Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Il teatrino cui stiamo assistendo in questi giorni mostra quanto in basso sia caduta la nostra stampa; giornali considerati a suo tempo autorevoli alimentano un gossip senza fine sulle intenzioni di voto dei circa mille grandi elettori chiamati a gennaio a scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Pronostici senza senso si intrecciano con manovre poco trasparenti per rendere ancora più difficile una decisione che, per un insieme di circostanze, assume un’importanza maggiore che in passato.
La scadenza del settennato di Mattarella coincide infatti con un passaggio fondamentale dell’azione di governo di Draghi, quello in cui l’Unione Europea avrà i primi elementi per verificare la credibilità del nostro Paese nell’utilizzazione dei fondi straordinari (PNRR) che vengono messi a disposizione per avviare incisive riforme di struttura. A questo si aggiunge una difficile fase della politica internazionale in cui gli Stati Uniti sono passati dall’isolazionismo di Trump all’attivismo di Biden, con le conseguenti tensioni in Ucraina e a Taiwan, mentre l’Europa dopo la costituzione del nuovo governo tedesco attende di conoscere il risultato delle elezioni francesi l’anno prossimo per capire se attraverso una saldatura strategica tra Germania, Italia e Francia essa potrà tornare ad avere voce in capitolo. Al centro di questi intrecci, decisivi per il nostro futuro, c’è Mario Draghi, il solo che ha il prestigio internazionale per fare dell’Italia, per la prima volta da molti anni, un protagonista della partita e non una semplice comparsa.

Di tutto ciò nessuno dubita. Il problema è: da quale palazzo Draghi potrà meglio svolgere il ruolo che le circostanze gli impongono?
La risposta più logica porta a scegliere il Quirinale soprattutto per le garanzie di stabilità e di indipendenza che i sette anni di mandato garantiscono al Capo dello Stato; ma chi potrà con la stessa autorevolezza prendere il suo posto a palazzo Chigi, dove comunque, a costituzione invariata, si attuano le strategie politiche nazionali?
Attualmente, stando ai sondaggi più credibili, nuove elezioni non sarebbero in grado di assicurare maggioranze stabili: il Paese è diviso in due schieramenti contrapposti entrambi al di sotto della soglia di governabilità, il che prefigura uno scenario di variabilità politica come quello che già abbiamo vissuto recentemente con Conte e le sue maggioranze intercambiabili. Uno scenario che ci farebbe perdere tutta la credibilità internazionale faticosamente conquistata.
La soluzione migliore sarebbe quindi che Draghi restasse a palazzo Chigi il tempo sufficiente per avviare la seconda fase del Recovery Plan e il suo trasloco al Quirinale venisse rinviato alla fine dell’anno prossimo quando di fatto il governo sarà comunque paralizzato dalle divisioni tra i partiti impegnati nella campagna elettorale. Un trasferimento che potrebbe servire anche ad accelerare di qualche mese la scadenza elettorale.
Ma per ottenere questo risultato Mattarella dovrebbe accettare una rielezione che andrebbe incontro al desiderio di gran parte della pubblica opinione ma che il Capo dello Stato ha però, a più riprese, escluso, lasciando intendere che la soluzione va trovata a Montecitorio dove i partiti devono decidere – di fatto – se procedere nell’esperimento Draghi (lasciandolo a palazzo Chigi e individuando una candidatura accettabile e più defilata per il Quirinale) oppure “resettare” la maggioranza di governo imbalsamando Draghi al Quirinale. Questo, per lo meno è ciò che sembra, ma non è detto che le cose stiano davvero così.
Sergio Mattarella infatti è un uomo politico di lungo corso, conosce le trappole e i sentieri meno visibili dell’arte di governo, e sa che la carta di un’eventuale rielezione per essere attendibile va giocata all’ultimo momento, quando si è verificato sul campo che non vi sono alternative possibili e non deve scaturire da un accordo preventivo tra i partiti. Non prima quindi della quarta votazione a Montecitorio.

