Caduto, tra polemiche più o meno pretestuose, il ddl Zan, si può cominciare un confronto serio sui suoi contenuti, o meglio, sulla tutela delle minoranze sessuali che costituisce la motivazione del controverso disegno di legge. A noi “liberali qualunque” tocca affrontarlo dal nostro punto di vista. Per farlo in modo chiaro e comprensibile rispondiamo ad alcune domande:

  • Chiunque abbia seguito anche superficialmente le polemiche che hanno accompagnato la mancata approvazione del ddl Zan ha avuto l’impressione che oggi nell’ordinamento italiano le minoranze sessuali non siano tutelate e di conseguenza chi si oppone al ddl Zan sia sostanzialmente un omofobo o quanto meno una persona insensibile alla parità di diritti e di riconoscimento sociale estesa a omosessuali, bisessuali e ogni altro orientamento sessuale che rientra nella libertà di ciascuno di noi. E’ così?

No, non è così, anche se si è lasciato credere che di questo si trattasse. La normativa esistente, anche a prescindere dalla discutibile legge Mancino, se applicata con giusta severità, è in grado di tutelare i diritti di ogni minoranza e quindi anche di quelle caratterizzate da orientamenti sessuali minoritari e legittimi (quindi sempre tra maggiorenni). Tutt’al più si potrebbero apportare alcune modifiche al codice penale per venire incontro alla maggiore sensibilità su questi temi che deriva dalle profonde trasformazioni sociali di questi ultimi anni. Mi riferisco in particolare a una migliore definizione delle minoranze di genere e alle procedure accusatorie. Ma per fare questo non c’è alcun bisogno di leggi speciali. Il ddl Zan persegue infatti una finalità diversa, quella di contrastare penalmente le espressioni di “istigazione all’odio” dirette alle minoranze sessuali e di inasprire le pene nei confronti di chi se ne rende responsabile.

  • Non esiste già una legge (cosiddetta legge Mancino del 1993) che prevede una tutela rafforzata delle minoranze? non basterebbe integrarla comprendendovi le minoranze sessuali?

Certamente sì. Visto che una legge speciale per tutelare le minoranze (razziali, religiose, ecc.) già esiste non si capisce perché non si proceda semplicemente a modificarla comprendendovi anche le minoranze sessuali, ed è questa infatti una delle critiche che vengono mosse al ddl Zan anche da chi non si ritiene né omofobo né intollerante. Da liberale però devo aggiungere che anche la legge Mancino, pur essendo una legge dello Stato e come tale da rispettare, non corrisponde ai principi di uno stato di diritto per almeno due ragioni: la prima è proprio la “specialità” delle tutele previste che collide col principio di generalità per il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Perché mai insultare un omosessuale deve essere diversamente considerato dal farlo nei confronti di qualsiasi cittadino? Tutt’al più può rappresentare un’ aggravante per le presunte condizioni di inferiorità dell’aggredito e per le sue spregevoli motivazioni (ma questo è già previsto dal codice penale). La seconda ragione per cui la legge Mancino non piace ai liberali è perché introduce il principio di incitamento all’odio come reato, a prescindere da ogni intento a delinquere. Un concetto generico, pericoloso per le interpretazioni estensive che potrebbero entrare in contrasto con la libertà di espressione tutelata dall’art. 21 della Costituzione; dubbi che restano immutati perché finora la sua applicazione è rimasta abbastanza sporadica e la Corte costituzionale non ha ancora avuto occasione per esprimersi in proposito.

  • I manifestanti a favore della legge Zan inalberavano un cartello in cui era scritto che “l’odio non è un’opinione”. Non hanno ragione?

