Via Facebook Partito Democratico

E del trionfo della Schlein cosa ne pensa il “Liberale Qualunque”? Mi hanno chiesto molti amici.
Ho lasciato che la nebbia mediatica delle prime emozioni (favorevoli o contrarie) si diradasse, nel frattempo ho letto molti commenti e ho sentito pareri discordanti. Sono giunto ad alcune riflessioni tutt’altro che conclusive che cerco di riassumere.

  1. il partito democratico è nato, come è noto, dopo la fine della prima repubblica, dalla fusione a freddo di diverse tradizioni politiche che ha sempre presentato forti criticità anche nei momenti di maggiore splendore, quando il partito si è avvicinato o ha superato il 30%.
  2. per questa ragione (e per altre che riguardano alcune caratteristiche culturali della sinistra italiana per le quali rinvio agli scritti memorabili di Luca Ricolfi) la sua leadership è sempre stata difficile e continuamente contestata al suo interno, da chiunque fosse esercitata, anche quando, eliminato Renzi (considerato da molti un “corpo estraneo”), si è cercato un “cavaliere bianco” in grado di superare le fazioni, trovandolo in Enrico Letta.
  3. al suo interno, al di là dei tanti personalismi e delle differenze “stilistiche”, si possono individuare delle faglie strutturali orizzontali (cioè territoriali) e verticali (ideologiche). Le prime riflettono il diverso radicamento regionale con la prevalenza di apparati abituati ad esercitare funzioni di governo a livello locale sin dai tempi della prima repubblica, prevalenti nelle regioni centrali (Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Lazio) ma influenti anche nelle grandi città del Nord; le seconde riguardano il venir meno della tradizionale “lotta di classe” ereditata dalla tradizione comunista (e che trovava la sua saldatura anche operativa nel rapporto sinergico con la CGIL) e la sua sostituzione con sensibilità meno legate alla giustizia sociale e maggiormente attente alla coesione sociale (diritti delle minoranze, diseguaglianze, simpatia per le radicalità ambientaliste).
  4. non sempre queste diversità sono componibili nella formulazione di una proposta politica chiara e riconoscibile, troppe essendo le convenienze di cui bisogna tenere conto. Tanto più che il partito democratico ha ereditato dall’imprinting originario di Veltroni la certezza (un po’ presuntuosa) di essere il solo in grado di rappresentare legittimamente l’interesse generale (cristallizzato in qualche modo nella difesa oltranzista delle parti più ideologiche della Costituzione “più bella del mondo”). Una convinzione che presupporrebbe una conduzione del partito non partigiana, difficile da esercitare nel clima politico di scontro permanente generato dagli estremismi di ogni colore (da quelli stellati di Grillo ai t-shirt putiniani di Salvini).

Schlein fa rima con “nein”
Tutto ciò premesso, l’elezione di Ely Schlein (la quale al PD non era nemmeno iscritta e condivide la cittadinanza italiana con quelle della Svizzera e degli USA) è stata possibile per la conformazione di “partito aperto” che sin dalle origini Veltroni aveva voluto per limitare il peso delle correnti interne e offrire un’immagine “moderna” di una nuova sinistra di governo affidabile e aderente alle esigenze che salivano dalla base elettorale, anche al di là dei suoi confini storici. Nessuno immaginava allora che le “primarie” aperte a tutti da strumento di partecipazione potessero trasformarsi in uno strumento potenzialmente in grado di consentire scalate ai vertici del partito anche in contrasto con la volontà degli iscritti. E invece proprio questo è avvenuto con l’imprevisto trionfo della Schlein generando una scossa elettrica che, al di là di ogni considerazione di merito, ha rivitalizzato il partito costringendolo a prendere atto che la vittoria elettorale della destra cambiava radicalmente il modo stesso di fare opposizione. Le primarie hanno messo in luce la debolezza crescente della dimensione “territoriale” del partito (che aveva appoggiato la candidatura di Bonaccini) e la capacità attrattiva anche sull’elettorato di sinistra di un ecologismo plebiscitario condito in salsa egualitaria, non molto diverso da quello che Grillo e Casaleggio proponevano agli esordi del movimento Cinque Stelle.

La Schlein si trova adesso a gestire una situazione molto difficile ma densa di risvolti interessanti non soltanto per il partito democratico ma per tutto lo schieramento politico. Ha due possibilità: porsi come leader di un’opposizione a tutto campo nei confronti del governo Meloni (riedizione aggiornata del “campo largo” di Letta) che le consentirebbe di mantenere unite le diverse componenti del partito e di non essere cannibalizzata da Conte sull’agenda “propositiva”, oppure puntare decisamente alla creazione di un polo di “sinistra/sinistra” destinato a una lunga opposizione ma fortemente riconoscibile nella sua radicalità; una sorta di “traversata nel deserto” come quella che pazientemente ha percorso a destra Giorgia Meloni.
Nel primo caso dovrà fare i conti con Calenda (che già vede profilarsi uno spazio di centro finora rimasto molto limitato) ma ancor più con Renzi, il quale probabilmente mantiene sottotraccia rapporti “incestuosi” con settori minoritari del PD; se invece virerà decisamente a sinistra sarà con Conte che dovrà vedersela, e non sarà facile perchè l’avvocato di Volturara Appula si è dimostrato spregiudicato nel gioco al rialzo.
Naturalmente nulla accadrà finchè si tratterà di dire no al governo; il problema si mostrerà nella sua complessità quando l’attuale maggioranza metterà sul tavolo alcune misure (scuola, giustizia, riforme costituzionali) su cui potrà trovare una sponda dialogante al centro, oppure quando l’opposizione cercherà di trasformare lo slogan del “campo aperto” in un vero programma alternativo. Il tutto in un momento in cui anche alcune scelte di politica internazionale fino ad oggi condivise (NATO e Europa) sembrano vacillare. Quando si comincia a parlare di adesione critica e non subordinata è come quando in un matrimonio uno dei coniugi accenna alla necessità di una “pausa di riflessione”. Si sa come va a finire.

Franco Chiarenza
21 marzo 2023

Via https://www.governo.it/it

In politichese “cento giorni” sta a significare una prima valutazione dell’esordio di qualsiasi nuovo governo. Nel caso di Meloni bisogna tenere conto della difficoltà di chiudere in tempi brevi un bilancio già in gran parte definito dal governo precedente, di un elettorato che chiedeva un rapido mantenimento delle promesse elettorali, di una situazione internazionale caratterizzata dall’aggressione russa all’Ucraina. La nuova premier ha subito indicato come priorità assoluta la politica estera allineandosi prontamente al fronte NATO (dove Draghi l’aveva già collocata) e andando all’assalto della fortezza UE come sempre presidiata dall’asse franco-tedesco, pregiudizialmente ostile al suo governo percepito come espressione di una maggioranza nazional-populista più vicina ai regimi illiberali di Varsavia e di Budapest che non ai tradizionali sistemi liberal-democratici che hanno sempre prevalso nell’Europa occidentale.
Bisogna dare atto alla Meloni di non essersi nascosta dietro un velo di ipocrita concordanza di vedute (come spesso avviene nei vertici europei) e di avere subito accettato di affrontare i problemi prendendo il toro per le corna, forte del fatto che molti rilievi avanzati dall’Italia sono legittimi e in linea di continuità con la politica estera di Draghi. Le critiche dell’opposizione infatti non riguardano tanto il merito delle tesi sostenute dalla presidente quanto piuttosto il metodo utilizzato che rischia di isolare la posizione italiana.

