Un mese fa moriva Benedetto XVI. La sua scomparsa ha ovviamente riacceso l’attenzione su questo personaggio che, tra le altre ragioni, passerà alla storia per essere stato dopo molti secoli il primo pontefice ad abdicare, lasciando campo libero ai suoi contestatori che infatti non persero tempo a innestare una marcia diversa nella guida della Chiesa (se avanti o indietro dipende dai punti di vista) chiamando alla cattedra di San Pietro quanto di più diverso da lui si potesse immaginare, Jorge Mario Bergoglio.
Gli analisti, i vaticanisti, gli esperti di religione si sono sbizzarriti come non mai, ma a me liberale la vicenda interessa soltanto per le ricadute politiche e sociali che può determinare (come d’altronde ogni altra questione che riguarda il perimetro religioso).
L’eredità di papa Giovanni
Per comprendere quanto è avvenuto e ancora potrebbe accadere nella trasformazione del cattolicesimo romano (che del cristianesimo – non dimentichiamo – è soltanto una parte, anche se la più consistente) bisogna risalire alla rivoluzione provocata negli anni ’50 del secolo scorso da papa Roncalli il quale in soli cinque anni attraverso l’autorità di un concilio universale (Vaticano II) impose una svolta che liberava la Chiesa dal settarismo dogmatico della tradizione tridentina, ancora dominante col suo predecessore Pio XII, aprendola al dialogo e alla tolleranza e, in sostanza, ai valori della civiltà liberale (pluralismo, democrazia, dialogo inter-religioso) che ancora pochi anni prima Pio XI (quello che aveva definito Mussolini “uomo della Provvidenza”) bollava con parole di fuoco.
Fu allora che si delineò uno scontro decisivo ai vertici della Chiesa che provo a riassumere in modo semplice (che giustamente i teologi e gli esperti troveranno superficiale e approssimativo); uno scontro dai cui esiti sarebbero dipese importanti ricadute politiche nei paesi a forte presenza cattolica (ed è per questo che ce ne interessiamo). La Chiesa doveva cambiare la sua essenza, anche a costo di modificare tradizioni secolari, per diventare un interlocutore credibile del mondo moderno, oppure chiudersi nelle sue certezze dogmatiche e continuare la sua opposizione a ogni forma di relativismo implicita nella concezione liberale? Il Concilio, anche per la spinta dei vescovi che venivano da realtà distanti da Roma e dall’Europa, non ebbe dubbi nella scelta che fu poi sostanzialmente proseguita (con qualche sussulto ma in sostanziale coerenza) dal papato di Montini e dalla attiva presenza del cardinale Martini. Ma una parte importante del clero temeva che la strada imboccata dal Concilio portasse alla “protestantizzazione” del cattolicesimo e alla perdita dei valori morali su cui la Chiesa cattolica fondava le sue pretese egemoniche; alla morte di Paolo VI queste preoccupazioni prevalsero e la scelta del successore cadde su un cardinale polacco morbido e accattivante nella forma, rigido e reazionario nella sostanza, Giovanni Paolo II, la cui ombra in materia dottrinale era il cardinale Ratzinger che puntualmente (oserei dire inevitabilmente) fu eletto papa alla sua morte, prevalendo in conclave sul cardinale Bergoglio che già allora Martini e i cardinali a lui vicini avrebbero preferito.
Il cortile dei Gentili
Ratzinger non era uno sprovveduto e tanto meno poteva ignorare i complessi ingranaggi della Curia romana, anche nei loro aspetti meno trasparenti, se non altro per averne fatto parte nel ruolo fondamentale di prefetto del Santo Uffizio (ribattezzato Congregazione per la dottrina della fede) per 25 anni. Le sue impreviste dimissioni nel 2013 non potevano dipendere dal disgusto per gli scandali che agitavano il Vaticano, come si volle far credere; furono invece la conseguenza della sconfitta del teorema dottrinale che Benedetto XVI aveva cercato di accreditare per bloccare la trasformazione messa in atto dal Concilio.
