Con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca il “grande gioco” planetario ha assunto un nuovo aspetto. Alla strategia ambigua di Trump fondata sulla supremazia degli interessi americani declinata soprattutto in termini di vantaggi a breve termine (non propriamente isolazionista perché non escludeva interventi e alleanze bilaterali), è subentrata una diversa visione degli equilibri mondiali che in certa misura si rifà alle concezioni di Obama (del quale – non si dimentichi – Biden è stato vice-presidente per otto anni).
Di questo cambiamento hanno dovuto prendere atto i leader delle principali potenze globali, in particolare la Russia e la Cina che avevano “tarato” la loro politica estera sulla possibilità di trattare con gli Stati Uniti in termini di scambi ed equilibri puramente commerciali. Ciò che ha colto di contropiede è stata la rapidità della svolta, che ha contraddetto le previsioni di tutti i commentatori politici i quali avevano immaginato una sostanziale continuità di politica estera almeno per i primi mesi.
Non è stato così: la nuova presidenza ha voluto subito mettere alla prova i grandi players mondiali rovesciando i tavoli delle intese di basso profilo (fondate su scambi bilanciati in una dimensione prevalentemente  bilaterale) e riprendendo il concetto della superiorità morale delle democrazie liberali come bussola obbligata di un nuovo multilateralismo entro il quale ricondurre tutte le diversità nazionali e culturali: una strategia che un po’ forzatamente definirei neo-kennediana. Il messaggio è chiaro: Mosca e Pechino dovranno misurarsi con obiettivi che vanno ben oltre la dimensione economica. La sfida torna ad essere ideologica, un terreno su cui i democratici americani si trovano più a loro agio.

Biden
Cosa sta facendo in sostanza Biden (affiancato dal segretario di Stato Blinken)? Sta cancellando l’immagine trumpiana di una potenza attenta soltanto ai propri interessi economici e quindi disponibile a ignorare ogni altra considerazione di carattere politico e ideologico, per sostituirla con quella vecchia e collaudata di paese guida non soltanto per la sua superiorità economica e militare ma soprattutto simbolo di una concezione neo-liberale fondata sui diritti umani fondamentali, naturalmente aggiornati alle sensibilità delle nuove generazioni (parità di genere, ambientalismo, rifiuto delle discriminazioni etniche). Puro ideologismo strumentale, rozzo tentativo ormai logoro di contrabbandare gli interessi per valori universali? Forse; ma anche consapevolezza che i veri interessi americani a lungo termine passano attraverso la proposizione di un modello più rispondente alle esigenze del futuro dell’umanità, vincendo la sfida sul piano dei valori oltre che dei rapporti di forza, come è avvenuto nel secolo passato prima nei confronti del totalitarismo nazifascista poi di quello comunista sovietico. Una contrapposizione che in realtà non è mai venuta meno anche dopo il crollo del muro di Berlino per la scarsa affidabilità del regime russo che era succeduto a quello comunista e, per quanto riguarda la Cina, dopo la tragedia di Tien An Men che segnava limiti invalicabili alla liberalizzazione del sistema maoista.
Perché questa strategia di Biden abbia successo occorrono però due condizioni: la prima è la credibilità di chi la propone che si misura sulla capacità del nuovo gruppo dirigente di rassicurare il ceto medio americano della sostenibilità di tale politica anche nei tempi brevi; ci sono soltanto due anni di tempo perché le elezioni di metà mandato nel 2022 potrebbero cambiare le maggioranze alla Camera e al Senato. La seconda è di produrre in tempi brevi alcuni effetti di politica estera non soltanto confermando le tradizionali alleanze (come la NATO) e i rapporti con le nazioni amiche in Oriente (a cominciare dal Giappone e dalla Corea del Sud) ma anche rinnovandone i principi ispiratori, superando la dimensione del contenimento politico e militare nei confronti della Russia e della Cina e approfondendone la caratterizzazione ideologica, anche a costo di mettere in evidenza certe palesi contraddizioni di alcuni paesi come la Turchia di Erdogan, la Polonia di Kazinski e l’Ungheria di Orban che nell’assoluta indifferenza di Trump hanno continuato a scivolare verso una trasformazione autoritaria e illiberale delle loro nazioni in aperto contrasto con i valori che furono alla base dell’alleanza atlantica (e soprattutto con quelli che dovrebbero caratterizzarla in futuro).