Lo slogan “l’odio non è un’opinione”, che riprende il titolo di una nota ricerca del COSPE, è suggestivo ma parziale; certamente l’odio non è un’opinione perchè è un sentimento, e quindi irrazionale per definizione, ma anche i sentimenti se non sono tali da indurre alla commissione di reati sono tutelati dalla libertà di espressione. Pure l’amore è un sentimento e nessuno si sognerà mai di sanzionarlo finchè non produce danni e limitazioni concrete nei confronti di altri (come lo stalking). Quando si propone che l’istigazione all’odio diventi un reato punibile con sei anni di galera bisogna fare attenzione perchè l’estensione interpretativa del concetto di odio può diventare un boomerang di cui per primi potrebbero dolersi gli attuali sostenitori della legge Zan. Le leggi sono pericolose: partono con precise finalità nelle intenzioni del legislatore ma poi vivono di vita propria e si trasformano per analogia in interpretazioni giurisprudenziali talvolta utilizzate per scopi ben diversi da quelli che le avevano ispirate. Per questa ragione – sia detto per inciso – la cultura giuridica anglosassone, che si esprime attraverso la common law, diffida dell’abuso della funzione legislativa preferendo ad essa un aggiornamento pragmatico dei precedenti giurisprudenziali adattandoli, nel quadro di principi generali incontrovertibili, caso per caso.

  • Nella realtà concreta però le minoranze sessuali sono di fatto discriminate, perseguitate o nel migliore dei casi, emarginate. Non far nulla non può sembrare una forma di tolleranza per gli intolleranti?

Cambiare in profondità (cioè ben oltre la borghesia illuminata che detta le regole del polically correct) atteggiamenti e culture fondati da secoli sulla prassi ipocrita per cui le cose si fanno ma di nascosto, richiede tempi lunghi; soprattutto quando certi pregiudizi sono radicati nelle famiglie. Cercare di mutare le culture dominanti attraverso le sanzioni penali non è soltanto illiberale ma anche inutile e controproducente. Oggi però la pervasività dei nuovi mezzi di comunicazione consente una forte accelerazione del cambiamento, che, in questo caso, sarebbe positiva. Anche se non bisogna dimenticare che i nostri valori di tolleranza e inclusione valgono soltanto per una parte dell’umanità; la grande maggioranza (nei paesi islamici, nell’Estremo Oriente o in Africa) ne è invece ancora molto lontana. Sono ancora tanti i paesi in cui l’omosessualità maschile è punita con sanzioni penali anche rilevanti.

  • Allora bisogna lasciare le cose come stanno?

Ci sono casi eccezionali in cui anche i liberali ammettono la necessità di leggi speciali che possono incidere sui diritti fondamentali (tra cui essenziale quello della libertà di espressione) ma devono corrispondere ad alcune condizioni: emergenze conclamate, temporaneità delle misure adottate, ecc.; non è questo il caso del ddl Zan che investe invece una questione più generale, la tutela delle minoranze socialmente (non giuridicamente) discriminate. Esso ha riaperto un dibattito sui rischi legati a leggi speciali mirate a proteggere determinate istituzioni, categorie, minoranze in maniera rafforzata rispetto alla normale applicazione delle norme vigenti; una querelle antica che risale a Locke (uno dei padri del liberalismo moderno) il quale voleva discriminare i cattolici, continua con le varie specie di contrasto penale al “negazionismo”, fino allo hate speech e alla cancel culture dei nostri giorni. Per quanti non sono particolarmente interessati alle complicazioni giuridiche (e alle relative scuole di pensiero) riassumo in termini essenziali la questione (scusandomi coi giuristi per l’approssimazione): da una parte c’è il diritto di esprimere liberamente la propria opinione (qualunque essa sia) tutelato in tutti gli ordinamenti liberal-democratici, dall’altra l’esigenza di proteggere le minoranze razziali, religiose, sessuali, ecc, da un uso improprio di tale libertà anche quando non si concretizza in uno specifico delitto già previsto dalla legge ordinaria (ingiurie, offese, diffamazione, istigazione a commettere reati, ecc.) oppure rafforzando le sanzioni già previste. Bisogna fare attenzione che i due piatti della bilancia restino in equilibrio; se si eccede nelle tutele rafforzate si rischia di cadere, al di là delle migliori intenzioni, nel reato di opinione, tipico di una concezione etica dello Stato che un liberale non può condividere. Il perno su cui si gioca questo equilibrio nel caso nostro è rappresentato da una sola parola: l’odio (cioè cosa esattamente si intende per tale) e il ddl Zan appare in proposito squilibrato e chiaramente ispirato da intenti punitivi esorbitanti. Per noi liberali si ricorre a nuove leggi quando quelle esistenti si dimostrano inadeguate, per molti altri invece ciò che conta è sbandierare nuove leggi anche quando non ce n’è bisogno (perché basterebbe applicare quelle che già ci sono), per potersene attribuire il merito.

