Quel che è stato è stato e, dopo la conferma di Biden che gli americani si sarebbero ritirati dall’Afghanistan, stupisce soltanto la rapidità con cui l’occupazione talebana si è completata.
Prova evidente che, come abbiamo visto in molte altre occasioni, gli innesti culturali prodotti artificialmente non riescono mai, anche quando si tratta di comportamenti politically correct che a noi sembrano avere una validità universale.
L’Occidente deve abituarsi a dialogare con culture diverse, spesso sedimentate in tradizioni religiose chiuse in difesa di un’ortodossia che, a torto o a ragione, sentono minacciata; il che vale sopratutto per l’Islam alle prese con un lento e faticoso processo di evoluzione che, per molti aspetti, somiglia a quello che dall’Illuminismo in poi ha dovuto affrontare il cristianesimo e che – non dimentichiamolo – si è concluso (se si è concluso davvero) soltanto con il Concilio Vaticano II negli anni ’60 del secolo scorso. Naturalmente le condizioni storiche sono molto diverse, le conseguenze sociali del colonialismo si innestano su realtà etniche assai diverse, la globalizzazione e i nuovi mezzi di comunicazione sono ovviamente percepiti come strumenti di subordinazione non soltanto politica ed economica ma anche e soprattutto culturale.

Le tre vie
Quello che l’Occidente può fare oggi è soltanto favorire i processi endogeni che, tra molte contraddizioni, sono avvertibili nel mondo islamico, il quale, nelle sue componenti intellettuali più avanzate è ben consapevole che con la modernità occidentale – piaccia o no – bisogna fare i conti, se non altro per una superiorità tecnologica impossibile da mettere in discussione.

Le strade che possono essere scelte (e in parte già sono in fase di avanzamento) possono essere riassunte in tre tipologie (anche se le diverse realtà storiche, economiche e sociali ne consentono molte variabili): 1) la prima è quella filo-occidentale che punta decisamente sulla compatibilità tra la tradizione islamica e i valori laici della cultura europea: tutto il Nord Africa, dal Magreb all’Egitto, si muove sostanzialmente in tale direzione con modalità diverse ma obiettivi convergenti. Però per contenere le spinte integraliste al loro interno questi paesi hanno bisogno di forti supporti come quello assicurato in Marocco da una monarchia illuminata ma religiosamente legittimata, in Algeria e in Tunisia da eserciti “figli” della rivoluzione anti-francese degli anni ’50 ma formati nel contesto culturale europeo, in Egitto – dove peraltro un’importante minoranza cristiana copta svolge un ruolo rilevante – un apparato costruito ai tempi di Nasser che non è soltanto militare ma anche politico ed economico. Anche alcuni paesi del Medio Oriente, malgrado le drammatiche disavventure che hanno dovuto subire in conseguenza della ferita lacerante che la creazione dello Stato di Israele in Palestina ha determinato nel mondo arabo, si muovono sostanzialmente nella stessa direzione: così il Libano, alle prese con un difficile equilibrio tra le componenti musulmane e quelle cristiane, l’Iraq e la Siria (soprattutto nelle regioni abitate dai curdi). Lontano dall’Europa e dal Mediterraneo grandi comunità musulmane come il Pakistan e l’Indonesia sono alle prese con difficili processi di modernizzazione ma si può affermare che anche in Asia, almeno fino ad ora, il fondamentalismo islamico non è riuscito a prevalere sulle preesistenti eredità culturali derivate dal periodo coloniale. 2) La seconda strada è quella degli integralisti di varie scuole islamiche (a cominciare dai wahabiti) per i quali la religione di Maometto deve restare intangibile anche attraverso una lettura formalistica del Corano e le uniche intese possibili con l’Occidente sono limitate alle convenienze economiche. I suoi sostenitori non nascondono velleità espansionistiche non soltanto nell’Africa Equatoriale e in alcuni paesi dell’Estremo Oriente (come le Filippine) ma anche attraverso la rigorosa difesa delle usanze islamiche nelle comunità emigrate in Europa o negli Stati Uniti, in pratica osteggiando ogni forma di integrazione. 3) C’è una terza via che invece punta a una revisione profonda della dottrina islamica per mantenerne le caratteristiche essenziali ma aggiornandole ai mutamenti sociali che non possono più essere contrastati in un tempo in cui i mezzi di comunicazione interpersonali hanno assunto le attuali dimensioni. In questa prospettiva (fatta propria soprattutto dalla minoranza moderata degli sciiti) la condizione femminile è molto diversa da quella della tradizione sunnita e persino alcune forme di democrazia controllata vengono tollerate (come avviene in Iran, in Iraq e Azerbaigian).

