Foto di Forza Italia (Facebook)

Così avevo titolato il mio “pezzo” sul Cavaliere, faticosamente elaborato su sollecitazione dei pochi affezionati lettori di questo blog, stupiti che il “liberale qualunque” non avesse nulla da dire sull’inventore del “partito liberale di massa”. In effetti con una mossa a sorpresa, di quelle in cui eccelleva, avendolo letto in anteprima come è possibile soltanto ai fantasmi, “lui” ha spinto il mio dito sul tasto sbagliato del computer e in un secondo tre cartelle si sono evaporate. Forse è meglio così: il tempo trascorso mi consente di essere più tollerante.

Comincio da capo al netto di tante celebrazioni, beatificazioni, dannazioni, commenti psico-sociologici, compiacenze morbose sul suo harem continuamente rinnovato, analisi dettagliate sulla complessa giurisprudenza che ha caratterizzato il suo rapporto con la magistratura. Ei fu. Chi fu in realtà poco importa: un furbo palazzinaro? Un imprenditore che aveva capito prima di altri l’importanza fondamentale della televisione? Un abile piazzista che raccoglieva i voti con le stesse tecniche usate per conquistare i consumatori? Un presidente straordinario di una squadra di calcio? Oppure un imbroglione funambolo che riusciva abilmente a mescolare la dimensione pubblica con quella dei suoi interessi privati? Un mafioso espresso dalla “cupola”? Un massone nascosto nella P2 di Licio Gelli?
Fu tutto questo ed altro; fu – come ha detto nella sua omelia l’arcivescovo di Milano – un uomo che amava la vita. E l’amava talmente da cospargere intorno a se un’immagine falsa di piaceri illimitati, di relativismo morale, di ottimismo costruito sull’illusione che chiunque potesse plasmare la propria esistenza sul modello che impersonava.
Ma – ripeto – al liberale qualunque chi fosse Berlusconi, per quali motivi decise – dopo il fallimento di Mario Segni – di scendere in politica, con quali risorse abbia costruito il suo impero non importa granchè; voglio astenermi da qualsiasi giudizio morale. Importa invece cosa ha fatto (o non ha fatto) nella dimensione politica. Chi è stato dunque l’uomo politico Silvio Berlusconi che ha dominato la scena come nessun altro negli ultimi quarant’anni?

Un liberale?
Domanda lecita perchè tale sempre si è dichiarato. Peccato che non lo sia mai stato, non per ostilità preconcetta ma semplicemente perchè non sapeva cosa significava esserlo. Concetti come stato di diritto, libertà di espressione, tolleranza per le diversità, pluralismo politico, dialettica parlamentare, ecc. erano lontanissimi dal suo modo di pensare; aveva una vaga idea del liberismo economico (che è altra cosa dal liberalismo) che si esprimeva in un “laissez faire, laissez passer” tradotto concretamente in continui compromessi con le forze in gioco con cui necessariamente doveva confrontarsi.
Si potrà obiettare che però di “liberali doc” si era circondato, soprattutto nei primi tempi: Biondi, Urbani, Altissimo (con qualche riserva), Pera, Martino, Costa, e molti altri. Ciò avvenne perchè con lo scioglimento traumatico del PLI i liberali erano rimasti senza casa e alcuni di essi ritennero che Berlusconi col suo impeto dirompente e la sua ingenuità politica potesse non soltanto fornirgliene una ma anche lasciarsi guidare nella sua conduzione. Le cose andarono diversamente e dopo essersene servito per dare una vernice di credibilità alla propria leadership il cavaliere li abbandonò al loro destino.

Un socialista?
No, se non altro perchè rifuggiva da ogni tentazione egualitaria e di Marx e Lenin conosceva quel tanto che bastava per farne oggetto del suo anti-comunismo viscerale che esibiva in ogni occasione e su cui fondava la propria legittimazione di leader della destra. Ma fu amico di Craxi senza il cui aiuto non avrebbe mai potuto realizzare quel duopolio televisivo che è stato decisivo per il suo successo. Nel progetto craxiano le televisioni private dovevano servire a contrastare la cultura catto-comunista che occupava nella RAI posizioni preminenti, ma al di là di ciò tra il segretario socialista e Berlusconi non vi fu mai un disegno politico condiviso. Craxi immaginava un futuro bipolare di tipo tedesco con un partito conservatore di ispirazione cristiana e una social-democrazia in grado di raccogliere le istanze ideali della sinistra. Berlusconi invece ammirava i modelli paternalistici e illiberali dei regimi autoritari come quelli che si erano affermati in Russia, in Ungheria, in Turchia.
Però se socialista non fu, dei socialisti, anch’essi rimasti orfani dopo l’abbattimento di Craxi, largamente si servì, non soltanto per alimentare i quadri delle sue televisioni ma anche per ereditare gran parte dei loro quadri dirigenti specialmente a Milano. Ex socialisti come Tremonti, Brunetta e tanti altri furono, a fasi alterne, suoi collaboratori diretti.

Un fascista?
No, fascista non fu mai; al contrario, proveniva da una tradizione familiare anti-fascista. Ma con i neo-fascisti invece stabilì rapporti cordiali convincendoli a mandare in frantumi le anticaglie nostalgiche prive di prospettiva per trasformarsi in un moderno partito nazionalista; trovò in Fini l’interlocutore adatto e soltanto così potè realizzare l’unica vera operazione politica che – nel bene o nel male – gli va attribuita: l’alleanza elettorale con la Lega al nord e con AN al sud, imperniata sulla sua personale fideiussione politica. Forza Italia , che partito non era né di nome né di fatto, rappresentò il collante attorno al quale la destra dimostrò di essere maggioritaria nell’elettorato.

Un conservatore?
Dipende da cosa si intende per tale. Il mondo imprenditoriale, salvo poche eccezioni, accolse la sua vittoria elettorale come una svolta decisiva per sconfiggere definitivamente il dirigismo corporativo che soffocava il Paese (i famosi “lacci e lacciuoli” stigmatizzati da Guido Carli), ma in realtà tutte le proposte dell’ufficio studi di Confindustria si sono arenate fuori dai cancelli di Arcore perchè la vera scelta del presidente fu quella di lasciare tutto com’era fingendo di cambiare tutto: una perfetta sintesi della filosofia gattopardesca che coincideva in maniera impressionante non tanto con la vecchia DC (che era una costruzione complessa al cui interno convivevano differenti strategie politiche e sensibilità sociali) quanto piuttosto con la prassi di governo della sua parte più conservatrice, i cosiddetti “dorotei”.

Nè né
Penserà la storia, man mano che il tempo avrà steso il suo manto pietoso sulle imperfezioni umane del personaggio, ad approfondire la figura complessiva di Silvio Berlusconi. Ma da liberale non posso esimermi dall’affermare che la sua leadership, intrinsecamente rivoluzionaria per il modo in cui aveva sconfitto i progetti per trasformare l’Italia in un laboratorio politico dirigista e neutralista egemonizzato da una sinistra intrinsecamente illiberale (come si profilava il compromesso storico immaginato da Moro e Berlinguer), è stata un’occasione tradita. Non per la mancata costituzione di un “partito liberale di massa”, ma per non avere avviato – avendone la possibilità – quella rivoluzione culturale liberale che l’Italia attende sin dal compimento della sua unità.

Franco Chiarenza
4 luglio 2023

Foto di Presidenza del Consiglio dei Ministri

Stiamo rischiando molto. Se il governo non trova il modo di accelerare la realizzazione del piano potremmo perdere – almeno in parte – i finanziamenti europei che dovevano servire a colmare il gap strutturale del nostro Paese. Nella Von der Leyen l’Italia ha un’alleata, anche per il buon rapporto che si è instaurato con Giorgia Meloni, ma non tutto dipende da lei e i partner europei mostrano segni di insofferenza per le nostre lentezze. L’approssimarsi del rinnovo del parlamento europeo (tra un anno) non facilita la soluzione dei problemi per le ricadute pre elettorali inevitabilmente destinate ad accentuare i contrasti, non soltanto da noi ma soprattutto nelle altre nazioni dell’Unione. Cosa sta succedendo dunque?