  • Perché è stata tanto osteggiata l’idea (contenuta nella legge Zan) di sensibilizzare i giovani alla tolleranza delle diversità (anche sessuali)?

Perché si trattava di un’idea giusta formulata male. L’idea giusta è che la tolleranza e il rispetto delle diversità sono valori che si dovrebbero imparare a scuola nell’ambito di un’educazione civica (da noi invece inspiegabilmente trascurata); istituire una giornata nazionale ad hoc, oltre che poco efficace, preoccupa le famiglie più tradizionaliste che vi scorgono un’indebita invasione di campo dello Stato nell’educazione dei figli e naturalmente (anche se a noi liberali interessa meno) agita il mondo cattolico che teme un conflitto tra norme civili e dottrina cristiana all’interno delle prerogative che lo sciagurato Concordato (inserito nella Costituzione) riconosce alla Chiesa in materia di insegnamento religioso.

  • La legge Zan è diventata motivo di contrapposizione politica; non si poteva evitare?

Si poteva ma non si è voluto. La politica diventa tanto più irragionevole quanto più i partiti che la rappresentano sono deboli (come in questo momento). Alla ricerca disperata di identità i partiti spingono alle estremizzazioni e leggi che potrebbero essere partecipate da tutti (anche tenendo conto di alcune criticità incontestabili) si trasformano in pugni in faccia all’avversario, le cui ragioni non vengono nemmeno prese in considerazione. In Italia le leggi hanno quasi sempre un sottinteso politico contingente; al di là del loro contenuto nessuno si cura della loro applicabilità, delle conseguenze di eventuali strumentalizzazioni, della ripetizione di norme già esistenti, perché l’importante è piantare una bandierina e rivendersela al proprio presunto elettorato. Quante volte ho sentito dire che la legge Zan andava votata senza se e senza ma perché l’importante era sconfiggere Salvini; e per converso quanti sostenere che la legge andava bocciata come “prova generale” contro eventuali accordi tra PD e Cinque Stelle per il Quirinale! Salvo poi confessare – gli uni e gli altri – che dei suoi contenuti (al di là di una generica “tutela degli omosessuali dalle discriminazioni”) nulla sapevano né gli interessava !!! E’ successo altre volte; in un recente passato la riforma istituzionale proposta da Renzi fu bocciata non per i suoi contenuti (molto discutibili) ma soltanto per colpire chi l’aveva proposta.

Quel che oggi si può fare è trovare un ragionevole compromesso, lasciando da parte i toni da crociata e tornando al merito della questione. I nodi da sciogliere a mio parere sono:

