Il disegno di legge che porta il nome del deputato Alessandro Zan, al di là dei fattori emotivi e delle strumentalizzazioni politiche cui si è inevitabilmente prestato, suscita qualche perplessità, non naturalmente per le sue intenzioni che, anzi, volendo tutelare le minoranze e ogni orientamento sessuale, rientrano nella sensibilità di ogni persona civile, ma per gli strumenti repressivi di cui si avvale per il raggiungimento dello scopo che si propone. Ciò che infatti soprattutto colpisce in questo testo è il chiaro intento pedagogico che lo pervade, per la concezione paternalistica dello Stato che presuppone, come se le idee considerate sbagliate possano essere cambiate per legge senza correre il rischio di finire nel precipizio dello stato autoritario “a fin di bene” (come tutti i regimi repressivi pretendono di essere). Bisogna sempre fare attenzione ai mezzi che si utilizzano per raggiungere determinati fini onde evitare che in essi vengano stabiliti principi e precedenti che possono poi essere impiegati per scopi assai diversi; insomma, come dice un noto proverbio, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.

Premesso dunque che le finalità che il ddl Zan si propone sono condivisibili ci si chiede se sia davvero necessario fare una nuova legge quando già quelle esistenti (a cominciare dalla Mancino del 1993) tutelano abbondantemente le minoranze etniche, religiose e sessuali, soprattutto se tale disegno di legge contiene norme che sotto diversi profili appaiono di dubbia costituzionalità. La prima obiezione infatti – certamente la più grave – riguarda la libertà di esprimere liberamente le proprie opinioni (per sbagliate che possano sembrare) messa in pericolo dall’ambigua formulazione del concetto giuridico di “incitazione all’odio”; il confine tra libertà di espressione e “incitazione all’odio” è molto sottile e si presta a interpretazioni variabili a seconda dei punti di vista e della diversa sensibilità del magistrato giudicante. Se l’incitazione comporta azioni penalmente rilevanti essa è già prevista dal codice penale come istigazione a delinquere (art.414 cp), in caso contrario il sospetto che si vogliano attraverso l’azione penale conculcare opinioni ritenute lesive di una concezione politicamente corretta appare fondato. In uno stato di diritto che trae la sua legittimità da una cultura liberale sono le azioni che vanno punite (quando danneggiano la libertà o gli interessi di qualcuno), mai le idee, altrimenti si configura un classico esempio di reato d’opinione, di dubbia costituzionalità. Vero è che nel ddl è stato inserito (probabilmente per eludere le obiezioni “garantiste”) un articolo che ribadisce la libertà di opinione (art. 4) ma essa è condizionata al fatto che “tali idee non siano idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”. Un articolo che di fatto modifica l’art. 21 della Costituzione perchè mentre è superfluo per quanto riguarda gli atti discriminatori e violenti già puniti dalle leggi esistenti (compresa l’istigazione), subordina per altro verso la libertà di esprimere le proprie idee a una valutazione ex ante della loro pericolosità, introducendo una sorta di censura preventiva. Per di più gli articoli successivi del ddl contraddicono platealmente la prima parte dell’art. 4 dando la netta impressione che con questa legge non si voglia tutelare le minoranze ma costringere tutti a condividere determinate opinioni; il che configura una funzione etica dello Stato che ogni liberale dovrebbe temere anche per le estensioni che potrebbe assumere. Tale impressione è confermata d’altronde dalla sproporzione delle pene previste e dalle modalità che condizionano la loro sospensione vincolate in sostanza all’accertamento che il “colpevole” abbia cambiato idea; tutti elementi che dimostrano l’intenzione pedagogica (non a caso accompagnata da punizioni “esemplari”) tipica di una concezione di etica pubblica del tutto estranea alla tradizione giuridica liberale.
Aggiungo due considerazioni di minore rilievo: la prima riguarda la possibile censura della Corte costituzionale (come avvenne negli Stati Uniti in un caso in parte analogo con una famosa sentenza della Corte Suprema) che avrebbe effetti controproducenti ai fini delle “buone intenzioni” del deputato Zan, la seconda un probabile referendum abrogativo che avrebbe molte probabilità di essere vinto dai partiti che si oppongono a questo ddl spesso per ragioni che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni che ho espresso. Vale la pena correre questo rischio per la soddisfazione di infliggere qualche anno di carcere agli imbecilli che ancora chiamano “froci” gli omosessuali?

