© Eric Drooker – www.drooker.com

La diversità italiana riguarda anche il variegato mondo che si definisce liberale; soltanto da noi infatti si levano tante voci che in nome del rifiuto all’omologazione si smarcano da opinioni considerate effetto di pregiudizi orchestrati da mass-media compiacenti. Lo abbiamo visto coi no-vax difesi da alcuni noti intellettuali e lo rivediamo oggi per l’Ucraina. Mi chiedo: davvero essere liberali significa fare i bastian-contrari ad ogni costo? La mia risposta è no perché altro è garantire la libertà di espressione, altro condividere alcuni contenuti per il solo fatto che contestano il parere della maggioranza. Poiché appartengo alla scuola del liberalismo metodologico (per il quale si è liberali più per il metodo che si adotta nel confronto che non per la qualità dei contenuti) credo che i liberali nel discutere di questi problemi debbano distinguere le questioni di principio dall’analisi dei fatti.

Sui no-vax, per esempio, c’è una questione di principio dalla quale i liberali non possono derogare: la libertà di ciascuno trova il suo limite nel rispetto dei diritti altrui. Se quindi si dimostra che determinate azioni provocano danno agli altri (per esempio tramite contagio infettivo) l’obbligo di vaccinazione è perfettamente compatibile con l’essere liberali. Naturalmente si può contestare che la libera circolazione sia davvero dannosa, e non, come insinuano alcuni no-vax, pretesti per limitare i diritti individuali, ma bisogna dimostrarlo in maniera convincente. Altrimenti scatta un altro principio liberale per il quale in caso di dissenso tra opinioni diverse prevale quella che raccoglie i maggiori consensi, il che si misura – almeno fino ad oggi – attraverso gli strumenti che la democrazia rappresentativa ci mette a disposizione: parlamento e governo. Ciò vuol dire che i liberali contestano ai dissenzienti il diritto di manifestare? Assolutamente no; le manifestazioni, quando non si trasformano in azioni violente, sono tutelate dalla Costituzione e rientrano nella libertà di esprimere con ogni mezzo il proprio pensiero. E allora? Allora significa soltanto che i no-vax non possono definirsi liberali, pur restando liberi, nell’ambito della legalità, di manifestare il proprio dissenso “illiberale”.

Nel caso dell’Ucraina la questione di principio preliminare è ancora più netta. Aggredire militarmente una nazione sovrana è sempre e comunque inaccettabile, qualunque siano le giustificazioni addotte; ancor di più se chi aggredisce rivendica un diritto alla “difesa preventiva” che trasformerebbe il mondo intero in una rissa permanente. L’Ucraina per esempio è stata attaccata dalla Russia per il timore che, pur esercitando la propria legittima sovranità, potesse trasformarsi in una base militare ostile; ma essa, come altri stati federati, faceva parte dell’Unione delle Repubbliche sovietiche e, come altri, dopo lo scioglimento dell’URSS aveva optato nel 1991 per l’indipendenza, ottenendo il pieno riconoscimento della comunità internazionale (Russia compresa). Nessuno quindi aveva il diritto di interferire militarmente per limitare la sua sovranità, qualunque ne fossero le motivazioni. Chi pensa che tale questione di principio possa essere accantonata per ragioni geo-politiche o per motivi di convenienza, esprime legittimamente un’opinione (purtroppo molto diffusa) ma non può definirsi liberale. Tra le ragioni dell’intervento la Russia ha anche sollevato la tutela delle minoranze russofone presenti nel Donbass e in altri territori ucraini. In proposito va rilevato che il problema delle garanzie per le minoranze costituisce un problema assai diffuso in tutto il mondo (e persino in Italia) ma è da tempo considerato come questione da regolare attraverso accordi che non mettano in discussione i confini nazionali riconosciuti dalla comunità internazionale che oggi si esprime essenzialmente nella partecipazione all’ONU, di cui l’Ucraina è membro a pieno titolo sin dal 1991.
Detto ciò si potrebbe por fine al dibattito. Ma nel caso dell’Ucraina il contesto geo-politico, da mantenere ben separato dalle questioni di principio, merita un approfondimento al quale, esaminate le tante diverse opinioni, non mi sottraggo.

