Via Facebook Partito Democratico

E del trionfo della Schlein cosa ne pensa il “Liberale Qualunque”? Mi hanno chiesto molti amici.
Ho lasciato che la nebbia mediatica delle prime emozioni (favorevoli o contrarie) si diradasse, nel frattempo ho letto molti commenti e ho sentito pareri discordanti. Sono giunto ad alcune riflessioni tutt’altro che conclusive che cerco di riassumere.

  1. il partito democratico è nato, come è noto, dopo la fine della prima repubblica, dalla fusione a freddo di diverse tradizioni politiche che ha sempre presentato forti criticità anche nei momenti di maggiore splendore, quando il partito si è avvicinato o ha superato il 30%.
  2. per questa ragione (e per altre che riguardano alcune caratteristiche culturali della sinistra italiana per le quali rinvio agli scritti memorabili di Luca Ricolfi) la sua leadership è sempre stata difficile e continuamente contestata al suo interno, da chiunque fosse esercitata, anche quando, eliminato Renzi (considerato da molti un “corpo estraneo”), si è cercato un “cavaliere bianco” in grado di superare le fazioni, trovandolo in Enrico Letta.
  3. al suo interno, al di là dei tanti personalismi e delle differenze “stilistiche”, si possono individuare delle faglie strutturali orizzontali (cioè territoriali) e verticali (ideologiche). Le prime riflettono il diverso radicamento regionale con la prevalenza di apparati abituati ad esercitare funzioni di governo a livello locale sin dai tempi della prima repubblica, prevalenti nelle regioni centrali (Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Lazio) ma influenti anche nelle grandi città del Nord; le seconde riguardano il venir meno della tradizionale “lotta di classe” ereditata dalla tradizione comunista (e che trovava la sua saldatura anche operativa nel rapporto sinergico con la CGIL) e la sua sostituzione con sensibilità meno legate alla giustizia sociale e maggiormente attente alla coesione sociale (diritti delle minoranze, diseguaglianze, simpatia per le radicalità ambientaliste).
  4. non sempre queste diversità sono componibili nella formulazione di una proposta politica chiara e riconoscibile, troppe essendo le convenienze di cui bisogna tenere conto. Tanto più che il partito democratico ha ereditato dall’imprinting originario di Veltroni la certezza (un po’ presuntuosa) di essere il solo in grado di rappresentare legittimamente l’interesse generale (cristallizzato in qualche modo nella difesa oltranzista delle parti più ideologiche della Costituzione “più bella del mondo”). Una convinzione che presupporrebbe una conduzione del partito non partigiana, difficile da esercitare nel clima politico di scontro permanente generato dagli estremismi di ogni colore (da quelli stellati di Grillo ai t-shirt putiniani di Salvini).

Schlein fa rima con “nein”
Tutto ciò premesso, l’elezione di Ely Schlein (la quale al PD non era nemmeno iscritta e condivide la cittadinanza italiana con quelle della Svizzera e degli USA) è stata possibile per la conformazione di “partito aperto” che sin dalle origini Veltroni aveva voluto per limitare il peso delle correnti interne e offrire un’immagine “moderna” di una nuova sinistra di governo affidabile e aderente alle esigenze che salivano dalla base elettorale, anche al di là dei suoi confini storici. Nessuno immaginava allora che le “primarie” aperte a tutti da strumento di partecipazione potessero trasformarsi in uno strumento potenzialmente in grado di consentire scalate ai vertici del partito anche in contrasto con la volontà degli iscritti. E invece proprio questo è avvenuto con l’imprevisto trionfo della Schlein generando una scossa elettrica che, al di là di ogni considerazione di merito, ha rivitalizzato il partito costringendolo a prendere atto che la vittoria elettorale della destra cambiava radicalmente il modo stesso di fare opposizione. Le primarie hanno messo in luce la debolezza crescente della dimensione “territoriale” del partito (che aveva appoggiato la candidatura di Bonaccini) e la capacità attrattiva anche sull’elettorato di sinistra di un ecologismo plebiscitario condito in salsa egualitaria, non molto diverso da quello che Grillo e Casaleggio proponevano agli esordi del movimento Cinque Stelle.