Un conto è dunque il contrasto all’omofobia, che va realizzato soprattutto con mezzi e modalità adatti a modificare pregiudizi culturali purtroppo assai diffusi (scuole, associazioni, campagne di informazione), altro mettere in atto strumenti di repressione penale che colpiscono la libertà di non condividere idee che noi riteniamo giuste. Salvini e Meloni, sostenitori del superamento dello stato liberale, a ben vedere dovrebbero approvare le concezioni contenute nel ddl Zan: stabilire il principio che lo Stato decide cosa è bene e cosa è male e punisca di conseguenza chi la pensa diversamente, apre la strada alla trasformazione della nostra democrazia fragilmente liberale in quel modello dichiaratamente illiberale che i loro amici stanno realizzando in alcuni paesi dell’Europa orientale. Basterà conquistare la maggioranza parlamentare e saranno loro a stabilire il confine tra opinioni lecite e proibite, e a definire “incitamento all’odio” ogni idea incompatibile con le loro visioni nazionaliste, sovraniste, plebiscitarie.

L’intolleranza non si combatte imitandone, a parti rovesciate, i metodi. Ma come spiegarlo in un paese come il nostro che da secoli continua a ritenere inconcepibili le diversità di opinioni e considera la politica soltanto come un mezzo per distruggere gli avversari?

Franco Chiarenza
26 aprile 2021

Appena insediato al vertice Enrico Letta si è posto il problema che sin dalla sua fondazione angoscia il partito democratico, quello della sua identità. Un’esigenza che da sempre tormenta gli ambienti che “guardano a sinistra” per i quali alla mancanza di tale identità si deve il declino anche elettorale di tutti i soggetti che nel tempo hanno cercato di raccogliere in qualche modo l’eredità social-comunista del dopoguerra, dimenticando che essa si fondava sull’idea marxiana di un rovesciamento profondo dei rapporti di classe, sia pure adattata alla particolare realtà italiana.

Anche il PD, nato nel 2007 dalla convinzione di Veltroni che tale retaggio potesse fondersi con quello del cattolicesimo sociale (confluito a suo tempo nella DC per motivazioni storiche ormai superate) e costituire un’alternativa di sinistra legittimata a esercitare il potere in un paese oggi saldamente ancorato ai principi democratici e liberali occidentali, non è mai riuscito a liberarsi dal richiamo identitario di alcune minoranze elitarie (“alla Nanni Moretti” per intenderci) che nostalgicamente rimuginavano la mancata trasformazione radicale degli assetti economici e sociali anche a costo di restare inevitabilmente all’opposizione (e anzi forse proprio per questo, per non misurarsi con le inevitabili complicazioni che comporta il governare la variegata composizione sociale del Paese).

Da sempre innamorato dell’America Veltroni sognava una riedizione del “democratic party” nella sua concezione kennediana. L’Italia però non è l’America; la piattaforma democratica americana ormai da alcuni decenni si configura come un’area elettorale molto composita tenuta insieme soprattutto da una comune visione dei diritti umani allargati alle sensibilità delle nuove generazioni: parità di genere, antirazzismo, ambientalismo, sanità, mentre sul piano economico l’assetto capitalistico non viene messo in discussione (non almeno in maniera significativa).

Il bacino elettorale dei democratici italiani per essere vincente avrebbe dovuto allargarsi considerevolmente rispetto alle componenti originarie, andando a raccogliere consensi in quell’ampio centro democratico che, pur nelle sue notevoli differenze, non si riconosce né nel marxismo né nel solidarismo cattolico; e in effetti questo fu il tentativo compiuto da Renzi nel 2014 che, non a caso, portò il partito al massimo dei voti. Ed è per questo che Veltroni lo appoggiò prescindendo dalle sue intemperanze, dalla sua presunzione autoreferenziale, dalle discutibili compagnie di cui si circondava. Ma, come lo stesso Veltroni aveva già sperimentato, la corda del PD è fragile: se viene tirata troppo al centro si spezza a sinistra e viceversa. La rivolta delle “nomenklature” subito dopo la catastrofe del referendum costituzionale, portò infatti all’espulsione di Renzi ma con lui il PD perse anche la sfida di accreditarsi nell’elettorato di centro.