La prima delle ragioni dei “giustificazionisti” (dell’aggressione russa) consiste sostanzialmente nei comportamenti “provocatori” della NATO che, violando gli impegni presi dopo la scomparsa dell’URSS, avrebbe inglobato nell’alleanza tutti i paesi dell’Europa orientale che erano membri del patto di Varsavia, aggiungendovi quelli baltici che si erano resi indipendenti. Se anche l’Ucraina – come aveva chiesto – fosse entrata a far parte della NATO i suoi missili sarebbero stati a poca distanza dalla Russia compromettendone la sicurezza. E’ un argomento che colpisce l’opinione pubblica meno informata e consente di distribuire equamente tra le due parti in conflitto la responsabilità di una guerra che, ovviamente, fa orrore a tutti.
Però le cose non sono andate così. E’ vero che dopo il crollo del muro di Berlino vi erano stati generici affidamenti verbali da parte americana di non allargare l’ambito dell’alleanza atlantica ai paesi che si erano liberati dal giogo sovietico, ma non ne era seguito alcun impegno ufficiale; anche perché i paesi interessati hanno insistito per farne parte. Poteva la NATO rifiutare protezione a paesi che la chiedevano proprio perché avevano fondate ragioni per difendersi dall’imperialismo russo? Si potrà obiettare che gli USA pretesero la smobilitazione dei missili sovietici a Cuba nella famosa crisi del 1962 ma dopo averla ottenuta (in cambio peraltro di misure analoghe in Turchia) il governo di Washington ha sempre rispettato la sovranità cubana, limitandosi a contrastarla con misure economiche (sanzioni) e politiche; insomma i carri armati – piaccia o no – fanno la differenza, tant’è che ancora oggi, a cinquant’anni di distanza a Cuba governa un regime esplicitamente anti-americano.
Ma anche se le nefandezze attribuite alla NATO fossero vere forse ciò potrebbe giustificare quelle che Putin sta perpetrando in Ucraina? Quando l’America ha compiuto interventi armati ingiustificati o comunque discutibili, giornali, opinionisti, intellettuali, uomini politici di parte avversa, si sono giustamente scatenati contro il governo di Washington; non ho visto nulla di simile in Russia dove le poche centinaia di giovani coraggiosi scesi in piazza per protestare sono spariti dalla circolazione senza che nessuno se ne scandalizzasse.
Certamente anch’io – come altri liberali – sono convinto che negli anni ’90, dopo il crollo del regime comunista non si colse l’occasione per trasformare l’alleanza atlantica in uno strumento diverso volto a garantire pace e sicurezza nelle “aree calde” dell’emisfero occidentale in collaborazione con la Russia e non contro di essa. In un primo tempo infatti i tentativi di incorporare la Russia in un sistema di coordinamento e stabilizzazione dettero qualche risultato (il G7 per esempio divenne G8 con la Russia) ma non si andò molto oltre per il prevalere a Mosca di un regime sempre più autoritario (elezioni truccate, oppositori imprigionati, stampa imbavagliata, ripudio dello stato di diritto, “superamento” del liberalismo”) che allarmavano i paesi europei, confinanti e non. Peraltro, malgrado il peggioramento delle relazioni, la presenza militare della NATO non ha mai assunto dimensioni tali da potere costituire una minaccia per la Russia essendo le forze armate russe di gran lunga superiori (anche nello spiegamento di armi nucleari). Per di più la NATO, malgrado le incessanti richieste dell’Ucraina e della Georgia (quando la sua sovranità non era ancora stata limitata da Putin; ma nessuno ricorda tale precedente) è stata molto prudente e non ha mai allargato ulteriormente il suo perimetro.
Un altro argomento molto usato dai “giustificazionisti” è quello della neutralità e del disarmo dell’Ucraina come richiesta legittima della Russia. Ma esso rientra in quello più ampio (e di principio) della legittimità di imporre limitazioni alla sovranità di altri paesi, non soltanto nei fatti ma anche formalmente; in proposito si citano i precedenti dell’Austria e della Finlandia dimenticando però che si tratta di due paesi usciti sconfitti dal crollo del nazismo nel 1945 i quali, come avvenne anche per la Germania e l’Italia, non poterono fare valere le proprie ragioni quando i vincitori ne decisero i destini. Per l’Ucraina è diverso, si tratta di legittimare l’uso delle armi per coartare la volontà di un altro popolo. Si chiama guerra (e non è un caso che Putin non voglia definirla tale). Comunque poiché la politica (soprattutto quella internazionale) è fatta di compromessi, alla fine probabilmente i russi riusciranno a imporre una soluzione del genere; ma non viene in mente ai liberali che si tratta di una misura che limitando la libertà degli ucraini di decidere da che parte stare non è compatibile con i principi di autodeterminazione a cui dicono di ispirarsi?
Infine resta l’Europa. Sull’adesione dell’Ucraina all’Unione le obiezioni dei “giustificazionisti” sono più deboli, limitandosi a porre la condizione che il paese a sovranità limitata non entri a far parte di eventuali future forme di integrazione politica e militare. Se proprio l’Ucraina vuole far parte del parlamento europeo faccia pure, purché sia chiaro che prima di votare al Consiglio dei capi di stato e di governo a Bruxelles il governo di Kiev farà bene a consultarsi con Mosca.