In effetti, al momento attuale, non si vede una candidatura che abbia serie possibilità di riuscita: non Berlusconi che sa di non potere contare su molti voti della destra, al di là di quelli che dovrebbe raccogliere nel magma confuso dei Cinque Stelle; non Marta Cartabia che sconta l’avversione del “partito dei giudici” nascosto ma presente in tutto il centro-sinistra; non Giuliano Amato per ragioni anagrafiche ma soprattutto per quel “fumus” di craxismo che non lo rende simpatico al PD e ai Cinque Stelle; non Gentiloni, la cui presenza a Bruxelles è in questo momento di cruciale importanza. Né vedo tra le “soluzioni B” di cui parlano i giornali altre candidature in grado di superare la soglia fatidica necessaria all’elezione; senza contare che un presidente eletto faticosamente dopo molte votazione apparirebbe una soluzione inadeguata alla gravità del momento.

I frequentatori delle prime dei teatri lirici non rappresentano certo la realtà del Paese, ma le ovazioni della Scala e del San Carlo con la richiesta di un bis che non riguardava gli spettacoli in scena forse sono più significative di quanto possa sembrare; ci sono stati nella nostra storia altri momenti in cui le platee teatrali hanno indicato la strada da percorrere, come il nostro presidente sa bene.

 

Franco Chiarenza
30 dicembre 2021

Smettiamola di chiamarci liberali”. Comincia con un paradosso questa nuova conversazione con il liberale qualunque Franco Chiarenza. L’animatore di un blog che porta la parola liberale nel titolo spiega che essere liberali è una questione di approccio ai problemi, non di ideologia o di appartenenze. La priorità dei nostri tempi non è quella di sventolare bandiere o di costruire steccati. È piuttosto quella di declinare un certo metodo alla luce dei problemi della contemporaneità – anche attraverso i mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione – senza dare troppa importanza ai nominalismi e alle etichette. Quello che stiamo vivendo è un periodo di grandi cambiamenti, da molti punti di vista. E chi vuole proporre idee liberali dovrebbe essere in grado di interpretare questo mondo in trasformazione. “Siamo in un periodo di transizione. C’è la rete, ma ci sono ancora i sistemi tradizionali di informazione. È, insomma, una realtà in movimento. Mi piacerebbe che quelli che dicono di essere liberali si inserissero in questo movimento e cercassero di proporre degli strumenti nuovi invece di starsene alla finestra a brontolare. La cultura del brontolio non dovrebbe essere la cultura dei liberali.”

Tu sei un liberale storico che però è sempre interessato alle novità, sia sul piano politico che su quello della comunicazione. Si dice spesso: il liberalismo è più un metodo che un’ideologia. Che cosa suggerisce il metodo liberale, per dare una risposta ai problemi di oggi?

Inizierei con un paradosso: smettiamola di chiamarci liberali. Non ne posso più di quelli che dicono di essere liberali e poi però sono tutt’altra cosa. Il liberalismo è una concezione della società che vede al centro l’individuo, con le sue libertà e le sue possibilità di scelta: questa concezione è oggi accettata, almeno in linea di principio, dalla stragrande maggioranza delle persone. Il problema non è inventarsi delle ricette liberali, che poi non esistono. Anzi, il liberalismo è tale perché non ha ricette predefinite da proporre. Come tu dicevi – e come io sostengo da tempo – il liberalismo è un metodo: un metodo con il quale si affrontano i problemi politici. È un metodo caratterizzato dalla massima flessibilità e dalla massima tolleranza nei confronti delle opinioni diverse. È basato sul confronto, ma ha alcuni valori non negoziabili: la salvaguardia dei diritti individuali e dello stato di diritto.

Quali sono oggi le priorità a cui bisogna far fronte?