L’identità di sinistra che Letta vorrebbe rilanciare per superare la logica correntizia urta quindi inevitabilmente contro una verità difficile da rimuovere: venuta meno ogni identità velleitariamente “rivoluzionaria” il partito di sinistra, comunque si chiami, resta un movimento riformista che può soltanto lavorare ai fianchi di un sistema economico abbastanza consolidato e accettato. Un problema d’altronde che non riguarda soltanto l’Italia ma tutti i paesi europei dove i partiti socialisti si pongono le stesse domande. Altre sono le nuove radicalità che occupano il panorama politico determinandone le scelte: la globalizzazione, le emergenze sanitarie e ambientali, le loro ricadute sugli assetti sociali, e in qual misura questi cambiamenti possono essere governati senza compromettere i diritti fondamentali su cui l’Occidente ha costruito la sua egemonia morale e culturale, come invece propongono i movimenti populisti di destra prefigurando modelli difensivi sostanzialmente illiberali quando non addirittura autoritari.

La questione dell’alleanza con i Cinque Stelle va quindi inquadrata in un contesto di priorità diverse dalle contrapposizioni di classe ereditate dalla sinistra storica. Malgrado la loro confusione concettuale e organizzativa i “Cinque Stelle” appaiono più moderni dei loro alleati del PD e non a caso dettano l’agenda del confronto politico: lotta alla corruzione, uguaglianza dei diritti, ambientalismo radicale, grande attenzione ai nuovi strumenti di comunicazione. Il PD li insegue arrancando, cercando di fissare paletti in grado di contemperare le nuove sensibilità con quelle tradizionali, non senza qualche ingenuità demagogica come le quote femminili obbligatorie, il voto ai sedicenni, lo “jus soli”, ecc. Ma così facendo Letta rischia di lasciare libera di fluttuare nel vuoto quella parte di elettorato moderato che non condivide gli estremismi della Meloni e le volgarità di Salvini ma non si riconosce nemmeno in un asse PD-5 stelle a trazione Grillo. Un vuoto che disperatamente (ma almeno per ora con poco successo) cercano di riempire Calenda, Renzi, Emma Bonino e i naufraghi del partito di Berlusconi come Toti, Lupi, Carfagna, ecc.

Molto dipenderà ovviamente dalla legge elettorale ma comunque, quale che sia, sarà sempre il centro a fare la differenza, ed è lì che tra un anno si giocherà la partita definitiva.

Franco Chiarenza
24 aprile 2021

Abbiamo intervistato per I Liberali Franco Chiarenza, giornalista ed esperto di comunicazione, fondatore del blog Il Liberale Qualunque. È stato un colloquio molto interessante, in cui sono stati toccati tanti aspetti della sua esperienza politica e professionale ma anche temi di attualità, come la crisi del giornalismo tradizionale e il mutamento delle forme del dibattito pubblico.

Come si presenterebbe Franco Chiarenza ad un lettore del nostro sito, specialmente se giovane?

Intanto mi presenterei come uno che non è più giovane; come una persona che, avendo passato ormai ottantasei anni di vita, si ritiene un buon testimone di ciò che è avvenuto nella seconda metà del secolo passato e nel primo ventennio di questo secolo.

Hai intitolato il tuo libro, che in seguito ha ispirato il blog, Il Liberale Qualunque. Come mai questo nome, che a una prima lettura potrebbe evocare Guglielmo Giannini e l’Uomo Qualunque?

Come ho scritto nella prefazione, il qualunquismo con il mio liberalismo non ha nulla a che fare. L’espressione “liberale qualunque” nasce dal fatto che del liberalismo si parla sempre come di un concetto astratto: una teoria complicata, che alla fine riguarda pochi intellettuali o comunque un numero ristretto di persone con una particolare cultura. Secondo me, al contrario, il liberalismo riguarda tutti. E tutti noi – senza esserne coscienti – siamo o non siamo liberali non tanto in base alla conoscenza delle teorie ma ai comportamenti di tutti i giorni. E il liberale qualunque – che spesso non sa di esserlo – si contrappone a quanti dicono di esserlo e invece dimostrano il contrario.

