Foto: https://www.quirinale.it/

Il neonato governo Meloni non mi preoccupa. So con questa affermazione di scandalizzare gli amici liberali e, naturalmente, quelli di sinistra; ne spiego quindi la ragione.

Le radici, la cultura politica, la storia di Giorgia Meloni sarebbero preoccupanti se davvero potessero incidere in maniera significativa sull’azione di governo; in realtà ciò non può avvenire e se di qualcosa si deve dare atto alla giovane leader è di averlo compreso sfuggendo alla facile retorica paternalistica di Salvini e Berlusconi (i quali oltretutto – e questa è una sorpresa – non ne hanno ricavato alcun vantaggio). Un governo si qualifica per tre cose fondamentali: la politica estera, l’intervento pubblico nell’economia, la sicurezza. Il resto riguarda il funzionamento ottimale della pubblica amministrazione e può essere modificato soltanto con profonde riforme di struttura che per essere valide richiedono un consenso più ampio delle effimere maggioranze parlamentari; anche perchè rischiano di essere molto costose, non tanto in termini economici, quanto di consenso elettorale: parlo di giustizia, scuola, sanità, previdenza e assistenza (ivi compresa l’annosa questione dell’età pensionabile).

La politica estera
Giorgia Meloni ha subito sgombrato il campo da ogni ambiguità: la fedeltà all’alleanza atlantica ne resta il caposaldo con ciò guadagnandosi almeno la neutralità dei sospettosi americani che non avevano gradito le frequentazioni putiniane di Salvini e Berlusconi. Per quanto riguarda l’Europa l’avversione di Fratelli d’Italia ad ogni forma di ulteriore integrazione era troppo nota per essere platealmente contraddetta, ma in un momento in cui la solidarietà europea (di cui abbiamo estremo bisogno) è messa in crisi non dal gruppo di Visegrad ma dall’asse tedesco-olandese, tutto lascia pensare che il suo sovranismo, almeno per ora, finirà abbastanza ridimensionato. La nomina di Tajani a ministro degli Esteri e il lungo colloquio con Macron che “casualmente” si trovava a Roma nel giorno dell’insediamento del nuovo governo sembrano confermare la continuità con la linea Draghi.
Il resto non conta, salvo la Libia. Ma anche lì ogni azione che non sia velleitaria passa fatalmente dall’Europa e in particolare da un comunità d’intenti con Francia e Spagna di cui finora non si è vista traccia.

L’intervento pubblico in economia
L’assegnazione a Giorgetti del ministero dell’Economia risponde a tre diverse esigenze che la scelta del nuovo presidente in qualche modo soddisfa: ridimensionare il ruolo di Salvini, evitare la nomina di un tecnico, assicurare i mercati e le imprese che si manterrà salda la barra della “governance” economica dentro i parametri fissati dall’U.E. Il nome di Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico con Draghi, offre in proposito qualche fondata garanzia.
Per il resto, al di là delle demagogiche difese dei concessionari abusivi delle nostre spiagge che ci hanno afflitto questa estate, i paletti del trattato di Maastricht sono abbastanza rigidi da rendere inoffensivo qualsiasi attacco. Ci sarà qualche sbavatura, qualche “salvinata” ad uso e consumo di elettori futuri. Ma nulla di più.

La sicurezza
E’ un problema serio per qualsiasi governo anche per i riflessi che ha sulla pubblica opinione; forse ha rappresentato un elemento decisivo nell’affermazione di un movimento con radici autoritarie.
La realtà delle cose ci dice però che in una società aperta – come per fortuna è la nostra – poco si può aggiungere a quanto già si è fatto; se Giorgia Meloni dovesse cedere a tentazioni da “stato di polizia” si avventurerebbe sul terreno scivoloso della riduzione delle garanzie individuali seguendo i pessimi precedenti che hanno portato la Polonia e l’Ungheria a restare emarginati all’interno dell’Unione. Ed è infatti sui diritti e sulle garanzie che il governo è atteso al varco. Ed è in quel momento – che non sarà domani – che si capirà se la parola “responsabilità”, tanto spesa dal premier in campagna elettorale, avrà il significato che gli elettori moderati gli hanno attribuito: la consapevolezza di guidare un paese profondamente diviso che soltanto una infelice legge elettorale gli consente di governare. Lo si può fare in due modi: o con la contrapposizione generatrice di violenza e sbocchi autoritari oppure cercando possibili intese senza venir meno al mandato elettorale della maggioranza parlamentare.

Le riforme di struttura
Che siano necessarie tutti lo dicono; sul come farle la confusione (anche metodologica) regna sovrana. Se non si vogliono ripetere gli errori commessi in passato (Renzi compreso) occorre predisporle una alla volta (evitando i “pacchetti” che uniscono inevitabilmente gli eterni avversari di ogni cambiamento), confrontarle apertamente con le opposizioni per cercare soluzioni condivise, e non attribuirsene ad ogni costo la paternità per finalità elettorali. Giorgia Meloni si era già espressa per un confronto aperto e deve insistere. A cominciare da alcune revisioni costituzionali (Senato, Regioni, legge elettorale, giustizia).
Qualcuno obietterà che si chiede alla Meloni di fare ciò che i suoi predecessori di centro-sinistra (con l’eccezione di Renzi) non hanno mai fatto. Ebbene sì; col suo curriculum la nuova presidente del Consiglio deve assumersi l’onere della prova.

Riuscirà Giorgia Meloni?
La domanda quindi è: riuscirà la giovane leader ad avviare un puzle così complesso? La sua inesperienza e le radici politiche non giocano a suo favore; ma paradossalmente, anche per il modo in cui ha saputo gestire la transizione, senza arroganza, sempre richiamandosi al principio di responsabilità, diversamente dal populismo straccione di Salvini e da quello paternalistico di Berlusconi, Giorgia Meloni si presenta chiedendo un’apertura di credito che una società liberale non può negare.
Ma – come dice il proverbio – dai nemici mi guardi Iddio, dagli amici devo guardarmi io. E lei di “amici” pericolosi ne ha tanti.

 

Franco Chiarenza
31 ottobre 2022