I nuovi problemi sono l’ecologia, il clima, la sanità, le migrazioni, le disuguaglianze che spingono milioni di persone a muoversi da un continente all’altro; una globalizzazione che rischia, se non è governata, di divorare se stessa. Questi problemi non si possono affrontare con le vecchie etichette ottocentesche: né quella del liberalismo, né quella del socialismo, né tantomeno quella delle tradizioni cristiane. In questi nuovi grandi scenari i paesi liberaldemocratici devono confrontarsi necessariamente anche con quelli che non lo sono. È finito il tempo della colonizzazione culturale, per cui noi occidentali eravamo in grado di imporre i confini entro i quali il dialogo era possibile. Oggi non è più così. Ma questa è una buona ragione per rinsaldare la nostra alleanza, per metterla in grado di dialogare meglio con quelli che ne sono fuori. Il dialogo è la chiave che i liberali devono usare per cercare delle soluzioni condivise.

Che ruolo possono avere gli Stati Uniti all’interno di questi scenari?

La vittoria di Biden ha significato questo: non arrendersi a una deriva nella quale ognuno finisce per chiudersi dentro le proprie mura, convinto che gli altri siano più deboli e abbiano tutto da perdere (questa era invece la filosofia di Trump). Oggi i problemi sono tali che nessun paese da solo può risolverli, e quindi bisogna convincere gli altri. Draghi ha detto delle cose molto belle al G20, proprio in questa chiave: non aspettiamoci che da questi vertici escano soluzioni miracolose; deve piuttosto emergere un metodo, il metodo del confronto. Anche in questa circostanza Draghi ha dato la dimostrazione di essere un leader a livello mondiale, come probabilmente il nostro paese non vedeva da tempo.

La rete ha cambiato il modo di fare politica. Come si può utilizzarla nel modo migliore per rendere il dibattito pubblico più partecipato e approfondito?

Spesso le persone della mia generazione tendono a sottovalutare la rete, o peggio a disprezzarla. Naturalmente è vero che attraverso la rete circola un mare di banalità, fake news, cialtronerie, faziosità, e commettiamo il classico errore di darne la colpa allo strumento come si faceva in passato anche con la televisione. Ma le cialtronerie ci sono sempre state anche se non riuscivano a diffondersi con la facilità oggi consentita dalla rete. Aver aperto la pentola di quella che era la grande massa muta di chi non aveva la possibilità di esprimere – anche rozzamente – i propri sentimenti e il proprio modo di pensare non è un problema. Anzi, è stato un fatto positivo, perché adesso sappiamo di dover fare i conti con questa realtà che in passato non preoccupava perchè era costretta a contenersi nei limiti imposti da tanti strumenti di mediazione e di filtraggio che oggi non ci sono più. Quindi non bisogna criminalizzare la rete. Bisogna invece adottare un atteggiamento propositivo.

In che modo?

È necessario ricostruire tramite internet degli strumenti che servano da affidabili punti di riferimento. Quel rapporto di fiducia che una volta legava i cittadini alla rappresentanza attraverso i partiti, i sindacati, la stampa, la radio, va riformulato all’interno della rete attraverso processi che sono ancora in fase di definizione ma che già si cominciano a intravedere. Il liberalismo non ha nulla da perdere nella ricerca di nuovi luoghi di confronto (anche digitali), dove si discuta delle cose, dei problemi, cercando di individuarli per suggerire delle soluzioni in chiave liberale. Non serve oggi elaborare nuove teorie di aggiornamento del liberalismo, compito peraltro che le università umanistiche svolgono perfettamente, svolgendo in tal modo una funzione preziosa per le èlites intellettuali. Il problema è trasmettere dalle élites ai grandi movimenti di massa sentimenti, emozioni, metodi di confronto, senso di responsabilità che sono indispensabili in una democrazia moderna. Io credo che su questo sia necessario fare una profonda riflessione. L’Italia può essere un buon laboratorio di sperimentazione, da questo punto di vista.

Perché proprio l’Italia?

