Quelli che sul conflitto russo-ucraino la pensano come il mio amico Marcello sono coloro che in buona fede ritengono che il prezzo che stiamo pagando per sostenere la resistenza ucraina sia sproporzionato rispetto alle buone ragioni degli ucraini e che la real politik tanto spesso utilizzata dai paesi occidentali per tutelare i propri interessi avrebbe richiesto una maggiore comprensione del movente che ha spinto i russi ad agire. Anche perché interrompere i rapporti commerciali con la Russia è controproducente e inviare armi sofisticate all’Ucraina un’inutile provocazione che apporta sempre maggiori sofferenze alla popolazione civile. Insomma, al di là di qualche doverosa protesta verbale, bisognava lasciare che gli ucraini si arrangiassero e gli artigli della NATO mollassero la presa. Io non la penso così e ne spiego sinteticamente i motivi.

  1. I casi sono due: o il conflitto è nato perché le minoranze russofone del Donbass erano perseguitate, oppure si tratta di una guerra scatenata per altre ragioni.
    Nel primo caso una violazione così clamorosa del diritto internazionale come un intervento armato è assolutamente esagerato rispetto all’obiettivo dichiarato e comunque non avrebbe dovuto essere esteso a tutto il territorio ucraino. Ne consegue che le vere ragioni sono altre né, per la verità, Putin lo ha nascosto più di tanto. Si tratta di capire quali sono e se siano tali da giustificare la reazione dei paesi occidentali.
  2. La prima motivazione è la “sicurezza” della Russia che verrebbe minacciata dalla presenza della NATO (che è peraltro un’alleanza militare con finalità difensive) nei paesi confinanti. Il problema sorge infatti per l’Ucraina che non fa parte della NATO (ma vorrebbe) e non – almeno per ora – per gli altri paesi di frontiera (Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Romania) già coperti dall’ombrello NATO. La Finlandia e la Svezia, sempre portate a esempio di una possibile neutralità, sono rimaste talmente sconvolte dall’azione aggressiva della Russia da precipitarsi a chiedere l’adesione alla NATO. Resta il dubbio se stiamo discutendo della sicurezza russa da un’aggressione della NATO o piuttosto della sicurezza di piccoli paesi confinanti minacciati dalle velleità neo-imperiali di Putin.
  3. Comunque, a prescindere dalle preoccupazioni che l’espansionismo russo suscita nel Baltico, l’intervento a gamba tesa di Putin avrebbe – secondo i suoi sostenitori – un carattere sostanzialmente preventivo al fine di ottenere la neutralizzazione forzata dell’Ucraina. Ma se solo di questo si trattasse era possibile trovare una soluzione concordata sulla base degli accordi di Minsk che l’Ucraina non ha mai escluso e che lo stesso Biden (a quanto risulta dalle recenti rivelazioni di Macron) era disposto a discutere prima dell’invasione.
  4. La seconda ragione addotta dagli aggressori è il fatto che l’Ucraina faceva parte dell’Unione Sovietica e che la sua identità etnica è poco dimostrabile al di fuori della grande storia pan-russa anche prima dell’URSS. Affermazione discutibile ma che comunque non può essere addotta per infrangere i trattati internazionali senza produrre inevitabili effetti a cascata nei tanti casi in cui i confini nazionali non corrispondono, in tutto o in parte, con quelli etnici e linguistici. L’esistenza dell’Ucraina come stato indipendente non è mai stata messa in discussione nemmeno ai tempi dell’URSS, tanto che sin dalla fine della seconda guerra mondiale essa ha un suo rappresentante all’ONU al pari delle altre nazioni che ne fanno parte.
  5. Veniamo infine alla vera motivazione di questa assurda guerra decisa freddamente a tavolino quando c’erano tutte le condizioni per evitarla; la si può ricavare dal discorso di Putin a San Pietroburgo in occasione delle celebrazioni dello zar Pietro il Grande nel quale le intenzioni della nomenklatura russa sono emerse in maniera esplicita. La guerra in Ucraina è solo il primo passo per restituire alla Russia quel rango di grande potenza che dopo il crollo dell’Unione Sovietica aveva perduto e, conseguentemente, per ridimensionare l’egemonia occidentale fondata sull’asse euro-americano. Da qui l’alleanza con la Cina e l’ostilità manifesta nei confronti di tutti i paesi che hanno sviluppato sistemi politici e sociali ispirati ai principi liberal-democratici, considerati veicoli ideologici al servizio della potenza americana. Perché questo è il problema: non la Russia ma l’autocrazia plebiscitaria illiberale e nazionalista con cui l’autocrate di Mosca ha cercato di riempire il vuoto lasciato dal comunismo leninista.
  6. Qui sta il punto: tu (e chi la pensa come te) sei critico nei confronti della civiltà euro-americana, ne sottolinei continuamente le incongruenze e le contraddizioni che sono spesso innegabili, sostieni che la democrazia dei paesi occidentali è fittizia e non rappresentativa degli interessi popolari; ma poiché non posso immaginare che tu sia un sostenitore del regime di Putin (altrimenti non saresti mio amico), devo dedurne che sei un nostalgico di quella “terza via” tra capitalismo (ovviamente selvaggio) e dittatura in nome del proletariato che era tanto di moda tra gli intellettuali di sinistra (socialisti e cattolici) ai tempi della nostra gioventù. Capisco che in tale contesto psicologico un robusto ridimensionamento dell’egemonia americana non ti dispiacerebbe.
  7. Ma per sostituirla con che cosa? Soltanto all’interno di uno stato di diritto (che non significa uno stato dove sempre si rispettano i diritti ma soltanto che riconosce almeno in linea di principio i diritti individuali fondamentali) si può costruire una democrazia in grado di correggere i suoi difetti, a partire dalle distorsioni prodotte dai mercati globalizzati. Non credo che la Russia o la Cina abbiano in proposito qualcosa da insegnarci; se hai dei dubbi puoi chiedere informazioni ai ragazzi di Hong Kong o ai dissidenti arrestati a Mosca.