Le “bandierine”
Accade che la Lega, ancora scottata da un esito elettorale imprevisto e mortificata dai sondaggi che la inchiodano a un terzo dei consensi di “Fratelli d’Italia”, cerca disperatamente di piantare bandierine sui provvedimenti di governo cercando così di acquisire popolarità; e lo fa, come sempre, nel peggiore dei modi.
La Meloni aveva ereditato dal governo Draghi due pilastri di credibilità europea che andavano preservati e coltivati se voleva avere voce in capitolo facendo dimenticare il suo passato che la collocava molto vicino alle posizioni del gruppo di Visegrad: la solidarietà atlantica nel conflitto ucraino e l’attuazione del piano di ripresa e resilienza concordato con l’Unione Europea (che lo finanzia in parte con soldi a fondo perduto). In entrambi i punti l’ostacolo principale era costituito dalla velleità di Salvini di attribuirsi il merito di cambiamenti che segnassero una discontinuità con l’odiato governo Draghi (di cui peraltro faceva parte, sia pure con un piede dentro e l’altro fuori). Sull’Ucraina non c’è stata partita: la Meloni è andata avanti come un treno e Salvini (malgrado la sintonia “filo putiniana” con Berlusconi) ha dovuto rinunciare a qualsiasi possibilità di differenziarsi. Ma sul PNRR il leader leghista ha puntato i piedi; quando si tratta di soldi non si scherza. Bisognava cambiare tutto almeno nella forma, anche se nella sostanza la Commissione Europea non avrebbe consentito modifiche rilevanti, soprattutto se finalizzate a trasferire gli stanziamenti dalle infrastrutture all’assistenzialismo. Ma cambiare anche soltanto la forma (uffici, rimodulazione dei decreti, sostituzione degli staff operativi, ecc.) era il contrario di quel che si doveva fare viste le scadenze imposte dal piano: modificare la regia in corso d’opera significava infatti perdere tempo ricominciando da capo con progetti e attribuzioni di responsabilità che ne avrebbero ritardato la realizzazione. E qui, in questo cruciale passaggio, i fratelli d’Italia hanno finito per restare prigionieri delle stesse logiche dei cugini leghisti.

La resa dei conti
In tale contesto si colloca il conflitto con la Corte dei Conti. La quantità e la lentezza dei controlli sulla contabilità pubblica rappresentano da sempre una delle principali ragioni che rallentano la capacità di spesa della P.A.; non lo dice il “Liberale Qualunque”, lo affermano economisti, giuristi, imprenditori, sindaci di ogni parte politica. Accorciare (e rendere più efficiente) la catena dei controlli, eliminando duplicazioni inutili (soprattutto in corso d’opera) era non soltanto opportuno ma doveroso: lo aveva sostenuto Draghi, lo ha ripetuto pochi giorni fa Sabino Cassese con abbondanza di motivazioni. Ma la magistratura contabile si è levata indignata a protestare, come sempre fa ogni burocrazia che in un’accelerazione delle procedure vede un attacco al proprio potere di interdizione. Il tentativo di ottenere la solidarietà della burocrazia europea è però naufragato di fronte alla risposta circostanziata della presidente del Consiglio e si è risolto in una imbarazzata ritirata di Bruxelles.

Ora però bisogna sbrigarsi. I primi effetti del nostro ritardo cominciano a manifestarsi: abbiamo perso mesi preziosi per attendere che le nuove strutture divenissero operative, una parte dei fondi che dovevano essere sbloccati a dicembre è stata prudenzialmente accantonata a Bruxelles, il governo tenta disperatamente di ricontrattare le scadenze con la Commissione ma la partita non è facile, il povero ministro Fitto, incaricato di sciogliere la matassa ci si è ingarbugliato proponendo (e poi smentendo) una riduzione degli obiettivi del PNRR (e dei relativi finanziamenti con tanta fatica confermati durante il governo Draghi). E il disastro è solo agli inizi: avere privilegiato gli enti locali nella realizzazione del piano è stato un clamoroso errore che provoca ritardi, inadempienze, spinte clientelari paralizzanti. Parlando di infrastrutture essenziali per la modernizzazione del Paese la cabina di regia doveva essere centralizzata non soltanto per l’assistenza tecnica ma anche col potere di subentrare nella realizzazione dei progetti che spesso i comuni non hanno la capacità di concretizzare in tempi ragionevoli.
La presidente del Consiglio ha assicurato che questa è la strada che il suo governo intende imboccare, ma siamo in forte ritardo. Ci vorrebbe un miracolo. Forse Giorgia Meloni potrebbe contare sulla intercessione del suo vice Salvini facendogli tirar fuori dal cassetto dove custodisce i suoi ricordi i santini e i rosari esibiti in campagna elettorale. La t-shirt inneggiante a Putin meglio lasciarla piegata in un angolo in attesa di tempi migliori. Non si sa mai.

Franco Chiarenza
7 giugno 2023

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri (https://www.governo.it/it)

Ricordate Eduardo in “Napoli milionaria” dove c’era la celebre battuta “Ha da passà a nuttata”? Tutti noi che ci interessiamo di politica (cioè una piccola minoranza, gli altri erano più attratti dalla “Champion’s”) attendevamo Giorgia Meloni al varco ineluttabile del 25 aprile, la festa che celebra la Resistenza e che la sinistra ha sempre utilizzato per contrapporre ai suoi avversari politici ritenuti non abbastanza anti-fascisti la propria verginità partigiana, senza se e senza ma. La ricorrenza serviva a richiamare la distinzione fondamentale su cui doveva fondarsi la Repubblica: da una parte i partiti che avevano scritto la Costituzione (comunisti compresi, a prescindere dalle loro simpatie per il totalitarismo sovietico) e dall’altra i nuovi arrivati (Forza Italia, Lega, Alleanza Nazionale). I liberali, avendo fatto parte del CLN erano tollerati ma guardati con diffidenza.
Roba passata; il 25 aprile 2023 invece era questione di attualità.

25 aprile 2023
Nell’ottobre 2022 infatti, con una volata che ricordava le celebri imprese dei cavalli di razza quando gli ippodromi erano ancora di moda, il movimento politico “Fratelli d’Italia” aveva vinto le elezioni, facendo a pezzi la sinistra storica raggruppata nel PD e ridimensionando i suoi stessi alleati (a cominciare da Berlusconi). Dopo un secolo esatto un partito che era nato e si era sviluppato sulla memoria storica del fascismo aveva conquistato il potere; senza camicie nere, evitando marce faticose, meno rumoroso di quello degli antenati, pieno di attenzione per i ceti moderati che gli avevano aperto la strada (come peraltro era avvenuto anche quando al posto di Meloni c’era Mussolini e il Crosetto di allora si chiamava Grandi). A questo punto è cominciata una partita tutta ancora da giocare e che tiene ovviamente accesi i riflettori della pubblica opinione non soltanto in Italia ma in tutto il mondo dove nell’ultimo secolo sono cambiate molte cose. Come avverrebbe d’altronde se i neo-franchisti di Vox assumessero la guida del governo in Spagna o Marina Le Pen vincesse le elezioni in Francia, mettendo in discussione ancora una volta la credibilità democratica delle nazioni mediterranee spesso percepite come il “ventre molle” dell’Europa.

Abbiamo visto la presidente Meloni nei primi mesi di governo dedicare infatti quasi tutto il suo tempo a rassicurare gli alleati europei e americani (soprattutto i secondi) con atteggiamenti netti anti-putiniani che si contrapponevano alle ambiguità filo-moscovite dei suoi alleati di governo. In giro per il mondo senza un attimo di tregua, disseminando il cammino di scatti d’orgoglio, gaffes, ma anche nettezza di posizioni che gli sono valse – se non altro – il rispetto degli interlocutori (a cominciare da Macron che nei nostri confronti non riesce ad accantonare quegli atteggiamenti paternalistici da “soerette latine” abbastanza fastidiosi e ingiustificati). Ma l’attesa di tutti era per il 25 aprile: cosa avrebbe fatto l’erede di una memoria quanto meno revisionista nella festa dell’anti-fascismo?