Putin
Tutti gli osservatori diplomatici si sono chiesti quanto ci fosse di incidentale o di premeditato nell’accusa lanciata da Biden contro Putin di essere “un assassino”. Resta il fatto che nulla ha fatto l’amministrazione americana per ridurre la portata dell’incidente mentre sorprendente è stata la reazione molto contenuta del presidente russo che si è limitato al “richiamo” dell’ambasciatore a Washington mentre nella replica veniva inserito l’invito a un incontro tra i due presidenti. Putin si trova evidentemente in imbarazzo di fronte al rovesciamento della politica estera americana: il ritorno in primo piano della questione ideologica, in un momento in cui la credibilità democratica del presidente russo è seriamente messa in discussione dal caso Navalny mentre il conflitto con l’Ucraina sembra lontano da una composizione, non lascia molti margini al governo di Mosca. Per di più la pressione americana rischia di destabilizzare i rapporti tra Russia e Germania (gasdotto Nordstream) e crea inquietudine nei paesi scandinavi (facendo riaffacciare la possibilità di un’entrata della Svezia nella NATO). Anche in Medio Oriente e in Libia il ritorno sulla scena degli Stati Uniti cambia la situazione rimettendo in difficoltà il regime siriano mentre mutano radicalmente i rapporti con l’Arabia Saudita, segnata dall’incredibile scandalo dell’omicidio dell’oppositore Kashoggi.
Naturalmente Putin sa bene che le vere difficoltà per Biden vengono da Israele, abituato a ricevere da Trump un appoggio incondizionato, e dai rapporti con l’Iran da cui dipende in larga misura la stabilizzazione di tutta l’area, e in questo nuovo scenario la Russia ha ancora molte carte da giocare. E’ probabile che sarà proprio questo il terreno d’incontro per una parziale intesa tra le due grandi potenze quando ricominceranno a parlarsi.

Xi Jinping
La Cina non è abituata ai cambiamenti rapidi che talvolta caratterizzano le democrazie occidentali. I suoi rapporti con gli Stati Uniti erano già deteriorati nell’ultimo biennio della presidenza di Trump ma probabilmente Xi contava su una sostanziale continuità che avrebbe consentito di trovare un soddisfacente compromesso bilaterale fondato su un maggiore equilibrio della bilancia commerciale. L’indifferenza di Trump per le intese multilaterali aveva consentito al governo cinese di mettere a segno un ottimo colpo nel 2020 con l’accordo di libero scambio tra quindici paesi orientali, ivi compresi alcuni tradizionalmente legati alle alleanze occidentali come il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. La nuova politica americana inaugurata nel vertice cino-americano di Anchorage in Alaska poche settimane fa ha mostrato chiaramente l’intenzione di Biden di confrontarsi a muso duro, ma ciò che preoccupa maggiormente la dirigenza comunista di Pechino è il capovolgimento dei parametri del confronto con gli Stati Uniti decisi a ripercorrere la strada della contrapposizione ideologica, facendo tornare al centro della scena mondiale i diritti umani violati a Hong Kong, nel Xinjiang e soprattutto rimettendo in discussione lo “status” di Taiwan, che la Cina continua a considerare parte integrante del suo territorio. Un ritorno al passato, reso ancor più drammatico dalla repressione militare in Birmania (notoriamente legata alla Cina), che inquieta i cinesi i quali ovviamente avrebbero preferito tenere separate le ragioni della finanza e dell’economia da quelle politiche e ideologiche. La possibilità che si ricostituisca quella catena di contenimento della Cina che partendo dalla Corea arriva all’Indonesia, non può che preoccupare il regime comunista di Pechino. Naturalmente, pure in questo caso, Biden andrà incontro a molte difficoltà anche perchè – proprio per il fatto di essere politicamente condizionato – il portafoglio cinese è molto più generoso di quello americano. Ma in ogni caso i giochi sono di nuovo aperti e la nuova dirigenza di Washington tenta di stabilirne le nuove regole: che, per diversi motivi, non sono quelle che Putin e Xi avrebbero preferito.

