricorrente delle leggi elettorali “su misura”, ecc.
Non si tratta di compiti facili. Dietro ogni questione si nascondono interessi consolidati, resistenze corporative, abitudini clientelari che utilizzano il ricatto elettorale per garantire privilegi acquisiti, localismi anche legittimi che rischiano tuttavia di sottrarre risorse alle priorità nazionali. Anche per questo il “cavaliere bianco” deve saper prendere le distanze non dai partiti ma dai loro calcoli elettorali richiamandoli alla loro funzione stabilita dall’art. 49 della Costituzione di “determinare con metodo democratico la politica nazionale” e non di difendere gli egoismi degli interessi particolari.
Naturalmente facile a dirsi, difficile a farsi. Davanti a Draghi tutti finiranno per aprire i cancelli delle rispettive ridotte; gli ostacoli verranno dopo quando il capo del governo dovrà schivare le trappole che verranno nascoste sul suo cammino. Nel suo compito potrà contare sull’aiuto di Mattarella, non tanto nelle sue funzioni di Capo dello Stato quanto piuttosto come esperto navigatore politico da tanti anni impegnato a mediare le complessità del nostro sistema politico.
“In bocca ai lupi” caro Draghi. Il tuo mandato durerà un anno e verrà inevitabilmente a cessare con l’elezione del successore di Mattarella nel febbraio del 2022; a quel punto o salirai al Quirinale spinto da un plauso generale, come fu per Ciampi, oppure andrai a fare compagnia a Monti in quelche oscura saletta di palazzo Madama.

 

Franco Chiarenza

7 febbraio 2021