E intanto?
I talebani con la loro rapida avanzata si trovano a gestire una situazione molto difficile che forse avrebbero preferito affrontare con maggiore gradualità; tanto che sorge il sospetto che gli americani – una volta deciso l’abbandono – l’abbiano favorita. A fronte del successo di immagine all’interno del mondo musulmano i talebani devono risolvere alcuni problemi abbastanza complicati, a cominciare dalla sopravvivenza economica e dalla necessità di accordarsi con tutte le etnie che compongono il complesso mosaico afgano. Hanno bisogno di alleati che non siano soltanto le frange wahabite più estreme: possono trovarli in Cina o in Russia, interessate per ragioni geo-politiche, oppure in Iran (dove peraltro la diversità religiosa rappresenterebbe un ostacolo di non poco conto). Però i prezzi da pagare sarebbero elevati. Alla fine potrebbero essere proprio gli occidentali gli interlocutori con cui avviare un processo di distensione: una conclusione paradossale ma meno inverosimile di quanto possa sembrare, anche perché è quanto in certa misura è avvenuto in Vietnam. In tal caso però la questione dei diritti umani fondamentali diventerebbe una condizione che sin d’ora dovrebbe essere in qualche misura garantita, e in questa direzione i talebani dovrebbero inviare segnali inequivocabili per accreditarsi come un componente aperta (almeno relativamente) al confronto. Soltanto così, cominciando dalla tutela delle minoranze che hanno collaborato con la NATO per avviare la modernizzazione del paese, si può superare il momento di contrapposizione e avviare un dialogo che sia credibile per le opinioni pubbliche occidentali.

Franco Chiarenza
18 agosto 2021

Una carrellata di 650 pagine e 350 anni; dai tempi del cardinal Richelieu, definito come padre della moderna idea di stato, a quasi il 2000. Una storia che diventa rapidamente cronaca dei nostri tempi.

Un libro più da studiare che semplicemente da leggere, ricco di considerazioni, analisi e riflessioni e dove sono evidenti le continuità e preoccupazioni dei singoli stati ognuno condizionato in modo inestricabile dalla propria storia, dalla propria geografia e dalla propria “cultura” di fondo che ne hanno forgiato caratteri e comportamenti che si ripetono nei tempi. Sembra quasi che ogni stato sia una persona le cui azioni nel tempo siano quasi prevedibili o comunque non sorprendenti. È interessante quanta importanza viene data alle situazioni e alla potenza oggettiva dei singoli stati che in termini di economia, popolazione e territorio ne condizionano i comportamenti quasi fossero spinti da leggi fisiche.

La politica estera dell’Inghilterra, condizionata dalla preoccupazione di un’Europa dominata da un solo paese nel qual caso essa sarebbe stata una semplice appendice di un impero continentale, è stata di conseguenza quella di uno “splendido isolamento” dal quale uscire solo per mantenere in Europa – Russia compresa – un costante equilibrio intervenendo a sostegno del più debole ogni qualvolta questo equilibrio veniva rotto.

La politica della Francia condizionata invece dalla preoccupazione di una possibile formazione di una potenza ad est del suo territorio e quindi interessata a che nel centro dell’Europa ci fosse una vuoto di potere dove poter anche spostare i suoi confini orientali. Qui, a proposito della Francia, Kissinger riserva non poco spazio e ammirazione per il cardinal Richelieu, “inventore” della “ragion di stato”- poi chiamata “realpolitik” – che, pur di evitare la supremazia in Europa della casa d’Asburgo che con i suoi possedimenti avrebbe circondato la Francia, non esitò, contro la cattolica Austria, ad allearsi con gli stati protestanti e con l’impero ottomano tanto che, come viene riportato, Urbano VIII dirà alla sua morte “se Dio esiste, il cardinal Richelieu dovrà rispondere di molte cose”. Si sottolinea come proprio con Richelieu e poi con la guerra dei trent’anni e il trattato di Westfalia si superò la visione di un mondo che tra papato e impero si rifaceva a principi etici e religiosi per passare a un mondo dominato dalla cinica ragion di stato che giustifica qualunque mezzo sia necessario al fine dell’interesse del proprio paese e per la quale gli stati non debbono fare ciò che è giusto ma ciò che è necessario portando nell’insieme a un equilibrio generale. Fu con la guerra dei trent’anni che a oggettivo beneficio della Francia, nel centro dell’Europa, con i territori germanici che avevano perso un terzo della popolazione, si creò un vuoto di potere costituito da oltre trecento piccoli stati che agivano ognuno con una propria politica estera.

