Quel che è stato è stato e, dopo la conferma di Biden che gli americani si sarebbero ritirati dall’Afghanistan, stupisce soltanto la rapidità con cui l’occupazione talebana si è completata.
Prova evidente che, come abbiamo visto in molte altre occasioni, gli innesti culturali prodotti artificialmente non riescono mai, anche quando si tratta di comportamenti politically correct che a noi sembrano avere una validità universale.
L’Occidente deve abituarsi a dialogare con culture diverse, spesso sedimentate in tradizioni religiose chiuse in difesa di un’ortodossia che, a torto o a ragione, sentono minacciata; il che vale sopratutto per l’Islam alle prese con un lento e faticoso processo di evoluzione che, per molti aspetti, somiglia a quello che dall’Illuminismo in poi ha dovuto affrontare il cristianesimo e che – non dimentichiamolo – si è concluso (se si è concluso davvero) soltanto con il Concilio Vaticano II negli anni ’60 del secolo scorso. Naturalmente le condizioni storiche sono molto diverse, le conseguenze sociali del colonialismo si innestano su realtà etniche assai diverse, la globalizzazione e i nuovi mezzi di comunicazione sono ovviamente percepiti come strumenti di subordinazione non soltanto politica ed economica ma anche e soprattutto culturale.
Le tre vie
Quello che l’Occidente può fare oggi è soltanto favorire i processi endogeni che, tra molte contraddizioni, sono avvertibili nel mondo islamico, il quale, nelle sue componenti intellettuali più avanzate è ben consapevole che con la modernità occidentale – piaccia o no – bisogna fare i conti, se non altro per una superiorità tecnologica impossibile da mettere in discussione.
Le strade che possono essere scelte (e in parte già sono in fase di avanzamento) possono essere riassunte in tre tipologie (anche se le diverse realtà storiche, economiche e sociali ne consentono molte variabili): 1) la prima è quella filo-occidentale che punta decisamente sulla compatibilità tra la tradizione islamica e i valori laici della cultura europea: tutto il Nord Africa, dal Magreb all’Egitto, si muove sostanzialmente in tale direzione con modalità diverse ma obiettivi convergenti. Però per contenere le spinte integraliste al loro interno questi paesi hanno bisogno di forti supporti come quello assicurato in Marocco da una monarchia illuminata ma religiosamente legittimata, in Algeria e in Tunisia da eserciti “figli” della rivoluzione anti-francese degli anni ’50 ma formati nel contesto culturale europeo, in Egitto – dove peraltro un’importante minoranza cristiana copta svolge un ruolo rilevante – un apparato costruito ai tempi di Nasser che non è soltanto militare ma anche politico ed economico. Anche alcuni paesi del Medio Oriente, malgrado le drammatiche disavventure che hanno dovuto subire in conseguenza della ferita lacerante che la creazione dello Stato di Israele in Palestina ha determinato nel mondo arabo, si muovono sostanzialmente nella stessa direzione: così il Libano, alle prese con un difficile equilibrio tra le componenti musulmane e quelle cristiane, l’Iraq e la Siria (soprattutto nelle regioni abitate dai curdi). Lontano dall’Europa e dal Mediterraneo grandi comunità musulmane come il Pakistan e l’Indonesia sono alle prese con difficili processi di modernizzazione ma si può affermare che anche in Asia, almeno fino ad ora, il fondamentalismo islamico non è riuscito a prevalere sulle preesistenti eredità culturali derivate dal periodo coloniale. 2) La seconda strada è quella degli integralisti di varie scuole islamiche (a cominciare dai wahabiti) per i quali la religione di Maometto deve restare intangibile anche attraverso una lettura formalistica del Corano e le uniche intese possibili con l’Occidente sono limitate alle convenienze economiche. I suoi sostenitori non nascondono velleità espansionistiche non soltanto nell’Africa Equatoriale e in alcuni paesi dell’Estremo Oriente (come le Filippine) ma anche attraverso la rigorosa difesa delle usanze islamiche nelle comunità emigrate in Europa o negli Stati Uniti, in pratica osteggiando ogni forma di integrazione. 3) C’è una terza via che invece punta a una revisione profonda della dottrina islamica per mantenerne le caratteristiche essenziali ma aggiornandole ai mutamenti sociali che non possono più essere contrastati in un tempo in cui i mezzi di comunicazione interpersonali hanno assunto le attuali dimensioni. In questa prospettiva (fatta propria soprattutto dalla minoranza moderata degli sciiti) la condizione femminile è molto diversa da quella della tradizione sunnita e persino alcune forme di democrazia controllata vengono tollerate (come avviene in Iran, in Iraq e Azerbaigian).
E intanto?
I talebani con la loro rapida avanzata si trovano a gestire una situazione molto difficile che forse avrebbero preferito affrontare con maggiore gradualità; tanto che sorge il sospetto che gli americani – una volta deciso l’abbandono – l’abbiano favorita. A fronte del successo di immagine all’interno del mondo musulmano i talebani devono risolvere alcuni problemi abbastanza complicati, a cominciare dalla sopravvivenza economica e dalla necessità di accordarsi con tutte le etnie che compongono il complesso mosaico afgano. Hanno bisogno di alleati che non siano soltanto le frange wahabite più estreme: possono trovarli in Cina o in Russia, interessate per ragioni geo-politiche, oppure in Iran (dove peraltro la diversità religiosa rappresenterebbe un ostacolo di non poco conto). Però i prezzi da pagare sarebbero elevati. Alla fine potrebbero essere proprio gli occidentali gli interlocutori con cui avviare un processo di distensione: una conclusione paradossale ma meno inverosimile di quanto possa sembrare, anche perché è quanto in certa misura è avvenuto in Vietnam. In tal caso però la questione dei diritti umani fondamentali diventerebbe una condizione che sin d’ora dovrebbe essere in qualche misura garantita, e in questa direzione i talebani dovrebbero inviare segnali inequivocabili per accreditarsi come un componente aperta (almeno relativamente) al confronto. Soltanto così, cominciando dalla tutela delle minoranze che hanno collaborato con la NATO per avviare la modernizzazione del paese, si può superare il momento di contrapposizione e avviare un dialogo che sia credibile per le opinioni pubbliche occidentali.
Franco Chiarenza
18 agosto 2021