Oggi ce ne sono molti, a tuo avviso?

Credo proprio di sì. Nel nostro paese, c’è stato un momento in cui tutti si dicevano liberali. Erano cadute le grandi ideologie nelle quali intere generazioni si erano riconosciute. Non crollò solo il muro di Berlino, ma anche l’illusione che si potesse fare a meno dell’economia di mercato. Improvvisamente tutti si sono sentiti orfani di ideologie di riferimento e sono diventati liberali. Ma il liberalismo, pur essendo estremamente elastico e aperto a molteplici interpretazioni, ha alcuni pilastri; alcuni punti che non consentono deroghe.

Che cosa pensa il liberale qualunque Franco Chiarenza delle tante iniziative di (vera o presunta) ispirazione liberale – associazioni, circoli, pagine Facebook – che oggi sembrano proliferare?

C’è un po’ di tutto. Alcuni di questi sono realmente dei liberali; altri non lo sono. Da certi scritti di presunti liberali emergono convinzioni intolleranti, nazionaliste, talvolta addirittura razziste che con il liberalismo non hanno nulla a che vedere. Altri, invece, sono effettivamente liberali: anche se, com’è ovvio, ci sono quelli che interpretano il liberalismo in modo più liberista e quelli che lo interpretano in modo più liberalsocialista. Però, al di là delle singole ispirazioni, ci sono alcune cose sulle quali tutti i liberali non possono non concordare: la tolleranza per le idee degli altri, la preferenza per un tipo di confronto che non deve mai essere sopraffazione. Se non si accettano questi principi, non ci si può dire liberali.

Da dove nascono tutti questi fraintendimenti intorno al termine liberale?

C’è un equivoco di fondo. Molti confondono il liberalismo con il moderatismo. Dicono di essere liberali perché si sentono moderati rispetto a una certa sinistra e a una certa destra, più o meno immaginarie. Si pensa di essere liberali perché si sta al centro. Questo è un modo sbagliato di concepire il liberalismo.

A proposito di tolleranza per le idee degli altri, mi sembra che questa idea sia anche evocata dal logo del Liberale Qualunque, presente anche nella copertina del libro. Sono raffigurate alcune persone sedute attorno a un tavolo. Che cosa vuole rappresentare quel disegno?

Esattamente quello che tu dici: rappresenta l’idea del dialogo. Questa composizione risale agli anni della mia prima gioventù, quando io e un gruppo di altri ragazzi decidemmo di fare un circolo per discutere di politica. Era un tempo – quello degli anni cinquanta – in cui la politica era molto radicata fra i giovani: si usciva da una guerra mondiale, si apriva una stagione di grandi speranze, tutti erano coinvolti nella politica, c’era molta partecipazione. Avevamo costituito questo piccolo gruppo, del tutto dilettantesco; e uno dei componenti, che era un bravissimo disegnatore, concepì il logo. Quando poi anni dopo abbiamo fatto una rivista, che si chiamava “Democrazia liberale”, lo abbiamo riutilizzato. È un disegno a cui sono anche sentimentalmente legato, tanto che poi ho voluto metterlo nella copertina del libro.

Come racconteresti ad un ragazzo di oggi l’esperienza della politica giovanile del tempo?

È un tema – quello della politica universitaria fra gli anni cinquanta e il 1968, quando poi questa esperienza venne meno – di cui si parla pochissimo. Ebbe una grandissima importanza, se si pensa che almeno la metà della classe politica che ha poi diretto il paese sino alla fine del secolo proviene da lì. Si trattava di una palestra politica degli studenti universitari più impegnati: una minoranza degli studenti, che già erano una minoranza della società, visto che allora l’università era molto più ristretta e più selettiva di oggi.

Ad un certo punto hai intrapreso la carriera di giornalista, anche ad alti livelli, sia in radio che nella carta stampata. Hai lavorato in Rai, e alla storia della Rai hai dedicato un libro importante, “Il cavallo morente”. Però non hai mai avuto il mito della televisione pubblica. Oggi si parla spesso – talvolta con accenti nostalgici, soprattutto alla luce del degrado televisivo di oggi – della vecchia tv pedagogica. Che cosa pensi di quel modello? Era una tv conformista, con tratti di paternalismo, oppure era il modo migliore per offrire, nelle condizioni di allora, un prodotto di alta qualità professionale?

