Una buona informazione è fondamentale per una buona democrazia: senza l’una, l’altra non può prosperare. In questo recente volumetto – I diritti dei lettori. Una proposta liberale per l’informazione in catene (Biblion Edizioni, 2020) – Enzo Marzo affronta questo inscindibile legame, riprendendo e aggiornando alcune sue precedenti riflessioni. Leggendo il libro – così come il più vecchio Le voci del padrone. Saggio sul liberalismo applicato alla servitù dei media – si capisce che padroni e catene esistono anche perché molti giornalisti trovano utile mettersi al servizio e farsi incatenare. A giudizio dell’autore, un serio rinnovamento della nostra vita nazionale “non potrà realizzarsi senza una vera resa dei conti, senza una riflessione critica di quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni, quando la gran parte della classe dirigente (non solo quella politica) ha immiserito il Paese, ha violato, addirittura irriso, le regole dello Stato di diritto, ha svuotato le istituzioni e ha fatto dilagare corruzione, evasione fiscale, egoismi. Ha inoltre depenalizzato ogni mascalzonata ed eliminato ogni sanzione effettiva, non solo in termini giuridici, ma, ciò che è più grave, nel giudizio morale e politico degli individui.” Enzo Marzo non sposa l’idea di un giornalismo notarile, fintamente neutrale. Pensa piuttosto ad un giornalismo indipendente, animato da forti idealità e da una rigorosa etica professionale. Propone uno statuto dei lettori, che ne metta al centro i legittimi interessi ad un’informazione non manipolata.
Il libro aiuta a ragionare su alcune significative questioni generali che riguardano il rapporto fra il cittadino e il potere. Vi sono infatti numerosi problemi strutturali che ostacolano la nascita di un sistema informativo valido e credibile: la vicinanza con il potere politico e talvolta la vera e propria identificazione di alcuni mezzi d’informazione con interessi di partito o di fazione; il ruolo giocato dal monopolio della Rai e poi dal duopolio tra questa e Mediaset, quella spartizione del mercato televisivo che ha consolidato gli equilibri creatisi negli anni ottanta a dispetto delle regole della concorrenza e del mercato; l’anomalia costituita dal conflitto d’interessi berlusconiano, che ha inquinato per anni la vita pubblica senza mai giungere ad una soluzione accettabile; il lungo e pervasivo condizionamento dei principali gruppi industriali italiani – pubblici e privati – su giornali che si rivolgono a una platea di lettori sempre più striminzita. A questi elementi di fondo bisogna aggiungere i problemi legati al costume civile del nostro Paese, su cui si è sedimentato un antico retaggio di servilismo e cortigianeria, conformismo di massa e ossequio verso quelli che Ernesto Rossi chiamava i padroni del vapore. Su questi tratti del nostro carattere nazionale hanno pesato e pesano anche i limiti delle nostre élite, incapaci di assumere la direzione politica del Paese fungendo da esempio e da guida, e propense invece ad assecondare gli umori peggiori e le facili demagogie mescolando cinico paternalismo, populismo plebiscitario, massimalismi di ogni sorta e astuzie curiali, nel quadro del vecchio e collaudato sovversivismo delle classi dirigenti.
Questi fattori hanno impedito – o comunque reso molto difficile – la nascita di un’opinione pubblica attenta ed esigente. “Se le masse non hanno strumenti corretti e plurimi” – scrive Marzo – “per farsi un’idea appropriata dell’agenda politica, sarà sempre più illusoria la loro trasformazione in ‘società civile’ in grado di svolgere costantemente una verifica e una valutazione dell’operato del governo e delle forze politiche che si candidano alla sua sostituzione.” Non è stato sufficiente il lavoro encomiabile di quei giornalisti che – spesso pagandone grossi prezzi – hanno dato e danno ripetute prove di autonomia e coraggio. E tuttavia le trasformazioni tecnologiche – che consentono oggi la proliferazione di nuove voci attraverso internet – aprono uno scenario molto interessante, che va guardato con grande attenzione. Esiste il rischio della cacofonia, della dispersione, dell’improvvisazione; ma anche una notevole opportunità di arricchimento culturale, fondato sulla più ampia pluralità di idee e punti di vista.
Hegel diceva che la lettura del giornale è la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Di questa preghiera oggi molti fanno a meno, rivolgendosi altrove per ottenere notizie e commenti. Fanno bene, se questa scelta nasce dalla considerazione dei limiti dell’informazione tradizionale; fanno male, se pensano di poter trovare di meglio nella cosiddetta informazione televisiva, fatta molto spesso – al netto delle ovvie eccezioni – di urla, liti, risse da comari, slogan, propaganda, sensazionalismo, superficialità, servi sciocchi, conduttori compiacenti e fenomeni da baraccone. È molto più istruttivo – per comprendere il mondo che ci circonda – leggere un libro come quello di Enzo Marzo. Non prenderà il posto della preghiera del mattino, come la lettura del quotidiano; ma potrà costituire un ottimo e laicissimo breviario per sostituire quella della sera.