E l’Europa?
Chiamata, non risponde, come già lamentava Kissinger negli anni ’70. E Biden pazientemente la richiama alla coerenza delle alleanze mentre si accinge a sottolinearne tutta la fragilità concedendo qualche migliaia di vaccini anti-Covid non utilizzati in America e promettendo la riapertura dei mercati che Trump aveva parzialmente chiusi nell’illusione di riequilibrare la bilancia commerciale tra le due sponde dell’Atlantico. Perché Biden e Janet Yellen (responsabile della politica economica nella nuova amministrazione) sanno bene che il deficit americano è un prezzo politico che, entro certi limiti, gli Stati Uniti devono accettare per mantenere stabile l’Europa, in attesa che l’Europa faccia da sé. Anche in questo caso back to the past!

Franco Chiarenza
28 marzo 2021

 

Franco Chiarenza, giornalista, già docente di scienza della comunicazione all’Università la Sapienza di Roma e alla Luiss, è autore di uno dei saggi del libro “Praecurrit Fatum – arrivare prima del destino“, a cura di Marcantonio Lucidi e Alessandro Orlandi , La Lepre Edizioni. In questa intervista Franco Chiarenza riassume alcuni dei temi trattati nel suo saggio dal titolo: “Da Roma a Bruxelles, breve storia dell’Europa disunita e del suo unico futuro”.

Come era prevedibile il terremoto suscitato dalla creazione del governo Draghi continua a investire le forze politiche costringendole a cambiamenti traumatici: dopo il “commissariamento” dei Cinque Stelle con la probabile ascesa al vertice di Giuseppe Conte anche il partito democratico si affida a un cavaliere bianco richiamando dal suo esilio parigino Enrico Letta. A destra la situazione sembra più tranquilla dopo che i settori più moderati e “nordisti” della Lega sono stati accontentati con la collocazione di Giorgetti al governo in una posizione di rilievo; ma il fuoco cova sotto la cenere soprattutto nei gruppi parlamentari (italiani ed europei) e il nervosismo di Salvini appare evidente nel tentativo di riportare al centro della scena un problema, come quello dell’immigrazione clandestina, oggi assai meno sentito. La Meloni gioca invece (anche in Europa) la carta dell’opposizione “ragionevole” e trova in Draghi un interlocutore attento e disponibile.

Non è difficile scorgere dietro queste scelte la regia occulta di Mattarella, sempre attento a non farsi coinvolgere in dispute che comprometterebbero il suo ruolo istituzionale, ma anche consapevole del suo potere tanto più ampio quanto più le altre istituzioni appaiono impaurite e lesionate (a cominciare dal parlamento e dalla magistratura), in attesa che il “semestre bianco” congeli il panorama politico e la pandemia cessi di condizionare le fondamentali libertà dei cittadini.
Fa riflettere il fatto che i protagonisti di questa nuova stagione abbiano lontane origini abbastanza comuni, più vicine alla cultura cattolica di sinistra che non alle tecnocrazie liberali (Andreatta piuttosto che Carli, tanto per intenderci). Non fa eccezione Enrico Letta ed è curioso che il salvatore del poco che resta del post-comunismo italiano sia un cattolico; Berlinguer (ma soprattutto alcuni suoi ispiratori come Franco Rodano) sarebbero contenti.
Ma al di là di Mattarella (e forse suo tramite) si intravedono anche le preoccupazioni dei partner europei di blindare la politica estera europeistica e atlantica in attesa che in novembre la nuova leadership tedesca che scaturirà dalle elezioni succedendo al lungo regno della Merkel riveli le sue intenzioni.

Il problema di fondo però, al di là dell’emergenza Covid e della gestione del Recovery Fund, resta per noi quello della riforma istituzionale senza la quale i meccanismi decisionali e operativi resteranno bloccati dalla prassi devastante dei veti incrociati e delle convenienze elettorali a breve termine.
Sappiamo di cosa si tratta: non di riscrivere la Costituzione (per cui mancano le condizioni politiche e temporali) ma di concentrarsi su quattro punti essenziali sui quali è possibile trovare subito soluzioni concordate tra le principali forze politiche.