Fu poi Bismark a riempire quel vuoto al centro dell’Europa unificando la Germania nella seconda metà dell’ottocento e facendo in un certo senso rimpiangere, di fronte alle tragedie delle due guerre mondiali, il tempo dei trecento stati indipendenti, deboli e necessariamente innocui. E qui viene alla mente la frase di Andreotti che evidentemente memore della storia, quando Kohl riunificò la Germania Federale con quella dell’est disse “amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. Con ciò non volendo addossare le cause delle due guerre alla sola Germania. Bismark riunificò la Germania essenzialmente come ampliamento della Prussia seguendo tra l’altro una politica estera di accordi, alleanze e trattati di assicurazioni e controssicurazioni talmente complicati che un suo successore lo paragonò a un prestigiatore. Alleanze e trattati che, a differenza della strategia inglese, tendevano a mantenere l’equilibrio prevenendo invece che intervenendo successivamente alla sua rottura.

Insieme con Bismark si parla ampiamente di Napoleone III, presentato come persona alquanto pasticciona e che “rese possibile l’unificazione dell’Italia e della Germania che indebolirono geopoliticamente il suo paese e minarono la base storica della prevalente influenza francese in Europa centrale”. Trattando di Bismark e Napoleone III – che si detestavano l’un l’altro – si parla del come e delle diverse ragioni per cui entrambi contribuirono a distruggere il sistema realizzato da Metternich con gli accordi di Vienna

Si parla della politica estera della Russia, paese bifronte, europeo e insieme asiatico, caratterizzata dalla costante ricerca della sicurezza dei propri confini, cercata essenzialmente nella loro continua espansione sia ad est che ad ovest con ampliamento del proprio territorio e il sorgere dei problemi che conseguono all’inglobamento di popoli ed etnie diverse. Una Russia che ha sempre sentito la “missione” della protezione dei popoli slavi con particolare tendenza a inserirsi nei Balcani e a spingersi verso il Mediterraneo attraverso i Dardanelli.

L’immagine che si fa degli Stati Uniti è di un misto e contraddizione di idealismo missionario, manicheismo, latente tendenza all’isolazionismo e al rifiuto del compromesso e del metodo dell’equilibrio delle forze che per secoli sono stati la regola della diplomazia europea. Intervenendo contemporaneamente e quasi ovunque nel mondo dopo la seconda guerra mondiale persegue una politica di “contenimento” del mondo comunista ad evitarne l’espansione e con la “missione” di esportare la democrazia ovunque, anche in paesi dove l’assenza di qualsiasi precedente traccia ne rendeva impossibile “l’importazione”.

L’immagine della Cina è invece quella di un grande paese di trimillenaria civiltà, in fase di forte crescita ma sempre diffidente e reattivo ai tentativi di essere influenzato da parte dell’occidente memore delle umiliazioni delle guerre dell’oppio subite a suo tempo da parte dei paesi occidentali.

A partire dagli albori dell’Europa moderna visti col trattato di Westfalia il libro, necessariamente un po’ “americanocentrico”, si dipana fino a quasi i nostri giorni con minuziosa descrizione della politica estera, dei suoi personaggi e dell’azione delle diplomazia. Si passa per la maldestra crisi di Suez che certificò con l’intervento dell’America la fine delle potenze Inglese e francese, per la guerra di Corea, la tragedia del Vietnam, la lunga guerra fredda, la politica di contenimento del mondo comunista, l’equilibrio dovuto alla paura delle armi nucleari, la crisi di Berlino, le rivolte nei paesi europei satelliti della Russa, il disfacimento dell’impero sovietico e la fine della guerra fredda.