 

Saro Freni
15 febbraio 2021

La locuzione white knight è utilizzata dagli economisti per indicare qualcuno che interviene a salvare un’azienda pericolante. In politica lo chiamiamo enfaticamente “salvatore della Patria” ma il concetto è lo stesso.
Ogni qualvolta il sistema politico italiano si inceppa (per le ragioni più diverse) il Capo dello Stato chiama un “cavaliere bianco” a scioglierne i nodi: è successo con Guido Carli (ministro del tesoro negli anni difficili della lira dal 1989 al 1992), con Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini nella lunga crisi istituzionale che segnò il passaggio dalla prima alla seconda repubblica (dal 1993 al 1996), con Mario Monti nel 2011 quando il Paese pareva avviato a precipitare in un default finanziario ed economico senza precedenti. I “cavalieri bianchi” devono avere alcune caratteristiche: essere esperti di economia (e conseguentemente quasi sempre provenienti dalla Banca d’Italia), rivestire incarichi accademici prestigiosi, godere di buona considerazione negli ambienti politici europei e nella finanza internazionale, conoscere quanto basta i complicati meccanismi del sistema politico italiano senza lasciarsene troppo condizionare. Mario Draghi, giunto nel 2011 a presiedere la Banca Centrale Europea inserendosi abilmente come soluzione di mediazione nel conflitto che divideva francesi e tedeschi sulla politica monetaria europea, risponde perfettamente a tali requisiti.