La lettera
Al di là della scontata partecipazione ufficiale all’omaggio all’Altare della Patria con Mattarella e le maggiori cariche istituzionali, Meloni ha scelto di entrare a gamba tesa nel dibattito mediante una lettera al Corriere della Sera. Un intervento lungo e circostanziato in cui la presidente ha cercato di definire davanti alla parte più qualificata dell’opinione pubblica – lontano dalle piazze populiste – il suo rapporto con la memoria fascista e quindi anche la concezione di democrazia che dovrebbe caratterizzare il futuro della sua leadership facendo in modo che coincida con una visione conservatrice e moderata che in Europa ha molti punti di riferimento. Al di là di alcune imprecisioni e di qualche aggettivo improprio nulla che non si possa considerare legittimo all’interno di una dialettica pluralista come quella che piace a noi liberali. Lo smarcamento da ogni forma di totalitarismo (anche del passato) è netta e inequivocabile, il riconoscimento dei valori che hanno ispirato la Resistenza appare convinto e senza ambiguità. In sostanza un testo coraggioso che riprende e approfondisce il discorso di investitura pronunciato nel parlamento appena eletto che si accingeva a votare la fiducia al suo governo; per i suoi contenuti in rapporto ai precedenti della sua carriera politica non si tratta di una correzione di rotta ma di una vera e propria conversione. Ma la storia ci insegna che dei convertiti bisogna sempre diffidare e perciò non resta che rimettersi alla realtà fattuale dei prossimi mesi.
Nel frattempo però non si può nemmeno navigare in un continuo processo alle intenzioni attendendo ansiosamente i passi falsi del governo per poterlo delegittimare. Non è così che si fa l’opposizione. Occorre un progetto alternativo convincente in grado di riportare a casa quei tanti voti che la sinistra ha perso non per mancanza di “sinistrismo” ma, al contrario, per l’indifferenza che ha dimostrato nei confronti delle esigenze e delle preoccupazioni dei ceti medi tradizionalmente “centristi”. Elly Schlein, imposta al vertice del PD dal suo presunto elettorato, non ha ancora rivelato le sue vere intenzioni e per ora naviga prudentemente sulla consueta linea del no su cui spera di mantenere unito il partito. Calenda e Renzi, che si rivolgono a un elettorato più riflessivo, invece di chiarire pubblicamente le differenze di strategia che li dividono, hanno litigato come comari di cortile determinando un comprensibile disagio tra i loro stessi amici e dimostrando i limiti di ogni alleanza basata su leadership personali anziché su convergenze programmatiche. Dalle ceneri del terzo polo emerge soltanto un’ irrefrenabile auto-considerazione di personaggi che si sono attribuiti senza alcuna verifica una capacità di rappresentanza dell’elettorato “moderato” che si è dimostrata quanto meno velleitaria.

Ci vuole altro perchè l’Italia ritrovi una credibilità che le consenta di tornare ad essere parte attiva della costruzione di un’Europa liberale, alleata con gli Stati Uniti ma al tempo stesso punto di equilibrio della grande cintura democratica che circonda le velleità egemoniche russe e cinesi, con le quali bisognerà pure fare i conti ma su posizioni di forza, proponendo un nuovo progetto di convivenza in grado di affrontare i problemi economici, ambientali e sociali che le future generazioni dovranno risolvere.
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Franco Chiarenza
30 aprile 2023

Via Facebook Partito Democratico

E del trionfo della Schlein cosa ne pensa il “Liberale Qualunque”? Mi hanno chiesto molti amici.
Ho lasciato che la nebbia mediatica delle prime emozioni (favorevoli o contrarie) si diradasse, nel frattempo ho letto molti commenti e ho sentito pareri discordanti. Sono giunto ad alcune riflessioni tutt’altro che conclusive che cerco di riassumere.

  1. il partito democratico è nato, come è noto, dopo la fine della prima repubblica, dalla fusione a freddo di diverse tradizioni politiche che ha sempre presentato forti criticità anche nei momenti di maggiore splendore, quando il partito si è avvicinato o ha superato il 30%.
  2. per questa ragione (e per altre che riguardano alcune caratteristiche culturali della sinistra italiana per le quali rinvio agli scritti memorabili di Luca Ricolfi) la sua leadership è sempre stata difficile e continuamente contestata al suo interno, da chiunque fosse esercitata, anche quando, eliminato Renzi (considerato da molti un “corpo estraneo”), si è cercato un “cavaliere bianco” in grado di superare le fazioni, trovandolo in Enrico Letta.
  3. al suo interno, al di là dei tanti personalismi e delle differenze “stilistiche”, si possono individuare delle faglie strutturali orizzontali (cioè territoriali) e verticali (ideologiche). Le prime riflettono il diverso radicamento regionale con la prevalenza di apparati abituati ad esercitare funzioni di governo a livello locale sin dai tempi della prima repubblica, prevalenti nelle regioni centrali (Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Lazio) ma influenti anche nelle grandi città del Nord; le seconde riguardano il venir meno della tradizionale “lotta di classe” ereditata dalla tradizione comunista (e che trovava la sua saldatura anche operativa nel rapporto sinergico con la CGIL) e la sua sostituzione con sensibilità meno legate alla giustizia sociale e maggiormente attente alla coesione sociale (diritti delle minoranze, diseguaglianze, simpatia per le radicalità ambientaliste).
  4. non sempre queste diversità sono componibili nella formulazione di una proposta politica chiara e riconoscibile, troppe essendo le convenienze di cui bisogna tenere conto. Tanto più che il partito democratico ha ereditato dall’imprinting originario di Veltroni la certezza (un po’ presuntuosa) di essere il solo in grado di rappresentare legittimamente l’interesse generale (cristallizzato in qualche modo nella difesa oltranzista delle parti più ideologiche della Costituzione “più bella del mondo”). Una convinzione che presupporrebbe una conduzione del partito non partigiana, difficile da esercitare nel clima politico di scontro permanente generato dagli estremismi di ogni colore (da quelli stellati di Grillo ai t-shirt putiniani di Salvini).

Schlein fa rima con “nein”
Tutto ciò premesso, l’elezione di Ely Schlein (la quale al PD non era nemmeno iscritta e condivide la cittadinanza italiana con quelle della Svizzera e degli USA) è stata possibile per la conformazione di “partito aperto” che sin dalle origini Veltroni aveva voluto per limitare il peso delle correnti interne e offrire un’immagine “moderna” di una nuova sinistra di governo affidabile e aderente alle esigenze che salivano dalla base elettorale, anche al di là dei suoi confini storici. Nessuno immaginava allora che le “primarie” aperte a tutti da strumento di partecipazione potessero trasformarsi in uno strumento potenzialmente in grado di consentire scalate ai vertici del partito anche in contrasto con la volontà degli iscritti. E invece proprio questo è avvenuto con l’imprevisto trionfo della Schlein generando una scossa elettrica che, al di là di ogni considerazione di merito, ha rivitalizzato il partito costringendolo a prendere atto che la vittoria elettorale della destra cambiava radicalmente il modo stesso di fare opposizione. Le primarie hanno messo in luce la debolezza crescente della dimensione “territoriale” del partito (che aveva appoggiato la candidatura di Bonaccini) e la capacità attrattiva anche sull’elettorato di sinistra di un ecologismo plebiscitario condito in salsa egualitaria, non molto diverso da quello che Grillo e Casaleggio proponevano agli esordi del movimento Cinque Stelle.