  1. una nuova legge elettorale chiara, comprensibile a tutti, che consenta a ogni elettore di capire quali saranno le conseguenze del suo voto. I partiti la vorrebbero proporzionale per essere tutti partecipi delle scelte di governo ma gli elettori devono sapere che più è ampio lo spettro della rappresentanza meno si riesce a concretizzare un progetto di governo a medio e lungo termine che vada oltre l’ordinaria amministrazione. Siamo l’unico paese tra le democrazie occidentali che cambia governo e maggioranze ogni anno e in cui la principale attività di ogni nuovo governo consiste nell’annullare ciò che aveva intrapreso il precedente. Il sistema ideale per assicurare la governabilità è l’uninominale che, tra l’altro, ha il vantaggio di ristabilire un legame diretto tra elettori e deputati che li rappresentano, come dimostrano le felici esperienze dei paesi che lo adottano (e che, non a caso, ha assicurato stabilità anche ai nostri enti locali). I partiti non lo vogliono perché temono di perdere il controllo sui gruppi parlamentari? Si possono trovare soluzioni intermedie purché siano condivise e tradotte in norma costituzionale per evitare che ogni maggioranza si faccia una legge elettorale su misura delle proprie (vere o presunte) convenienze.
  2. una riforma del Senato che lo riconduca a quel ruolo di “seconda Camera” che storicamente ha sempre avuto (e che mantiene in molte costituzioni europee). I senatori potrebbero essere eletti dai consigli regionali (non al loro interno) e decadere in occasione di ogni elezione regionale (come avviene per il Bundesrat tedesco). Il loro numero dovrebbe essere molto contenuto (uno per mezzo milione di abitanti?) e i loro poteri limitati alle modifiche costituzionali, al controllo delle leggi che incidono sulle competenze regionali e degli enti locali, alla seconda lettura di leggi già approvate dalla Camera per suggerire eventuali modifiche, e poco altro. Insieme ai deputati i senatori continuerebbero ad esercitare i poteri che la Costituzione attribuisce loro congiuntamente: elezione del presidente della Repubblica, dei giudici della Corte Costituzionale, dei componenti laici del CSM, delle Autorità indipendenti.
  3. la riforma del titolo V della Costituzione per ridisegnare i poteri delle Regioni, distinguendo nettamente quelli che esse possono esercitare in via esclusiva da quelli che devono restare all’amministrazione centrale dello Stato, evitando il più possibile le cosiddette “competenze concorrenti” che hanno rappresentato in questi anni la “via crucis” di ogni governo e di ogni Regione, ingolfando la Corte Costituzionale di ricorsi che rendono ancor più difficile il rispetto della certezza del diritto.
  4. la regolamentazione costituzionale degli stati di emergenza in modo da evitare che alcuni diritti fondamentali vengano sospesi con semplici decreti del presidente del Consiglio, rischiando un contenzioso che si prolungherà negli anni. Le soluzioni possono essere diverse e contemperare le esigenze di rapidità negli interventi con la necessità che i diritti civili trovino la loro salvaguardia non soltanto nelle variabili maggioranze parlamentari ma anche in alcuni organi di garanzia già presenti nel nostro ordinamento (presidente della Repubblica, Corte costituzionale, ecc.).

Difficile? Sì. Possibile? Sì, se si coglie l’occasione di un governo in cui quasi tutti sono intorno allo stesso tavolo e anche l’opposizione pare disponibile al dialogo.

