Ancora sul 20 settembre

Oggi sono in pochi a considerare il venti settembre una data rilevante, degna di essere festeggiata. Questo è un male, perché è il frutto della scarsa memoria storica del paese; ma è anche un bene, perché alla festa parteciperebbero troppi ospiti indesiderati. E soprattutto perché l’anniversario simbolo della laicità dello Stato rischierebbe di trasformarsi nella celebrazione del suo funerale.

Che cosa avrebbero da dire i politici italiani, che hanno fatto a gara per accreditarsi presso le gerarchie ecclesiastiche, cercandovi quella legittimazione culturale che non possedevano in proprio? Che cosa avrebbero da dire i giornalisti, soprattutto quelli del servizio pubblico, che in molti casi hanno fatto dei loro spazi una dépendance del Vaticano e della Cei, oltre che – spesso nello stesso momento – una lussuosa foresteria dei partiti? Che cosa avrebbero da dire questi nuovi leader – di cui non facciamo i nomi per carità di patria, e forse persino per carità di Dio – che sul piano della laicità riescono a far rimpiangere i vecchi, i quali già facevano rimpiangere i vecchissimi?

Allora diciamo qualcosa noi, nel nostro piccolo: una breve riflessione sui rapporti fra Stato e Chiesa nella storia d’Italia può essere infatti di una qualche utilità anche per il presente. Benché il primo articolo dello Statuto Albertino designasse la religione cattolica come religione di Stato, i governanti dell’età liberale erano perfettamente consapevoli della necessità di una politica laica, che non confondesse i piani di Dio e di Cesare. Il modo in cui si era realizzata l’unificazione rendeva questo atteggiamento quasi inevitabile, e l’anticlericalismo – inteso in primo luogo come contestazione del potere temporale del Papa – fu uno dei tratti caratterizzanti di quella fase storica.
Pur animati da ispirazioni differenti, la destra e la sinistra concordavano in linea di massima su questa linea, sia per ragioni politiche che di principio. Vi erano coloro i quali si appellavano al primato della scienza contro la religione, traendo spunto dalla filosofia positivista allora molto in voga. Vi era chi difendeva l’indipendenza dello stato nazionale da ingerenze esterne, sulla base di considerazioni che discendevano da un certo hegelismo di destra. Vi era poi chi – come i cattolici liberali – riteneva improprio e nocivo per la stessa Chiesa l’esercizio del potere temporale. Le cose cambiarono quando gli echi delle antiche lotte iniziarono a spegnersi, a cavallo tra i due secoli. Ci si era resi conto che i cattolici si erano integrati nello stato nazionale e non coltivavano più, almeno nella loro grande maggioranza, propositi di rivincita.

Sebbene alcuni uomini politici considerassero come una minaccia tanto i neri (i clericali) quanto i rossi (i socialisti), si affermò presto la convinzione che questi fossero più minacciosi di quelli, e che potesse essere utile guadagnare i primi alla propria causa. Fu soprattutto Giolitti ad adottare un diverso atteggiamento nei loro confronti, pensando di poterli utilizzare per la stabilizzazione del sistema. Ma fu la Grande Guerra a mutare completamente lo scenario. Alla fine del conflitto nacquero nuovi partiti; e tra questi il Partito popolare di don Sturzo, che replicava con maggior successo il precedente tentativo di Romolo Murri. Era un modo per integrare le masse cattoliche nella vita nazionale, con un programma di tipo riformatore.
Ma qualche anno dopo, il Papa fece la sua scelta, e scelse Mussolini abbandonando Sturzo, che dovette partire per il suo lungo esilio. Quello tra il fascismo e la Chiesa cattolica fu un patto di potere, che sarebbe sfociato nella firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929. Il secondo dopoguerra vide la sconfitta del fronte laico sull’articolo 7 della Costituzione: una sconfitta amara, dovuta tra l’altro alla diserzione di molti presunti laici, a cominciare dai comunisti.

Gli anni successivi furono caratterizzati da significative battaglie per la laicità, sul piano culturale e del costume, che contribuirono alla secolarizzazione e alla modernizzazione del paese. Il risultato del referendum sul divorzio – una legge che era stata introdotta quattro anni prima grazie allo sforzo congiunto del radicalsocialista Fortuna e del liberale Baslini – rese esplicito il rifiuto, da parte di una larga maggioranza di cittadini, di bardature che percepivano come imposte, e che non rappresentavano più il sentimento profondo della società italiana.
In questi casi, si conclude spesso rimpiangendo i grandi laici di una volta, da Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi, fino – perché no? – a Marco Pannella. E invece di questi tempi viene spontaneo rimpiangere i cattolici di una volta, che erano cattolici veri, e non baciapile improvvisati che agitano rosari mai sgranati e Vangeli mai letti. Era un cattolico vero e non un clericale De Gasperi, che seppe dire no a Pio XII, comportandosi con la dignità di un uomo delle istituzioni: ed è impietoso il confronto con gli attuali protagonisti della nostra vita pubblica. Altri uomini, e forse anche altre istituzioni. Montanelli scrisse che De Gasperi entrava in chiesa per parlare con Dio, mentre Andreotti parlava col prete. I clericali di oggi – che meno credono, più fingono di credere – non parlano né con l’uno né con l’altro. Non con il prete, che spesso è molto meno clericale di loro. Non con Dio, perché probabilmente – se hanno una coscienza – in fondo temono si faccia vivo.

 

Saro Freni
29 settembre 2020

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