Noi europei, e forse in particolare l’Italia dovremmo renderci conto che se viviamo in pace ormai da 76 anni non è un caso o un miracolo ma il risultato di equilibri di forze e di una diplomazia continua che senza la presenza di queste forze sarebbe stata del tutto inane. Dovremmo renderci conto che queste forze che hanno permesso alla diplomazia di fare il suo lavoro erano forze essenzialmente – o quasi solo – americane. Ora che l’America non è più come un tempo quasi la padrona del mondo, che altre potenze grandi e medie sono sorte anche ai nostri confini europei, che le spinte geopolitiche, a prescindere dai presidenti che ha e avrà, stanno facendo rivolgere l’America (anche) altrove distogliendo la sua attenzione dall’Europa, dovremmo con una certa urgenza capire che non è più tempo di essere imbelli e vivere in una sicurezza garantita da una copertura americana che non durerà per sempre e forse nemmeno per molto.
Pacifici sì ma anche armati. Non denti per azzannare ma muscoli per essere forti e sostenere una diplomazia atta a mantenere ordine e pace: non sembra che ai confini dell’Europa e nel Mediterraneo di pace se ne prospetti molta. E i confini non sono impermeabili.

 

L’arte della diplomazia di Henry Kissinger – Sperling Paperback – pagine 698 – € 19

 

Guido Di Massimo
17 agosto 2021

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Conte: la sesta stella
E’ una stella spuntata dal nulla chiamata a molteplici funzioni: inizialmente per mediare tra Grillo e Salvini, poi per mediare tra Grillo e Zingaretti, infine per trarre il movimento di Grillo fuori dalla palude in cui si è impantanato. In realtà non ha nulla da spartire con l’autentica cultura grillina fatta di giustizialismo a buon mercato, autoritarismo carismatico, assistenzialismo, decrescita più o meno felice. E infatti con Grillo può al massimo spartire una spigola al sale.

Letta: mission impossible
Cattolico disobbediente, chiamato a risollevare le sorti del partito democratico dotandolo finalmente di una leggibile carta d’identità. Impresa impossibile (non ci riuscì nemmeno Veltroni) perchè il PD è inesorabilmente il partito degli ex (ex comunisti, ex cattolici di sinistra, ex socialisti a cui si aggiunge qualche ex proveniente da altre sponde politiche, persino liberali). Ha deciso di copiare la carta d’identità disegnata a suo tempo da Pannella, ma c’è qualche errore di stampa.

Salvini: destra di lotta e di governo
Dice tutto e il suo contrario, da sempre. Sa che l’analfabetismo politico degli italiani, sorretto da difficoltà di memoria, lo protegge. Non manca occasione per schierarsi dalla parte di chi può portargli qualche voto in più, ma non sempre il gioco riesce: da qualche tempo i sondaggi dimostrano che la sua leadership è in fase calante. Partecipa appassionatamente al governo europeista e filo-atlantico di Draghi ma firma manifesti anti-europei, si barcamena tra rosari e santini eppure non sa a che santo votarsi.

Meloni: dimmi con chi vai
Nasce (politicamente) neo-fascista. Dopo la svolta finiana di Fiuggi diventa post-fascista. Unica oppositrice formale del governo Draghi rivendica la sua coerenza nell’ostilità a governi “tecnici” o comunque apolitici e, approfittando delle contraddizioni della Lega, ne erode pazientemente la base elettorale. Sostiene un’unione europea disunita fondata sulla intangibilità delle sovranità nazionali, e perciò guarda con simpatia al regime ungherese di Orban. Spezzerà le reni a Ursula van der Leyen?

Renzi: tra il dire e il fare….
Dice cose sensate e condivisibili persino da un liberale, ma liberale non è. Anche perchè essere liberali si misura dai comportamenti concreti, e i suoi si prestano sempre a qualche fondata riserva. Come quando flirta con bin Salman Saud, il quale sarà pure un riformatore in Arabia Saudita ma ha adottato un’interpretazione spregiudicata di Machiavelli facendo uccidere gli oppositori. Sarà per questo che Renzi ha parlato di “rinascimento arabo”.

Calenda: la troppa (concretezza) stroppia
E’ presuntuoso, il che in politica non sarebbe un difetto. Lui però pretende niente meno di cambiare gli italiani costringendoli a misurarsi sulle soluzioni concrete dei problemi, cosa che tutti aborrono per paura di perdere la loro “identità”, da sempre affidata al vecchio gioco dei guelfi contro i ghibellini; chi si è mai preoccupato delle ragioni per cui si combattevano? Tanto basta per considerarlo un alieno; per di più è “pariolino” e di famiglia agiata, cosa che viene perdonata soltanto se si è estremisti di sinistra.

