E del trionfo della Schlein cosa ne pensa il “Liberale Qualunque”? Mi hanno chiesto molti amici.
Ho lasciato che la nebbia mediatica delle prime emozioni (favorevoli o contrarie) si diradasse, nel frattempo ho letto molti commenti e ho sentito pareri discordanti. Sono giunto ad alcune riflessioni tutt’altro che conclusive che cerco di riassumere.
- il partito democratico è nato, come è noto, dopo la fine della prima repubblica, dalla fusione a freddo di diverse tradizioni politiche che ha sempre presentato forti criticità anche nei momenti di maggiore splendore, quando il partito si è avvicinato o ha superato il 30%.
- per questa ragione (e per altre che riguardano alcune caratteristiche culturali della sinistra italiana per le quali rinvio agli scritti memorabili di Luca Ricolfi) la sua leadership è sempre stata difficile e continuamente contestata al suo interno, da chiunque fosse esercitata, anche quando, eliminato Renzi (considerato da molti un “corpo estraneo”), si è cercato un “cavaliere bianco” in grado di superare le fazioni, trovandolo in Enrico Letta.
- al suo interno, al di là dei tanti personalismi e delle differenze “stilistiche”, si possono individuare delle faglie strutturali orizzontali (cioè territoriali) e verticali (ideologiche). Le prime riflettono il diverso radicamento regionale con la prevalenza di apparati abituati ad esercitare funzioni di governo a livello locale sin dai tempi della prima repubblica, prevalenti nelle regioni centrali (Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Lazio) ma influenti anche nelle grandi città del Nord; le seconde riguardano il venir meno della tradizionale “lotta di classe” ereditata dalla tradizione comunista (e che trovava la sua saldatura anche operativa nel rapporto sinergico con la CGIL) e la sua sostituzione con sensibilità meno legate alla giustizia sociale e maggiormente attente alla coesione sociale (diritti delle minoranze, diseguaglianze, simpatia per le radicalità ambientaliste).
- non sempre queste diversità sono componibili nella formulazione di una proposta politica chiara e riconoscibile, troppe essendo le convenienze di cui bisogna tenere conto. Tanto più che il partito democratico ha ereditato dall’imprinting originario di Veltroni la certezza (un po’ presuntuosa) di essere il solo in grado di rappresentare legittimamente l’interesse generale (cristallizzato in qualche modo nella difesa oltranzista delle parti più ideologiche della Costituzione “più bella del mondo”). Una convinzione che presupporrebbe una conduzione del partito non partigiana, difficile da esercitare nel clima politico di scontro permanente generato dagli estremismi di ogni colore (da quelli stellati di Grillo ai t-shirt putiniani di Salvini).
Schlein fa rima con “nein”
Tutto ciò premesso, l’elezione di Ely Schlein (la quale al PD non era nemmeno iscritta e condivide la cittadinanza italiana con quelle della Svizzera e degli USA) è stata possibile per la conformazione di “partito aperto” che sin dalle origini Veltroni aveva voluto per limitare il peso delle correnti interne e offrire un’immagine “moderna” di una nuova sinistra di governo affidabile e aderente alle esigenze che salivano dalla base elettorale, anche al di là dei suoi confini storici. Nessuno immaginava allora che le “primarie” aperte a tutti da strumento di partecipazione potessero trasformarsi in uno strumento potenzialmente in grado di consentire scalate ai vertici del partito anche in contrasto con la volontà degli iscritti. E invece proprio questo è avvenuto con l’imprevisto trionfo della Schlein generando una scossa elettrica che, al di là di ogni considerazione di merito, ha rivitalizzato il partito costringendolo a prendere atto che la vittoria elettorale della destra cambiava radicalmente il modo stesso di fare opposizione. Le primarie hanno messo in luce la debolezza crescente della dimensione “territoriale” del partito (che aveva appoggiato la candidatura di Bonaccini) e la capacità attrattiva anche sull’elettorato di sinistra di un ecologismo plebiscitario condito in salsa egualitaria, non molto diverso da quello che Grillo e Casaleggio proponevano agli esordi del movimento Cinque Stelle.
La Schlein si trova adesso a gestire una situazione molto difficile ma densa di risvolti interessanti non soltanto per il partito democratico ma per tutto lo schieramento politico. Ha due possibilità: porsi come leader di un’opposizione a tutto campo nei confronti del governo Meloni (riedizione aggiornata del “campo largo” di Letta) che le consentirebbe di mantenere unite le diverse componenti del partito e di non essere cannibalizzata da Conte sull’agenda “propositiva”, oppure puntare decisamente alla creazione di un polo di “sinistra/sinistra” destinato a una lunga opposizione ma fortemente riconoscibile nella sua radicalità; una sorta di “traversata nel deserto” come quella che pazientemente ha percorso a destra Giorgia Meloni.
Nel primo caso dovrà fare i conti con Calenda (che già vede profilarsi uno spazio di centro finora rimasto molto limitato) ma ancor più con Renzi, il quale probabilmente mantiene sottotraccia rapporti “incestuosi” con settori minoritari del PD; se invece virerà decisamente a sinistra sarà con Conte che dovrà vedersela, e non sarà facile perchè l’avvocato di Volturara Appula si è dimostrato spregiudicato nel gioco al rialzo.
Naturalmente nulla accadrà finchè si tratterà di dire no al governo; il problema si mostrerà nella sua complessità quando l’attuale maggioranza metterà sul tavolo alcune misure (scuola, giustizia, riforme costituzionali) su cui potrà trovare una sponda dialogante al centro, oppure quando l’opposizione cercherà di trasformare lo slogan del “campo aperto” in un vero programma alternativo. Il tutto in un momento in cui anche alcune scelte di politica internazionale fino ad oggi condivise (NATO e Europa) sembrano vacillare. Quando si comincia a parlare di adesione critica e non subordinata è come quando in un matrimonio uno dei coniugi accenna alla necessità di una “pausa di riflessione”. Si sa come va a finire.
Franco Chiarenza
21 marzo 2023