Draghi
Naturalmente ogni cavaliere bianco costituisce una storia a sé; Draghi è stato convocato al Quirinale in condizioni assai differenti dai precedenti che ho ricordato e chiamato a risolvere problemi del tutto diversi. Non si tratta di imporre sacrifici ma, al contrario, di spendere bene le importanti risorse già acquisite in sede europea senza disperderle in tanti rivoli assistenziali e clientelari per concentrarle su alcune leve fondamentali per il futuro del Paese: infrastrutture materiali (trasporti, reti di comunicazione) e culturali (scuola e ricerca), rimodulazione fiscale che favorisca le imprese che generano occupazione stabile, efficienza della giustizia civile, modifica delle procedure decisionali ed esecutive per renderle più rapide e fluide. Se poi il “cavaliere bianco” riesce ad avere sufficiente consenso potrà anche avviare quelle riforme istituzionali di cui tutti riconoscono la necessità ma che sempre si arenano tra veti e convenienze elettorali di poco conto: per esempio una riforma del Senato che faccia uscire l’Italia (unica in Europa) da un paralizzante bicameralismo “perfetto”, una revisione del titolo V della Costituzione che chiarisca le competenze delle Regioni e degli enti locali, una definitiva legge elettorale “costituzionalizzata” che metta fine allo scandalo ricorrente delle leggi elettorali “su misura”, ecc.
Non si tratta di compiti facili. Dietro ogni questione si nascondono interessi consolidati, resistenze corporative, abitudini clientelari che utilizzano il ricatto elettorale per garantire privilegi acquisiti, localismi anche legittimi che rischiano tuttavia di sottrarre risorse alle priorità nazionali. Anche per questo il “cavaliere bianco” deve saper prendere le distanze non dai partiti ma dai loro calcoli elettorali richiamandoli alla loro funzione stabilita dall’art. 49 della Costituzione di “determinare con metodo democratico la politica nazionale” e non di difendere gli egoismi degli interessi particolari.
Naturalmente facile a dirsi, difficile a farsi. Davanti a Draghi tutti finiranno per aprire i cancelli delle rispettive ridotte; gli ostacoli verranno dopo quando il capo del governo dovrà schivare le trappole che verranno nascoste sul suo cammino. Nel suo compito potrà contare sull’aiuto di Mattarella, non tanto nelle sue funzioni di Capo dello Stato quanto piuttosto come esperto navigatore politico da tanti anni impegnato a mediare le complessità del nostro sistema politico.
“In bocca ai lupi” caro Draghi. Il tuo mandato durerà un anno e verrà inevitabilmente a cessare con l’elezione del successore di Mattarella nel febbraio del 2022; a quel punto o salirai al Quirinale spinto da un plauso generale, come fu per Ciampi, oppure andrai a fare compagnia a Monti in quelche oscura saletta di palazzo Madama.

 

Franco Chiarenza

7 febbraio 2021

Ci sono miliardi di stelle in cielo e soltanto cinque nel nostro panorama politico, ma ci bastano. Anche perchè non somigliano alla costellazione che tutti conosciamo, l’Orsa minore, ben nota da secoli perchè nella sua coda brilla la stella polare, rotta sicura per naviganti incerti o dispersi. Quello che manca alle nostre Cinque Stelle è proprio la stella polare: dove andare, con chi, per che cosa. Stanno fisse, immobili, senza che alcun chiarimento ne definisca orientamenti e prospettive. Non costituiscono un problema, sono il problema, se non altro perchè occupano la maggioranza relativa dei seggi parlamentari.

Grillo: se ci sei batti un colpo
E’ lui – insieme a Casaleggio – che ha messo in moto lo tsunami con il famoso “vaffa” del 2007 con l’intento di mandare a spasso l’intero sistema politico per sostituirlo con una democrazia diretta che nelle loro intenzioni poteva essere realizzata attraverso le nuove reti di comunicazione interattive. I suoi discepoli sono arrivati in parlamento dichiarando di volerlo aprire come una scatola di sardine, i suoi ministri sono passati da un’alleanza all’altra sul presupposto che i compagni di viaggio, di qualunque colore fossero, non gli avrebbero impedito di realizzare il loro programma anti-progressista, confusamente ispirato alle teorie della “decrescita felice”. Sono riusciti in effetti a impedire molte cose ma ne hanno realizzate poche, a parte il reddito di cittadinanza che, per come è stato attuato, è consistito in una costosa distribuzione di sussidi senza accompagnarsi a una credibile strategia di rilancio dell’occupazione (che per noi liberali è l’unico modo serio di combattere la povertà e contribuire alla crescita del Paese). Divisi al loro interno tra un’ala “movimentista” che trova in Di Battista il suo personaggio di riferimento, e settori più riflessivi che si sono dovuti confrontare con le difficoltà reali di governo, traumatizzati da sondaggi che prevedono il dimezzamento della loro consistenza elettorale, i Cinque Stelle si interrogano sul loro futuro. Ma ciò che conta realmente, almeno per noi, non è il loro futuro ma il loro presente, considerando che la paura di andare a una incerta verifica elettorale paralizza il partito democratico. E poiché sembrano incapaci di esprimere una leadership condivisa (o almeno maggioritaria) tutti si chiedono se il “fondatore” Beppe Grillo sia in grado di uscire dalle nebbie delle allusioni vaghe, delle battute imbarazzanti, e andare oltre la dimensione demagogica dei “vaffa” e dei “tumorifici” che ha condannato il Paese all’inerzia e alcune grandi città alla sporcizia permanente.