Come sempre, la risposta non può mai essere o bianco o nero. Alla metà degli anni cinquanta, la tv in Italia fu una grande novità. E non tutte le forze politiche ne compresero subito le capacità di condizionamento. Le capì la Chiesa, che aveva visto ciò che stava accadendo in America. Ed era facile prevedere che ciò che era successo lì sarebbe accaduto anche da noi: nel giro di pochi anni, la televisione divenne una delle cose più condizionanti del panorama sociale del nostro paese. A cavalcare questo cavallo si trovò la Dc. La Chiesa temeva che ci sarebbe stata una secolarizzazione di un paese tradizionalmente cattolico, legato ad antiche consuetudini, prevalentemente agricolo, quasi del tutto estraneo – salvo che nelle sue élite – ai grandi movimenti culturali laici che avevano influenzato la storia d’Europa.

L’Italia stava cambiando, nel frattempo.

Sì, questo modello di paese si stava sgretolando, per una serie di ragioni di natura sociale ed economica. In tutto questo, la televisione doveva rappresentare, agli occhi della Chiesa, uno strumento di freno: si voleva che il cambiamento in corso avvenisse mantenendo fermi quei principi cattolici che consentivano alla Chiesa di esercitare un notevole potere di condizionamento sulle masse. Naturalmente, c’era anche una coincidenza di interessi con la Dc: nei primi anni, la Rai fu uno strumento politico, sociale, morale nelle sue mani. Quindi – come hai detto giustamente – rappresentava un modello paternalistico: era una televisione nella quale non si poteva pronunciare la parola divorzio, una tv su cui poi si è giustamente molto ironizzato negli anni successivi. Ma la Rai non è stata solo questo.

Ha avuto anche un ruolo educativo…

La televisione è entrata in tutte le case, anche quelle dove non era mai entrata alcuna forma di cultura che non fosse quella della tradizione popolare. Malgrado il suo paternalismo, la tv fu una finestra spalancata sul mondo. E, in questo senso, cambiò profondamente la natura degli italiani, i quali scoprirono una realtà diversa da quella delle tradizioni familiari. Questo ha avuto degli effetti sconvolgenti, perché ha spinto molte persone a far studiare i propri figli. Gli italiani impararono l’italiano. Quindi la tv di quel tempo – pur perseguendo scopi politici non condivisibili per un liberale – ha avuto degli effetti estremamente positivi, al di là delle intenzioni di chi la governava.

Un’informazione libera è fondamentale per una democrazia liberale. In questo momento storico sono in corso numerose trasformazioni: i politici aggirano spesso la mediazione giornalistica rivolgendosi direttamente ai loro seguaci tramite i social network, spesso trattandoli più come fan che come cittadini elettori; i giornali sono in crisi di vendite e non hanno più la centralità di un tempo; l’informazione televisiva è schiava dei talk show a basso costo, che spesso informano in modo superficiale e sensazionalistico. Come interpreti questi fenomeni? Che ruolo potrà giocare il giornalismo in questo nuovo scenario?

È una domanda molto impegnativa. La tua descrizione della realtà è perfetta: la condivido totalmente. Abbiamo tutto un sistema di mezzi di comunicazioni di massa – attraverso cui si veicola l’informazione – che è in crisi, che non ha più il rilievo che aveva un tempo (benché non sia completamente scomparso, come invece preconizzavano alcuni profeti di sventura). Certamente l’arrivo dei social ha rivoluzionato il vecchio panorama e ha costretto gli operatori dell’informazione tradizionale a misurarsi con un’informazione diffusa. Questo è un fenomeno che, di per sé, un liberale deve considerare positivo, perché allarga i confini dello scambio di informazioni. Questo è l’aspetto apprezzabile del fenomeno.

Quali sono, invece, gli aspetti negativi?

L’aspetto negativo è che attraverso questo allargamento passa di tutto. Innanzitutto, passano cose inaccettabili sul piano della volgarità e della maleducazione; ma su questo si potrebbe anche sorvolare, perché si tratta di sfoghi che ci sono sempre stati e che ora trovano uno strumento di amplificazione. Il punto fondamentale è che passano delle informazioni sbagliate e non verificate. Questo è un punto fondamentale per un liberale. I liberali hanno fatto sempre una battaglia in favore della corretta informazione.

