Foto di Presidenza del Consiglio dei Ministri

Stiamo rischiando molto. Se il governo non trova il modo di accelerare la realizzazione del piano potremmo perdere – almeno in parte – i finanziamenti europei che dovevano servire a colmare il gap strutturale del nostro Paese. Nella Von der Leyen l’Italia ha un’alleata, anche per il buon rapporto che si è instaurato con Giorgia Meloni, ma non tutto dipende da lei e i partner europei mostrano segni di insofferenza per le nostre lentezze. L’approssimarsi del rinnovo del parlamento europeo (tra un anno) non facilita la soluzione dei problemi per le ricadute pre elettorali inevitabilmente destinate ad accentuare i contrasti, non soltanto da noi ma soprattutto nelle altre nazioni dell’Unione. Cosa sta succedendo dunque?

Le “bandierine”
Accade che la Lega, ancora scottata da un esito elettorale imprevisto e mortificata dai sondaggi che la inchiodano a un terzo dei consensi di “Fratelli d’Italia”, cerca disperatamente di piantare bandierine sui provvedimenti di governo cercando così di acquisire popolarità; e lo fa, come sempre, nel peggiore dei modi.
La Meloni aveva ereditato dal governo Draghi due pilastri di credibilità europea che andavano preservati e coltivati se voleva avere voce in capitolo facendo dimenticare il suo passato che la collocava molto vicino alle posizioni del gruppo di Visegrad: la solidarietà atlantica nel conflitto ucraino e l’attuazione del piano di ripresa e resilienza concordato con l’Unione Europea (che lo finanzia in parte con soldi a fondo perduto). In entrambi i punti l’ostacolo principale era costituito dalla velleità di Salvini di attribuirsi il merito di cambiamenti che segnassero una discontinuità con l’odiato governo Draghi (di cui peraltro faceva parte, sia pure con un piede dentro e l’altro fuori). Sull’Ucraina non c’è stata partita: la Meloni è andata avanti come un treno e Salvini (malgrado la sintonia “filo putiniana” con Berlusconi) ha dovuto rinunciare a qualsiasi possibilità di differenziarsi. Ma sul PNRR il leader leghista ha puntato i piedi; quando si tratta di soldi non si scherza. Bisognava cambiare tutto almeno nella forma, anche se nella sostanza la Commissione Europea non avrebbe consentito modifiche rilevanti, soprattutto se finalizzate a trasferire gli stanziamenti dalle infrastrutture all’assistenzialismo. Ma cambiare anche soltanto la forma (uffici, rimodulazione dei decreti, sostituzione degli staff operativi, ecc.) era il contrario di quel che si doveva fare viste le scadenze imposte dal piano: modificare la regia in corso d’opera significava infatti perdere tempo ricominciando da capo con progetti e attribuzioni di responsabilità che ne avrebbero ritardato la realizzazione. E qui, in questo cruciale passaggio, i fratelli d’Italia hanno finito per restare prigionieri delle stesse logiche dei cugini leghisti.

La resa dei conti
In tale contesto si colloca il conflitto con la Corte dei Conti. La quantità e la lentezza dei controlli sulla contabilità pubblica rappresentano da sempre una delle principali ragioni che rallentano la capacità di spesa della P.A.; non lo dice il “Liberale Qualunque”, lo affermano economisti, giuristi, imprenditori, sindaci di ogni parte politica. Accorciare (e rendere più efficiente) la catena dei controlli, eliminando duplicazioni inutili (soprattutto in corso d’opera) era non soltanto opportuno ma doveroso: lo aveva sostenuto Draghi, lo ha ripetuto pochi giorni fa Sabino Cassese con abbondanza di motivazioni. Ma la magistratura contabile si è levata indignata a protestare, come sempre fa ogni burocrazia che in un’accelerazione delle procedure vede un attacco al proprio potere di interdizione. Il tentativo di ottenere la solidarietà della burocrazia europea è però naufragato di fronte alla risposta circostanziata della presidente del Consiglio e si è risolto in una imbarazzata ritirata di Bruxelles.

Ora però bisogna sbrigarsi. I primi effetti del nostro ritardo cominciano a manifestarsi: abbiamo perso mesi preziosi per attendere che le nuove strutture divenissero operative, una parte dei fondi che dovevano essere sbloccati a dicembre è stata prudenzialmente accantonata a Bruxelles, il governo tenta disperatamente di ricontrattare le scadenze con la Commissione ma la partita non è facile, il povero ministro Fitto, incaricato di sciogliere la matassa ci si è ingarbugliato proponendo (e poi smentendo) una riduzione degli obiettivi del PNRR (e dei relativi finanziamenti con tanta fatica confermati durante il governo Draghi). E il disastro è solo agli inizi: avere privilegiato gli enti locali nella realizzazione del piano è stato un clamoroso errore che provoca ritardi, inadempienze, spinte clientelari paralizzanti. Parlando di infrastrutture essenziali per la modernizzazione del Paese la cabina di regia doveva essere centralizzata non soltanto per l’assistenza tecnica ma anche col potere di subentrare nella realizzazione dei progetti che spesso i comuni non hanno la capacità di concretizzare in tempi ragionevoli.
La presidente del Consiglio ha assicurato che questa è la strada che il suo governo intende imboccare, ma siamo in forte ritardo. Ci vorrebbe un miracolo. Forse Giorgia Meloni potrebbe contare sulla intercessione del suo vice Salvini facendogli tirar fuori dal cassetto dove custodisce i suoi ricordi i santini e i rosari esibiti in campagna elettorale. La t-shirt inneggiante a Putin meglio lasciarla piegata in un angolo in attesa di tempi migliori. Non si sa mai.

Franco Chiarenza
7 giugno 2023