L’errore di Renzi (se tale è stato) non è consistito nell’ostinarsi a pretendere la testa di Conte ma nel credere che questo fosse il problema. Prendersela col mediatore perchè una delle parti è poco affidabile è un gioco pericoloso, a meno che non si voglia in realtà fare fallire l’intesa. Immaginare una soluzione tecnica o super-partes sponsorizzata dal Capo dello Stato non mi sembra una strada praticabile e si rivelerebbe un viottolo scosceso con molte probabilità di sfociare comunque in elezioni anticipate. E non è detto che il voto produrrebbe in termini di governabilità un parlamento molto diverso da quello attuale, specialmente se, come è possibile, Giuseppe Conte, forte della sua popolarità, scendesse in campo con una propria lista.

 

Franco Chiarenza
27 gennaio 2021

 

Ps: Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul Corriere del 22 gennaio un forte articolo sulla necessità di riformare il nostro sistema politico, indicando anche alcune soluzioni. In quanto liberale qualunque, e ben sapendo che Galli della Loggia rifiuterebbe la qualifica di liberale, mi congratulo e tengo a dire che del suo articolo condivido tutto. Se non vuole accettare il conferimento onorario di liberale accolga almeno quello di “italiano qualunque” (che è il contrario di “qualunquista”).
Fch.

Ansiosi di assistere il 20 gennaio a una bella scena stile farwest con Trump asserragliato nella Casa Bianca con le corna in testa e il mitra spianato mentre Biden e i suoi dai tetti circostanti cercano di farlo sgombrare, gli italiani si sono distratti dalle noiose vicende politiche di casa nostra; forse perché sono sempre uguali e molto meno pittoresche (ve lo immaginate Renzi armato di pistola che entra a palazzo Chigi e costringe Conte a saltare dal famoso balcone dove Di Maio brindava alla fine della povertà?).
E però in attesa che Renzi si procuri un’arma che sia in grado di sparare non a salve, delle manovre in corso nei palazzi della politica italiana bisogna pure occuparsi al di là della tipica consuetudine nostrana di dire/non dire, alludere, lanciare attacchi e accuse per poi prontamente smentirli, minacce, ricatti, ecc.. Una cosa è certa: la maggior parte dell’opinione pubblica è quanto meno perplessa perché non capisce come a fronte del problema che maggiormente preoccupa (ed è ancora la pandemia) si apra sostanzialmente una crisi di governo fondata su alchimie poco comprensibili. Anche coloro che criticano il governo per la sua inadeguatezza (tra cui il sottoscritto) pensano che non ci siano alternative praticabili se non un rimpasto che francamente non pare decisivo per le sorti della Repubblica. A meno che non si voglia arrivare ad elezioni anticipate in primavera (ultima scadenza utile prima del “semestre bianco”), eventualità che tutte le componenti della maggioranza dicono di escludere.