La Schlein si trova adesso a gestire una situazione molto difficile ma densa di risvolti interessanti non soltanto per il partito democratico ma per tutto lo schieramento politico. Ha due possibilità: porsi come leader di un’opposizione a tutto campo nei confronti del governo Meloni (riedizione aggiornata del “campo largo” di Letta) che le consentirebbe di mantenere unite le diverse componenti del partito e di non essere cannibalizzata da Conte sull’agenda “propositiva”, oppure puntare decisamente alla creazione di un polo di “sinistra/sinistra” destinato a una lunga opposizione ma fortemente riconoscibile nella sua radicalità; una sorta di “traversata nel deserto” come quella che pazientemente ha percorso a destra Giorgia Meloni.
Nel primo caso dovrà fare i conti con Calenda (che già vede profilarsi uno spazio di centro finora rimasto molto limitato) ma ancor più con Renzi, il quale probabilmente mantiene sottotraccia rapporti “incestuosi” con settori minoritari del PD; se invece virerà decisamente a sinistra sarà con Conte che dovrà vedersela, e non sarà facile perchè l’avvocato di Volturara Appula si è dimostrato spregiudicato nel gioco al rialzo.
Naturalmente nulla accadrà finchè si tratterà di dire no al governo; il problema si mostrerà nella sua complessità quando l’attuale maggioranza metterà sul tavolo alcune misure (scuola, giustizia, riforme costituzionali) su cui potrà trovare una sponda dialogante al centro, oppure quando l’opposizione cercherà di trasformare lo slogan del “campo aperto” in un vero programma alternativo. Il tutto in un momento in cui anche alcune scelte di politica internazionale fino ad oggi condivise (NATO e Europa) sembrano vacillare. Quando si comincia a parlare di adesione critica e non subordinata è come quando in un matrimonio uno dei coniugi accenna alla necessità di una “pausa di riflessione”. Si sa come va a finire.

Franco Chiarenza
21 marzo 2023

Via https://www.governo.it/it

In politichese “cento giorni” sta a significare una prima valutazione dell’esordio di qualsiasi nuovo governo. Nel caso di Meloni bisogna tenere conto della difficoltà di chiudere in tempi brevi un bilancio già in gran parte definito dal governo precedente, di un elettorato che chiedeva un rapido mantenimento delle promesse elettorali, di una situazione internazionale caratterizzata dall’aggressione russa all’Ucraina. La nuova premier ha subito indicato come priorità assoluta la politica estera allineandosi prontamente al fronte NATO (dove Draghi l’aveva già collocata) e andando all’assalto della fortezza UE come sempre presidiata dall’asse franco-tedesco, pregiudizialmente ostile al suo governo percepito come espressione di una maggioranza nazional-populista più vicina ai regimi illiberali di Varsavia e di Budapest che non ai tradizionali sistemi liberal-democratici che hanno sempre prevalso nell’Europa occidentale.
Bisogna dare atto alla Meloni di non essersi nascosta dietro un velo di ipocrita concordanza di vedute (come spesso avviene nei vertici europei) e di avere subito accettato di affrontare i problemi prendendo il toro per le corna, forte del fatto che molti rilievi avanzati dall’Italia sono legittimi e in linea di continuità con la politica estera di Draghi. Le critiche dell’opposizione infatti non riguardano tanto il merito delle tesi sostenute dalla presidente quanto piuttosto il metodo utilizzato che rischia di isolare la posizione italiana.

Isolamento?
Certo, l’isolamento è, almeno in parte, la conseguenza inevitabile della difesa di alcune esigenze a cui l’Unione non ha mai dato risposte convincenti, a cominciare dai flussi migratori provenienti dall’Africa che – piaccia o no – suscitano grande preoccupazione nell’opinione pubblica (non soltanto di destra). Seguono a ruota decisioni mascherate da esigenze ambientali che rischiano di avere pesanti ricadute sull’economia del nostro Paese: finanziamenti pubblici alle imprese in difficoltà, blocco della produzione automobilistica benzina/diesel, ristrutturazioni edilizie eco-compatibili. Sembra quasi che la Francia e la Germania vogliano spingere l’Italia verso l’area dei paesi europei illiberali (gruppo di Visegrad) per punirla di avere scelto un governo non allineato all’asse “polically correct” franco-tedesco, appoggiato, come sempre, dall’Olanda e da altri paesi del nord. Soltanto la Von der Leyen sembra rendersi conto della pericolosità di questa strategia oltranzista, ma la sua posizione appare sempre più debole anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno il cui esito appare quanto mai incerto.
A fronte di questa situazione Giorgia Meloni, invece di una strategia accomodante fondata sulla variabilità degli schieramenti europei, ha scelto – almeno per ora – una linea di discontinuità cercando fuori dall’Unione opportune compensazioni, a cominciare dagli accordi per assicurare al Paese una minore dipendenza energetica dalla Russia. Ma i conti alla fine si fanno a Bruxelles dove Salvini e Berlusconi l’attendono al varco; Berlusconi ha già cominciato la sua offensiva difendendo Putin, il leader della Lega si muove con maggiore prudenza ma tutti sanno come la pensa. Il vero isolamento la Meloni lo rischia in casa.

Il superbonus
La prima vera emergenza è stata (ed è) il rischio che scoppi la bolla finanziaria creata dall’abuso del superbonus per le ristrutturazioni immobiliari, sciagurato provvedimento che di fatto ha consentito la creazione di una moneta parallela (costituita dalla cedibilità illimitata dei crediti) che potrebbe costare al bilancio pubblico diversi miliardi di euro e uno scontro senza precedenti con l’Eurogruppo. La Meloni è stata netta nell’affrontare la questione e nel ricordare l’irresponsabilità demagogica di chi quel provvedimanto aveva voluto (Cinque Stelle) e che già Draghi aveva duramente stigmatizzato: in economia nulla è gratis – ha ricordato la premier – c’è sempre qualcuno che paga, magari senza saperlo (pareva di sentire Bastiat). La Lega, corresponsabile di tanto scempio con le ambigue scelte di Salvini, si ritrova ora con Giorgetti a dovere risolvere il problema, mettendo in luce ancora una volta il solco che divide la Lega di lotta (in t-shirt) da quella di governo (china a fare i conti con i buchi di bilancio). Intanto molti cantieri edili, frettolosamente aperti per fruire della manna che pioveva gratis dal cielo stellato, rischiano di chiudere mettendo per strada migliaia di lavoratori, che, tanto per cambiare, serviranno da alibi per tutelare gli interessi dei troppi “furbetti del quartierino”, speculatori ingordi che trovano sempre compiacenti coperture politiche.

Per il resto si registra poco più di qualche maldestro comportamento del discutibile “cerchio magico” di Meloni che ha dato il peggio di sé nel decreto sui “rave party”, nel tentativo di indebolire Nordio sul caso Cossipo e in sortite poco meditate del ministro della pubblica istruzione. Anche in questi casi la presidente del Consiglio resta danneggiata dalla superficialità di alcuni suoi ministri e vice ministri, che – come tutti i neofiti – pensavano all’entrata nelle mitiche “stanze dei bottoni” come se fossero sezioni del loro partito.

Lazio e Lombardia
Archiviate le elezioni nelle due regioni dove ha vinto in maniera schiacciante il partito dell’astensione, governo e opposizioni devono ora fare i conti con la realtà. L’astensionismo dei lombardi e dei romani non ha sorpreso nessuno; semmai colpisce la dimensione del fenomeno (in parte dovuto al fatto che il risultato era dato per scontato) perchè segnala come la metà dell’elettorato appaia chiuso in una rassegnazione fatalistica senza sbocchi politici; in particolare siamo delusi noi liberali che speravamo con l’alleanza di centro (Calenda – Renzi – Bonino) di costituire un terzo polo in grado di condizionare sia la destra al governo che l’opposizione di sinistra. Purtroppo anche le due capitali – Roma e Milano – considerate le loro roccaforti elettorali, non hanno dato segnali incoraggianti. Non resta che attendere la nuova leadership del PD per capire come pensa di recuperare i tanti voti che ha perso negli ultimi anni.
Forse però, prima dei problemi di identità dei partiti, per ridare vitalità e progettualità alla politica italiana occorrerebbe affrontare questioni strutturali che nella convenienza di tutti si potrebbero discutere seduti intorno a un tavolo, cercando ragionevoli compromessi, Sappiamo tutti quali sono: alcune modifiche alla seconda parte della Costituzione, un riassetto delle autonomie regionali più razionale e omogeneo di quello proposto dalla Lega, il completamento della riforma della giustizia, la legge elettorale, la scuola. Problemi su cui non si può continuare il gioco della visibilità mediatica fondata sulle distinzioni ma, al contrario, si dovrebbe cercare il massimo comune denominatore di cambiamenti da tutti ritenuti necessari.
Poi, trovato un accordo sulle modifiche alle regole del gioco, si potrà riprendere la competizione con un maggiore interesse del pubblico pagante, quello che oggi – disgustato – preferisce andare al mare anche nella cattiva stagione.