  1. definire le minoranze sessuali e inserirne la menzione nella legge Mancino, oggi applicabile soltanto per analogia;
  2. abolire ogni riferimento all’art. 21 della Costituzione, in quanto pleonastico. Tutte le leggi dello Stato devono essere compatibili con la Costituzione. Men che meno è accettabile che la sua applicazione venga sottoposta a condizioni limitative con una legge ordinaria;
  3. definire con esattezza cosa si intende per “incitamento all’odio” per evitare che discutibili interpretazioni giurisprudenziali lo trasformino in una censura ideologica; il codice penale già prevede la punibilità di chi incita o favorisce concretamente la commissione di reati, ma non a caso evita che la semplice espressione di idee non conformi (anche ai principi costituzionali) possa essere sanzionata (e in questo senso si è espressa la Corte costituzionale in merito a leggi che vietano la ricostituzione del partito fascista). Rischiamo altrimenti che un prete che ricordi pubblicamente che la dottrina cattolica considera peccato mortale una convivenza tra persone dello stesso sesso (figurarsi il matrimonio!) possa essere incriminato per “incitamento all’odio”;
  4. abolire la giornata di sensibilizzazione nelle scuole. Il modo corretto di sollecitare la riflessione dei giovani senza rischiare fratture tra famiglie e scuola è di accelerare l’introduzione dell’educazione civica come materia autonoma e fondamentale sin dalle scuole medie e in quel contesto dare il rilievo dovuto al rispetto e alla tutela di ogni minoranza, anche sessuale.

Per i liberali nelle leggi non si deve cercare la perfezione (che ciascuno interpreta a modo suo) ma piuttosto trovare un ragionevole compromesso tra tutti gli interessi legittimi che hanno diritto di essere tutelati. Nel nostro caso bisogna mettere insieme: la protezione delle minoranze sessuali da ogni possibile discriminazione, la preoccupazione dei liberali che, al di là delle intenzioni dei proponenti, si introducano nell’ordinamento norme restrittive sul diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni, l’esigenza del mondo cattolico di sostenere le proprie convinzioni etiche e morali senza correre il rischio di essere incriminati, il timore di molte famiglie che su un momento sensibile della crescita degli adolescenti lo Stato interferisca nelle modalità educative che sono parte essenziale della responsabilità genitoriale, la necessità per uno stato liberal-democratico di promuovere attraverso la scuola quei valori di tolleranza e di rispetto che devono caratterizzare l’esercizio delle libertà individuali senza trasformare la diversità di opinioni in risse scomposte.

Si può? Sì, se si vuole. Si vuole? O si preferisce ricominciare il gioco delle bandierine dove gli avversari tornano ad essere nemici non da convincere ma da delegittimare, i testi delle leggi diventano icone intangibili “a prescindere” dai loro contenuti perché l’importante è distruggere chi non la pensa come noi? Ma noi come la pensiamo veramente?

Franco Chiarenza
28 novembre 2021

Il sistema partitico è in crisi. Se si devono fare delle riforme istituzionali, occorre farle adesso. Ma è necessario anche organizzare un’offerta politica per chi non si riconosce né in questa destra né in questa sinistra.

Su internet è Il Liberale Qualunque, che è il nome del suo blog di analisi e commenti. Nella vita reale (ma anche internet ormai è vita reale) è Franco Chiarenza, classe 1934: un passato da giornalista Rai e docente di storia della comunicazione, un presente da acuto osservatore della realtà italiana e non solo. Lo abbiamo intervistato per I Liberali.

Come vede un “liberale qualunque” l’Italia del 2021?

Questa è l’Italia all’insegna di Draghi: lo è stata in questi ultimi mesi del 2021 e lo sarà presumibilmente per tutto il 2022. Ma il discorso va oltre la sua persona, che imprevedibilmente continua a riscuotere la fiducia della maggior parte degli italiani. Il problema è istituzionale: le istituzioni repubblicane, per come sono arrivate fino ad oggi, non sono adeguate a governare delle realtà complesse e difficili come quelle che ci troviamo di fronte adesso e ancor più domani. Questo, secondo me, è il nodo che si deve in qualche modo sciogliere; anche per evitare che venga risolto in modo traumatico dagli eventi.

Cioè, bisogna affrettarsi a fare le riforme istituzionali prima che sia troppo tardi?