Ai “giustificazionisti geopolitici” che teorizzano il diritto dei più forti di ottenere garanzie dai più deboli (invece del contrario, come ogni liberale dovrebbe volere) si aggiungono gli opportunisti, quelli che dicono che non bisogna aiutare la resistenza ucraina perché tanto non può impedire il peggio: meglio arrendersi senza tante storie e smettere di disturbare il nostro quieto vivere. Sono della stessa razza di quelli che non si sono mai schierati, il cui neutralismo è sempre servito a coprire la loro viltà, né coi nazi-fascisti né coi partigiani, né coi terroristi né con lo Stato, sempre grigi, pronti a schierarsi col vincitore e soltanto quando è chiaro chi ha vinto. Ci sono sempre stati, ci saranno sempre, non fanno la storia ma ne condizionano gli sviluppi collaterali. Quando non avranno altri argomenti diranno che non vogliono adeguarsi al pensiero unico. Sono liberali? Se lo fossero io dovrei collocarmi altrove.

P.S. Non ho trattato un’altra specie di “giustificazionisti” quella degli anti-americani “a prescindere”. Sono più numerosi di quanto si crede (anche in America) e sostengono tutte le accuse correnti contro l’egemonia degli Stati Uniti (di cui peraltro profetizzano soddisfatti l’imminente crollo ad opera dei benemeriti cinesi) in quanto portatori di un modello intrinsecamente illiberale perché fondato sulle diseguaglianze strutturali. Ad essi dico soltanto che un liberale, in prima fila nel criticare i difetti del sistema americano, considera l’equilibrio dei poteri che si è consolidato in duecento anni di storia l’esempio più significativo di una cultura liberale realizzata ma se proprio dovessi scegliere tra l’imperialismo americano e quelli che ci propongono Putin e Xi Jinpeng non ho dubbi dove collocarmi. Ma il bello è che non avrebbero dubbi nemmeno gli anti-americani (andandosi a rifugiare in America come hanno fatto i loro progenitori italiani, tedeschi e ebrei).
Conosco l’obiezione: né con gli uni né con gli altri, invece in Europa. Ma allora bisogna farla questa Europa politica e militare; il che ha dei costi non indifferenti. E quando mi volto per arringare questi europeisti del né mi ritrovo solo come Alberto Sordi all’uscita della galleria nel film “Tutti a casa”.