Cari saluti, Franco Chiarenza.

Il 12 giugno, in coincidenza con il rinnovo di alcune amministrazioni comunali, si vota anche per i referendum proposti dai radicali per modificare l’ordinamento giudiziario. Il liberale qualunque vota sì e spiega perché.
Innanzi tutto per dare un segnale forte di protesta che prescinde dai singoli quesiti e dalle inevitabili tecnicalità che non sono alla portata di tutti; una protesta che riguarda l’inefficienza del sistema sia nella giustizia civile che in quella penale. Una giustizia lenta e inaffidabile non è soltanto ingiusta ma costituisce soprattutto un danno per l’intero “sistema Paese” perché compromette il funzionamento dello stato di diritto, fondamentale non soltanto per la tutela dei diritti individuali ma anche per assicurare la certezza dei diritti e delle regole in una sana e competitiva economia di mercato. Introdurre nell’ordinamento elementi di valutazione sulla produttività dei magistrati consentendo a rappresentanti dell’ordine forense e docenti di diritto di far parte degli organi a ciò preposti servirebbe a ridurre scompensi che penalizzano i tanti magistrati che fanno il loro dovere al meglio delle loro possibilità.
Ci sono poi due punti che ad ogni liberale stanno a cuore: la separazione delle carriere che sancisce competenze diverse e non intercambiabili tra le procure e i giudici, assicurando a questi ultimi quella terzietà tra accusa e difesa che è alla base del diritto penale nella più moderna tradizione giuridica occidentale. Lo sosteneva anche il più grande dei nostri magistrati inquirenti, quel Giovanni Falcone al quale innalziamo statue per meglio ignorarne gli ammonimenti.