Speranza: senza speranza
E’ uno che crede ancora nelle idee, sballottato in un mondo senza idee. Per questo suscita simpatia. Purtroppo però le sue idee sono vecchie e sbagliate, incapaci di intercettare le nuove priorità dell’elettorato giovanile, al quale prevalentemente si rivolge. E’ uno di quelli che dice che dopo il Covid cambierà tutto (intendendo la fine del capitalismo e il trionfo di un nuovo collettivismo pseudo-socialista). Intanto però per imporre il quasi-obbligo vaccinale ha dovuto accettare la guida di un generale scelto da Draghi. Un po’ imbarazzante per un aspirante rivoluzionario.

E poi c’è Draghi. Il quale, nonostante le apparenze (è presidente del Consiglio dei ministri), non è un leader italiano perchè il suo prestigio internazionale, la sua preparazione, il suo modo paziente ma deciso di governare, fanno di lui un leader europeo. Travaglio non è d’accordo, lo insulta e lo ritiene un incompetente ma gli italiani (stando ai sondaggi) sono favorevolmente sorpresi: Draghi ascolta, si confronta, cerca mediazioni accettabili (necessarie in un governo emergenziale ad ampio spettro come quello che dirige), ma poi decide assumendosene la responsabilità, e da quel momento in poi non si torna indietro.
Altrimenti venga qualcun’altro a palazzo Chigi; lui è pronto a trasferirsi al colle Quirinale che è più comodo e da cui si gode un panorama impareggiabile sulla Città Eterna, al netto dei miasmi che l’avvolgono da quando una signora incompetente e presuntuosa è stata eletta ad amministrarla. Monito ai sostenitori della “democrazia diretta”.

 