Isolamento?
Certo, l’isolamento è, almeno in parte, la conseguenza inevitabile della difesa di alcune esigenze a cui l’Unione non ha mai dato risposte convincenti, a cominciare dai flussi migratori provenienti dall’Africa che – piaccia o no – suscitano grande preoccupazione nell’opinione pubblica (non soltanto di destra). Seguono a ruota decisioni mascherate da esigenze ambientali che rischiano di avere pesanti ricadute sull’economia del nostro Paese: finanziamenti pubblici alle imprese in difficoltà, blocco della produzione automobilistica benzina/diesel, ristrutturazioni edilizie eco-compatibili. Sembra quasi che la Francia e la Germania vogliano spingere l’Italia verso l’area dei paesi europei illiberali (gruppo di Visegrad) per punirla di avere scelto un governo non allineato all’asse “polically correct” franco-tedesco, appoggiato, come sempre, dall’Olanda e da altri paesi del nord. Soltanto la Von der Leyen sembra rendersi conto della pericolosità di questa strategia oltranzista, ma la sua posizione appare sempre più debole anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno il cui esito appare quanto mai incerto.
A fronte di questa situazione Giorgia Meloni, invece di una strategia accomodante fondata sulla variabilità degli schieramenti europei, ha scelto – almeno per ora – una linea di discontinuità cercando fuori dall’Unione opportune compensazioni, a cominciare dagli accordi per assicurare al Paese una minore dipendenza energetica dalla Russia. Ma i conti alla fine si fanno a Bruxelles dove Salvini e Berlusconi l’attendono al varco; Berlusconi ha già cominciato la sua offensiva difendendo Putin, il leader della Lega si muove con maggiore prudenza ma tutti sanno come la pensa. Il vero isolamento la Meloni lo rischia in casa.

Il superbonus
La prima vera emergenza è stata (ed è) il rischio che scoppi la bolla finanziaria creata dall’abuso del superbonus per le ristrutturazioni immobiliari, sciagurato provvedimento che di fatto ha consentito la creazione di una moneta parallela (costituita dalla cedibilità illimitata dei crediti) che potrebbe costare al bilancio pubblico diversi miliardi di euro e uno scontro senza precedenti con l’Eurogruppo. La Meloni è stata netta nell’affrontare la questione e nel ricordare l’irresponsabilità demagogica di chi quel provvedimanto aveva voluto (Cinque Stelle) e che già Draghi aveva duramente stigmatizzato: in economia nulla è gratis – ha ricordato la premier – c’è sempre qualcuno che paga, magari senza saperlo (pareva di sentire Bastiat). La Lega, corresponsabile di tanto scempio con le ambigue scelte di Salvini, si ritrova ora con Giorgetti a dovere risolvere il problema, mettendo in luce ancora una volta il solco che divide la Lega di lotta (in t-shirt) da quella di governo (china a fare i conti con i buchi di bilancio). Intanto molti cantieri edili, frettolosamente aperti per fruire della manna che pioveva gratis dal cielo stellato, rischiano di chiudere mettendo per strada migliaia di lavoratori, che, tanto per cambiare, serviranno da alibi per tutelare gli interessi dei troppi “furbetti del quartierino”, speculatori ingordi che trovano sempre compiacenti coperture politiche.

Per il resto si registra poco più di qualche maldestro comportamento del discutibile “cerchio magico” di Meloni che ha dato il peggio di sé nel decreto sui “rave party”, nel tentativo di indebolire Nordio sul caso Cossipo e in sortite poco meditate del ministro della pubblica istruzione. Anche in questi casi la presidente del Consiglio resta danneggiata dalla superficialità di alcuni suoi ministri e vice ministri, che – come tutti i neofiti – pensavano all’entrata nelle mitiche “stanze dei bottoni” come se fossero sezioni del loro partito.

Lazio e Lombardia
Archiviate le elezioni nelle due regioni dove ha vinto in maniera schiacciante il partito dell’astensione, governo e opposizioni devono ora fare i conti con la realtà. L’astensionismo dei lombardi e dei romani non ha sorpreso nessuno; semmai colpisce la dimensione del fenomeno (in parte dovuto al fatto che il risultato era dato per scontato) perchè segnala come la metà dell’elettorato appaia chiuso in una rassegnazione fatalistica senza sbocchi politici; in particolare siamo delusi noi liberali che speravamo con l’alleanza di centro (Calenda – Renzi – Bonino) di costituire un terzo polo in grado di condizionare sia la destra al governo che l’opposizione di sinistra. Purtroppo anche le due capitali – Roma e Milano – considerate le loro roccaforti elettorali, non hanno dato segnali incoraggianti. Non resta che attendere la nuova leadership del PD per capire come pensa di recuperare i tanti voti che ha perso negli ultimi anni.
Forse però, prima dei problemi di identità dei partiti, per ridare vitalità e progettualità alla politica italiana occorrerebbe affrontare questioni strutturali che nella convenienza di tutti si potrebbero discutere seduti intorno a un tavolo, cercando ragionevoli compromessi, Sappiamo tutti quali sono: alcune modifiche alla seconda parte della Costituzione, un riassetto delle autonomie regionali più razionale e omogeneo di quello proposto dalla Lega, il completamento della riforma della giustizia, la legge elettorale, la scuola. Problemi su cui non si può continuare il gioco della visibilità mediatica fondata sulle distinzioni ma, al contrario, si dovrebbe cercare il massimo comune denominatore di cambiamenti da tutti ritenuti necessari.
Poi, trovato un accordo sulle modifiche alle regole del gioco, si potrà riprendere la competizione con un maggiore interesse del pubblico pagante, quello che oggi – disgustato – preferisce andare al mare anche nella cattiva stagione.

Franco Chiarenza
08 marzo 2023

 Mondarte, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Un mese fa moriva Benedetto XVI. La sua scomparsa ha ovviamente riacceso l’attenzione su questo personaggio che, tra le altre ragioni, passerà alla storia per essere stato dopo molti secoli il primo pontefice ad abdicare, lasciando campo libero ai suoi contestatori che infatti non persero tempo a innestare una marcia diversa nella guida della Chiesa (se avanti o indietro dipende dai punti di vista) chiamando alla cattedra di San Pietro quanto di più diverso da lui si potesse immaginare, Jorge Mario Bergoglio.
Gli analisti, i vaticanisti, gli esperti di religione si sono sbizzarriti come non mai, ma a me liberale la vicenda interessa soltanto per le ricadute politiche e sociali che può determinare (come d’altronde ogni altra questione che riguarda il perimetro religioso).

L’eredità di papa Giovanni
Per comprendere quanto è avvenuto e ancora potrebbe accadere nella trasformazione del cattolicesimo romano (che del cristianesimo – non dimentichiamo – è soltanto una parte, anche se la più consistente) bisogna risalire alla rivoluzione provocata negli anni ’50 del secolo scorso da papa Roncalli il quale in soli cinque anni attraverso l’autorità di un concilio universale (Vaticano II) impose una svolta che liberava la Chiesa dal settarismo dogmatico della tradizione tridentina, ancora dominante col suo predecessore Pio XII, aprendola al dialogo e alla tolleranza e, in sostanza, ai valori della civiltà liberale (pluralismo, democrazia, dialogo inter-religioso) che ancora pochi anni prima Pio XI (quello che aveva definito Mussolini “uomo della Provvidenza”) bollava con parole di fuoco.
Fu allora che si delineò uno scontro decisivo ai vertici della Chiesa che provo a riassumere in modo semplice (che giustamente i teologi e gli esperti troveranno superficiale e approssimativo); uno scontro dai cui esiti sarebbero dipese importanti ricadute politiche nei paesi a forte presenza cattolica (ed è per questo che ce ne interessiamo). La Chiesa doveva cambiare la sua essenza, anche a costo di modificare tradizioni secolari, per diventare un interlocutore credibile del mondo moderno, oppure chiudersi nelle sue certezze dogmatiche e continuare la sua opposizione a ogni forma di relativismo implicita nella concezione liberale? Il Concilio, anche per la spinta dei vescovi che venivano da realtà distanti da Roma e dall’Europa, non ebbe dubbi nella scelta che fu poi sostanzialmente proseguita (con qualche sussulto ma in sostanziale coerenza) dal papato di Montini e dalla attiva presenza del cardinale Martini. Ma una parte importante del clero temeva che la strada imboccata dal Concilio portasse alla “protestantizzazione” del cattolicesimo e alla perdita dei valori morali su cui la Chiesa cattolica fondava le sue pretese egemoniche; alla morte di Paolo VI queste preoccupazioni prevalsero e la scelta del successore cadde su un cardinale polacco morbido e accattivante nella forma, rigido e reazionario nella sostanza, Giovanni Paolo II, la cui ombra in materia dottrinale era il cardinale Ratzinger che puntualmente (oserei dire inevitabilmente) fu eletto papa alla sua morte, prevalendo in conclave sul cardinale Bergoglio che già allora Martini e i cardinali a lui vicini avrebbero preferito.