Franco Chiarenza
08 marzo 2023

 Mondarte, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Un mese fa moriva Benedetto XVI. La sua scomparsa ha ovviamente riacceso l’attenzione su questo personaggio che, tra le altre ragioni, passerà alla storia per essere stato dopo molti secoli il primo pontefice ad abdicare, lasciando campo libero ai suoi contestatori che infatti non persero tempo a innestare una marcia diversa nella guida della Chiesa (se avanti o indietro dipende dai punti di vista) chiamando alla cattedra di San Pietro quanto di più diverso da lui si potesse immaginare, Jorge Mario Bergoglio.
Gli analisti, i vaticanisti, gli esperti di religione si sono sbizzarriti come non mai, ma a me liberale la vicenda interessa soltanto per le ricadute politiche e sociali che può determinare (come d’altronde ogni altra questione che riguarda il perimetro religioso).

L’eredità di papa Giovanni
Per comprendere quanto è avvenuto e ancora potrebbe accadere nella trasformazione del cattolicesimo romano (che del cristianesimo – non dimentichiamo – è soltanto una parte, anche se la più consistente) bisogna risalire alla rivoluzione provocata negli anni ’50 del secolo scorso da papa Roncalli il quale in soli cinque anni attraverso l’autorità di un concilio universale (Vaticano II) impose una svolta che liberava la Chiesa dal settarismo dogmatico della tradizione tridentina, ancora dominante col suo predecessore Pio XII, aprendola al dialogo e alla tolleranza e, in sostanza, ai valori della civiltà liberale (pluralismo, democrazia, dialogo inter-religioso) che ancora pochi anni prima Pio XI (quello che aveva definito Mussolini “uomo della Provvidenza”) bollava con parole di fuoco.
Fu allora che si delineò uno scontro decisivo ai vertici della Chiesa che provo a riassumere in modo semplice (che giustamente i teologi e gli esperti troveranno superficiale e approssimativo); uno scontro dai cui esiti sarebbero dipese importanti ricadute politiche nei paesi a forte presenza cattolica (ed è per questo che ce ne interessiamo). La Chiesa doveva cambiare la sua essenza, anche a costo di modificare tradizioni secolari, per diventare un interlocutore credibile del mondo moderno, oppure chiudersi nelle sue certezze dogmatiche e continuare la sua opposizione a ogni forma di relativismo implicita nella concezione liberale? Il Concilio, anche per la spinta dei vescovi che venivano da realtà distanti da Roma e dall’Europa, non ebbe dubbi nella scelta che fu poi sostanzialmente proseguita (con qualche sussulto ma in sostanziale coerenza) dal papato di Montini e dalla attiva presenza del cardinale Martini. Ma una parte importante del clero temeva che la strada imboccata dal Concilio portasse alla “protestantizzazione” del cattolicesimo e alla perdita dei valori morali su cui la Chiesa cattolica fondava le sue pretese egemoniche; alla morte di Paolo VI queste preoccupazioni prevalsero e la scelta del successore cadde su un cardinale polacco morbido e accattivante nella forma, rigido e reazionario nella sostanza, Giovanni Paolo II, la cui ombra in materia dottrinale era il cardinale Ratzinger che puntualmente (oserei dire inevitabilmente) fu eletto papa alla sua morte, prevalendo in conclave sul cardinale Bergoglio che già allora Martini e i cardinali a lui vicini avrebbero preferito.

Il cortile dei Gentili
Ratzinger non era uno sprovveduto e tanto meno poteva ignorare i complessi ingranaggi della Curia romana, anche nei loro aspetti meno trasparenti, se non altro per averne fatto parte nel ruolo fondamentale di prefetto del Santo Uffizio (ribattezzato Congregazione per la dottrina della fede) per 25 anni. Le sue impreviste dimissioni nel 2013 non potevano dipendere dal disgusto per gli scandali che agitavano il Vaticano, come si volle far credere; furono invece la conseguenza della sconfitta del teorema dottrinale che Benedetto XVI aveva cercato di accreditare per bloccare la trasformazione messa in atto dal Concilio.
I segnali erano stati chiari (per chi voleva vederli) sin dall’inizio: la canoniozzazione di Roncalli fu bloccata, per converso quella di papa Pacelli (opportunamente avviata su un binario morto dai suoi predecessori) riprese vigore, la messa in latino (simbolo della tradizione di incomunicabilità che risaliva al concilio di Trento) parzialmente restaurata, ecc. Ma non si trattò soltanto di fermare un processo di modernizzazione dell’istituzione ecclesiale, si cercò soprattutto di indicare una possibile alternativa al Vaticano II che risolvesse in qualche modo il problema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo moderno, di cui Ratzinger – osservatore attento e intelligente delle trasformazioni sociali – era ben consapevole.
In cosa consisteva la proposta di papa Benedetto? Premesso che è difficile per me e quanti non hanno la preparazione necessaria, inoltrarsi nel labirinto delle verità religiose, irrazionali per definizione, io l’ho capita così, e anticipo subito di averla trovata, per come l’ho letta, molto interessante e tutt’altro che banale, e comunque lontana dalle semplificazioni a cui si sono abbandonati alcuni commentatori.
La chiave di lettura sta nel ben noto esempio del “cortile dei Gentili”, fondamentale nella predicazione di San Paolo di Tarso (e non a caso rievocato più volte da Ratzinger). In cosa consiste? Nella negazione (allora rivoluzionaria) del carattere esclusivo e identitario delle religioni. I cristiani non dovevano chiudersi nelle loro certezze fideistiche (come facevano gli ebrei) ma aprirsi al dialogo con chi non lo era (i “gentili” appunto, cioè i non ebrei e anche i non credenti, nel linguaggio delle sacre scritture). Ecco quindi la soluzione: la Chiesa non poteva e non doveva transigere né in materia di fede (e quindi di dottrina) né sulle proprie tradizioni identitarie; poteva però cercare un terreno di incontro con i non cattolici per trovare punti comuni su cui convergere. Per esempio alcuni principi morali e comportamenti che, secondo Ratzinger, derivano dalla cultura cristiana anche se sono entrati nel sentire comune a prescindere dalla pratica religiosa; dalla qual cosa deriverebbe la necessità di riconoscere, anche nei moderni stati liberal-democratici alle religioni un rilievo istituzionale fondato sulle loro radici storiche.
Non solo; su queste basi monoteistiche (comune credenza nell’esistenza di un unico Dio) Benedetto XVI pensava di aprire un varco al dialogo non soltanto con i diversi cristianesimi ma anche con i settori più ragionevoli del mondo musulmano.
Come si vede una prospettiva intelligente, non accettabile per i liberali nelle sue premesse perchè non coincide con la storia stessa della Chiesa, con la sua intolleranza, con il rifiuto del relativismo illuministico, con tutto ciò che appunto comporta un cambiamento interno e radicale del cattolicesimo, ma assolutamente rispettabile nel comprensibile sforzo di salvaguardare la Chiesa nella integrità storica che l’aveva formata. A questo punto del ragionamento c’è sempre qualcuno che alza il cartellino giallo, anche tra i liberali; come la mettiamo con Benedetto Croce e il suo “perchè non possiamo non dirci cristiani”? La mia risposta, su cui in questa sede non mi dilungo, è fondata sulle origini non liberali del primo idealismo di Croce e su una lettura discutibile delle distinzioni che Croce attribuisce al cristianesimo delle origini, che comunque non è quello del cattolicesimo istituzionalizzato.

Quale futuro?
Dopo l’abdicazione il nuovo pontefice, sia pure con molta prudenza e l’adozione di comportamenti e linguaggi piuttosto confusi e demagogici, ha chiuso Ratzinger in un convento a portata di mano non soltanto fisicamente ma anche concettualmente, attendendo pazientemente che il buon Dio lo chiamasse a sé; e neanche allora è riuscito a soffocare le voci di dissenso che dividono il cattolicesimo; anche da morto papa Benedetto fa sentire la presenza delle sue idee con cui comunque la Chiesa dovrà fare i conti. Questo sarà il nodo che dovrà sciogliere il prossimo conclave, ormai prevedibilmente vicino. Le porte di Santa Marta forse potrebbero presto aprirsi per lui; chissà se ci sarà ad attenderlo padre Georg!