Che cosa dobbiamo intendere per corretta informazione?

Esistono delle regole di correttezza che garantiscono chi legge: citare le fonti, mettere sempre a confronto le diverse opinioni e possibilmente distinguere le proprie opinioni dalla descrizione dei fatti. Questo meccanismo aveva avuto un notevole successo, soprattutto nel mondo anglosassone, tanto da dare alla stampa una credibilità e un prestigio tali da controllare il potere politico per conto dell’opinione pubblica. Questa funzione di mediazione è stata travolta dai nuovi mezzi elettronici. Meccanismi di controllo e di garanzia che erano stati studiati e imposti con molta difficoltà ai mediatori dell’epoca – i giornalisti – oggi sono saltati. Il risultato è che passa una valanga di cattiva informazione, nei cui confronti i fruitori sono completamente indifesi, perché non conoscono neanche il modo per verificare le informazioni che ricevono.

Stai delineando un quadro molto fosco. Il giornalista non ha più alcun ruolo, in questa nuova realtà?

Ovviamente non bisogna buttar via il bambino con l’acqua sporca: i social restano un fatto importante e utile ai fini della crescita politica, liberale e democratica, del paese. C’è però il problema di cui parlavo. Non so come si potrà risolvere, ma vedo qualche schiarita. I giornalisti – persa la loro funzione di mediatori esclusivi – ne stanno acquistando un’altra, quando sono bravi: quella di verificare la correttezza dell’informazione. Questo forse può limitare il fenomeno gravissimo delle fake news, che come abbiamo visto arriva ad incidere sui risultati delle elezioni politiche.

Ti riferisci all’elezione di Trump?

Sì. Gli Stati Uniti hanno passato un momento estremamente sgradevole della loro storia. Poi c’è stata una reazione. Il problema delle fake news, che oggi è al centro della discussione in America, dovrebbe diventare centrale anche in Europa. Da questo passa il futuro delle istituzioni liberali, delle istituzioni garantiste: che garantiscono cioè il cittadino affinché non venga imbrogliato.

Sei sbarcato su internet a più di ottant’anni. Che cosa ti ha spinto ad aprire il blog?

Internet è la più grande invenzione della storia della comunicazione dopo l’invenzione della stampa. Condizionerà fortemente il nostro futuro. E quindi ho sentito il bisogno di starci dentro, naturalmente con le forze di cui potevo disporre, che erano ben poche. Però internet ha questo vantaggio: consente a tutti, anche a coloro che non posseggono grandi mezzi, di essere presenti in qualche modo nel dibattito pubblico. Una volta non era così: se non avevi il denaro necessario per fare un giornale o mettere su una televisione, ne eri praticamente escluso, se non per piccole nicchie. Internet dà la possibilità di allargare enormemente le possibilità di espressione e cambierà completamente il modo di comunicare delle prossime generazioni. E l’umanità progredisce o regredisce in funzione della sua capacità di comunicare: esperienze, informazioni, sentimenti, tutto ciò che ogni persona ha dentro di sé. Internet è all’inizio di una lunga storia, che durerà per qualche secolo.