Il cortile dei Gentili
Ratzinger non era uno sprovveduto e tanto meno poteva ignorare i complessi ingranaggi della Curia romana, anche nei loro aspetti meno trasparenti, se non altro per averne fatto parte nel ruolo fondamentale di prefetto del Santo Uffizio (ribattezzato Congregazione per la dottrina della fede) per 25 anni. Le sue impreviste dimissioni nel 2013 non potevano dipendere dal disgusto per gli scandali che agitavano il Vaticano, come si volle far credere; furono invece la conseguenza della sconfitta del teorema dottrinale che Benedetto XVI aveva cercato di accreditare per bloccare la trasformazione messa in atto dal Concilio.
I segnali erano stati chiari (per chi voleva vederli) sin dall’inizio: la canoniozzazione di Roncalli fu bloccata, per converso quella di papa Pacelli (opportunamente avviata su un binario morto dai suoi predecessori) riprese vigore, la messa in latino (simbolo della tradizione di incomunicabilità che risaliva al concilio di Trento) parzialmente restaurata, ecc. Ma non si trattò soltanto di fermare un processo di modernizzazione dell’istituzione ecclesiale, si cercò soprattutto di indicare una possibile alternativa al Vaticano II che risolvesse in qualche modo il problema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo moderno, di cui Ratzinger – osservatore attento e intelligente delle trasformazioni sociali – era ben consapevole.
In cosa consisteva la proposta di papa Benedetto? Premesso che è difficile per me e quanti non hanno la preparazione necessaria, inoltrarsi nel labirinto delle verità religiose, irrazionali per definizione, io l’ho capita così, e anticipo subito di averla trovata, per come l’ho letta, molto interessante e tutt’altro che banale, e comunque lontana dalle semplificazioni a cui si sono abbandonati alcuni commentatori.
La chiave di lettura sta nel ben noto esempio del “cortile dei Gentili”, fondamentale nella predicazione di San Paolo di Tarso (e non a caso rievocato più volte da Ratzinger). In cosa consiste? Nella negazione (allora rivoluzionaria) del carattere esclusivo e identitario delle religioni. I cristiani non dovevano chiudersi nelle loro certezze fideistiche (come facevano gli ebrei) ma aprirsi al dialogo con chi non lo era (i “gentili” appunto, cioè i non ebrei e anche i non credenti, nel linguaggio delle sacre scritture). Ecco quindi la soluzione: la Chiesa non poteva e non doveva transigere né in materia di fede (e quindi di dottrina) né sulle proprie tradizioni identitarie; poteva però cercare un terreno di incontro con i non cattolici per trovare punti comuni su cui convergere. Per esempio alcuni principi morali e comportamenti che, secondo Ratzinger, derivano dalla cultura cristiana anche se sono entrati nel sentire comune a prescindere dalla pratica religiosa; dalla qual cosa deriverebbe la necessità di riconoscere, anche nei moderni stati liberal-democratici alle religioni un rilievo istituzionale fondato sulle loro radici storiche.
Non solo; su queste basi monoteistiche (comune credenza nell’esistenza di un unico Dio) Benedetto XVI pensava di aprire un varco al dialogo non soltanto con i diversi cristianesimi ma anche con i settori più ragionevoli del mondo musulmano.
Come si vede una prospettiva intelligente, non accettabile per i liberali nelle sue premesse perchè non coincide con la storia stessa della Chiesa, con la sua intolleranza, con il rifiuto del relativismo illuministico, con tutto ciò che appunto comporta un cambiamento interno e radicale del cattolicesimo, ma assolutamente rispettabile nel comprensibile sforzo di salvaguardare la Chiesa nella integrità storica che l’aveva formata. A questo punto del ragionamento c’è sempre qualcuno che alza il cartellino giallo, anche tra i liberali; come la mettiamo con Benedetto Croce e il suo “perchè non possiamo non dirci cristiani”? La mia risposta, su cui in questa sede non mi dilungo, è fondata sulle origini non liberali del primo idealismo di Croce e su una lettura discutibile delle distinzioni che Croce attribuisce al cristianesimo delle origini, che comunque non è quello del cattolicesimo istituzionalizzato.

Quale futuro?
Dopo l’abdicazione il nuovo pontefice, sia pure con molta prudenza e l’adozione di comportamenti e linguaggi piuttosto confusi e demagogici, ha chiuso Ratzinger in un convento a portata di mano non soltanto fisicamente ma anche concettualmente, attendendo pazientemente che il buon Dio lo chiamasse a sé; e neanche allora è riuscito a soffocare le voci di dissenso che dividono il cattolicesimo; anche da morto papa Benedetto fa sentire la presenza delle sue idee con cui comunque la Chiesa dovrà fare i conti. Questo sarà il nodo che dovrà sciogliere il prossimo conclave, ormai prevedibilmente vicino. Le porte di Santa Marta forse potrebbero presto aprirsi per lui; chissà se ci sarà ad attenderlo padre Georg!

Franco Chiarenza
31 gennaio 2023

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Tutti gli esperti della politica nostrana erano unanimi: Giorgia Meloni, a differenza di Berlusconi e Salvini, ha dietro di sé un partito e un gruppo dirigente compatto, ben organizzato e fedele alla leader. Ebbene, i casi di La Russa e Rauti dimostrano che non è esattamente così. Le loro uscite nostalgiche non sono incidenti di percorso ma fratture non casuali che da sempre hanno caratterizzato la storia del neo-fascismo italiano.

Radici allo scoperto
Sin dalla sua fondazione nel lontano 1946 il Movimento Sociale era attraversato da un solco che non si è mai rimarginato, malgrado il frequente passaggio dei suoi esponenti dall’una all’altra sponda. Da un lato c’era l’ambizione di rappresentare i ceti medi (in qualche misura tutti compromessi col regime fascista almeno fino al 1943) che cercavano un approdo nella nuova democrazia che non ne mettesse in discussione le scelte del passato, dall’altro i reduci dell’estremismo filo-nazista di Salò legati a formazioni eversive fanatiche e violente, ancora convinti che l’autoritarismo nazionalista avesse un futuro; il MSI, sin dalla denominazione, si ispirava a questo secondo aspetto (la Repubblica di Salò si chiamava Repubblica Sociale). I suoi referenti culturali erano gli stessi del fascismo rivoluzionario dei primi tempi e le affinità col razzismo egemonico del nazismo del tutto evidenti. Scegliendo però un moderato come Michelini alla guida del movimento l’oltranzismo sembrò impantanato nel procedere di un’egemonia democristiana che non lasciava molto spazio alla destra. Per di più le connessioni col sorgente terrorismo nero (che contrapponendosi formalmente a quello rosso in realtà ne condivideva metodi violenti e finalità eversive) costringeva il MSI ad acrobazie politiche e dialettiche che ne limitavano fortemente l’incidenza politica. Il subentro di Almirante a Michelini aveva segnato una svolta consentendo al nuovo segretario di esercitare una leadership moderata tanto più incontestabile quanto più proveniente da posizioni oltranziste (l’analogia tattica con la Meloni salta agli occhi). Ma i tempi non erano maturi e dopo la sua morte l’integralismo estremista era tornato a trionfare con Pino Rauti (padre di quella Isabella che oggi mette il bastone tra le ruote al centro-destra) e ci vollero l’abilità e l’influenza di donna Assunta (vedova di Almirante) per riportare alla segreteria l’erede designato, il giovane Gianfranco Fini. Con lui cessò di esistere il MSI, nacque Alleanza Nazionale e, attraverso l’alleanza con Berlusconi, si completò la sua piena legittimazione democratica che comportò anche un processo di revisione ideologica che allontanava definitivamente il movimento dalle radici fasciste e da ogni tentativo di revisione storica sulle sue responsabilità; a Julius Evola subentrava Domenico Fisichella.
“Fratelli d’Italia” costituisce un curioso ibrido: nato dalla crisi di AN vorrebbe tenere insieme radici illiberali e anti-democratiche come quelle difese da La Russa e Isabella Rauti e la svolta di Fiuggi il che costituisce una contraddizione irrisolvibile. La loro sembrava una scissione marginale senza futuro ma invece gli errori degli altri partiti hanno spinto il movimento fondato da Meloni, La Russa e Crosetto fino alla maggioranza conseguita nelle elezioni del 2022. Dopo le delusioni stellari di Grillo e quelle balneari di Salvini l’elettorato di centro destra cercava un approdo rassicurante e Giorgia Meloni ha saputo approfittare di questa congiuntura per giocare la sua partita con abilità e intelligenza. Ma deve fare attenzione.