Franco Chiarenza
13 marzo 2021

Fioriscono ovunque (oggi necessariamente sul web) le “scuole di liberalismo” e corsi di lezioni variamente denominati per promuovere la conoscenza delle teorie liberali. Non si può che esserne contenti, più si parla di liberalismo meglio è, anche se qualche volta lo si fa a sproposito.
C’è la “scuola” della Fondazione Einaudi di Roma, quella della Fondazione Scoppa di Catanzaro, ci sono i corsi dell’Istituto Bruno Leoni di Milano, a cui si aggiungono contributi anche di rilievo accademico cosparsi in tutta la rete; ma c’è soprattutto – antica e prestigiosa – la “scuola di liberalismo” organizzata dall’omonima associazione presieduta dall’infaticabile Enrico Morbelli alla quale ho dato in passato il mio contributo didattico e che coi suoi cinquant’anni di storia merita se non altro il riconoscimento di essere stata fondata in anni in cui essere liberali non era facile e la cultura politica prevalente era ispirata dalle teorie marxiste e da quelle del cattolicesimo sociale, le quali consideravano il liberalismo un vecchio arnese ideologico non più utilizzabile. E’ abbastanza soddisfacente per noi – liberali da sempre – constatare che nel novero dei reperti ideologici siano finiti proprio il marxismo e il cattolicesimo sociale e che il problema sia diventato quello di difendere il liberalismo dai suoi falsi sostenitori. Oggi, come è noto, tutti sostengono di essere i “veri” liberali, a cominciare da Salvini e Meloni fino a Zingaretti e Bersani. I Cinque Stelle tacciono prudentemente perché devono ancora informarsi di cosa si tratti.

Tante scuole, tanti corsi di approfondimento vanno dunque benissimo e servono ad aumentare le conoscenze – soprattutto dei giovani – su questo oggetto misterioso di cui tutti vorrebbero appropriarsi e che si presenta certamente più abbordabile di teorie rigide e prevalentemente socio-economiche come furono il socialismo (con la sua variante leninista) e il cristianesimo sociale nelle sue diverse articolazioni. Inoltre il liberalismo è bello perché è vario e conflittuale: ci sono i liberisti, attenti soprattutto al funzionamento dell’economia di mercato (e giudicati sprezzantemente come neo-capitalisti dai “veri” liberali), i liberal-democratici (che ritengono complementari la democrazia e il liberalismo), i liberali di sinistra (pericolosamente attigui ai socialisti democratici e quindi considerati sovversivi dai liberal-liberisti) e persino gli “anarco-capitalisti” che vorrebbero sopprimere tout court lo Stato (e chi si è visto si è visto!). Si tratta sempre di idee rispettabili finché condividono una sola certezza: che non vi sono certezze e ogni opinione espressa in buona fede merita di essere discussa e confrontata.
Ma se il liberalismo è variamente definibile e, grazie a Dio, non esiste né un Sommo Pontefice né un Politburo a dettarne l’ortodossia, ci sono diversi modi di riconoscere i liberali (a prescindere dal modello di liberalismo che prediligono). Ne suggerisco alcuni ai frequentanti delle “scuole di liberalismo” anche per operare le necessarie distinzioni tra colleghi e tra gli stessi docenti (che talvolta liberali non sono).