Ho letto una cosa che ha scritto Enrico Cisnetto e che condivido. Se si devono fare delle riforme istituzionali – senza le quali non si riesce a sbloccare la situazione – occorre farle adesso. Non bisogna aspettare che si crei una situazione di ingovernabilità. Quando si cambiano le strutture istituzionali, cambia tutto, anche il modo di votare della gente. Non è vero che la cosiddetta ingegneria istituzionale non serve a nulla. Ne abbiamo la dimostrazione se pensiamo a come è cambiato il governo degli enti locali dopo che è stata introdotta l’elezione diretta del sindaco.

A tuo avviso il governo Draghi è una parentesi oppure può essere l’inizio di una nuova fase della nostra vita politica?

Penso che nulla dopo Draghi sarà come prima, proprio perché è stata messa in luce la fragilità del sistema partitico. Il problema è esattamente quello della riforma istituzionale, a cominciare dai poteri del capo dello Stato. È vero che i poteri presidenziali sono come una fisarmonica, tutto dipende da chi occupa il Quirinale, ma, come dice Ainis, anche la fisarmonica ha dei limiti oltre i quali non può andare. Per questo bisogna mettere mano a una vera riforma costituzionale che, insieme ad altre cose, ridisegni i poteri del presidente. Siamo di fronte ad una svolta importante.

Secondo molti commentatori, alle ultime elezioni amministrative ha vinto chi si è presentato come più ragionevole e moderato. Il messaggio è che il paese è stanco di inutili baruffe? È ancora vero, persino nell’era del populismo, che si vince al centro?

A mio giudizio, le amministrative vanno lette in un altro modo. Si conferma un dato, che non vale solo per il nostro paese: l’elettorato più consapevole e informato, quindi meno sensibile al richiamo del populismo, è concentrato nelle città grandi e medio-grandi. La forza del populismo, basato sugli slogan e sulle approssimazioni, viene da quell’immensa periferia che è costituita dai piccoli centri. Lo dimostra se non altro il fatto che la destra non riesce nelle grandi città nemmeno a trovare dei candidati credibili.

Dicevi che questo non vale solo per il nostro paese…

Sì, nel senso che anche in altri paesi europei c’è una spaccatura profonda tra l’elettorato delle grandi città e quello arroccato nelle piccole realtà locali. Vale anche per i paesi dell’Est. Non a caso, nelle grandi città polacche o ungheresi governano partiti che sono all’opposizione nel parlamento nazionale. Vale per Varsavia e vale per Budapest. Abbiamo avuto in questi giorni la sorpresa della vittoria dell’opposizione di centrodestra contro il governo sovranista della Repubblica Ceca: e già prima a Praga c’era un sindaco che era su posizioni diverse da quelle del governo centrale. C’è questa spaccatura profonda, che è soprattutto culturale ma si riflette anche nelle scelte politiche.

Tornando all’Italia, parlavi dei candidati poco credibili della destra. Da dove nasce questa inadeguatezza?

La debolezza della destra, da quando è venuta meno l’egemonia democristiana, è che riesce ad avere dei leader più o meno carismatici ma non una classe dirigente in grado di governare realmente il paese. La Lega fa eccezione, ma solo in parte: nel nord Italia – e quindi dove sicuramente è più forte l’asse Giorgetti-Zaia – ha un radicamento territoriale e un’esperienza di governo che ormai risale a decenni fa, e questo fa la differenza con Fratelli d’Italia. Nel centro sud è vero il contrario; il partito di Giorgia Meloni ha ereditato dall’esperienza dei quadri di Alleanza Nazionale una presenza articolata in grado di assorbire i sentimenti populisti man mano che emergono.

Perché allora hanno perso a Milano e in altri centri importanti?

Perché una parte dell’elettorato della Lega è disorientata e si è rifugiata nell’astensione. D’altronde all’interno della Lega si sta consumando una profonda spaccatura tra la vecchia Lega Nord, che ha imposto alla leadership di appoggiare il governo Draghi (se Salvini fosse stato libero di scegliere avrebbe preferito probabilmente attestarsi su una linea simile a quella della Meloni) e la nuova Lega nazionale rifondata nel 2020. C’è nella Lega una dialettica interna molto vivace che un unanimismo di facciata non riesce a nascondere. Non sappiamo come andrà a finire, ma non ha molta importanza. Se anche vincerà Salvini – che ha i numeri per prevalere – resterebbe comunque una contraddizione interna tra posizioni inconciliabili destinata prima o poi ad esplodere.