Odore di soldi
La verità è che tutto gira intorno ai 200 miliardi del Recovery Fund. Chi deve gestirli e come. Una volta tanto il problema è serio e non riguarda le solite logiche spartitorie connaturate al sistema politico italiano ma qualcosa di più importante, quale idea di Paese si vuole privilegiare in questa irripetibile occasione. Da questo punto di vista la partita è effettivamente decisiva: non si tratta di poltrone e strapuntini da ridistribuire e le opzioni di fondo (a prescindere dai soliti “distinguo” e dalle perenni ovvietà onnicomprensive) sono abbastanza chiare. Da un lato coloro che ritengono che i fondi europei, in consonanza col “Next generation” di Ursula van der Leyen, debbano essere destinati agli investimenti strutturali di cui l’Italia ha bisogno per tornare a crescere recuperando gli anni perduti, dall’altra parte quanti guardano al passato (più immaginario che reale), a nostalgie ingiustificate e pericolose, in esse cercando una protezione dagli inevitabili cambiamenti che ci attendono. Una posizione quest’ultima che mortificando l’innovazione e ridimensionando il rischio imprenditoriale si affida a un salvifico e invasivo intervento dello Stato senza preoccuparsi troppo se con esso si finiscano per accettare limiti e condizioni alla nostra libertà individuale.
Chi come me si riconosce nella cultura liberal-democratica non può che sostenere la prospettiva indicata dall’Unione Europea e si attende dal governo una chiara indicazione delle priorità e dei modi e tempi della loro realizzazione. E quando parla di strutture intende non soltanto quelle fisiche come i trasporti o le reti digitali ma anche riforme da lungo tempo attese come quella del fisco che faccia uscire il nostro Paese da un sistema primitivo di balzelli e sussidi variamente distribuiti secondo le convenienze elettorali per raggiungere finalmente l’obiettivo di rendere trasparenti e prevedibili i prelievi, condizione indispensabile per facilitare gli investimenti.
Next Generation per chi non lo sappia significa “future generazioni” ed è a loro vantaggio che dovrebbe essere indirizzata la maggior parte dei fondi che l’Unione ci ha assegnato: quindi soprattutto la scuola e la formazione in generale che vanno riprogettate in funzione delle sfide del futuro. Per muoversi velocemente in questa direzione occorre un piano dettagliato che rispecchi una filosofia di sviluppo sostenibile in sintonia col nuovo modello europeo che si cerca di costruire per metterlo in grado di fare la sua parte nei processi di globalizzazione che la pandemia potrà cambiare ma non fermare. Purtroppo – ed è questo il vero problema – il maggior partito di governo, cioè i Cinque Stelle, non ha ancora deciso da che parte stare, né la loro recente “convention” è servita a fare chiarezza.
Giuseppe Conte è al centro di questa tenaglia: si è impegnato con Bruxelles a portare avanti a oltranza la prima opzione ma deve quotidianamente mediare con le ambiguità dei Cinque Stelle e di alcune componenti dello stesso PD che non vedono di malocchio un’espansione ulteriore dello stato assistenziale. Renzi è entrato nella questione a gamba tesa nel modo spavaldo che gli è proprio ma ha almeno il merito di avere scoperchiato la pentola in ebollizione consentendo agli odori (più o meno maleodoranti) di uscire dalla cucina.

Cinque stelle sono troppe
Al centro di tutto, come al solito, ci sono loro: i Cinque Stelle. Forti di una maggioranza parlamentare che non corrisponde più agli umori del Paese, decisi a mantenere le posizioni fino alla fine, ma anche loro intrappolati perchè il loro potere si identifica necessariamente con la persona del presidente del Consiglio e per questo non acconsentiranno mai a sostituirlo, come vorrebbe Renzi. E’ prevedibile che presto le carte torneranno in mano a Mattarella, politico consumato e tutt’altro che “super partes”, ma forte di un ampio prestigio che ha saputo conquistare e certamente consapevole che il suo ruolo istituzionale non gli consente soluzioni che non dispongano di una chiara maggioranza parlamentare. Altrimenti ci sono le elezioni col rischio però che il loro risultato non cambi molto la situazione e anche l’Italia cada in una sindrome politica come quelle che abbiamo visto in Spagna e in Israele: elezioni ripetute alla ricerca di una maggioranza stabile introvabile, prova evidente della incapacità dei sistemi elettorali proporzionali di assicurare quella governabilità di cui hanno bisogno più che mai le democrazie liberali contemporanee.

 

Franco Chiarenza
11 gennaio 2021