Le trappole
Gli estremisti che militano nel suo partito hanno colto la prima occasione (l’anniversario della fondazione del MSI) per lanciare un avvertimento: non si lasceranno isolare dalla svolta “responsabile” della loro leader e dopo l’approvazione del bilancio (che, nelle parti essenziali, ricalca quello predisposto da Draghi), si faranno sentire. Si spiega così la scelta di La Russa di puntare alla presidenza del Senato da dove può meglio esercitare una mediazione tra il governo e l’ala radicale del partito. La Destra torna quindi a oscillare tra le tentazioni di regime che l’avvicinano ai partiti nazionalisti reazionari di altre parti d’Europa e la tradizione liberal-democratica di una parte consistente dell’elettorato che ha acquisito. Speriamo che la presidente Meloni si renda conto che si tratta di un’altalena pericolosa soprattutto nel nostro Paese dove per fortuna le inclinazioni autoritarie reazionarie sono di modesta entità; il timore di una svolta autoritaria potrebbe nuovamente spostare masse consistenti di voti.

L’eredità fascista
Pesa come un macigno l’eredità fascista in analogia con quanto avvenne a sinistra con quella comunista. Come gli storici che lo hanno studiato ci ricordano, il fascismo è stato molte cose: l’idealismo deviato di Gentile, la sintesi di filosofie come quelle di Hegel, Sorel, Nietzsche che hanno fatto da supporto alle teorie dello Stato assoluto, persino una rielaborazione pasticciata del corporativismo di De Ambris, ma non è di questo che si tratta. Il fascismo è stato innanzi tutto un metodo violento di lotta politica finalizzato a realizzare un sistema politico totalitario dove ogni forma di dissenso era proibita fino a impedire la stessa libertà di espressione. Il razzismo, teoria della superiorità ariana fatta propria dal nazismo e portata ad aberrazioni criminali da Hitler e dai suoi sodali, non ne costituisce l’aspetto peggiore, anche perché è troppo facile – oggi che è rimosso dalla cultura occidentale – fare un rapido viaggetto a Gerusalemme per farsi fotografare davanti al muro del pianto. La parte più pericolosa del neo-fascismo è l’illusione che l’autoritarismo nazionalista attraverso la legittimazione della violenza costituisca la risposta più efficace al settarismo dell’integralismo islamico che un’immigrazione incontrollata sta portando anche da noi.
Se dovesse passare il teorema che per evitare ogni contaminazione bisogna contrapporgli un fanatismo cristiano radicale anche a costo di rinunciare ad alcuni diritti costitutivi della nostra cittadinanza sarebbe facile derivarne la giustificazione storica del fascismo e quindi la possibilità di riproporlo in forme nuove, forse più attente a un pluralismo di facciata ma tuttavia più invasive di un monopartitismo esplicito: Kaczyinski, Orban e Erdogan sono tra noi e sopravvivono indisturbati. Attenta, presidente Meloni: è una strada scivolosa che porterebbe noi liberali da una prudente attesa a una decisa opposizione.

Franco Chiarenza
4 gennaio 2023

Di Eugène Delacroix – Erich Lessing Culture and Fine Arts Archives via artsy.net, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=27539198

Quando si stigmatizzano le repressioni del dissenso in Iran, in Russia, in Cina, in molti commenti critici si nota una costante: quella di negarne la legittimità perché anche noi (occidentali o comunque liberal-democratici) abbiamo fatto e facciamo le stesse cose; e si ricorda immancabilmente l’Iraq, la Libia, il Kossovo (di solito non si cita la Siria distrutta dai russi per sostenere il regime di Assad e che ha prodotto una fuga in massa che non ha equivalenti). Come se il fatto che anche gli americani oggi e gli europei in passato abbiano compiuto azioni riprovevoli giustificasse in qualche modo gli orrori di cui Putin si è reso responsabile in Ucraina (e prima ancora in Cecenia e in Georgia) o la violenta repressione contro le donne in rivolta compiuta dal regime clericale scita in Iran.
La differenza c’è e per i liberali è fondamentale; chi non la vede o è in mala fede oppure non attribuisce alle libertà individuali lo stesso peso che gli diamo noi.

La libertà di espressione
Tale differenza consiste nel fatto che le azioni compiute dagli americani sono state fortemente contestate in America e nei paesi liberal-democratici attraverso i mezzi di comunicazione di massa, in parlamento, fino, in taluni casi, a costringere i governi a fare marcia indietro; come avvenne, per esempio, in anni lontani in Vietnam, fino a far dire che la guerra i vietcong l’avevano vinta a Washington piuttosto che a Saigon. La libertà assoluta di espressione delle proprie opinioni è tutelata da rigorose norme costituzionali negli USA (primo emendamento, Bill of Rights) e in tutti i paesi democratici (da noi con l’art.21 della Costituzione); l’indipendenza dei parlamenti dai rispettivi governi su questioni vitali è dimostrata da moltissimi esempi (a cominciare dalla bocciatura di alcuni trattati europei).
Di che stiamo parlando dunque? Esiste qualcosa di simile in Cina (vedi le repressioni del regime contro gli studenti di Hong Kong), in Iran (dove si impiccano i ragazzi perché “non credono in “Dio”?), in Russia dove leggi speciali hanno definitivamente chiuso la bocca ad ogni critica e gli oppositori marciscono in galera (quelli fortunati, gli altri vengono uccisi per strada o col veleno, o, più recentemente, buttati dalla finestra).

La libertà di non essere liberali
Non a caso Putin sostiene che il liberalismo è superato, Xi salva il capitalismo protetto dallo Stato ma condanna ogni forma di pluralismo politico (avendone cancellato le tracce residue a Hong Kong), e purtroppo anche Erdogan in Turchia e Orban in Ungheria marciano nella stessa direzione. La convinzione che emerge dietro gli interventi che giustificano i regimi illiberali è, a ben vedere, collegata all’idea che l’uso della violenza sia necessario per garantire l’interesse nazionale, col conseguente corollario che le democrazie sono divise, deboli e destinate a soccombere. Noi liberali invece riteniamo che la cultura occidentale sia vincente proprio perchè è tollerante, si fonda sulla libertà di espressione, costringe i suoi avversari ad argomentare le loro ragioni senza ricorrere alla forza, ed è quindi in grado di correggere i propri errori. Da sempre i dittatori cadono anche perchè, ingannati da cortigiani adulatori, finiscono per credere alla loro stessa propaganda.
Tutte balle? La libertà è finta, poteri occulti ci manovrano come marionette? La concupiscenza americana è il nemico da combattere, anche quando il lupo si traveste da agnello? Cadiamo nel più vieto complottismo che potrebbe essere tranquillamente rovesciato: e se qualcuno manovra certi contestatori da strapazzo magari ungendo le ruote perchè scorrano silenziose? I fatti ci danno ragione: i muri, i veli, i divieti sono sempre più fragili e prima o poi cadranno rendendo il mondo inevitabilmente conflittuale ma abitato da uomini e donne che vogliono essere liberi. Regolare i conflitti è una cosa (e a questo servono le costituzioni democratiche), negarne l’esistenza attraverso la soppressione dei diritti individuali è roba da caserma (o da campo di concentramento, se si preferisce).

Franco Chiarenza
3 gennaio 2023

P.S. Molti replicheranno che lo scandalo del Qatar dimostra la corruttibilità delle democrazie liberali. Sarebbe un argomento convincente se in Russia gli oligarchi protetti dal Cremlino non si fossero mangiati quote rilevanti dell’intero pil di quel paese e se i cinesi non avessero ammesso pubblicamente che la corruzione è il principale problema che il regime non riesce a contenere,
Anche in questo caso con una differenza: in Europa dello scandalo Qatar si scrive e si discute liberamente, in Russia e in Cina la denuncia non è accompagnata dalla trasparenza necessaria per coinvolgere l’opinione della gente comune, fattore indispensabile per un efficace contrasto a un fenomeno criminale che purtroppo riguarda tutti. FCh.