Franco Chiarenza
04 agosto 2021

Viviamo – dice Anne Applebaum – un momento di trasformazione delle nostre società, una fase di transizione che potrebbe condurci ad esiti oggi imprevedibili. In questo saggio da poco disponibile in italiano – Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo (Mondadori, 2021) – l’autrice si interroga sui motivi di un fenomeno insidioso: il declino dei valori della società aperta, la perdita di fiducia verso la democrazia liberale. Sarà forse un tramonto lungo, non necessariamente bello da vedere. Potrebbe anche portare (e in alcuni paesi è già stato così) alla cupa notte dell’autoritarismo o della democratura, ma potrebbe anche preludere a una nuova alba, a una reazione contro queste minacce e alla rinascita morale e civile fondata sui principi della libertà politica.
Il saggio contiene numerosi riferimenti autobiografici. Inizia con una festa, un party di capodanno a base di musica e allegria, stufato di manzo e barbabietole arrosto; un ricevimento informale, tra amici, come tanti altri se ne tennero nel mondo in quel 31 dicembre 1999. Era un periodo di entusiasmi, forse eccessivi, e di grande ottimismo, forse immotivato. Gli invitati si consideravano tutti liberali. “Liberali del libero mercato, liberali classici, magari thatcheriani. Anche coloro che in campo economico avevano posizioni meno definite credevano nella democrazia, nello Stato di diritto, nei meccanismi di controlli ed equilibri, e in una Polonia membro della NATO e sulla via di aderire all’Unione Europea, una Polonia parte integrante dell’Europa moderna. Negli anni Novanta era questo che significava essere ‘di destra’.”
Pur nelle ovvie differenze interne, il mondo che potremmo chiamare liberale o liberalconservatore – nel quale si riconosce l’autrice – condivideva alcuni principi basilari. Poi molta acqua è passata sotto i ponti, il mondo è cambiato, e con esso gli orientamenti generali dell’opinione pubblica. Si è diffuso e consolidato un punto di vista critico verso gli ideali liberali, considerati nel loro senso più ampio. E ciò ha prodotto una spaccatura nel mondo conservatore, cioè nel mondo della Applebaum. Due decenni dopo, sembra tutto diverso. “Circa metà degli invitati alla festa non parlerebbe più con l’altra metà. E per motivi politici, non personali. La Polonia è ormai una delle società più polarizzate d’Europa, e abbiamo finito per trovarci sui lati opposti di una profonda linea di divisione, che attraversa non solo quella che era la destra polacca, ma anche la vecchia destra ungherese, la destra spagnola, la destra francese, la destra italiana e, con qualche differenza, anche la destra britannica e la destra americana.”
L’autrice racconta l’evoluzione di questi ultimi anni, che spesso paragona agli anni della Trahison des clercs, di quel tradimento dei chierici raccontato da Julien Benda frutto del compromesso morale e della pavidità intellettuale, ma anche della convenienza, della faziosità, dell’avventurismo di quei cattivi e talvolta pessimi maestri che credevano di possedere delle idee senza capire che ne è erano posseduti. E così molti intellettuali di oggi si sono ridotti a fare i burattini dei dittatori o degli aspiranti dittatori: chi per senso di rivalsa, per rancore o per megalomania, chi per interesse e arrivismo, per appagare l’aspirazione ad essere cooptato nella nuova oligarchia, nella cerchia di quelli che contano. “Se si è convinti di meritare il potere, la motivazione per attaccare l’élite, controllare il sistema giudiziario e manipolare la stampa per soddisfare le proprie ambizioni è forte. Il risentimento, l’invidia e soprattutto la convinzione che il ‘sistema’ sia ingiusto, non solo nei confronti del paese, ma di se stessi, sono sentimenti che svolgono un ruolo importante fra gli stessi ideologi nativisti della destra polacca, tanto che distinguere le loro motivazioni personali da quelle politiche non è facile.” Improvvise – anche se forse covate negli anni – sono fiorite le conversioni, le giravolte, i revirement, anche da parte di personaggi insospettabili. Anne Applebaum racconta la delusione nel constatare che alcune sue vecchie frequentazioni avevano nel frattempo cambiato bandiera, dopo aver ammainato quella del liberalismo.
L’autrice si sofferma anche sulla natura di questo pensiero illiberale, sul suo fascino, sulle ragioni del suo successo: rifiuto della complessità, ostilità verso il dissenso, ricerca di un’armonia priva di fratture e divisioni in una comunità nazionale vissuta come organica, ossessione verso il nemico, interno o esterno che sia. C’è poi la grande suggestione della cospirazione, sempre in voga in questo genere di costruzioni ideologiche. “La presa emotiva di una teoria del complotto è dovuta alla sua semplicità. Essa spiega fenomeni complessi, rende conto del caso e di accidenti, offre al credente la gratificante sensazione di avere un accesso speciale e privilegiato alla verità. Per coloro che divengono i guardiani dello Stato a partito unico, la ripetizione di tali teorie del complotto offre anche un’altra ricompensa: il potere.” Queste teorie – diciamo pure: queste farneticazioni – hanno trovato, a giudizio dell’autrice, un nuovo veicolo nei mutamenti della tecnologia, che hanno cambiato il modo di informarsi e costruirsi un’opinione. Si dice spesso: fake news, ecco il problema. Ma le fake news ci sono sempre state, anche quando ci limitavamo a chiamarle mistificazioni, bugie, disinformazione; in una parola: balle. Ma adesso sembra sparita quella convenzione per cui – all’interno di un universo pluralistico di valori – si convergeva almeno su alcuni elementari dati di realtà. Come spiega molto bene la Applebaum, “i vecchi giornali e le vecchie emittenti creavano la possibilità di un dialogo nazionale unitario. In molte democrazie avanzate, oggi, un dibattito comune non esiste, e tanto meno una narrazione comune. Le persone hanno sempre avuto opinioni diverse. Oggi hanno fatti diversi.”
Anne Applebaum invita all’ottimismo, dice di credere nelle nuove generazioni, soprattutto a quelle che si avvicinano adesso alla politica e all’impegno civile. Descrive una nuova festa, tenutasi vent’anni dopo, e la mente corre a un romanzo di Dumas. Ma qui i protagonisti non sono moschettieri incanutiti e astuti cardinali, bensì i reduci della vecchia festa, gli amici rimasti tali, più i molti altri che vi si sono aggiunti, figli compresi. “Insieme possiamo far sì che parole vecchie e fraintese come liberalismo tornino a significare qualcosa”.
Il libro si conclude con un omaggio e con una speranza. L’omaggio è rivolto a Ignazio Silone, uno dei nostri maggiori scrittori, mente lucida e consapevole, simbolo della cultura terzaforzista, nemico dei totalitarismi di ogni colore. La speranza è che le sue parole possano servire ancora da ammonimento. Gli avversari di oggi, come quelli di allora, sono i fanatici, gli estremisti, gli sfascisti, i mestatori del tanto peggio tanto meglio; ma anche i tiepidi, i rassegnati, gli equilibristi, i cinici, i sostenitori di false equivalenze morali tra la libertà e la sua negazione.

 

Saro Freni
02/08/2021