Franco Chiarenza
30 marzo 2022

Caro Franco,

ho letto il tuo “Russia: ieri, oggi, domani” e, nonostante sia un pezzo raziocinante come al solito, trovo abbia una carenza che desidero segnalarTi, convinto che un liberale, anche se ha il vezzo di qualificarsi qualunque, non possa trascurare un aspetto così essenziale per i liberali.

Al punto 3 tu richiami che, secondo gli accordi Helsinki del ’75, “i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare“. Poi al punto 5 richiami “un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata“. Ma dal richiamo non trai le conseguenze generali (decisive nella fattispecie), con la parziale giustificazione che era scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi. Così nel prosieguo sorvoli sulla mancata concessione dell’autonomia speciale che Putin ha reiteratamente richiesto invano anche la settimana precedente l’inizio delle attuali ostilità militari. Ma questo sorvolare non è accettabile. Primo perché il sostegno dei russi alla guerra civile nel Donbass è presunto (come quello degli ambienti Nato e della CIA dal ’14 in Ucraina o prima nelle primavere arabe o prima in Libia) ed anche successivo (d’altra parte le lotte tra filorussi e ucraini sono un retaggio storico, cioè una volontà dei popoli per usare una tua frase). Secondo perché non riflettere sui passaggi comprovanti gli interessi di Putin, è appunto il difetto di comportamento (che non a caso prescinde dal liberalismo) seguito dalla NATO e dagli ambienti super conservatori degli USA a fatica fronteggiati da Biden (e fatti trasparire con la frase di pochi giorni fa in cui Biden ha contrapposto esplicitamente le sanzioni alla terza guerra mondiale).

Il sorvolare sul dato di fatto della mancata attuazione dell’accordo per l’autonomia speciale, ha la gravissima conseguenza di accettare il ritorno alla guerra fredda, con la contrapposizione tra regime della libertà e regime comunista. E quindi di far riemergere come allora il pericolo della guerra atomica. Oltretutto, essendosi dimostrato nei fatti che la fine della guerra fredda ha prodotto molti vantaggi per la libertà nel mondo.

Il punto pericoloso della carenza in tema di liberalismo, sta qui: agevolare senza battere ciglio il ritorno alla guerra fredda. Non soltanto perché comporta pure il ritorno al rischio atomico. Ma in primo luogo perché esprimere l’idea che il ritorno a quel clima favorisca le democrazie libere. Oggi è l’esatto contrario. Perché sono di più i soggetti con armi atomiche, perché sono di più e maggiormente diffusi i motivi di tensione fatti emergere dalla crescita tecnologica e del livello di vita, perché sono di più i raggruppamenti di paesi attivi a livello internazionale con interessi divaricati. E soprattutto per la questione più importante: salvo i periodi in cui si fa la guerra vera e propria, la libertà vive di conflitti democratici ma non è esportabile (e neppure creabile con interferenze esterne di vario tipo) e deve essere fatta maturare nei luoghi in tensione. Ragion per cui i liberali non stanno a guardare sognando i marchi rispettivamente attribuiti alle varie nazioni, ma si attivano per far sì che i comportamenti reali nelle relazioni tra nazioni differenti siano il meno possibile distanti quelli della libertà. Quindi, se la prospettiva non è quella di voler arrivare alla guerra, aizzare l’opinione pubblica in modo massiccio contro gli stati avversari dipingendoli assalitori perfino al di là del vero e non tenendo conto dei loro espliciti punti di vista, è intrinsecamente illiberale.