Foto: Steve Rhodes – Flickr

C’è qualcosa in comune in ciò che sta avvenendo in parti del mondo diversissime tra loro: si nota un filo rosso che unisce soprattutto i giovani delle ultime generazioni e che riprende un’importante eredità del passato, quella della tutela dei diritti individuali. Le contestazioni che stanno agitando la Cina, l’Iran e quelle che hanno costretto gli autocrati di Mosca e della Turchia a imporre il bavaglio a ogni libera manifestazione del pensiero, sono esplose per ragioni diverse ma trovano il loro punto di sintesi nel rifiuto del paternalismo autoritario e una domanda ricorrente di restaurare lo stato di diritto dove viene platealmente negato. Sono le ragazze dei paesi islamici che rivendicano la libertà di esprimersi, i democratici turchi che si richiamano alla separazione tra stato e religione, i giovani russi che rifiutano il nazionalismo aggressivo di Putin, i nipoti di Tien An Men che cercano di liberarsi dalla gabbia oppressiva del regime capital-comunista. Non si tratta di una facile retorica liberale che ci fa sognare impossibili rovesciamenti di regimi in cui il potere è troppo consolidato per essere seriamente minacciato dall’emergere di sentimenti che non hanno ancora trovato un punto di convergenza tra loro; tuttavia si avverte un segnale chiaro di movimento delle coscienze che infatti i regimi autoritari non sottovalutano, come è dimostrato dalla violenza della loro reazione.

Un nuovo quarantotto?
Il ’48 (non il 1948 ma quello di un secolo prima, 1848) fu un movimento sotterraneo che esplose dopo un lungo processo di erosione che originava dall’onda lunga della rivoluzione francese e che l’autoritarismo clericale dell’epoca cercò invano di delegittimare e reprimere. Fu alimentato soprattutto da giovani, trovò nelle università il luogo dove organizzarsi, si sviluppò prevalentemente nelle grandi città metropolitane, attraversò trasversalmente nazioni tra loro diversissime come la Francia, gli stati tedeschi, l’impero asburgico, il Piemonte, la Toscana, il loro punto di riferimento fu la Gran Bretagna dove da due secoli si era affermato uno stato di diritto. Stanno creandosi le condizioni per qualcosa di simile? E’ una domanda e, al tempo stesso, una speranza.
Naturalmente le condizioni sono molto diverse: oggi le preoccupazioni maggiori sono legate alla questione ambientale, la rete interattiva consente un’estensione della comunicazione non paragonabile a quella che la stampa garantiva in passato. Radio e televisione sono facilmente controllabili dal potere ma trovano ascolto soprattutto nelle generazioni di mezzo mentre i più giovani comunicano prevalentemente attraverso i social-network. Ed è questa la ragione per cui la domanda di libertà si identifica oggi in maniera specifica con la libertà di espressione.
Le emergenze globali che mettono in discussione gli equilibri esistenti sono riconosciute da tutti ma proprio perchè alterano le condizioni esistenziali ereditate dal passato possono essere affrontate in due modi: cercando di contrastare i cambiamenti e quindi sostenendo regimi autoritari in grado di reprimere il dissenso anche a costo di rinunciare ai propri diritti individuali, oppure dando credito ai sistemi politici e sociali liberal-democratici confidando nella loro capacità di governare gli inevitabili processi di trasformazione con la necessaria flessibilità.
Immaginare il futuro è sempre difficile e quasi sempre non ci si azzecca; ma quello che io – da liberale qualunque avverto e che fa ben sperare – è la crescita di una domanda giovanile di autonomia e di rifiuto di ogni paternalismo. Che questo movimento abbia radici nel passato e che si identifichi col liberalismo però non va detto perchè i giovani sono da sempre presuntuosi e pensano che la storia dell’umanità cominci con loro (e hanno torto) e sono allergici ad ogni ideologia totalizzante che finisce per “ismo”, come socialismo, comunismo, cristianesimo, islamismo, nazionalismo, atlantismo, europeismo, ecc. (e forse hanno ragione).

Lo scambio: libertà contro sicurezza
L’offerta di maggior sicurezza in cambio della rinuncia ad alcuni diritti individuali è sempre stata l’arma che ha consentito ai regimi autoritari di affermarsi. Oggi, a fronte di cambiamenti radicali che sconcertano anche per la loro imprevedibilità, si sostiene che per contenere il prevalere di sentimenti incontrollabili e consentire un’unità di comando più adatta ad affrontare le emergenze, i sistemi democratici pluralisti non siano in grado di fronteggiare in maniera efficace le difficoltà che si presentano. Ma si tratta di una convinzione sbagliata e pericolosa. Mai come oggi – con la diffusione di mezzi di comunicazione incontenibili – serve un bilanciamento tra i poteri dello Stato che consenta decisioni equilibrate in un sistema politico che permetta il confronto delle opinioni.
L’alternativa è un dispotismo necessariamente violento che cerca soltanto il mantenimento del potere e dei privilegi che ad esso vengono attribuiti senza alcun controllo della pubblica opinione.
Le democrazie liberali hanno molti difetti ma sono in grado di rigenerarsi, le autocrazie illiberali producono Putin, Xi Jinpeng, Erdogan, Al Sisi, ecc. La destra italiana, giunta al potere senza condizionamenti, è davanti a un bivio: o rappresentare il polo conservatore di una dialettica democratica nel quadro di comuni valori liberali, o seguire Orban e il gruppo di Visegrad sulla strada scivolosa della negazione dei diritti individuali. A parole con il discorso alla Camera di Giorgia Meloni la scelta è stata fatta; ora si tratta di tradurla in comportamenti coerenti. Non si può stare con il piede in due staffe: sulle convergenze ideologiche con movimenti che spingono verso un esercizio autoritario del potere (come Vox in Spagna, alcuni partiti populisti nei Balcani, l’estrema destra in Francia, ecc.) nell’azione di governo con le democrazie liberali. Occorre chiarezza.

Franco Chiarenza
06/12/2022

Foto di Mstyslav Chernov – Wikimedia – CC BY-SA 4.0

Salvini c’è riuscito. Riportare la questione degli immigrati al centro dell’attenzione in un momento in cui le preoccupazioni degli italiani erano rivolte altrove poteva sembrare un azzardo, ma con l’aiuto involontario delle ONG e di Macron c’è riuscito. Ha messo in difficoltà la Meloni costringendola ad arretrare sul passato, ha messo in difficoltà i rapporti con l’Europa proprio quando la presidente del Consiglio voleva ammorbidirli, ha lanciato un messaggio chiaro ai militanti della destra su chi nel governo dettava l’agenda. Una gara che fa tanto ricordare la famosa scena del film di Chaplin “Il dittatore” quando il Duce e il Fuhrer spingono in alto le poltrone da barbiere. Il che conferma che i suoi veri avversari la leader di “Fratelli d’Italia” dovrà cercarli all’interno della sua maggioranza, tanto più che dall’opposizione parlamentare per ora non ha nulla da temere. E dire che per scansare il pericolo la neo-presidente le aveva pensate tutte: allontanare Salvini dal Viminale, silenziarlo con l’atlantismo, collocarlo lontanissimo dalla Farnesina, creare un apposito ministero del mare affidandolo a un berlusconiano per impedirgli l’accesso al Papeete da dove magari tra un bagno e l’altro poteva ordinare di affondare i barchini carichi di immigrati che sbarcavano sulle coste; affidandogli le infrastrutture pensava al vecchio inoffensivo ministero dei trasporti che di fatto si occupava di ferrovie (e arrivare in treno da Roma a Mosca era complicato (dovendo passare dall’Ucraina). Ma ahimè era inciampata sui porti. Porti = navi = ong = immigrazione. L’avevano fregata.