Franco Chiarenza
31 gennaio 2023

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Tutti gli esperti della politica nostrana erano unanimi: Giorgia Meloni, a differenza di Berlusconi e Salvini, ha dietro di sé un partito e un gruppo dirigente compatto, ben organizzato e fedele alla leader. Ebbene, i casi di La Russa e Rauti dimostrano che non è esattamente così. Le loro uscite nostalgiche non sono incidenti di percorso ma fratture non casuali che da sempre hanno caratterizzato la storia del neo-fascismo italiano.

Radici allo scoperto
Sin dalla sua fondazione nel lontano 1946 il Movimento Sociale era attraversato da un solco che non si è mai rimarginato, malgrado il frequente passaggio dei suoi esponenti dall’una all’altra sponda. Da un lato c’era l’ambizione di rappresentare i ceti medi (in qualche misura tutti compromessi col regime fascista almeno fino al 1943) che cercavano un approdo nella nuova democrazia che non ne mettesse in discussione le scelte del passato, dall’altro i reduci dell’estremismo filo-nazista di Salò legati a formazioni eversive fanatiche e violente, ancora convinti che l’autoritarismo nazionalista avesse un futuro; il MSI, sin dalla denominazione, si ispirava a questo secondo aspetto (la Repubblica di Salò si chiamava Repubblica Sociale). I suoi referenti culturali erano gli stessi del fascismo rivoluzionario dei primi tempi e le affinità col razzismo egemonico del nazismo del tutto evidenti. Scegliendo però un moderato come Michelini alla guida del movimento l’oltranzismo sembrò impantanato nel procedere di un’egemonia democristiana che non lasciava molto spazio alla destra. Per di più le connessioni col sorgente terrorismo nero (che contrapponendosi formalmente a quello rosso in realtà ne condivideva metodi violenti e finalità eversive) costringeva il MSI ad acrobazie politiche e dialettiche che ne limitavano fortemente l’incidenza politica. Il subentro di Almirante a Michelini aveva segnato una svolta consentendo al nuovo segretario di esercitare una leadership moderata tanto più incontestabile quanto più proveniente da posizioni oltranziste (l’analogia tattica con la Meloni salta agli occhi). Ma i tempi non erano maturi e dopo la sua morte l’integralismo estremista era tornato a trionfare con Pino Rauti (padre di quella Isabella che oggi mette il bastone tra le ruote al centro-destra) e ci vollero l’abilità e l’influenza di donna Assunta (vedova di Almirante) per riportare alla segreteria l’erede designato, il giovane Gianfranco Fini. Con lui cessò di esistere il MSI, nacque Alleanza Nazionale e, attraverso l’alleanza con Berlusconi, si completò la sua piena legittimazione democratica che comportò anche un processo di revisione ideologica che allontanava definitivamente il movimento dalle radici fasciste e da ogni tentativo di revisione storica sulle sue responsabilità; a Julius Evola subentrava Domenico Fisichella.
“Fratelli d’Italia” costituisce un curioso ibrido: nato dalla crisi di AN vorrebbe tenere insieme radici illiberali e anti-democratiche come quelle difese da La Russa e Isabella Rauti e la svolta di Fiuggi il che costituisce una contraddizione irrisolvibile. La loro sembrava una scissione marginale senza futuro ma invece gli errori degli altri partiti hanno spinto il movimento fondato da Meloni, La Russa e Crosetto fino alla maggioranza conseguita nelle elezioni del 2022. Dopo le delusioni stellari di Grillo e quelle balneari di Salvini l’elettorato di centro destra cercava un approdo rassicurante e Giorgia Meloni ha saputo approfittare di questa congiuntura per giocare la sua partita con abilità e intelligenza. Ma deve fare attenzione.

Le trappole
Gli estremisti che militano nel suo partito hanno colto la prima occasione (l’anniversario della fondazione del MSI) per lanciare un avvertimento: non si lasceranno isolare dalla svolta “responsabile” della loro leader e dopo l’approvazione del bilancio (che, nelle parti essenziali, ricalca quello predisposto da Draghi), si faranno sentire. Si spiega così la scelta di La Russa di puntare alla presidenza del Senato da dove può meglio esercitare una mediazione tra il governo e l’ala radicale del partito. La Destra torna quindi a oscillare tra le tentazioni di regime che l’avvicinano ai partiti nazionalisti reazionari di altre parti d’Europa e la tradizione liberal-democratica di una parte consistente dell’elettorato che ha acquisito. Speriamo che la presidente Meloni si renda conto che si tratta di un’altalena pericolosa soprattutto nel nostro Paese dove per fortuna le inclinazioni autoritarie reazionarie sono di modesta entità; il timore di una svolta autoritaria potrebbe nuovamente spostare masse consistenti di voti.

L’eredità fascista
Pesa come un macigno l’eredità fascista in analogia con quanto avvenne a sinistra con quella comunista. Come gli storici che lo hanno studiato ci ricordano, il fascismo è stato molte cose: l’idealismo deviato di Gentile, la sintesi di filosofie come quelle di Hegel, Sorel, Nietzsche che hanno fatto da supporto alle teorie dello Stato assoluto, persino una rielaborazione pasticciata del corporativismo di De Ambris, ma non è di questo che si tratta. Il fascismo è stato innanzi tutto un metodo violento di lotta politica finalizzato a realizzare un sistema politico totalitario dove ogni forma di dissenso era proibita fino a impedire la stessa libertà di espressione. Il razzismo, teoria della superiorità ariana fatta propria dal nazismo e portata ad aberrazioni criminali da Hitler e dai suoi sodali, non ne costituisce l’aspetto peggiore, anche perché è troppo facile – oggi che è rimosso dalla cultura occidentale – fare un rapido viaggetto a Gerusalemme per farsi fotografare davanti al muro del pianto. La parte più pericolosa del neo-fascismo è l’illusione che l’autoritarismo nazionalista attraverso la legittimazione della violenza costituisca la risposta più efficace al settarismo dell’integralismo islamico che un’immigrazione incontrollata sta portando anche da noi.
Se dovesse passare il teorema che per evitare ogni contaminazione bisogna contrapporgli un fanatismo cristiano radicale anche a costo di rinunciare ad alcuni diritti costitutivi della nostra cittadinanza sarebbe facile derivarne la giustificazione storica del fascismo e quindi la possibilità di riproporlo in forme nuove, forse più attente a un pluralismo di facciata ma tuttavia più invasive di un monopartitismo esplicito: Kaczyinski, Orban e Erdogan sono tra noi e sopravvivono indisturbati. Attenta, presidente Meloni: è una strada scivolosa che porterebbe noi liberali da una prudente attesa a una decisa opposizione.

Franco Chiarenza
4 gennaio 2023

Di Eugène Delacroix – Erich Lessing Culture and Fine Arts Archives via artsy.net, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=27539198

Quando si stigmatizzano le repressioni del dissenso in Iran, in Russia, in Cina, in molti commenti critici si nota una costante: quella di negarne la legittimità perché anche noi (occidentali o comunque liberal-democratici) abbiamo fatto e facciamo le stesse cose; e si ricorda immancabilmente l’Iraq, la Libia, il Kossovo (di solito non si cita la Siria distrutta dai russi per sostenere il regime di Assad e che ha prodotto una fuga in massa che non ha equivalenti). Come se il fatto che anche gli americani oggi e gli europei in passato abbiano compiuto azioni riprovevoli giustificasse in qualche modo gli orrori di cui Putin si è reso responsabile in Ucraina (e prima ancora in Cecenia e in Georgia) o la violenta repressione contro le donne in rivolta compiuta dal regime clericale scita in Iran.
La differenza c’è e per i liberali è fondamentale; chi non la vede o è in mala fede oppure non attribuisce alle libertà individuali lo stesso peso che gli diamo noi.