Tanto più che i primi dello scorso febbraio a Pechino, nel comunicato stampa congiunto di Xi Jinping e Putin si denunciavano i cinque consecutivi allargamenti della Nato (fatto vero) e si insisteva sulle “legittime richieste per la sicurezza russa”. Dopo questo comunicato, i governi occidentali della NATO e degli USA avrebbero dovuto precipitarsi a premere su Zelensky – che è indiscutibilmente da loro assai influenzato – per indurlo a fare subito quello che non aveva fatto fino ad allora (l’autonomia speciale al Donbass) e a smettere con gli atteggiamenti provocatori funzionali alla guerra con la Russia. Naturalmente questo avrebbero fatto se fossero stati liberali. Ma lo sono esclusivamente a parole. E si comportano con l’esplicito obiettivo di sollevare i russi contro Putin (ma non dovevano essere evitati i tentativi di destabilizzazione negli altri paesi?).

Insomma, la carenza politica da colmare presto è quella dell’accettare l’omettere la cultura liberale. Che si batte senza incertezze contro la politica fatta di pure emozioni e incline alle pratiche illiberali effettive, anche se mascherate altrimenti. L’Ucraina non è un nuovo idealismo democratico e non combatte anche per noi europei (ragionamenti che per alcuni dovrebbero portare all’arruolare volontari per la libertà in Ucraina). Concetti simili appartengono solo alle stagioni di guerra. E occorre che ci decidiamo. O si passa alla terza guerra mondiale (sarebbe una follia che però giustificherebbe tali idee dissennate e illiberali) oppure, restando in pace, ci si comporta in modo coerente non aizzando l’opinione pubblica verso la guerra (tesi della cultura liberale). Perciò i liberali debbono presidiare con fermezza quest’ultima posizione e battersi senza sognare al fine di costruire in tutto il mondo, nel tempo, istituzioni più libere mediante il diffondere la pratica degli scambi nel segno della libertà civile e del senso critico per osservare e scegliere, che negli ultimi secoli ha pure prodotto in concreto un grande sviluppo economico sociale.

Raffaello Morelli

Caro Raffaello,

innanzi tutto ti ringrazio per l’attenzione che hai dedicato al mio scritto e scusami per il ritardo nel risponderti. Confrontarsi tra noi liberali è sempre utile; farlo con te richiede attente riflessioni perchè le tue idee non sono mai banali.
Vengo ai punti di contestazione che mi pare siano sostanzialmente due: la mancata autonomia al Donbass e la campagna anti-russa pregiudizialmente ostile.

Per quanto riguarda il Donbass è innegabile che gli accordi di Minsk prevedevano la concessione di un’autonomia speciale che, di fatto, non è stata nemmeno messa all’ordine del giorno da parte del governo ucraino. Dimentichi tuttavia che la guerra civile era già in corso e non si è arrestata in seguito agli accordi; anche ammesso (e non concesso) che la Russia non fosse già direttamente coinvolta nel conflitto, resta il fatto che esso è servito come pretesto per un’invasione che è andata ben oltre la questione delle minoranze russofone, mettendo in discussione gli stessi accordi di Helsinki sulla intangibilità dei confini. Addirittura Putin ha contestato la stessa legittimità dell’esistenza di uno stato ucraino, malgrado con esso esistessero da molti anni regolari relazioni diplomatiche. Il che fa presumere che altri stati dove vivono minoranze russofone (come i paesi baltici) corrano il rischio di vedere contestata la loro indipendenza. Naturalmente l’appartenenza alla NATO fa la differenza e questo spiega almeno in parte perchè Putin abbia scatenato una guerra preventiva per impedire che l’Ucraina ne seguisse l’esempio.
In effetti questo è il punto geo-politico: ha diritto una grande potenza nucleare di limitare la sovranità di uno stato confinante per garantire la propria sicurezza? Secondo Putin evidentemente sì, ma questa convinzione apre uno scenario inquietante se la sicurezza di uno stato è valutata dal governo del paese che ritiene di essere minacciato. La sicurezza può diventare il pretesto per condizionamenti di altro tipo (politici ed economici per esempio) che di fatto limiterebbero il diritto dei popoli di scegliere il modello di società che preferiscono. E poi in cosa consiste la minaccia alla sicurezza russa? Non certo nelle forze armate ucraine o baltiche; consiste nella NATO e in particolare negli USA che nell’alleanza sono preponderanti. Questo dunque è il vero nodo della questione: la Russia vuole allontanare la NATO dai propri confini perchè la ritiene un’alleanza ostile; ma è lecito il sospetto che il timore di Putin non sia limitato all’aspetto militare (anche perchè le forze schierate sono equivalenti e semmai in favore dell’armata rossa) ma piuttosto coinvolga una sfera di influenza che comprende il sistema politico e i contesti economici e sociali, esattamente come avveniva durante il regime comunista.
E’ quindi comprensibile e legittimo che le nazioni interessate non siano d’accordo e cerchino di difendersi. Quando un paese piccolo ha la sventura di confinare con uno grande che vuole imporre la sua egemonia ha due scelte: o accettarne una sostanziale subordinazione oppure allearsi con una grande potenza alternativa che funzioni da deterrente, come fece infatti (con successo) Fidel Castro quando si alleò con l’URSS per sfuggire alla colonizzazione americana. La resistenza ucraina quindi potrebbe essere spiegata non tanto per mantenere all’interno dei propri confini la Crimea e il Donbas quanto per la volontà di differenziarsi dall’involuzione politica ed economica della Russia.
Putin ha ragione quando sostiene che la cultura russa e quella ucraina hanno molti aspetti in comune; ma non quando ne trae come conclusione che non esista un’identità nazionale ucraina, la quale invece affonda le sue radici nei ruteni che hanno fatto parte per secoli dell’impero asburgico e che, diversamente dai russi, erano prevalentemente cattolici. Fu Stalin, con metodi brutali che ricordano sinistramente quelli che sta utilizzando l’attuale autocrate russo, a stroncare la resistenza ucraina e imporre la “russificazione” del paese.