A cura di Saro Freni

Conoscevo Ernesto da molto tempo. Molto attivo, ambizioso, appassionato cultore del pensiero di Benedetto Croce, scrittore fertile, il professor Paolozzi era un assiduo frequentatore dei bei saloni di palazzo Serra di Cassano dove l’Istituto di studi filosofici creato da Gerardo Marotta svolgeva un’intensa attività di studio e di divulgazione delle conoscenze storiche e filosofiche. Lo incontravo nei miei saltuari soggiorni napoletani e le nostre discussioni erano sempre stimolanti.
I nostri liberalismi non erano coincidenti: più crociano il suo, piuttosto einaudiano il mio, giusto per riprendere il famoso dibattito tra don Benedetto e il futuro Presidente della Repubblica che ha animato negli anni il ristretto ma vivace mondo dei liberali. Ernesto Paolozzi era soprattutto un filosofo morale e in quanto tale tendenzialmente ostile al liberalismo di matrice anglosassone che vedeva nell’economia di mercato – sia pure regolamentata e corretta nei suoi eccessi – una condizione inderogabile per ogni sviluppo liberale della società, e tale avversione lo portava ad assumere atteggiamenti molto critici nella valutazione dei modelli culturali che arrivavano dall’America.
Ernesto però non era un pensatore astratto isolato dalla realtà; al contrario aveva ambizioni politiche e non nascondeva questa propensione. Come me militò per un certo periodo nel partito liberale, riconoscendoci entrambi nell’ascendenza zanoniana e nella maggioranza che governò il PLI intorno all’asse Zanone-Altissimo. Nel 1992 fu eletto consigliere comunale; ebbe successivamente esperienze meno fortunate presentandosi in altre liste (di alcune delle quali è legittimo porsi qualche domanda sulla compatibilità con il liberalismo) ma mantenne sempre attiva la sua presenza collaborando con giornali, riviste, e attraverso l’insegnamento nell’università Suor Orsola Benincasa. Da lui raccolsi nel 1995 il testimone della direzione scientifica della Fondazione Einaudi di Roma quando diventò per lui evidente la difficoltà di conciliare i suoi impegni politici e professionali con la gestione di un’istituzione che svolgeva la sua prevalente attività in una città diversa da quella che era al centro dei suoi interessi.

Ernesto Paolozzi ha pubblicato molti libri, diversi saggi su Benedetto Croce e numerosi interventi su temi di attualità politica. Tra tanti vorrei ricordarne due che ben si attagliano alla sua complessa personalità: “Il liberalismo come metodo” scritto trent’anni fa ma assolutamente fondamentale per una concezione dinamica del pensiero liberale che non conosce l’usura dell’età, e uno degli ultimi “Diseguali, il lato oscuro della vita” (scritto in collaborazione con Luigi Vicinanza) nel quale si avverte una contaminazione tra un liberalismo riletto in chiave laburista e conclusioni molto vicine a un marxismo rivisitato che tuttavia – a mio avviso – resta difficilmente compatibile con le stesse radici liberali dell’autore. Una svolta discutibile, confermata da un conseguente impegno elettorale, che testimonia tuttavia quanto Ernesto restasse “metodologicamente” liberale nel rimettere sempre in discussione ogni presunta certezza, cominciando da quelle del suo stesso passato.
Con lui se ne va un interlocutore dialettico che percepiva con sofferenza la difficoltà di realizzare un’etica liberale in un mondo in veloce trasformazione; ne sentiremo la mancanza.

Franco Chiarenza
14 aprile 2021

 

PS. Chi voglia approfondire il pensiero e l’opera di Ernesto Paolozzi nella loro evoluzione può trovare un appassionato e lucido approfondimento di Costanza Pera pubblicato sul sito della “Scuola di Liberalismo” http://www.scuoladiliberalismo.it

E’ presto per fare un primo credibile bilancio? Forse sì, ma considerati i tempi stretti di una politica che deve fare i conti con tante emergenze si può tentare una prima riflessione soprattutto per capire cosa è cambiato rispetto al governo precedente.