La libertà di espressione
Tale differenza consiste nel fatto che le azioni compiute dagli americani sono state fortemente contestate in America e nei paesi liberal-democratici attraverso i mezzi di comunicazione di massa, in parlamento, fino, in taluni casi, a costringere i governi a fare marcia indietro; come avvenne, per esempio, in anni lontani in Vietnam, fino a far dire che la guerra i vietcong l’avevano vinta a Washington piuttosto che a Saigon. La libertà assoluta di espressione delle proprie opinioni è tutelata da rigorose norme costituzionali negli USA (primo emendamento, Bill of Rights) e in tutti i paesi democratici (da noi con l’art.21 della Costituzione); l’indipendenza dei parlamenti dai rispettivi governi su questioni vitali è dimostrata da moltissimi esempi (a cominciare dalla bocciatura di alcuni trattati europei).
Di che stiamo parlando dunque? Esiste qualcosa di simile in Cina (vedi le repressioni del regime contro gli studenti di Hong Kong), in Iran (dove si impiccano i ragazzi perché “non credono in “Dio”?), in Russia dove leggi speciali hanno definitivamente chiuso la bocca ad ogni critica e gli oppositori marciscono in galera (quelli fortunati, gli altri vengono uccisi per strada o col veleno, o, più recentemente, buttati dalla finestra).

La libertà di non essere liberali
Non a caso Putin sostiene che il liberalismo è superato, Xi salva il capitalismo protetto dallo Stato ma condanna ogni forma di pluralismo politico (avendone cancellato le tracce residue a Hong Kong), e purtroppo anche Erdogan in Turchia e Orban in Ungheria marciano nella stessa direzione. La convinzione che emerge dietro gli interventi che giustificano i regimi illiberali è, a ben vedere, collegata all’idea che l’uso della violenza sia necessario per garantire l’interesse nazionale, col conseguente corollario che le democrazie sono divise, deboli e destinate a soccombere. Noi liberali invece riteniamo che la cultura occidentale sia vincente proprio perchè è tollerante, si fonda sulla libertà di espressione, costringe i suoi avversari ad argomentare le loro ragioni senza ricorrere alla forza, ed è quindi in grado di correggere i propri errori. Da sempre i dittatori cadono anche perchè, ingannati da cortigiani adulatori, finiscono per credere alla loro stessa propaganda.
Tutte balle? La libertà è finta, poteri occulti ci manovrano come marionette? La concupiscenza americana è il nemico da combattere, anche quando il lupo si traveste da agnello? Cadiamo nel più vieto complottismo che potrebbe essere tranquillamente rovesciato: e se qualcuno manovra certi contestatori da strapazzo magari ungendo le ruote perchè scorrano silenziose? I fatti ci danno ragione: i muri, i veli, i divieti sono sempre più fragili e prima o poi cadranno rendendo il mondo inevitabilmente conflittuale ma abitato da uomini e donne che vogliono essere liberi. Regolare i conflitti è una cosa (e a questo servono le costituzioni democratiche), negarne l’esistenza attraverso la soppressione dei diritti individuali è roba da caserma (o da campo di concentramento, se si preferisce).

Franco Chiarenza
3 gennaio 2023

P.S. Molti replicheranno che lo scandalo del Qatar dimostra la corruttibilità delle democrazie liberali. Sarebbe un argomento convincente se in Russia gli oligarchi protetti dal Cremlino non si fossero mangiati quote rilevanti dell’intero pil di quel paese e se i cinesi non avessero ammesso pubblicamente che la corruzione è il principale problema che il regime non riesce a contenere,
Anche in questo caso con una differenza: in Europa dello scandalo Qatar si scrive e si discute liberamente, in Russia e in Cina la denuncia non è accompagnata dalla trasparenza necessaria per coinvolgere l’opinione della gente comune, fattore indispensabile per un efficace contrasto a un fenomeno criminale che purtroppo riguarda tutti. FCh.

Foto: Steve Rhodes – Flickr

C’è qualcosa in comune in ciò che sta avvenendo in parti del mondo diversissime tra loro: si nota un filo rosso che unisce soprattutto i giovani delle ultime generazioni e che riprende un’importante eredità del passato, quella della tutela dei diritti individuali. Le contestazioni che stanno agitando la Cina, l’Iran e quelle che hanno costretto gli autocrati di Mosca e della Turchia a imporre il bavaglio a ogni libera manifestazione del pensiero, sono esplose per ragioni diverse ma trovano il loro punto di sintesi nel rifiuto del paternalismo autoritario e una domanda ricorrente di restaurare lo stato di diritto dove viene platealmente negato. Sono le ragazze dei paesi islamici che rivendicano la libertà di esprimersi, i democratici turchi che si richiamano alla separazione tra stato e religione, i giovani russi che rifiutano il nazionalismo aggressivo di Putin, i nipoti di Tien An Men che cercano di liberarsi dalla gabbia oppressiva del regime capital-comunista. Non si tratta di una facile retorica liberale che ci fa sognare impossibili rovesciamenti di regimi in cui il potere è troppo consolidato per essere seriamente minacciato dall’emergere di sentimenti che non hanno ancora trovato un punto di convergenza tra loro; tuttavia si avverte un segnale chiaro di movimento delle coscienze che infatti i regimi autoritari non sottovalutano, come è dimostrato dalla violenza della loro reazione.

Un nuovo quarantotto?
Il ’48 (non il 1948 ma quello di un secolo prima, 1848) fu un movimento sotterraneo che esplose dopo un lungo processo di erosione che originava dall’onda lunga della rivoluzione francese e che l’autoritarismo clericale dell’epoca cercò invano di delegittimare e reprimere. Fu alimentato soprattutto da giovani, trovò nelle università il luogo dove organizzarsi, si sviluppò prevalentemente nelle grandi città metropolitane, attraversò trasversalmente nazioni tra loro diversissime come la Francia, gli stati tedeschi, l’impero asburgico, il Piemonte, la Toscana, il loro punto di riferimento fu la Gran Bretagna dove da due secoli si era affermato uno stato di diritto. Stanno creandosi le condizioni per qualcosa di simile? E’ una domanda e, al tempo stesso, una speranza.
Naturalmente le condizioni sono molto diverse: oggi le preoccupazioni maggiori sono legate alla questione ambientale, la rete interattiva consente un’estensione della comunicazione non paragonabile a quella che la stampa garantiva in passato. Radio e televisione sono facilmente controllabili dal potere ma trovano ascolto soprattutto nelle generazioni di mezzo mentre i più giovani comunicano prevalentemente attraverso i social-network. Ed è questa la ragione per cui la domanda di libertà si identifica oggi in maniera specifica con la libertà di espressione.
Le emergenze globali che mettono in discussione gli equilibri esistenti sono riconosciute da tutti ma proprio perchè alterano le condizioni esistenziali ereditate dal passato possono essere affrontate in due modi: cercando di contrastare i cambiamenti e quindi sostenendo regimi autoritari in grado di reprimere il dissenso anche a costo di rinunciare ai propri diritti individuali, oppure dando credito ai sistemi politici e sociali liberal-democratici confidando nella loro capacità di governare gli inevitabili processi di trasformazione con la necessaria flessibilità.
Immaginare il futuro è sempre difficile e quasi sempre non ci si azzecca; ma quello che io – da liberale qualunque avverto e che fa ben sperare – è la crescita di una domanda giovanile di autonomia e di rifiuto di ogni paternalismo. Che questo movimento abbia radici nel passato e che si identifichi col liberalismo però non va detto perchè i giovani sono da sempre presuntuosi e pensano che la storia dell’umanità cominci con loro (e hanno torto) e sono allergici ad ogni ideologia totalizzante che finisce per “ismo”, come socialismo, comunismo, cristianesimo, islamismo, nazionalismo, atlantismo, europeismo, ecc. (e forse hanno ragione).