In proposito sarebbe necessaria una riforma più radicale che seppellisse definitivamente l’eredità della scuola giuridica tedesca che, al contrario di quella anglosassone, si è sviluppata nell’Ottocento sul principio della superiorità dello Stato su ogni diritto individuale e alla quale dobbiamo il codice fascista di Alfredo Rocco, ancora in gran parte vigente. Ma questo va oltre i referendum di cui discutiamo.
L’altra questione che sta a cuore ai liberali è l’abuso della carcerazione preventiva, spesso utilizzata dalla magistratura inquirente (i pubblici ministeri, tanto per intenderci) come strumenti di pressione per ottenere “collaborazioni” assai poco spontanee e spesso rivelatesi poi inaffidabili.
Vi sono altre questioni, in parte affrontate dalla riforma Cartabia che dovrà essere votata in parlamento nei prossimi giorni: le “porte girevoli” tra politica e magistratura (chi sceglie la politica resti lontano da funzioni giudiziarie), il protagonismo mediatico che incrina seriamente il principio costituzionale della presunzione di innocenza, la violazione sistematica del segreto istruttorio, ecc.
A queste deficienze strutturali denunciate inutilmente da anni si sono poi accompagnate le “rivelazioni” di Luca Palamara che non aggiungono nulla a quanto già si sapeva ma sono gravissime perchè provengono da un protagonista che si auto-denuncia e per il silenzio imbarazzante che le ha accompagnate. Il sì ai referendum significa anche questo: basta a un sistema che ha prodotto danni gravissimi al prestigio della magistratura coprendo sistematicamente corruzione, privilegi, parzialità, trasformandola in un potere occulto su cui i cittadini non riescono ad esercitare alcuna forma di controllo.

L’obiezione principale che i fautori del no oppongono ai referendum riguarda la necessità di affrontare una questione complessa come certamente è la riforma della giustizia in sede parlamentare con tutte le cautele necessarie; il che sarebbe giusto se il parlamento, facendo proprie le resistenze corporative dell’associazione dei magistrati, non avesse sempre rinviato sine die ogni tentativo di trovare soluzioni ragionevoli quali possono scaturire soltanto da un confronto serio e partecipato. I referendum abrogativi che cercano di risolvere le carenze legislative attraverso complicati “taglia e cuci” delle norme esistenti non sono mai auspicabili ma rappresentano l’unico modo di interpretare i sentimenti della pubblica opinione quando il Parlamento non svolge i compiti che la Costituzione gli assegna. La stessa Corte costituzionale non fa che richiamare le Camere ai loro doveri, rifiutando giustamente un ruolo di supplenza che il principio della divisione dei poteri non gli consente.
Naturalmente il passaggio parlamentare sarà ineludibile ma altro è arrivarci con alle spalle un referendum che ha chiaramente indicato i punti critici che vanno affrontati e come risolverli, diversa cosa dare il pretesto per rimettere di nuovo tutto nei cassetti delle burocrazie di Montecitorio e palazzo Madama e ivi lasciarle ammuffire. Come si è fatto in passato.

Franco Chiarenza
9 giugno 2022

Foto di Алесь Усцінаў : https://www.pexels.com/it-it/foto/dopo-l-esplosione-a-kiev-11477798/