Per quanto riguarda l’inopportunità di un ritorno alla guerra fredda e al clima di reciproca delegittimazione che l’avevano caratterizzata, posso convenire con le tue preoccupazioni ma rilevo che non si tratta soltanto del risultato di una campagna mediatica occidentale ma di un preciso obiettivo di Putin (da lui chiaramente enunciato) di tornare a una contrapposizione frontale per evitare contaminazioni che contrasterebbero il suo progetto di sperimentare nuove forme di democrazia plebiscitaria in grado di prendere il posto di quelle liberali ormai superate dalla storia (sempre parole di Putin).
Non bisogna dimenticare che la guerra fredda è stata una guerra come tutte le altre, anche se non combattuta sul campo, ed è stata vinta dall’alleanza occidentale anti-sovietica, piaccia o no; il che non poteva non comportare nuovi equilibri nell’Europa dell’Est anche per rispondere a una pressante richiesta di quei governi liberamente eletti, i quali nella dimensione economica dell’Unione Europea e in quella militare della NATO intendevano tutelare la loro sicurezza che non era certo minacciata dagli americani. Oppure conta soltanto la sicurezza della Russia che in realtà viene spesso confusa con quella del regime di Putin?

Non ho difficoltà ad ammettere che dopo la caduta del sistema comunista sovietico la NATO (e quindi pure noi) perse l’occasione di trasformare l’alleanza in un patto di non aggressione e di sicurezza che garantisse stabilità anche a contesti geo-politici in fase di trasformazione (Medio Oriente, Africa, ecc.). Il presupposto di tale nuova Alleanza però non poteva che essere l’accettazione dei principi di uno stato di diritto liberal-democratico (che nulla ha a che fare con l’esportazione della democrazia) almeno al proprio interno; se il progetto fallì fu responsabilità degli opposti estremismi con cui i liberali purtroppo devono sempre fare i conti.
Vi furono errori da parte della Nato? Certamente, a cominciare dall’infelice intervento contro la Serbia dopo l’implosione della Federazione Jugoslava. Ma non possono essere usati in nessun modo per giustificare quello che Putin sta facendo in Ucraina.
Se accettiamo il principio della liceità di interventi armati a tutela della propria presunta sicurezza si aprirebbe un vaso di Pandora incontrollabile: la Turchia di Erdogan contro i curdi, l’Iraq contro gli sciti, India contro Pakistan, Cina per riprendersi Taiwan. Anche noi potremmo schierare le nostre armate contro la Slovenia per riprenderci Capodistria e fare una guerra preventiva contro il Tirolo per difendere gli italiani di Bolzano! Il che guasterebbe i miei progetti di villeggiatura nel Renon.