Lo scambio: libertà contro sicurezza
L’offerta di maggior sicurezza in cambio della rinuncia ad alcuni diritti individuali è sempre stata l’arma che ha consentito ai regimi autoritari di affermarsi. Oggi, a fronte di cambiamenti radicali che sconcertano anche per la loro imprevedibilità, si sostiene che per contenere il prevalere di sentimenti incontrollabili e consentire un’unità di comando più adatta ad affrontare le emergenze, i sistemi democratici pluralisti non siano in grado di fronteggiare in maniera efficace le difficoltà che si presentano. Ma si tratta di una convinzione sbagliata e pericolosa. Mai come oggi – con la diffusione di mezzi di comunicazione incontenibili – serve un bilanciamento tra i poteri dello Stato che consenta decisioni equilibrate in un sistema politico che permetta il confronto delle opinioni.
L’alternativa è un dispotismo necessariamente violento che cerca soltanto il mantenimento del potere e dei privilegi che ad esso vengono attribuiti senza alcun controllo della pubblica opinione.
Le democrazie liberali hanno molti difetti ma sono in grado di rigenerarsi, le autocrazie illiberali producono Putin, Xi Jinpeng, Erdogan, Al Sisi, ecc. La destra italiana, giunta al potere senza condizionamenti, è davanti a un bivio: o rappresentare il polo conservatore di una dialettica democratica nel quadro di comuni valori liberali, o seguire Orban e il gruppo di Visegrad sulla strada scivolosa della negazione dei diritti individuali. A parole con il discorso alla Camera di Giorgia Meloni la scelta è stata fatta; ora si tratta di tradurla in comportamenti coerenti. Non si può stare con il piede in due staffe: sulle convergenze ideologiche con movimenti che spingono verso un esercizio autoritario del potere (come Vox in Spagna, alcuni partiti populisti nei Balcani, l’estrema destra in Francia, ecc.) nell’azione di governo con le democrazie liberali. Occorre chiarezza.

Franco Chiarenza
06/12/2022

Foto di Mstyslav Chernov – Wikimedia – CC BY-SA 4.0

Salvini c’è riuscito. Riportare la questione degli immigrati al centro dell’attenzione in un momento in cui le preoccupazioni degli italiani erano rivolte altrove poteva sembrare un azzardo, ma con l’aiuto involontario delle ONG e di Macron c’è riuscito. Ha messo in difficoltà la Meloni costringendola ad arretrare sul passato, ha messo in difficoltà i rapporti con l’Europa proprio quando la presidente del Consiglio voleva ammorbidirli, ha lanciato un messaggio chiaro ai militanti della destra su chi nel governo dettava l’agenda. Una gara che fa tanto ricordare la famosa scena del film di Chaplin “Il dittatore” quando il Duce e il Fuhrer spingono in alto le poltrone da barbiere. Il che conferma che i suoi veri avversari la leader di “Fratelli d’Italia” dovrà cercarli all’interno della sua maggioranza, tanto più che dall’opposizione parlamentare per ora non ha nulla da temere. E dire che per scansare il pericolo la neo-presidente le aveva pensate tutte: allontanare Salvini dal Viminale, silenziarlo con l’atlantismo, collocarlo lontanissimo dalla Farnesina, creare un apposito ministero del mare affidandolo a un berlusconiano per impedirgli l’accesso al Papeete da dove magari tra un bagno e l’altro poteva ordinare di affondare i barchini carichi di immigrati che sbarcavano sulle coste; affidandogli le infrastrutture pensava al vecchio inoffensivo ministero dei trasporti che di fatto si occupava di ferrovie (e arrivare in treno da Roma a Mosca era complicato (dovendo passare dall’Ucraina). Ma ahimè era inciampata sui porti. Porti = navi = ong = immigrazione. L’avevano fregata.

La questione
Naturalmente nulla nasce dal nulla. Il problema degli immigrati clandestini esiste e quello dei comportamenti ambigui delle ONG che si accompagna all’indifferenza dei partner europei pure.
Covid e guerra in Ucraina con tutte le conseguenze drammatiche che ne sono derivate hanno fatto giustamente passare in secondo piano le paure irrazionali che avevano in passato terrorizzato larghi settori dell’opinione pubblica che i neri li voleva sì per coltivare i pomodori ma non gradiva vederli girare liberamente per strada spaventando i loro bambini. Ironia a parte, erano arrivati problemi più seri e degli immigrati che sbarcavano in clandestinità per due anni non ha parlato più nessuno. Ma il problema esiste e non si risolve resuscitando venti nazionalistici (che ne suscitano altrove altrettanti) ma affrontando pragmaticamente la questione partendo da alcuni dati di fatto:

  1. Gli immigrati rappresentano in prospettiva una risorsa e non un onere. Tutti gli esperti concordano che con l’invecchiamento della popolazione la nostra economia non potrà funzionare senza l’apporto di centinaia di migliaia di immigrati, neanche se le nostre donne tornassero a fare figli con la stessa intensità del secolo scorso (il che pare irrealistico, anche con gli incentivi che la Meloni, memore forse dei fasti demografici mussoliniani, promette per sostenere la maternità).
  2. La questione quindi non è se abbiamo bisogno degli immigrati ma come regolarne i flussi di entrata in modo da renderli coerenti con un dignitoso collocamento (anche nel loro interesse). Lo stesso problema hanno avuto (e hanno) Francia, Germania e Spagna anch’esse soggette a una forte pressione immigratoria.
  3. L’Unione Europea – in quanto istituzione regolata dal trattato di Maastricht e da quelli successivi che lo hanno modificato – non ha competenza in materia. Può soltanto esercitare – per quel che vale – una moral suasion accompagnandola con qualche incentivo economico.
  4. Fino ad oggi la maggior parte dei partner europei si sono dichiarati contrari ad estendere il potere regolamentare dell’Unione in materia di immigrazione. Ogni decisione in proposito passa quindi attraverso l’unanimità dei suoi ventisei membri.
  5. Ciò nonostante la Germania è riuscita cinque anni fa a coinvolgere l’Unione in un accordo con la Turchia che ha consentito di bloccare l’invasione di profughi che in seguito alle guerre in Medio Oriente stavano rovesciandosi in Europa. Un accordo costato alcuni miliardi di euro ma che – attenzione! – non riguardava una generica immigrazione economica ma il salvataggio di profughi vittime di conflitti armati che erano sotto gli occhi di tutti. Qualcosa di simile sta accadendo per i profughi ucraini che dopo l’aggressione di Putin al loro paese hanno invaso la Polonia e sono stati giustamente accolti in tutta l’Europa (Italia compresa).
  6. Un fragile accordo che prevedeva il ricollocamento di alcune migliaia di migranti economici in alcuni paesi europei, chiesto dall’Italia e accettato da Francia e Germania, aveva carattere volontario e di fatto si è risolto in un fallimento.
  7. L’instabilità politica e militare della Libia aggrava la situazione, ma non è la sola ragione di quanto avviene nel Mediterraneo. Flussi costanti di migranti provengono anche dal Magreb, dall’Egitto e dal Medio Oriente. Una politica di contenimento e di selezione da sviluppare in Africa settentrionale – come proponeva la Meloni – urta contro due ostacoli: deve essere fatta dall’Unione Europea o quanto meno in stretta cooperazione dai paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo (oltre al nostro Spagna, Francia e Grecia e altri minori), e deve trovare accoglienza e collaborazione nelle nazioni arabe interessate (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco). Di tutto ciò non si scorgono nemmeno le premesse. Gli unici soggetti che fanno politica in Africa esercitando un discreto potere di pressione sono le compagnie petrolifere (compresa, per fortuna, la nostra ENI) che sono tra loro in aspra competizione.

Sic rebus stantibus
Così stando le cose non basta sperare che le cose cambino e le opinioni pubbliche della Norvegia o dell’Olanda diventino più sensibili alle nostre preoccupazioni, e nemmeno esercitare pressioni muscolari (come la chiusura dei porti) o sollevare infinite controversie di diritto sulle bandiere che battono le ONG.Dobbiamo invece predisporre un piano B (che diventerà presto l’unico praticabile) per regolare l’accoglienza e il collocamento anche senza l’aiuto dei partner europei. Si può fare cambiando alcune leggi assurde che regolano cittadinanza e residenza, modificando l’accesso ai concorsi, collaborando coi sindacati per smantellare l’economia sommersa che prospera sull’immigrazione clandestina. Si può fare ma bisogna volerlo sedendosi intorno a un tavolo, anche presieduto da Giorgia Meloni. Meglio non invitare Salvini.

 

Franco Chiarenza
16 novembre 2022