Non è il ritorno alla guerra fredda (che era incruenta, almeno in Europa), non è (ancora) una calda guerra mondiale, ma è un conflitto che può durare a lungo e avere conseguenze cruciali per il futuro. Come finirà? A breve termine quasi certamente con la sconfitta dell’Ucraina sottoposta a uno strangolamento progressivo che ne minerà le capacità di resistenza. Le potenze occidentali si troveranno nell’impossibilità di agire per aiutarla più di quanto hanno già fatto per tre ragioni: l’impossibilità di attivare gli strumenti militari della NATO senza rischiare un conflitto nucleare (al di là delle ragioni formali che non impedirono l’intervento nel Kossovo contro la Serbia), le difficoltà crescenti di molti paesi europei sotto ricatto energetico (a cominciare dalla Germania), la scarsa efficacia delle sanzioni in tempi brevi.
Dotare l’Ucraina di armi tecnologicamente avanzate è stato certamente ciò che ha prodotto sorpresa e sbandamento nella prima fase della guerra, costringendo i russi a ripiegare sul Donbass, ma è una strategia che trova due limiti: la mancanza di una adeguata copertura aerea (no fly zone) che gli Stati Uniti non vogliono attivare per evitare una ulteriore escalation, e il timore che nuovi armamenti sofisticati cadano nelle mani dei russi nella fase conclusiva del conflitto (come è avvenuto in Afghanistan ma con la differenza che a Kabul si trattava di armamenti poco più che tradizionali e che comunque i talebani non erano in grado di utilizzare, mentre con i russi sarebbe tutt’altra storia).
Per quanto attiene il ricatto energetico, malgrado gli sforzi di Draghi e di Scholz, per almeno due anni le forniture russe resteranno indispensabili e ciò rende la pace – checchè se ne dica – un obiettivo da conseguire rapidamente. Ad ogni costo? Certamente no e Putin dovrà necessariamente tenere conto che per fronteggiare le sanzioni occidentali la Russia ha bisogno di vendere il proprio gas e soltanto l’Europa (e in particolare la Germania e l’Italia) sono in grado di acquistarlo a prezzi elevati (specialmente se pagati in rubli rivalutati).
Le sanzioni infine. Rappresentano certamente per la Russia un danno non indifferente ma non tale da provocarne il collasso economico, almeno fin quando continueranno le vendite di gas all’Europa. Anche perchè al di fuori delle grandi città più “occidentalizzate” (Mosca e San Pietroburgo soprattutto) l’immensa periferia russa è abituata a consumi contenuti ed è sensibile al richiamo nazionalista dell’orgoglio autarchico (una carta che giocò con successo il fascismo quando l’Italia fu sanzionata per avere aggredito e invaso uno stato indipendente come l’Etiopia; direi che qualche analogia con l’Ucraina è riscontrabile).
Nulla quindi, in tempi brevi, potrà fermare la Russia e si tratta soltanto di capire fino a che punto Putin voglia spingersi; il che dipende da considerazioni che vanno ben oltre l’Ucraina e le rivendicazioni territoriali. Se, come molti analisti sostengono, questa è soltanto l’anteprima di un conflitto tra Russia e Stati Uniti che ha come obiettivo il controllo dell’Europa, tanto benestante economicamente quanto fragile politicamente, la partita sarà lunga e coinvolgerà la Cina, finora piuttosto riluttante a impegnarsi in Europa e in Medio Oriente. Per ridurre l’egemonia americana Xi Jinpeng punta altrove le sue carte (in Estremo Oriente, in Africa, ecc.).

Nei tempi lunghi invece la guerra scatenata da Putin rischia di essere un boomerang per diversi motivi: innanzi tutto perchè con l’adesione della Svezia e della Finlandia all’alleanza atlantica si è favorito quello che per l’autocrate russo è l’accerchiamento occidentale, ridando nuova vitalità (anche militare) alla NATO che pareva ormai destinata alla rottamazione (tre anni fa Macron l’aveva definita “in stato di morte cerebrale”). Inoltre ha dato il via senza più remore al riarmo della Germania senza vincoli europei che costituisce comunque – al di là del ricordo storico – un’alterazione non secondaria degli equilibri militari nel vecchio continente. In secondo luogo perchè la ridefinizione dei confini occidentali con l’incorporazione “manu militari” della Crimea, del Donbass e di altre regioni ucraine determinerà una conflittualità irreversibile (ovviamente alimentata dall’Occidente) che potrebbe protrarsi a lungo; il che renderebbe semi-permanenti le sanzioni e l’isolamento economico e finanziario della Russia con un danno – al netto di acquisti decrescenti di gas – molto più rilevante di quanto ne subisca l’ Europa. Infine Putin sottovaluta l’importanza della “guerra mediatica” che ha accompagnato quella militare; Zalewsky è stato molto abile nel promuovere in tutto il mondo l’immagine dell’Ucraina martire della violenza russa la quale difende con le unghie e con i denti la propria indipendenza, mettendo in difficoltà quei partiti e movimenti occidentali che il regime russo ha favorito e sostenuto in funzione anti-americana (per esempio Le Pen in Francia, Salvini in Italia, Orban in Ungheria, ecc.). Quand’anche la guerra cessasse con la sconfitta militare dell’Ucraina dal punto di vista morale ne uscirebbe vincente la Resistenza ucraina e la ferita inferta alle relazioni russo-ucraine potrebbe restare aperta per intere generazioni.
Ecco perchè la domanda resta sempre la stessa: ne valeva la pena?