  1. Per essere liberali bisogna conoscere la storia, almeno nelle sue linee essenziali. La sua ignoranza impedisce di comprendere i fondamenti del liberalismo. Se qualcuno per questo vi accusa di “storicismo” non è un liberale e passate oltre.
  2. Ne consegue che i liberali affrontano i problemi considerandoli sempre nel contesto storico e culturale in cui si collocano. Non vi sono quindi verità assolute ma tentativi di comprendere e di comporre anche le “verità” altrui. Se qualcuno per questo vi accusa di “relativismo” non si tratta di un liberale e passate oltre.
  3. I liberali sono tolleranti nei confronti di ogni fede religiosa perché la considerano una scelta individuale di chi crede nella trascendenza e non – come alcuni vorrebbero – una dimostrazione di identità etnica o culturale su cui fondare strutture di potere inevitabilmente intolleranti e aggressive. I liberali riconoscono a vista ed evitano accuratamente i portatori di “verità” spesso tanto assolute da ritenere legittimo imporle anche a chi non le accetta. I credenti di ogni religione quindi possono essere liberali se non hanno rinunciato alla propria libertà di giudizio rispondendone soltanto alla propria coscienza. Se qualcuno per questo vi accusa di “indifferenza valoriale” non si tratta di un liberale e passate oltre.
  4. I liberali ritengono utile e necessaria la libertà di intraprendere attività economiche e produttive di ogni genere col solo limite di non ostacolare con mezzi illeciti le imprese che si misurano sul mercato. Se qualcuno per questo vi accusa di “liberismo selvaggio”, non si tratta di un liberale e passate oltre.
  5. I liberali affermano che bisogna garantire il più possibile un’eguaglianza almeno relativa dei punti di partenza di ciascun essere umano, almeno per quanto attiene le opportunità di esprimere le proprie capacità; se per ottenerla si rende necessario un intervento di sostegno dello Stato si tratta di misure perfettamente compatibili con il liberalismo purché non assumano forme e dimensioni invasive che incidono sulla libertà di insegnamento e sul pluralismo scolastico. Se qualcuno per questo vi accusa di essere “statalisti”, non si tratta di un liberale e passate oltre.
  6. I liberali si identificano con lo stato di diritto, cioè una pubblica amministrazione retta da leggi promulgate da un parlamento eletto liberamente, in grado di garantire la trasparenza dei propri atti, di tutelare i diritti individuali e di assicurare il compimento dei doveri connessi all’appartenenza di una comunità. Se qualcuno per questo vi accusa di essere “democratici ma non liberali” non sa di cosa parla e passate oltre.
  7. I liberali moderni infatti non possono che essere democratici, nel senso che riconoscono a tutto il popolo senza discriminazioni di genere, di ceto sociale, di etnia, di religione, ecc. il diritto di rappresentare la legittimità del potere politico. Come articolare tale potere, come garantire i corpi organizzati intermedi che ne costituiscono il naturale sviluppo, come assicurare il funzionamento di un adeguato “ascensore sociale”, sono questioni che possono essere diversamente risolte in un sistema pluralistico che garantisce le libertà fondamentali e in particolare quella di associarsi e quella di comunicare senza vincoli stabiliti dallo Stato (seguendo il modello del primo emendamento della Costituzione americana). Se qualcuno per questo vi accusa di essere eccessivamente “filoamericani”, rispondete che semmai siete “filoinglesi” e passate oltre.
  8. I liberali infine si riconoscono nel principio di responsabilità per il quale ogni cittadino risponde alla propria coscienza dei propri comportamenti. I quali non devono improntarsi ai divieti e alle prescrizioni (e al timore delle conseguenti sanzioni) ma alla consapevolezza della loro utilità sociale e al rispetto dei diritti umani. Si chiama “senso civico” e in Italia ne siamo purtroppo molto carenti. Ma senza di esso non si può essere liberali. E se qualcuno non lo capisce, passate oltre.

Certo: a forza di “passare oltre” vi accorgerete che siete rimasti in pochi e molti di quelli che vi circondavano del loro entusiasmo pseudo liberale si sono dileguati. Oppure, se sono disinvolti (una dote abbondante nel nostro Paese) diranno che loro per “liberalismo” intendono cose diverse. Appunto, basta intendersi.

 