La Schlein si trova adesso a gestire una situazione molto difficile ma densa di risvolti interessanti non soltanto per il partito democratico ma per tutto lo schieramento politico. Ha due possibilità: porsi come leader di un’opposizione a tutto campo nei confronti del governo Meloni (riedizione aggiornata del “campo largo” di Letta) che le consentirebbe di mantenere unite le diverse componenti del partito e di non essere cannibalizzata da Conte sull’agenda “propositiva”, oppure puntare decisamente alla creazione di un polo di “sinistra/sinistra” destinato a una lunga opposizione ma fortemente riconoscibile nella sua radicalità; una sorta di “traversata nel deserto” come quella che pazientemente ha percorso a destra Giorgia Meloni.
Nel primo caso dovrà fare i conti con Calenda (che già vede profilarsi uno spazio di centro finora rimasto molto limitato) ma ancor più con Renzi, il quale probabilmente mantiene sottotraccia rapporti “incestuosi” con settori minoritari del PD; se invece virerà decisamente a sinistra sarà con Conte che dovrà vedersela, e non sarà facile perchè l’avvocato di Volturara Appula si è dimostrato spregiudicato nel gioco al rialzo.
Naturalmente nulla accadrà finchè si tratterà di dire no al governo; il problema si mostrerà nella sua complessità quando l’attuale maggioranza metterà sul tavolo alcune misure (scuola, giustizia, riforme costituzionali) su cui potrà trovare una sponda dialogante al centro, oppure quando l’opposizione cercherà di trasformare lo slogan del “campo aperto” in un vero programma alternativo. Il tutto in un momento in cui anche alcune scelte di politica internazionale fino ad oggi condivise (NATO e Europa) sembrano vacillare. Quando si comincia a parlare di adesione critica e non subordinata è come quando in un matrimonio uno dei coniugi accenna alla necessità di una “pausa di riflessione”. Si sa come va a finire.

Franco Chiarenza
21 marzo 2023

Via https://www.governo.it/it

In politichese “cento giorni” sta a significare una prima valutazione dell’esordio di qualsiasi nuovo governo. Nel caso di Meloni bisogna tenere conto della difficoltà di chiudere in tempi brevi un bilancio già in gran parte definito dal governo precedente, di un elettorato che chiedeva un rapido mantenimento delle promesse elettorali, di una situazione internazionale caratterizzata dall’aggressione russa all’Ucraina. La nuova premier ha subito indicato come priorità assoluta la politica estera allineandosi prontamente al fronte NATO (dove Draghi l’aveva già collocata) e andando all’assalto della fortezza UE come sempre presidiata dall’asse franco-tedesco, pregiudizialmente ostile al suo governo percepito come espressione di una maggioranza nazional-populista più vicina ai regimi illiberali di Varsavia e di Budapest che non ai tradizionali sistemi liberal-democratici che hanno sempre prevalso nell’Europa occidentale.
Bisogna dare atto alla Meloni di non essersi nascosta dietro un velo di ipocrita concordanza di vedute (come spesso avviene nei vertici europei) e di avere subito accettato di affrontare i problemi prendendo il toro per le corna, forte del fatto che molti rilievi avanzati dall’Italia sono legittimi e in linea di continuità con la politica estera di Draghi. Le critiche dell’opposizione infatti non riguardano tanto il merito delle tesi sostenute dalla presidente quanto piuttosto il metodo utilizzato che rischia di isolare la posizione italiana.

Isolamento?
Certo, l’isolamento è, almeno in parte, la conseguenza inevitabile della difesa di alcune esigenze a cui l’Unione non ha mai dato risposte convincenti, a cominciare dai flussi migratori provenienti dall’Africa che – piaccia o no – suscitano grande preoccupazione nell’opinione pubblica (non soltanto di destra). Seguono a ruota decisioni mascherate da esigenze ambientali che rischiano di avere pesanti ricadute sull’economia del nostro Paese: finanziamenti pubblici alle imprese in difficoltà, blocco della produzione automobilistica benzina/diesel, ristrutturazioni edilizie eco-compatibili. Sembra quasi che la Francia e la Germania vogliano spingere l’Italia verso l’area dei paesi europei illiberali (gruppo di Visegrad) per punirla di avere scelto un governo non allineato all’asse “polically correct” franco-tedesco, appoggiato, come sempre, dall’Olanda e da altri paesi del nord. Soltanto la Von der Leyen sembra rendersi conto della pericolosità di questa strategia oltranzista, ma la sua posizione appare sempre più debole anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno il cui esito appare quanto mai incerto.
A fronte di questa situazione Giorgia Meloni, invece di una strategia accomodante fondata sulla variabilità degli schieramenti europei, ha scelto – almeno per ora – una linea di discontinuità cercando fuori dall’Unione opportune compensazioni, a cominciare dagli accordi per assicurare al Paese una minore dipendenza energetica dalla Russia. Ma i conti alla fine si fanno a Bruxelles dove Salvini e Berlusconi l’attendono al varco; Berlusconi ha già cominciato la sua offensiva difendendo Putin, il leader della Lega si muove con maggiore prudenza ma tutti sanno come la pensa. Il vero isolamento la Meloni lo rischia in casa.