La questione
Naturalmente nulla nasce dal nulla. Il problema degli immigrati clandestini esiste e quello dei comportamenti ambigui delle ONG che si accompagna all’indifferenza dei partner europei pure.
Covid e guerra in Ucraina con tutte le conseguenze drammatiche che ne sono derivate hanno fatto giustamente passare in secondo piano le paure irrazionali che avevano in passato terrorizzato larghi settori dell’opinione pubblica che i neri li voleva sì per coltivare i pomodori ma non gradiva vederli girare liberamente per strada spaventando i loro bambini. Ironia a parte, erano arrivati problemi più seri e degli immigrati che sbarcavano in clandestinità per due anni non ha parlato più nessuno. Ma il problema esiste e non si risolve resuscitando venti nazionalistici (che ne suscitano altrove altrettanti) ma affrontando pragmaticamente la questione partendo da alcuni dati di fatto:

  1. Gli immigrati rappresentano in prospettiva una risorsa e non un onere. Tutti gli esperti concordano che con l’invecchiamento della popolazione la nostra economia non potrà funzionare senza l’apporto di centinaia di migliaia di immigrati, neanche se le nostre donne tornassero a fare figli con la stessa intensità del secolo scorso (il che pare irrealistico, anche con gli incentivi che la Meloni, memore forse dei fasti demografici mussoliniani, promette per sostenere la maternità).
  2. La questione quindi non è se abbiamo bisogno degli immigrati ma come regolarne i flussi di entrata in modo da renderli coerenti con un dignitoso collocamento (anche nel loro interesse). Lo stesso problema hanno avuto (e hanno) Francia, Germania e Spagna anch’esse soggette a una forte pressione immigratoria.
  3. L’Unione Europea – in quanto istituzione regolata dal trattato di Maastricht e da quelli successivi che lo hanno modificato – non ha competenza in materia. Può soltanto esercitare – per quel che vale – una moral suasion accompagnandola con qualche incentivo economico.
  4. Fino ad oggi la maggior parte dei partner europei si sono dichiarati contrari ad estendere il potere regolamentare dell’Unione in materia di immigrazione. Ogni decisione in proposito passa quindi attraverso l’unanimità dei suoi ventisei membri.
  5. Ciò nonostante la Germania è riuscita cinque anni fa a coinvolgere l’Unione in un accordo con la Turchia che ha consentito di bloccare l’invasione di profughi che in seguito alle guerre in Medio Oriente stavano rovesciandosi in Europa. Un accordo costato alcuni miliardi di euro ma che – attenzione! – non riguardava una generica immigrazione economica ma il salvataggio di profughi vittime di conflitti armati che erano sotto gli occhi di tutti. Qualcosa di simile sta accadendo per i profughi ucraini che dopo l’aggressione di Putin al loro paese hanno invaso la Polonia e sono stati giustamente accolti in tutta l’Europa (Italia compresa).
  6. Un fragile accordo che prevedeva il ricollocamento di alcune migliaia di migranti economici in alcuni paesi europei, chiesto dall’Italia e accettato da Francia e Germania, aveva carattere volontario e di fatto si è risolto in un fallimento.
  7. L’instabilità politica e militare della Libia aggrava la situazione, ma non è la sola ragione di quanto avviene nel Mediterraneo. Flussi costanti di migranti provengono anche dal Magreb, dall’Egitto e dal Medio Oriente. Una politica di contenimento e di selezione da sviluppare in Africa settentrionale – come proponeva la Meloni – urta contro due ostacoli: deve essere fatta dall’Unione Europea o quanto meno in stretta cooperazione dai paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo (oltre al nostro Spagna, Francia e Grecia e altri minori), e deve trovare accoglienza e collaborazione nelle nazioni arabe interessate (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco). Di tutto ciò non si scorgono nemmeno le premesse. Gli unici soggetti che fanno politica in Africa esercitando un discreto potere di pressione sono le compagnie petrolifere (compresa, per fortuna, la nostra ENI) che sono tra loro in aspra competizione.

Sic rebus stantibus
Così stando le cose non basta sperare che le cose cambino e le opinioni pubbliche della Norvegia o dell’Olanda diventino più sensibili alle nostre preoccupazioni, e nemmeno esercitare pressioni muscolari (come la chiusura dei porti) o sollevare infinite controversie di diritto sulle bandiere che battono le ONG.Dobbiamo invece predisporre un piano B (che diventerà presto l’unico praticabile) per regolare l’accoglienza e il collocamento anche senza l’aiuto dei partner europei. Si può fare cambiando alcune leggi assurde che regolano cittadinanza e residenza, modificando l’accesso ai concorsi, collaborando coi sindacati per smantellare l’economia sommersa che prospera sull’immigrazione clandestina. Si può fare ma bisogna volerlo sedendosi intorno a un tavolo, anche presieduto da Giorgia Meloni. Meglio non invitare Salvini.

 

Franco Chiarenza
16 novembre 2022

 Foto: https://www.quirinale.it/

Il neonato governo Meloni non mi preoccupa. So con questa affermazione di scandalizzare gli amici liberali e, naturalmente, quelli di sinistra; ne spiego quindi la ragione.

Le radici, la cultura politica, la storia di Giorgia Meloni sarebbero preoccupanti se davvero potessero incidere in maniera significativa sull’azione di governo; in realtà ciò non può avvenire e se di qualcosa si deve dare atto alla giovane leader è di averlo compreso sfuggendo alla facile retorica paternalistica di Salvini e Berlusconi (i quali oltretutto – e questa è una sorpresa – non ne hanno ricavato alcun vantaggio). Un governo si qualifica per tre cose fondamentali: la politica estera, l’intervento pubblico nell’economia, la sicurezza. Il resto riguarda il funzionamento ottimale della pubblica amministrazione e può essere modificato soltanto con profonde riforme di struttura che per essere valide richiedono un consenso più ampio delle effimere maggioranze parlamentari; anche perchè rischiano di essere molto costose, non tanto in termini economici, quanto di consenso elettorale: parlo di giustizia, scuola, sanità, previdenza e assistenza (ivi compresa l’annosa questione dell’età pensionabile).

La politica estera
Giorgia Meloni ha subito sgombrato il campo da ogni ambiguità: la fedeltà all’alleanza atlantica ne resta il caposaldo con ciò guadagnandosi almeno la neutralità dei sospettosi americani che non avevano gradito le frequentazioni putiniane di Salvini e Berlusconi. Per quanto riguarda l’Europa l’avversione di Fratelli d’Italia ad ogni forma di ulteriore integrazione era troppo nota per essere platealmente contraddetta, ma in un momento in cui la solidarietà europea (di cui abbiamo estremo bisogno) è messa in crisi non dal gruppo di Visegrad ma dall’asse tedesco-olandese, tutto lascia pensare che il suo sovranismo, almeno per ora, finirà abbastanza ridimensionato. La nomina di Tajani a ministro degli Esteri e il lungo colloquio con Macron che “casualmente” si trovava a Roma nel giorno dell’insediamento del nuovo governo sembrano confermare la continuità con la linea Draghi.
Il resto non conta, salvo la Libia. Ma anche lì ogni azione che non sia velleitaria passa fatalmente dall’Europa e in particolare da un comunità d’intenti con Francia e Spagna di cui finora non si è vista traccia.

L’intervento pubblico in economia
L’assegnazione a Giorgetti del ministero dell’Economia risponde a tre diverse esigenze che la scelta del nuovo presidente in qualche modo soddisfa: ridimensionare il ruolo di Salvini, evitare la nomina di un tecnico, assicurare i mercati e le imprese che si manterrà salda la barra della “governance” economica dentro i parametri fissati dall’U.E. Il nome di Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico con Draghi, offre in proposito qualche fondata garanzia.
Per il resto, al di là delle demagogiche difese dei concessionari abusivi delle nostre spiagge che ci hanno afflitto questa estate, i paletti del trattato di Maastricht sono abbastanza rigidi da rendere inoffensivo qualsiasi attacco. Ci sarà qualche sbavatura, qualche “salvinata” ad uso e consumo di elettori futuri. Ma nulla di più.

La sicurezza
E’ un problema serio per qualsiasi governo anche per i riflessi che ha sulla pubblica opinione; forse ha rappresentato un elemento decisivo nell’affermazione di un movimento con radici autoritarie.
La realtà delle cose ci dice però che in una società aperta – come per fortuna è la nostra – poco si può aggiungere a quanto già si è fatto; se Giorgia Meloni dovesse cedere a tentazioni da “stato di polizia” si avventurerebbe sul terreno scivoloso della riduzione delle garanzie individuali seguendo i pessimi precedenti che hanno portato la Polonia e l’Ungheria a restare emarginati all’interno dell’Unione. Ed è infatti sui diritti e sulle garanzie che il governo è atteso al varco. Ed è in quel momento – che non sarà domani – che si capirà se la parola “responsabilità”, tanto spesa dal premier in campagna elettorale, avrà il significato che gli elettori moderati gli hanno attribuito: la consapevolezza di guidare un paese profondamente diviso che soltanto una infelice legge elettorale gli consente di governare. Lo si può fare in due modi: o con la contrapposizione generatrice di violenza e sbocchi autoritari oppure cercando possibili intese senza venir meno al mandato elettorale della maggioranza parlamentare.