Franco Chiarenza
28 maggio 2022

Continua incessante, sempre meno sotterraneo, il tentativo di delegittimare l’alleanza di fatto che si è venuta a creare tra le democrazie occidentali e la resistenza ucraina. Il modo più subdolo di farlo è confrontare i misfatti di Putin con quelli di cui si sarebbe resa responsabile in passato la NATO, quasi che ciò possa in qualche modo giustificare l’intervento russo.
Tra quanti si esercitano in queste dubbie argomentazioni ci sono alcuni liberali, ed è ad essi che mi rivolgo perché la nostra cultura mette insieme ragioni e preoccupazioni geo-politiche (che comportano inevitabilmente contatti e relazioni anche con paesi diversi da noi) e coerenza con i principi che sono alla base delle nostre convinzioni.
In sintesi:

  • credo sia innegabile che in passato, assumendosi compiti di vigilanza democratica che non rientravano nelle finalità difensive originarie, la NATO abbia compiuto degli errori; in particolare l’intervento armato in Serbia nel 1999 per consentire alla minoranza albanese concentrata nel Kossovo di rendersi indipendente, e successivamente l’occupazione dell’Afghanistan dopo gli attentati terroristici di New York del 2011. L’invasione dell’Iraq nel 2009 invece non fu effettuata dalla NATO ma da una coalizione guidata dagli Stati Uniti (di cui non facevano parte né la Francia né la Germania e in cui l’Italia dette un contributo molto marginale nell’ambito di una collaborazione militare con la Gran Bretagna). Si trattò di operazioni militari diverse anche nelle motivazioni (nel caso del Kossovo la tutela di una minoranza perseguitata, in Afghanistan per distruggere le basi del terrorismo islamico, in Iraq senza alcuna giustificazione ragionevole) e che sollevarono dubbi e perplessità nelle opinioni pubbliche europee.
  • è altrettanto innegabile che dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’Alleanza atlantica aveva perso la sua principale ragione di essere; se guerra (fredda) c’era stata gli Stati Uniti coi loro alleati europei l’avevano vinta e quindi veniva meno la necessità di un’alleanza difensiva. Avrebbe avuto un senso mantenerla in vita trasformandola in una struttura multilaterale militare da utilizzare per stabilizzare le possibili aree conflittuali ancora presenti in Europa e in Medio Oriente in collaborazione con la Russia e non contro di essa; in questa direzione andavano l’accordo che il governo italiano promosse nell’incontro di Pratica di Mare tra la NATO e la Russia nel 2002, e, ancor prima, l’inserimento della Russia nel G7 (gruppo degli stati economicamente più avanzati, di fatto le maggiori potenze occidentali). Non si andò avanti in questo orientamento per tre ragioni: il prevalere in Russia di partiti nazionalisti e nostalgici contrari alla trasformazione del paese in una democrazia liberale; il timore dei paesi dell’Europa dell’Est di dovere fronteggiare le mire egemoniche e revansciste della Russia; l’interesse degli Stati Uniti di mantenere – attraverso il controllo della NATO – un potere di dissuasione militare che avrebbe impedito all’Unione Europea di crescere politicamente e militarmente.
  • Non è vero invece che la NATO allargandosi ad est ai paesi che avevano chiesto di farne parte abbia rappresentato un pericolo per la sicurezza della Russia, non soltanto per il carattere difensivo dell’Alleanza, ma soprattutto perché le basi militari e missilistiche presenti in Europa non erano quantitativamente comparabili con quelle russe.