Il superbonus
La prima vera emergenza è stata (ed è) il rischio che scoppi la bolla finanziaria creata dall’abuso del superbonus per le ristrutturazioni immobiliari, sciagurato provvedimento che di fatto ha consentito la creazione di una moneta parallela (costituita dalla cedibilità illimitata dei crediti) che potrebbe costare al bilancio pubblico diversi miliardi di euro e uno scontro senza precedenti con l’Eurogruppo. La Meloni è stata netta nell’affrontare la questione e nel ricordare l’irresponsabilità demagogica di chi quel provvedimanto aveva voluto (Cinque Stelle) e che già Draghi aveva duramente stigmatizzato: in economia nulla è gratis – ha ricordato la premier – c’è sempre qualcuno che paga, magari senza saperlo (pareva di sentire Bastiat). La Lega, corresponsabile di tanto scempio con le ambigue scelte di Salvini, si ritrova ora con Giorgetti a dovere risolvere il problema, mettendo in luce ancora una volta il solco che divide la Lega di lotta (in t-shirt) da quella di governo (china a fare i conti con i buchi di bilancio). Intanto molti cantieri edili, frettolosamente aperti per fruire della manna che pioveva gratis dal cielo stellato, rischiano di chiudere mettendo per strada migliaia di lavoratori, che, tanto per cambiare, serviranno da alibi per tutelare gli interessi dei troppi “furbetti del quartierino”, speculatori ingordi che trovano sempre compiacenti coperture politiche.

Per il resto si registra poco più di qualche maldestro comportamento del discutibile “cerchio magico” di Meloni che ha dato il peggio di sé nel decreto sui “rave party”, nel tentativo di indebolire Nordio sul caso Cossipo e in sortite poco meditate del ministro della pubblica istruzione. Anche in questi casi la presidente del Consiglio resta danneggiata dalla superficialità di alcuni suoi ministri e vice ministri, che – come tutti i neofiti – pensavano all’entrata nelle mitiche “stanze dei bottoni” come se fossero sezioni del loro partito.

Lazio e Lombardia
Archiviate le elezioni nelle due regioni dove ha vinto in maniera schiacciante il partito dell’astensione, governo e opposizioni devono ora fare i conti con la realtà. L’astensionismo dei lombardi e dei romani non ha sorpreso nessuno; semmai colpisce la dimensione del fenomeno (in parte dovuto al fatto che il risultato era dato per scontato) perchè segnala come la metà dell’elettorato appaia chiuso in una rassegnazione fatalistica senza sbocchi politici; in particolare siamo delusi noi liberali che speravamo con l’alleanza di centro (Calenda – Renzi – Bonino) di costituire un terzo polo in grado di condizionare sia la destra al governo che l’opposizione di sinistra. Purtroppo anche le due capitali – Roma e Milano – considerate le loro roccaforti elettorali, non hanno dato segnali incoraggianti. Non resta che attendere la nuova leadership del PD per capire come pensa di recuperare i tanti voti che ha perso negli ultimi anni.
Forse però, prima dei problemi di identità dei partiti, per ridare vitalità e progettualità alla politica italiana occorrerebbe affrontare questioni strutturali che nella convenienza di tutti si potrebbero discutere seduti intorno a un tavolo, cercando ragionevoli compromessi, Sappiamo tutti quali sono: alcune modifiche alla seconda parte della Costituzione, un riassetto delle autonomie regionali più razionale e omogeneo di quello proposto dalla Lega, il completamento della riforma della giustizia, la legge elettorale, la scuola. Problemi su cui non si può continuare il gioco della visibilità mediatica fondata sulle distinzioni ma, al contrario, si dovrebbe cercare il massimo comune denominatore di cambiamenti da tutti ritenuti necessari.
Poi, trovato un accordo sulle modifiche alle regole del gioco, si potrà riprendere la competizione con un maggiore interesse del pubblico pagante, quello che oggi – disgustato – preferisce andare al mare anche nella cattiva stagione.

Franco Chiarenza
08 marzo 2023