Bruxelles, andata e ritorno

Nella difficile partita che il governo italiano sta giocando a Bruxelles stanno venendo a galla alcuni nodi che, in modo un po’ superficiale, si riteneva di potere eludere: il primo di essi è che il tentativo di isolare la Commissione nel suo rigorismo formale delegittimandola in una dimensione meramente burocratica si è risolto nel suo contrario. Isolata è rimasta l’Italia nei confronti di tutti i partner europei i quali spingendo verso misure punitive severe (come si configura la procedura d’infrazione) hanno restituito alla Commissione Juncker un ruolo di mediazione a cui il governo Conte ha dovuto precipitosamente aggrapparsi. Mediazione peraltro che ha limiti molto stretti per la ferma intenzione degli altri paesi di non creare precedenti che potrebbero ripetersi generando seri problemi alla tenuta dell’Unione (e soprattutto dell’Eurozona). Il secondo nodo da sciogliere è la credibilità dei mercati che, contrariamente a quel che pensano i “dioscuri” del governo, non sono governati da oscuri complotti tramite “bottoncini” che si spingono in una o altra direzione; sono invece misuratori della domanda e dell’offerta che, in campo finanziario, si riflettono sulla maggiore o minore fiducia dei titoli di credito. Se lo spread, già molto elevato, non è ulteriormente salito (con gravi conseguenze sul sistema creditizio e quindi sulla produzione) è soltanto perché i mercati (come tutti noi) non hanno ancora capito come uscirà nella sua versione definitiva la manovra di bilancio.

Le regole
Le regole si possono cambiare ma non si devono violare. E’ questo il punto fondamentale di qualsiasi accordo perché altrimenti ne va di mezzo la credibilità di tutti i contraenti. Quando Di Maio e Salvini evocano violazioni compiute in passato da Francia e Germania dimenticano di aggiungere che anche in quei casi furono avviate procedure di infrazione, poi rientrate in base ad accordi che furono facilitati dal fatto che si trattava di paesi con un debito pubblico molto minore del nostro e tassi di crescita superiori.
Ciò infatti che ci viene contestato non è tanto l’eccesso della spesa in deficit ma la destinazione delle risorse aggiuntive che, nella previsione della Commissione ma anche della maggior parte degli economisti di casa nostra, non sono in grado di creare crescita e occupazione, essendo considerate spese assistenziali con una scarsa ricaduta sui problemi strutturali che sempre più impediscono al nostro sistema produttivo di esprimere tutte le sue potenzialità.
Che poi le regole di Maastricht non siano più compatibili con una situazione che vede l’Europa arretrare a fronte della crescita degli altri grandi colossi mondiali (a cominciare da Stati Uniti e Cina) sarà sicuramente al primo punto dell’ordine del giorno della nuova Commissione che scaturirà dalle elezioni europee di maggio. Ma si tratta di una questione dove l’Italia potrà svolgere un ruolo attivo soltanto se mantiene il prestigio di socio fondatore del club che non ne mette in discussione unilateralmente le regole; e se in questa nuova partita Salvini pensa di coalizzare le spinte “sovraniste” fino a diventare condizionanti per una futura maggioranza nel parlamento europeo, ritengo che si faccia delle illusioni. I partiti “sovranisti” arriveranno probabilmente ad aumentare considerevolmente la loro presenza ma si presenteranno per ovvie ragioni divisi e confliggenti, senza una chiara strategia comune; in grado di distruggere ciò che si è costruito, non di proporre qualcosa di nuovo e diverso. Come dimostrano i risultati elettorali in Germania e in Scandinavia i movimenti emergenti che davvero condizioneranno le possibili maggioranze in Europa saranno i Verdi nella loro nuova veste profondamente europeista, nei cui confronti i Cinque Stelle non faticheranno a rintracciare evidenti “affinità elettive”.

Mercati globali
La partita che l’Europa dovrà giocare nel prossimo decennio si svolgerà al tavolo delle potenze globali: sarà soprattutto con Stati Uniti e Cina che ci si dovrà confrontare. Altri paesi di media importanza come alcuni europei (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Giappone, ma anche India, Indonesia, Canadà) dovranno integrarsi in sistemi multinazionali che in qualche modo consentano di esercitare un potere contrattuale adeguato. Il sistema multilaterale (inventato dagli americani ma oggi in via di demolizione con l’amministrazione Trump) garantiva almeno in parte il rispetto di alcune regole comuni e consentiva agli Stati Uniti di mantenere una sostanziale egemonia pagando qualche prezzo in termini di sbilanciamento commerciale. I paesi europei traevano innegabili vantaggi da questo sistema e potevano permettersi persino di restare disuniti e concorrenziali nelle politiche commerciali. Ma Trump ha rotto il giocattolo e temo che sarà difficile ripararlo.
In tale prospettiva l’unità europea non è più soltanto un’opportunità è ormai una necessità; neanche la Germania potrà essere da sola, con tutto il suo peso, un interlocutore paragonabile a coloro che dispongono di punti forza difficilmente raggiungibili (dimensioni del mercato interno attuale e potenziale, aggiornamento tecnologico, potenza militare da impiegare nelle situazioni di crisi, ecc.).
Il “sovranismo” politico ed economico è in realtà la strada più breve per raggiungere una situazione di subordinazione irreversibile; resteremo alla mercé di chi è disposto a pagare i nostri prodotti più cari, saremo esclusi dalla scrittura delle regole del gioco, correremo da Mosca a Pechino a chiedere aiuto (senza dimenticare una visita alla Casa Bianca). Il sovranismo ha già mostrato i suoi effetti in campo energetico: siamo il Paese che ha i costi più elevati, i “buoni rapporti” tra Putin e Berlusconi ci hanno regalato un contratto di fornitura di gas che ci costringe ad acquistarlo a un prezzo superiore a quello di mercato e che i russi non intendono modificare. Salvini sembra avviarsi sulla stessa strada. Ma quando l’Europa si muove – naturalmente nelle materie di sua competenza – ha ben altro peso: l’abbiamo visto nelle trattative nello scontro con le multinazionali del commercio e della comunicazione che finalmente cominciano a pagare le tasse, e in molte altre occasioni. Una delle ragioni per cui Putin vuole impadronirsi dell’Ucraina è per contestare la sua volontà di entrare a far parte dell’Unione Europea; perché, difettosa com’è, essa rappresenta comunque una garanzia di libertà politica ed economica nei confronti di chi a questi principi certamente non si ispira. Ogni riferimento a Vladimir Putin è puramente casuale.

 

Franco Chiarenza
30 novembre 2018

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