Franco Chiarenza
10 marzo 2021

Per un liberale sognare di mettere all’indice un libro è assurdo. Eppure è questa l’insana voglia che mi è venuta leggendo questo libro. Forse perché un contrasto razionale a quello che afferma non è facile. Non ho mai letto un libro più radicalmente e assolutamente materialista di questo.
Me lo consigliò anni fa uno psicologo italo-argentino con il quale ebbi una interessante conversazione, una di quelle conversazioni in treno che rimangono in genere senza seguito. Tra le altre cose si parlò della libertà dell’uomo e lui affermava che non esisteva. Ero d’accordo sul forte condizionamento che ha l’uomo, ma ovviamente non ero d’accordo sulla radicalità della sua posizione, ma prima di lasciarci gli chiesi un libro che parlasse delle sue tesi. Me lo consigliò e lo lessi anni fa; forse non come l’ho riletto ultimamente.
È sconcertante.
L’autore considera che se nel campo della scienza l’evoluzione dai tempi della Grecia è stata enorme al punto che nessuno ora ricorrerebbe alle conoscenze di allora se non per curiosità storica, nel campo della conoscenza umana siamo ancora dove eravamo. Uno scienziato di allora non capirebbe nulla della scienza moderna mentre un filosofo di quei tempi si troverebbe perfettamente a suo agio anche in questi tempi. E la ragione sta nel fatto che nei tempi antichi dietro o dentro ogni cosa, essere o fenomeno si vedeva un dio o un demone o uno spirito che la muoveva o animava, e la scienza cominciò a progredire quando si cominciò a studiarla rinunciando a vedere e cercare nelle cose demoni o dei. Ma questo non è avvenuto per l’uomo: nell’uomo esterno si va ancora in cerca di un uomo interno, di un ego o un super ego o in id che lo muove ed anima. E finché si va a caccia di quest’uomo interno non si approderà mai nulla. Per capire e conoscere l’uomo è necessario considerarne il comportamento in relazione all’ambiente naturale e sociale nel quale si è evoluto e che lo ha quindi formato dotandolo di tutto ciò che ha ed è. Darwin non vale solo per gli organismi ma anche per quello che noi erroneamente chiamiamo mente e che non esiste come entità a sé stante. È l’ambiente che punisce e premia, e quindi educa e forma: la natura punisce chi fa un salto senza guardare prima dove andrà a mettere i piedi, così come punisce chi mette le mani nei rovi spinosi senza cautela.
Finora il comportamento dell’uomo è stato visto come segno e conseguenza dei suoi sentimenti, “il mondo della mente ha rubato la scena, il comportamento non viene studiato come fatto a se stante” e le variabili che lo determinano sono state trascurate. Questo perché è difficile individuare l’influenza dell’ambiente esterno sull’uomo: questa influenza è continua e incessante ma lenta e invisibile. Diciamo che l’uomo è autonomo e indipendente solo perché non sapremmo spiegare altrimenti i suoi comportamenti. L’esistenza di questo tipo di uomo dipende dalla nostra ignoranza, ma egli perde via via il suo status di uomo autonomo e indipendente man mano che si conoscono le cause del suo comportamento. E man mano che la scienza progredisce si ha un trasferimento dei “meriti” e delle “colpe” dall’uomo all’ambiente nel quale si è sviluppato e vive. Scopo dell’analisi scientifica è di capire come la condotta di una persona sia legata alle condizioni sotto cui la specie umana si è evoluta e le condizioni sotto cui si è sviluppata la sua vita individuale.
L’ambiente esterno è stato sempre visto come oggetto di modifica da parte dell’uomo ma non come influente sul suo comportamento. E se il comportamento dell’uomo dipende dall’ambiente esterno, se vogliamo modificare l’uomo dobbiamo modificare l’ambiente nel quale si sviluppa e vive. E a questo punto sorge il problema del chi dovrebbe cambiare l’uomo, del perché e a quale fine. E quindi il problema dei valori. Cosa sono e come nascono? Come dovrebbe essere modificato “l’uomo”? Che dovrebbe però essere modificato non per avere un uomo “buono” ma per avere un uomo che si comporti bene.
E cosa sono i valori? Il bene e il male, e i loro corrispondenti, il giusto e l’ingiusto, il corretto e l’errato, il leale e l’illegale, il peccaminoso e il virtuoso sono così caratterizzati dalle conseguenze della cosa o del fatto; dal se essi nel tempo hanno corroborato (rinforzato) o danneggiato l’uomo.
E chi cerca e combatte per la libertà semplicemente combatte i limiti e i controlli intenzionali della libertà degli uomini, ma l’uomo è sempre controllato da qualcosa che gli è esterno. Eliminare un tipo di controllo significa semplicemente lasciare spazio a un altro.
Sembra che la conclusione di queste tesi sia la morte dell’uomo così come noi lo intendiamo. Dal “conosci te stesso” rivolto al singolo uomo si è passati al conosci l’uomo come specie evoluta dalla notte dei tempi, al conoscerlo senza più misteri, al sezionarlo e trattarlo come i bambini trattano i giocattoli che si muovono per vedere cosa c’è dentro distruggendoli.
La conclusione sembra sia il determinismo assoluto. Ma è un libro da leggere e dal quale c’è molto da imparare e molto su cui riflettere. Anche rifiutandolo e sognando di metterlo all’indice.

Guido Di Massimo
02/03/2021

 

Beyond Freedom & Dignity di B. F. Skinner (Hackett Publishing Company – € 24)