Le riforme di struttura
Che siano necessarie tutti lo dicono; sul come farle la confusione (anche metodologica) regna sovrana. Se non si vogliono ripetere gli errori commessi in passato (Renzi compreso) occorre predisporle una alla volta (evitando i “pacchetti” che uniscono inevitabilmente gli eterni avversari di ogni cambiamento), confrontarle apertamente con le opposizioni per cercare soluzioni condivise, e non attribuirsene ad ogni costo la paternità per finalità elettorali. Giorgia Meloni si era già espressa per un confronto aperto e deve insistere. A cominciare da alcune revisioni costituzionali (Senato, Regioni, legge elettorale, giustizia).
Qualcuno obietterà che si chiede alla Meloni di fare ciò che i suoi predecessori di centro-sinistra (con l’eccezione di Renzi) non hanno mai fatto. Ebbene sì; col suo curriculum la nuova presidente del Consiglio deve assumersi l’onere della prova.

Riuscirà Giorgia Meloni?
La domanda quindi è: riuscirà la giovane leader ad avviare un puzle così complesso? La sua inesperienza e le radici politiche non giocano a suo favore; ma paradossalmente, anche per il modo in cui ha saputo gestire la transizione, senza arroganza, sempre richiamandosi al principio di responsabilità, diversamente dal populismo straccione di Salvini e da quello paternalistico di Berlusconi, Giorgia Meloni si presenta chiedendo un’apertura di credito che una società liberale non può negare.
Ma – come dice il proverbio – dai nemici mi guardi Iddio, dagli amici devo guardarmi io. E lei di “amici” pericolosi ne ha tanti.

 

Franco Chiarenza
31 ottobre 2022

Foto: sito www.fratelli-italia.it

La vittoria di Giorgia Meloni è stata netta e inequivocabile, inutile girarci troppo intorno.
Vale la pena invece fare qualche riflessione sulle ragioni del suo successo e sui rischi che presenta questo nuovo quadro politico per una società che noi liberali vorremmo aperta e integrata nelle istituzioni europee.
E non a caso dico “vittoria di Giorgia Meloni” e non del suo partito Fratelli d’Italia perché credo che in questo caso la specificità della leadership sia stata determinante.

Perché ha vinto
Tutti (compresi i suoi alleati dello schieramento di destra) attribuiscono la ragione principale del successo di FdI al fatto di essere rimasto sempre all’opposizione, anche nell’intera scorsa legislatura quando si è passati disinvoltamente attraverso maggioranze multicolori tra loro ideologicamente poco compatibili. L’opposizione paga sempre e certamente anche in questo caso il suo peso è stato fondamentale; ma bisogna essere ciechi per non vedere che c’è dell’altro, anche perché la storia, le radici, i punti di riferimento culturali della Meloni sono assai più netti di quelli espressi da movimenti effimeri come i Cinque Stelle, Italia Viva, e la stessa Lega che da “partito del nord” si era trasformata in un movimento populista nazionale. Certamente Giorgia Meloni ha saputo destreggiarsi nei labirinti della politica con maggiore abilità del suo più diretto concorrente Matteo Salvini il quale ha infilato una serie impressionante di errori a partire dal Papeete del 2019 fino alle ambiguità che hanno caratterizzato la partecipazione al governo Draghi, nei cui confronti invece la leader di FdI aveva costruito un rapporto di opposizione responsabile che ricordava il fair play della prassi parlamentare britannica (chiaramente apprezzata dal presidente del consiglio). Anche i Cinque Stelle, concentrando sul reddito di cittadinanza e sugli inceneritori buona parte della loro identità, hanno perso nel centro nord più consensi di quanti ne abbiano mantenuti al sud, lasciando campo libero alla Meloni che i suoi punti di forza in Lombardia li ha sempre avuti. In questo modo si è prodotto un incredibile rovesciamento dei ruoli che ha confinato la Lega “nazionale” a simbolo di un estremismo plebiscitario e sovranista (che fino a poco tempo prima pareva appartenere soprattutto all’estrema destra post-fascista) mentre il movimento fondato da Meloni, Crosetto e Larussa sulle ceneri di Alleanza Nazionale indossava un più rassicurante abito moderato (anche se qualche strappo di fanatismo nostalgico fuori controllo ogni tanto spuntava fuori). Una trasformazione che una parte consistente dell’elettorato leghista delle regioni settentrionali ha colto immediatamente esprimendo col voto alla Meloni il suo dissenso nei confronti di un estremismo anti-occidentale che di colpo era diventato la nuova carta d’identità della Lega nazional-populista; persino nell’aspetto fisico Salvini con la volgarità dei suoi social, con gli slogan di cartapesta insignificanti per chiunque avesse un livello conoscitivo medio, sembrava ricordare il Mussolini dei primi tempi. Anche Berlusconi ha fatto la sua parte: la consistenza parlamentare di Forza Italia deriva dagli accordi preliminari con i partner di destra ma il suo fallimento come punto di raccolta della destra moderata è dovuto alle ambiguità filo-putiniane e alla mancanza di un progetto in cui i ceti medi che avevano appoggiato il governo Draghi potessero riconoscersi. Alla fine la fermezza “senza se e senza ma” con cui la Meloni ha proclamato la fedeltà all’alleanza atlantica è risultata vincente perché rappresentava un’affidabile dimostrazione di serietà.
Molti hanno rilevato l’importanza del fattore “donna”, e hanno ragione. La novità (per l’Italia) di un capo del governo declinato al femminile ha certamente orientato il voto di molte donne soprattutto perché contrapposto al maschilismo volgarmente esibito da Salvini e Berlusconi.

Chi l’ha votata?
Le analisi del voto sono quasi unanimi: pensionati, anziani, prevalentemente ceto medio, distribuiti in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale; pochi giovani. Ma in un paese di vecchi come sta diventando l’Italia tanto basta, anche al netto dell’effetto trascinamento che, come sanno gli esperti della materia, si produce quando un partito è percepito come possibile vincente e che trasforma un successo elettorale in un trionfo. Con la fine dei partiti ideologici e l’affermazione delle leadership personali il fenomeno si è accentuato determinando spostamenti di milioni di voti: è successo con Berlusconi, con Renzi, con Grillo, con Salvini e oggi si ripete con Meloni. Voti però molto fluidi, non ancorati a ideologie né a radicamenti storici, senza chiare e definite priorità politiche e sociali, e quindi instabili e pronti a defluire in altre direzioni. Un contesto in cui i sondaggi contano più delle maggioranze parlamentari e di cui anche la Destra dovrà tenere conto.

Quali rischi?
Non credo che la nostra democrazia e i pochi elementi di liberalismo in essa contenuti corra pericoli nell’immediato. L’interesse di Giorgia Meloni è di proseguire nella strategia rassicurante che l’ha fatta vincere: ne avremo conferma nella composizione del governo dove cercherà di limitare le pretese identitarie di Salvini, nella collaborazione con Draghi per la gestione della fase di transizione (soprattutto per quanto riguarda il PNRR e i rapporti con la BCE), nell’apertura di un tavolo per le riforme costituzionali aperto all’opposizione e nella consapevolezza che le sue radici costituiscono un limite alla possibilità di avviare un rapporto costruttivo con le parti sociali (sindacati, Confindustria, ecc.).
Non temo quindi grandi cambiamenti nella politica economica; l’Italia è inevitabilmente vincolata ai trattati europei e il suo debito pubblico troppo dipendente dalla tolleranza dei partner per consentire colpi di testa che la farebbero finire in bancarotta. Chiunque occuperà il posto di Daniele Franco lo sa e dovrà tenerne conto al di là degli slogan “Italia first” e simili con cui la Meloni ha condito la parte demagogica inevitabile in ogni campagna elettorale (peraltro con molta prudenza in tema di bilancio).
I veri problemi sorgeranno in un secondo tempo quando, consolidata la sua leadership, la Meloni dovrà affrontare questioni che più attengono ai diritti individuali, sapendo che una parte importante del suo nuovo elettorato non si riconosce nell’ideologia familistica, anti-abortista e nazionalista che cova nella pancia identitaria del suo partito. Non saranno certo l’indifferenza narcisistica di Berlusconi, né una Lega a guida salviniana cosparsa di rosari e santini a frenare pericolosi scivolamenti verso i modelli polacchi o ungheresi; al contrario. Quello sarà il momento in cui l’opposizione di sinistra e ancor più un centro depurato dai personalismi e rifondato su una carta liberale che riproponga i valori di una società aperta potranno svolgere un ruolo determinante.