Vale anche per le alleanze europee del suo partito?

Sì. Salvini preferisce essere il primo in un’alleanza sovranista piuttosto che l’ultimo in un partito popolare europeo dove verrebbe emarginato, come a suo tempo lo è stato Orbán; la sua riluttanza ad accogliere la proposta di Giorgetti è quindi comprensibile, ma anche nel parlamento europeo quella parte della Lega di governo che oggi appoggia fortemente Draghi non può riconoscersi in una coalizione di sovranisti.

Le posizioni della cosiddetta Lega moderata resteranno in minoranza?

Giorgetti sperava che una Lega che si riportasse verso delle posizioni moderate potesse raccogliere l’eredità di Berlusconi, almeno per quanto riguarda il centrodestra. Salvini non ci vuole stare e anzi teme questa prospettiva, perché sa che non sarebbe lui l’uomo in grado di condurre la Lega in quella direzione. Salvini ha fiuto: se non ce l’avesse, non sarebbe lì. Lui è l’uomo del populismo, della Lega di lotta, non di governo. E quindi farà di tutto affinché il progetto di Giorgetti non prevalga.

Come si risolverà, a tuo avviso, il gioco del Quirinale? Ultimamente si è fatto anche il nome di Giuliano Amato. Non è la prima volta che si parla di Amato come presidente della Repubblica.

Oggi Giuliano Amato ha maggiori possibilità che in passato, quando il suo nome veniva inesorabilmente associato a quello di Craxi. La damnatio memoriae su Craxi, sancita da una parte importante dell’opinione pubblica, coinvolse anche lui: in politica, molto spesso, le impressioni e i falsi ricordi contano più della realtà. Oggi tutto questo non esiste più, e quindi Amato potrebbe anche farcela; sarebbe un’ottima soluzione perché si tratta di un uomo di grande intelligenza ed esperienza e il ticket con Draghi funzionerebbe molto bene.

Si è parlato anche del ministro Cartabia. Ha delle possibilità?

Secondo me, la Cartabia ha delle carte da giocare: anche perché è donna, e oggi questo conta. C’è poi l’ipotesi che Mattarella, sia pure all’ultimo momento, accetti una riconferma, con l’intenzione di dimettersi quando lo riterrà opportuno: sicuramente non prima del 2023, in modo da consentire a Draghi di completare il suo percorso.

In questo scenario, si andrebbe a elezioni alla scadenza della legislatura. E potrebbero anche formarsi le condizioni per un nuovo governo Draghi, sostenuto dal parlamento rinnovato. Ma la domanda è: può reggere una soluzione politica di questo tipo senza un partito di Draghi o comunque senza una coalizione di forze che chiaramente ed esplicitamente, durante la campagna elettorale, si richiamino all’agenda Draghi?

Il problema, come sempre, è quello del centro. Esiste una vasta fascia di elettorato che non si riconosce negli estremismi di Salvini e men che meno in quelli della Meloni e che d’altra parte diffida profondamente del Partito democratico. E ne diffida, in buona sostanza, perché è fallito il tentativo di Veltroni di costruire attraverso il Pd uno schieramento di centro-sinistra, e non di sinistra-centro. Il partito democratico americano – che era un po’ il suo riferimento – parte dal centro e arriva poi a comprendere tutte le frange di sinistra, ma nel senso che esse diventano complementari rispetto alla centralità del partito (centralità sociale, economica ecc.). Il partito democratico italiano non è riuscito ad essere questo. Ci ha provato con Renzi (e non a caso aveva raccolto il 40%). È andata a finire come tutti sappiamo e al fallimento del suo progetto ha contribuito lui stesso con atteggiamenti arroganti, personalismi, una presunzione smisurata. Ma non era sbagliata l’idea su cui si basava il suo progetto: trasformare un partito di sinistra aperto al centro in partito di centro che comprende la sinistra.