I segnali erano stati chiari (per chi voleva vederli) sin dall’inizio: la canoniozzazione di Roncalli fu bloccata, per converso quella di papa Pacelli (opportunamente avviata su un binario morto dai suoi predecessori) riprese vigore, la messa in latino (simbolo della tradizione di incomunicabilità che risaliva al concilio di Trento) parzialmente restaurata, ecc. Ma non si trattò soltanto di fermare un processo di modernizzazione dell’istituzione ecclesiale, si cercò soprattutto di indicare una possibile alternativa al Vaticano II che risolvesse in qualche modo il problema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo moderno, di cui Ratzinger – osservatore attento e intelligente delle trasformazioni sociali – era ben consapevole.
In cosa consisteva la proposta di papa Benedetto? Premesso che è difficile per me e quanti non hanno la preparazione necessaria, inoltrarsi nel labirinto delle verità religiose, irrazionali per definizione, io l’ho capita così, e anticipo subito di averla trovata, per come l’ho letta, molto interessante e tutt’altro che banale, e comunque lontana dalle semplificazioni a cui si sono abbandonati alcuni commentatori.
La chiave di lettura sta nel ben noto esempio del “cortile dei Gentili”, fondamentale nella predicazione di San Paolo di Tarso (e non a caso rievocato più volte da Ratzinger). In cosa consiste? Nella negazione (allora rivoluzionaria) del carattere esclusivo e identitario delle religioni. I cristiani non dovevano chiudersi nelle loro certezze fideistiche (come facevano gli ebrei) ma aprirsi al dialogo con chi non lo era (i “gentili” appunto, cioè i non ebrei e anche i non credenti, nel linguaggio delle sacre scritture). Ecco quindi la soluzione: la Chiesa non poteva e non doveva transigere né in materia di fede (e quindi di dottrina) né sulle proprie tradizioni identitarie; poteva però cercare un terreno di incontro con i non cattolici per trovare punti comuni su cui convergere. Per esempio alcuni principi morali e comportamenti che, secondo Ratzinger, derivano dalla cultura cristiana anche se sono entrati nel sentire comune a prescindere dalla pratica religiosa; dalla qual cosa deriverebbe la necessità di riconoscere, anche nei moderni stati liberal-democratici alle religioni un rilievo istituzionale fondato sulle loro radici storiche.
Non solo; su queste basi monoteistiche (comune credenza nell’esistenza di un unico Dio) Benedetto XVI pensava di aprire un varco al dialogo non soltanto con i diversi cristianesimi ma anche con i settori più ragionevoli del mondo musulmano.
Come si vede una prospettiva intelligente, non accettabile per i liberali nelle sue premesse perchè non coincide con la storia stessa della Chiesa, con la sua intolleranza, con il rifiuto del relativismo illuministico, con tutto ciò che appunto comporta un cambiamento interno e radicale del cattolicesimo, ma assolutamente rispettabile nel comprensibile sforzo di salvaguardare la Chiesa nella integrità storica che l’aveva formata. A questo punto del ragionamento c’è sempre qualcuno che alza il cartellino giallo, anche tra i liberali; come la mettiamo con Benedetto Croce e il suo “perchè non possiamo non dirci cristiani”? La mia risposta, su cui in questa sede non mi dilungo, è fondata sulle origini non liberali del primo idealismo di Croce e su una lettura discutibile delle distinzioni che Croce attribuisce al cristianesimo delle origini, che comunque non è quello del cattolicesimo istituzionalizzato.
Quale futuro?
Dopo l’abdicazione il nuovo pontefice, sia pure con molta prudenza e l’adozione di comportamenti e linguaggi piuttosto confusi e demagogici, ha chiuso Ratzinger in un convento a portata di mano non soltanto fisicamente ma anche concettualmente, attendendo pazientemente che il buon Dio lo chiamasse a sé; e neanche allora è riuscito a soffocare le voci di dissenso che dividono il cattolicesimo; anche da morto papa Benedetto fa sentire la presenza delle sue idee con cui comunque la Chiesa dovrà fare i conti. Questo sarà il nodo che dovrà sciogliere il prossimo conclave, ormai prevedibilmente vicino. Le porte di Santa Marta forse potrebbero presto aprirsi per lui; chissà se ci sarà ad attenderlo padre Georg!
Franco Chiarenza
31 gennaio 2023