Cordiali saluti

Franco

PS Naturalmente sarò lieto di pubblicare sul mio blog la tua lettera con la mia risposta. F.

Antonio era figlio di Gaetano Martino, il professore gentiluomo messinese che è stato negli anni ’50 ministro degli Esteri e finchè visse dirigente rispettatissimo del partito liberale. A lui si deve quella conferenza di Messina tra i ministri degli Esteri europei che rilanciò il processo della costruzione europea bloccato dalla bocciatura della CED e che nel 1957 portò ai trattati di Roma e alla creazione della Comunità Economica Europea, primo embrione dell’Unione. Di lui ho un ricordo piacevole per la sua capacità di ascolto quando cercava di stemperare i nostri ardori di giovani liberali anti-malagodiani e per la tranquilla saggezza in cui ritrovavo il meglio di una classe dirigente meridionale colta e paziente.
Antonio Martino fu eletto deputato nel 1993, ereditando naturalmente la base elettorale del padre, ed è stato anch’egli esponente importante del PLI al cui interno ha sempre rappresentato la componente di destra, divenuta minoranza durante le segreterie di Valerio Zanone e Renato Altissimo. Una posizione che derivava anche dai suoi studi economici e dalla condivisione delle teorie neo-liberiste di cui fu sempre convinto sostenitore. Nel breve periodo in cui anch’io feci parte della direzione centrale del partito (1988/89) mi trovai a condividere alcune sue posizioni critiche nei confronti della segreteria e mi chiese cosa mi spingesse ad appoggiare Altissimo. Gli risposi che anche se era vero che entrambi criticavamo la posizione attendista e troppo filo-governativa del partito (anche quando i voti del PLI non erano più determinanti per la maggioranza) io lo facevo per dare ai liberali una libertà di movimento che consentisse di intercettare un elettorato sempre più inquieto in cui affioravano preoccupazioni che il PLI avrebbe potuto rappresentare (ambientalismo, laicismo, rigore contro la corruzione, distanziamento dalla invadenza partitocratica, ecc.) mentre lui pensava alla creazione di un grande partito liberal-conservatore in grado di costituire un’alternativa all’alleanza tra cattolici e socialisti che stava paralizzando la dialettica politica del Paese.

Ho ricordato questo episodio perchè, meglio di tante analisi politologiche, esso spiega perchè Antonio Martino sia stato un convinto sostenitore di Silvio Berlusconi quando, con la sua discesa in campo si crearono le condizioni per la creazione di “Forza Italia” (di cui infatti orgogliosamente rivendicava la tessera n.2). La speranza di stemperare le evidenti propensioni populiste del leader ha sempre accompagnato la sua carriera successiva nei governi Berlusconi come ministro degli Esteri (1994/1995) e della Difesa (2001/2006). Emarginato di fatto dai settori in cui avrebbe potuto meglio esprimere le sue competenze (che erano soprattutto economiche), ha mantenuto compostamente il ruolo di rappresentare la faccia pulita di quello che poi si sarebbe trasformato in un partito personale, autocratico nella sua conduzione, con tratti profondamente illiberali nell’azione politica. Resta la sua testimonianza di gentiluomo, la sua ironia, il suo senso dello Stato. Le sue scelte d’altronde erano state quelle di una gran parte del vecchio gruppo dirigente del PLI; con lui condivisero l’illusione di un grande “partito liberale di massa” personaggi autorevoli come Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Raffaele Costa, Gianfranco Ciaurro, Antonio Marzano e molti altri.

Franco Chiarenza
8 marzo 2022