Antonio era figlio di Gaetano Martino, il professore gentiluomo messinese che è stato negli anni ’50 ministro degli Esteri e finchè visse dirigente rispettatissimo del partito liberale. A lui si deve quella conferenza di Messina tra i ministri degli Esteri europei che rilanciò il processo della costruzione europea bloccato dalla bocciatura della CED e che nel 1957 portò ai trattati di Roma e alla creazione della Comunità Economica Europea, primo embrione dell’Unione. Di lui ho un ricordo piacevole per la sua capacità di ascolto quando cercava di stemperare i nostri ardori di giovani liberali anti-malagodiani e per la tranquilla saggezza in cui ritrovavo il meglio di una classe dirigente meridionale colta e paziente.
Antonio Martino fu eletto deputato nel 1993, ereditando naturalmente la base elettorale del padre, ed è stato anch’egli esponente importante del PLI al cui interno ha sempre rappresentato la componente di destra, divenuta minoranza durante le segreterie di Valerio Zanone e Renato Altissimo. Una posizione che derivava anche dai suoi studi economici e dalla condivisione delle teorie neo-liberiste di cui fu sempre convinto sostenitore. Nel breve periodo in cui anch’io feci parte della direzione centrale del partito (1988/89) mi trovai a condividere alcune sue posizioni critiche nei confronti della segreteria e mi chiese cosa mi spingesse ad appoggiare Altissimo. Gli risposi che anche se era vero che entrambi criticavamo la posizione attendista e troppo filo-governativa del partito (anche quando i voti del PLI non erano più determinanti per la maggioranza) io lo facevo per dare ai liberali una libertà di movimento che consentisse di intercettare un elettorato sempre più inquieto in cui affioravano preoccupazioni che il PLI avrebbe potuto rappresentare (ambientalismo, laicismo, rigore contro la corruzione, distanziamento dalla invadenza partitocratica, ecc.) mentre lui pensava alla creazione di un grande partito liberal-conservatore in grado di costituire un’alternativa all’alleanza tra cattolici e socialisti che stava paralizzando la dialettica politica del Paese.

Ho ricordato questo episodio perchè, meglio di tante analisi politologiche, esso spiega perchè Antonio Martino sia stato un convinto sostenitore di Silvio Berlusconi quando, con la sua discesa in campo si crearono le condizioni per la creazione di “Forza Italia” (di cui infatti orgogliosamente rivendicava la tessera n.2). La speranza di stemperare le evidenti propensioni populiste del leader ha sempre accompagnato la sua carriera successiva nei governi Berlusconi come ministro degli Esteri (1994/1995) e della Difesa (2001/2006). Emarginato di fatto dai settori in cui avrebbe potuto meglio esprimere le sue competenze (che erano soprattutto economiche), ha mantenuto compostamente il ruolo di rappresentare la faccia pulita di quello che poi si sarebbe trasformato in un partito personale, autocratico nella sua conduzione, con tratti profondamente illiberali nell’azione politica. Resta la sua testimonianza di gentiluomo, la sua ironia, il suo senso dello Stato. Le sue scelte d’altronde erano state quelle di una gran parte del vecchio gruppo dirigente del PLI; con lui condivisero l’illusione di un grande “partito liberale di massa” personaggi autorevoli come Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Raffaele Costa, Gianfranco Ciaurro, Antonio Marzano e molti altri.

Franco Chiarenza
8 marzo 2022

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