Perché gli altri paesi europei – e anche non europei – hanno delle strutture politiche funzionanti e meccanismi di trasmissione tra ceti sociali che da noi non esistono più. Per questo, paradossalmente, siamo il luogo ideale – tra le democrazie avanzate – dove è possibile sperimentare modi nuovi di governare, anche utilizzando in maniera positiva le opportunità offerte dalla rete. La rete deve essere interpretata come uno strumento flessibile, aperto e coinvolgente, in grado di allargare le maglie del dibattito pubblico. Oggi, al contrario, i social portano spesso all’atomizzazione, per cui ad esempio il militante di un partito guarda solo contenuti riferibili alla propria parte politica. Sembra di essere tornati ai tempi lontani quando i comunisti leggevano soltanto l’Unità e ogni partito chiudeva i recinti delle rispettive basi elettorali per impedire che il confronto uscisse dai corridoi impenetrabili dove i vertici gestivano i necessari compromessi. Io credo che la potenzialità della rete sia quella del confronto aperto e senza pregiudizi. Se non riesce ad essere questo, si ritorna alle contrapposizioni frontali in cui maturavano gli estremismi fondamentalisti.

C’è spesso l’impressione che i partiti siano oggi semplicemente la proiezione delle ambizioni dei loro leader: tra l’altro, quasi sempre, personalità molto modeste quando non palesemente inadeguate. Non c’è un dibattito interno, non si confrontano orientamenti generali o progetti contrapposti. C’è un declino delle classi dirigenti oppure è un problema connesso con i nuovi metodi di selezione del personale politico?

È cambiato tutto con la seconda repubblica. I partiti della prima repubblica, con tutti i loro difetti, garantivano una certa selezione. Sono stati sostituiti da leadership personali spesso impersonate da dilettanti. Berlusconi per esempio è un dilettante della politica perché è arrivato al governo senza aver fatto nessuna delle esperienze di governo (enti locali, partiti, parlamento) che dovrebbe fare chi vuole dedicarsi agli affari pubblici. Molto spesso anche altrove i leader populisti sono dei dilettanti della politica; valga per tutti l’esempio di Trump. Il populismo infatti si nutre dell’anti-politica, cioè di un sentimento di sfiducia nei confronti dei decisori politici, qualunque sia il loro colore. L’esperienza politica in tale contesto diventa un dis-valore.

Esiste un sistema per rinnovare la forma partito in modo tale da avere una classe dirigente all’altezza delle necessità del paese?

Si parla spesso di modello tedesco. Ma io penso che la situazione in Italia sia molto diversa. I partiti tedeschi – non da oggi – dispongono di valide strutture per formare la loro classe dirigente. Lì sarebbe impossibile un fenomeno dilettantesco come quello dei Cinque Stelle i quali del proprio dilettantismo hanno menato vanto, in contrapposizione alle degenerazioni del professionismo politico da loro definito “casta. E certamente la casta non va bene. Ma una classe dirigente ben formata è indispensabile per il buon funzionamento di una democrazia. Dove, come in Germania o in Inghilterra, ci sono partiti solidi, con una classe dirigente formata in maniera adeguata, c’è anche la legittimazione reciproca tra idee diverse, che noi ignoriamo. In questi ultimi vertici internazionali, la Merkel è andata assieme a quello che probabilmente sarà il prossimo cancelliere, che non è neanche del suo partito: è un segno di continuità istituzionale. Te la immagini una cosa simile da noi?
Non è un caso che nei momenti di crisi, quando si tratta di mettere i piedi in terra e risolvere problemi concreti, la maggioranza silenziosa del nostro Paese si rivolga a figure affidabili e prestigiose, talvolta travestite da tecnici, in grado di aggirare le fragilità strutturali dei partiti: l’ha fatto con Ciampi, poi con Monti, oggi con Draghi. Governatori di banche centrali o rettori di università che diventano capi del governo per investitura sovrana (anche quando il sovrano è la pubblica opinione) e vengano acclamati da parti politiche fino al giorno prima ferocemente contrapposte non ne conosco né in Francia, né in Germania, né in Gran Bretagna. Ma l’Italia è la patria della commedia dell’arte dove le parti si scambiano e gli spettatori non se ne scandalizzano.

 

Intervista a cura di Saro Freni