Franco Chiarenza
28 settembre 2022

Quali sono le possibili scelte elettorali di un liberale qualunque? Mi è stato chiesto.

Percorro l’offerta disponibile.

Escludo l’estrema sinistra (Fratoianni, Speranza, ecc.) non per avversione pregiudiziale ma per il semplice fatto che la radicalità socialista e statalista a cui essa fa esplicito riferimento, anche se velleitaria e di fatto irrealizzabile, non è accettabile per un liberale. Non nego che sul tema dei diritti alcune convergenze sarebbero possibili ma non mi sembra che questo sia al momento il punto centrale.

Il partito democratico, soprattutto in alcune sue componenti, può invece essere considerato uno schieramento dove alcune istanze liberali hanno trovato in passato e possono ritrovare oggi uno spazio adeguato. Recentemente però Enrico Letta e il gruppo dirigente del partito (che già dalle sue origini liberale non è mai stato, essendo nato dalle ceneri del partito comunista e di quello cattolico di sinistra) hanno orientato la sua immagine verso un’identità che in qualche momento non mi è più sembrata compatibile con la cultura liberale dello stato di diritto, non a caso privilegiando un’alleanza organica col sovranismo populistico dei Cinque Stelle. Quanto basta per escluderlo dalle mie preferenze, malgrado la presenza nel suo “campo largo” anti-fascista di personaggi come Emma Bonino (+Europa) e Cottarelli i quali certamente vanno ricompresi nella tradizione radical-liberale.

Il movimento Cinque Stelle, oggi guidato da Giuseppe Conte, è tornato a identificarsi con un volgare assistenzialismo paternalistico su cui contenere la perdita di credibilità su cui i sondaggi hanno impietosamente insistito. Non ho dubbi che dopo le elezioni, misurati i rispettivi rapporti di forza, Conte tornerà ad allearsi col PD in una piattaforma dove la demagogia rappresenterà la bussola di ogni scelta (specularmente a quanto ha fatto il partito della Meloni con il governo Draghi per raccogliere il consenso degli scontenti). Sempreché, come è già avvenuto in passato, non riemerga dalla nebbia l’imperscrutabile “Elevato” con qualche imprevedibile alzata di testa. So bene che alcune istanze dei Cinque Stelle (come la lotta alla corruzione e ai privilegi ingiustificati della classe politica) non lasciano indifferenti i liberali, i quali però contestano i mezzi e gli strumenti utilizzati che hanno inciso sull’equilibrio dei poteri, fondamento ineludibile dei sistemi liberal-democratici. Non è il caso di affidarsi a un movimento che fa dell’incompetenza la ragione della sua esistenza e respinge la meritocrazia.

Forza Italia, al cui interno molti liberali hanno esercitato in passato un ruolo importante, ha accentuato il suo carattere di “partito padronale” che ne costituì il limite sin dalle origini, e rappresenta oggi soltanto le velleità di rivalsa del suo vecchio leader. Invece di cogliere l’occasione per trasformarsi in una destra moderata al cui interno una parte dei ceti medi avrebbe potuto trovare un punto di riferimento, FI resta un partito di corte arroccato intorno a un “sovrano” delegittimato dai suoi ambigui rapporti internazionali, dai conflitti con la magistratura, dall’incapacità di prospettare un progetto credibile per la stabilizzazione del sistema politico. Io non l’avrei comunque votato perchè non dimentico il passato ma constato con amarezza che il suo crollo toglie alla destra un pilastro che avrebbe potuto arginare le tentazioni sovraniste e demagogiche delle sue componenti più estreme.

La Lega, pur attraversando una crisi di consensi nei confronti del suo leader Salvini, resta, soprattutto al nord, una forza radicata sul territorio ancora legata ad aspirazioni autonomistiche che ne costituirono molti anni fa la ragione del successo iniziale. La demagogia volgare di Salvini e le sue compromissioni di politica internazionale creano imbarazzo nel suo stesso partito ma soprattutto fanno temere azioni di governo che spingerebbero il Paese alla bancarotta e all’ uscita dall’Unione Europea e dall’alleanza atlantica per scivolare in un ambiguo neutralismo funzionale alla politica espansionista di Putin. Tanto basta per escludere che un liberale possa votare per la Lega, almeno fin quando essa si riconoscerà nella leadership sgangherata e pericolosa del suo capo. Ometto per brevità alcune considerazioni sulla mancanza totale di attenzione per i diritti umani esibita da Salvini che sembra ispirarsi a una visione arcaica e autoritaria della società che non appartiene alla cultura liberale.

Fratelli d’Italia costituisce il fenomeno emergente dell’attuale stagione politica. Nato dall’eredità post-fascista del MSI, il movimento raccoglie quanti sono sopravvissuti ai suoi traumatici passaggi attraverso l’Alleanza Nazionale di Fini e il “Popolo delle libertà” di Berlusconi. Una destra confusa che funge da bacino di raccolta di istanze non sempre compatibili tra loro la quale dagli errori altrui (compresa la Lega) si trova oggi sospinta alle soglie della responsabilità di governo. La sua leader, Giorgia Meloni, è riuscita abilmente a costruirsi una credibilità personale (non giustificata dalla sua storia), che le consente di apparire in Italia e all’estero interlocutrice affidabile – di destra certo, ma non diversa dai movimenti populisti che anche nel resto d’Europa si stanno affermando in contrapposizione ai modelli liberal-democratici fino ad oggi prevalenti. Illiberale per definizione, difensore dell’autoritarismo plebiscitario di Orban e di Erdogan, atlantista per opportunismo (e per non tirare troppo la corda col potente alleato americano, almeno finché i democratici saranno al potere), il “fraterno” movimento nazionalista non può essere nemmeno preso in considerazione da un liberale. Eppure sono certo che non mancheranno coloro che sosterranno il contrario; ci furono anche cent’anni fa quando il fascismo colse l’occasione degli errori altrui per proclamarsi difensore degli interessi dei ceti medi e insediarsi al potere.

Resta il “terzo incomodo” o meglio l’assemblaggio di quanti vorrebbero esserlo per non restare schiacciati dall’alternativa padella-brace. Si tratta naturalmente di quel terzo polo costituito frettolosamente intorno ad Azione (il movimento di Calenda), Italia Viva (Renzi) e un po’ di profughi provenienti da Forza Italia (Gelmini, Brunetta, Carfagna, ecc.); strutturalmente debole è caratterizzato più dal rifiuto della polarizzazione che da un chiaro indirizzo programmatico. Ma per quel che è stato possibile mettere insieme esso presenta un indirizzo liberal-democratico abbastanza netto anche se venato da sfumature stataliste più social-democratiche che liberali. Comunque convince la filosofia del “fare” che Calenda persegue da quando osò sfidare il PD nelle amministrative a Roma ottenendo un discreto successo (20%). Manca un adeguato impianto politico ideologico che offra indicazioni sulla politica internazionale, sulle scelte energetiche, sulle grandi riforme liberali che il Paese attende da cinquant’anni; il “buon governo” sui singoli problemi è un metodo valido per superare le pregiudiziali ideologiche ereditate dal passato ma non basta a segnare una nuova identità che le nuove generazioni possano considerare attraente.
Ma tant’è: malgrado i passi falsi che ne hanno minato la credibilità voterò Calenda e Renzi e altrettanto dovrebbero fare a mio avviso i liberali qualunque che me lo hanno richiesto.

Su queste elezioni, qualunque ne sia il risultato, incombe il fantasma di Mario Draghi. Inquietante per i partiti che devono prendere atto del consenso che ha suscitato nel Paese la sua azione di governo (65%, un record assoluto dopo un anno di scelte difficili e spesso divisive), imprescindibile per chiunque ne prenderà il posto a palazzo Chigi. Draghi ci lascia la nostalgia di un metodo di governo efficiente, di un prestigio personale costruito nel tempo, di una coerenza testarda nelle cose che contano. Noi liberali lo ricorderemo come raro esemplare di quei servitori dello Stato (grand commis, dicono i francesi) che nelle grandi democrazie liberali dell’Occidente hanno sempre rappresentato il telaio su cui i veri statisti possono realizzare i progetti di cambiamento di cui sono portatori. In Italia sono sempre più rari ma anche di statisti degni della definizione ne vedo pochi.

Franco Chiarenza
20 settembre 2022