Come vedi il progetto di Enrico Letta?

Quando ha preso in mano il Pd, il primo problema che si è posto Letta non è stato quello di recuperare al centro, bensì un’identità forte di sinistra su cui poi il centro fatalmente – non avendo altre opzioni possibili – si sarebbe aggregato. Anche questo è stato un errore di calcolo gravissimo, perché c’è un elettorato di centro che non si riconosce nella politica un po’ sloganistica e un po’ demagogica di Letta e cerca uno spazio che nell’attuale composizione parlamentare non trova. E non trovandolo si rifugia nell’astensionismo andando ad aumentare l’esercito dei non votanti che ha ormai raggiunto e talvolta superato la metà dell’elettorato.

Però oggi il centro sembra piuttosto affollato. Più leader che voti?

Eh, sì. Da destra a sinistra è tutto un fiorire di gente che si auto-promuove per guidare una forza di centro. È un affollamento di partitini e movimenti che non superano l’1 o il 2 percento ciascuno. E che quindi non rappresentano mai una massa critica in grado di rappresentare davvero un momento di aggregazione che possa distinguersi rispetto alla destra e alla sinistra, che sia in grado di far propria la strategia di Draghi come punto di riferimento sia di contenuti che di metodo di governo. Di tutti questi, a me pare che il movimento di Calenda sia quello che ha le carte migliori da giocare.

Anche alla luce del risultato romano…

Ha avuto il coraggio di correre da solo nelle elezioni romane contro i collaudati apparati di destra e di sinistra ottenendo un risultato di tutto rispetto. È importante capire se Calenda riuscirà a creare delle aggregazioni in grado di renderlo un soggetto politico di dimensioni tali da essere determinante nel prossimo parlamento. Vale comunque anche in politica la fondamentale legge che regola il mercato: dove c’è domanda si crea l’offerta mentre non è vero il contrario. La domanda di un centro liberal-democratico c’è, l’offerta è scarsa e ancora poco convincente.

Non abbiamo parlato ancora dei Cinque Stelle. Quale sarà il loro destino politico?

Il movimento Cinque Stelle, col suo elettorato potenziale del 15%, costituisce un elemento indispensabile della strategia di Letta per rovesciare i rapporti di forza nel futuro parlamento consentendo al centrosinistra a guida Pd di arrivare a raggiungere la maggioranza parlamentare. I Cinque Stelle devono scegliere tra la dissoluzione in uno schieramento socialista democratico (italiano ed europeo) oppure l’occupazione di uno spazio elettorale ambientalista oggi poco e male rappresentato. Conte, per la sua storia e la capacità di mediazione che ha dimostrato, è la persona adatta per facilitare la riuscita del progetto di Letta ma non per guidare una rifondazione del movimento che lo porti a sintonizzarsi con i partiti verdi sempre più influenti nello scenario europeo. Sarà una scelta dolorosa nella quale è probabile che Grillo giocherà ancora un ruolo determinante.

In che modo?

Secondo me, il futuro dei Cinque Stelle è sempre nelle mani del suo fondatore. Il suo attuale silenzio potrebbe preludere alla tempesta; non credo affatto che Grillo si sia ritirato dalla scena. E non credo nemmeno che si sia rassegnato all’idea che il movimento Cinque Stelle si trasformi in una sorta di partito di complemento del partito democratico, sostanzialmente integrato in una strategia unitaria di centrosinistra. Io non credo affatto che la base dei militanti pentastellati sia su queste posizioni e penso perciò che Grillo stia aspettando l’elezione del presidente della Repubblica per uscire di nuovo allo scoperto e suscitare nuovi conflitti all’interno del movimento.

 

Intervista a cura di Saro Freni