Emerge innanzi tutto una diversa modalità di esercitare la funzione di capo del Governo. Mario Draghi ascolta tutti rispettosamente ma poi decide sulle cose essenziali assumendosene la responsabilità e soprattutto facendo attenzione che le inevitabili discrasie connesse alla natura stessa di un governo tanto composito vengano rapidamente ricomposte. Per ora il metodo ha funzionato abbastanza bene e le insofferenze di una parte della maggioranza (soprattutto Salvini) sono state tenute fuori dalla porta. La prova del nove si avrà quando si conoscerà in dettaglio il Recovery plan da sottoporre a Bruxelles; il presidente ha concentrato il potere reale di scelta in poche mani di tecnici di sua fiducia estromettendone di fatto i partiti, ma in sede parlamentare le tentazioni assistenziali pre-elettorali potrebbero riemergere. Draghi si è mostrato però molto duttile sul condono fiscale, ed è quello probabilmente il terreno su cui sarà possibile negoziare con i partiti ulteriori margini di flessibilità.
Sul contrasto alla pandemia la svolta impressa da Draghi è stata netta: superare le dispute sulle precedenze nella somministrazione dei vaccini e concentrare gli sforzi nelle forniture, entrando anche in polemica con la Commissione dell’UE per come è stata gestita la campagna acquisti. Tanti vaccini da distribuire e somministrare ovunque e comunque coinvolgendo soggetti privati (farmacie, ambulatori, studi dentistici, ecc.) inspiegabilmente rimasti esclusi dai piani precedenti. Anche i rapporti con le Regioni hanno subito una svolta; Draghi ha rivendicato allo Stato ogni potere decisionale che vada oltre l’ordinaria amministrazione.
Sui problemi della giustizia che laceravano il governo Conte la scelta di Marta Cartabia al ministero di via Arenula si è dimostrata appropriata e si va verso una soluzione “europea” che di fatto supera i contrasti sulla prescrizione che agitavano da tempo i rapporti tra PD e Cinque Stelle. Si spera adesso che si possa andare oltre mettendo a fuoco l’indispensabile riforma del CSM che, dopo le rivelazioni di Palamara, ha perso ogni credibilità. Servirebbe di più, soprattutto nella velocizzazione della giustizia civile, ma intanto bisogna partire da una radicale riforma nella composizione del CSM facendo entrare aria fresca nel palazzo dei Marescialli.
Novità importanti vanno registrate nella politica estera la cui direzione, come era prevedibile, è rimasta nelle mani di palazzo Chigi, almeno per le questioni essenziali. Draghi ha imposto una linea fortemente filo-atlantica, facilitato anche dalla svolta impressa da Biden alla politica estera americana. In Europa, in attesa degli esiti elettorali in Germania e in Francia, Draghi ha intanto rafforzato una stretta cooperazione con la Francia in modo da trasformare, almeno in prospettiva, l’asse Parigi – Berlino in un triangolo che comprenda anche Roma. Non è una strada facile per il contenzioso che si è accumulato con la Francia dal respingimento degli immigrati in poi, ma è l’unica che al momento si può percorrere. E che si tratti della giusta direzione lo dimostra il deciso sostegno al nuovo governo libico che Draghi ha voluto condividere con Francia e Germania superando la logica conflittuale che in passato ha contribuito a rendere instabile la situazione politica in Libia; un monito anche per Turchia ed Egitto perchè non contino in futuro sulle divisioni europee. Il duro attacco di Draghi ad Erdogan si muove nel solco di quello sferrato da Biden a Putin: sui diritti umani non si fanno sconti, anche se le convenienze economiche interverranno inevitabilmente a raffreddare i toni.
E, a proposito di immigrati clandestini, qualcuno ha notato come l’opera silenziosa ed efficace della ministra Lamorgese abbia dato risultati migliori delle roboanti declamazioni di Salvini quando dal Viminale brandiva in una mano la spada e nell’altra il rosario?

Tutto bene, dunque?
Le ombre ci sono e se ne vedono le tracce. Cominciando proprio dalle inquietudini di Salvini che disperatamente cerca visibilità in un contesto che non è nelle sue corde. Il leader della Lega deve affrontare due pericoli: quello interno al suo partito dove l’asse Giorgetti – Zaia sembra configurarsi sempre più come un’alternativa moderata, e quello esterno della Meloni, la quale, forte anche della sua posizione di “opposizione costruttiva” che Draghi abilmente incoraggia, mostra ancora una volta capacità tattiche che il suo concorrente di destra non possiede. Del suo disagio è prova evidente il goffo tentativo di creare un comune fronte anti-europeo con i leader di Ungheria e Polonia, destinato a infrangersi con interessi molto divergenti e con il nodo dei rapporti con la Russia di Putin, il cui legame con Salvini non è visto di buon occhio nell’Europa orientale.
Il punto di svolta per capire quanto potrà durare Draghi è rappresentato dalle elezioni amministrative di ottobre, soprattutto a Roma dove la destra gioca la sua carta decisiva. E’ qui che Letta dovrà dimostrare le sue capacità politiche costringendo Zingaretti a presentare la sua candidatura. Soltanto così sarà possibile fare ritirare dalla corsa la sindaca uscente Virginia Raggi e il suo accanito oppositore Carlo Calenda, e avere quindi qualche speranza di vincere al ballottaggio con il candidato della destra.

Franco Chiarenza
12 aprile 2021