Resta da capire – così stando le cose – perché Putin abbia deciso di intervenire militarmente in Ucraina, posto che un’adesione di quel paese alla NATO era ormai da escludersi e poteva facilmente essere formalizzata in un accordo complessivo insieme alla concessione di maggiori tutele alle minoranze russofone del Donbas e all’accettazione del fatto compiuto in Crimea.
L’unica spiegazione possibile è che Putin abbia deciso di scatenare una guerra preventiva per stabilire una zona di influenza russa nell’Europa dell’Est consolidando un’egemonia che a sud attraverso il controllo del mar Nero arrivasse al Medio Oriente e a nord dalla base di Kaliningrad controllasse il Baltico e gli stati neutrali che vi si affacciano (Svezia e Finlandia).
Ammetto che si tratta di una spiegazione debole a fronte dei rischi che un intervento armato avrebbe comportato e che il leader russo non poteva ignorare: isolamento internazionale (Cina esclusa), ricompattamento dell’Europa occidentale (con la pericolosa appendice di un riarmo tedesco), rafforzamento della NATO (proprio quando molti la davano per spacciata, almeno nel format attuale), danni economici rilevanti per un paese che per la maggior parte esporta gas e materie prime e importa manifattura e tecnologia. Evidentemente alcune conseguenze erano state sottovalutate a cominciare dalla resistenza accanita degli ucraini (anche russofoni anti-Putin) per continuare con la capacità americana di fornire assistenza militare e coperture tecnologiche in quantità e qualità tali da mettere in difficoltà un esercito più tradizionale come quello russo. A ciò si è aggiunta la parallela guerra della comunicazione, fondamentale nel mondo odierno, che ha visto Zelensky in netto vantaggio evidenziando l’arretratezza culturale del regime di Mosca e il suo isolamento auto-referenziale.

E allora? Se di guerra preventiva si è trattato, contro chi o che cosa?
Contro l’egemonia americana. Putin pensa a se stesso come l’angelo vendicatore della sconfitta dell’Unione Sovietica; non del comunismo, si badi bene, (di cui non ha alcuna nostalgia) ma di quella ricomposizione dell’impero zarista che, più o meno consapevolmente, l’Unione Sovietica aveva realizzato. E con le stesse mire egemoniche: Baltico, Polonia, Balcani, Medio Oriente.
Chi ostacola questo disegno? L’America. Da quando nel 1945 ha abbandonato il suo isolazionismo ed è corsa a salvare l’Europa dal nazifascismo stabilendo con essa un legame profondo derivato da origini comuni, valori ideologici condivisi, interessi economici in gran parte complementari, l’America coi suoi alleati in Oriente (Giappone, Corea, ex colonie britanniche) ha realizzato un’area di influenza socio-economica e culturale senza precedenti, all’interno della quale le regole politiche liberal-democratiche erano dominanti.
Putin ha capito che l’unico sistema realmente alternativo potenzialmente in grado di competere con l’egemonia americana è quello cinese, soprattutto da quando ha abbandonato le utopie egualitarie del marxismo rimodellando la propria economia per renderla capace di inserirsi con successo nei processi di globalizzazione capitalistica. Il presidente russo ha deciso quindi di anticipare i tempi costringendo la Cina di Xi Jinpeng a schierarsi con lui nel comune intento di ridimensionare la presenza euro-americana; ma in realtà le convergenze economiche e politiche dei due regimi sono molto limitate. La Cina difende l’autoritarismo perché lo ritiene necessario per modernizzare il paese ancora segnato da ataviche arretratezze di cui è cosparso il suo immenso territorio, Putin lo utilizza per realizzare un impossibile ritorno al passato, alle tradizioni religiose, al rifiuto della decadenza dei costumi importata dall’Occidente, per creare in sostanza un neo-zarismo paternalistico e chiuso ad influenze culturali che ritiene devianti.

Se le cose stanno così (ma la mia è soltanto un’ipotesi) tra i tanti errori che Putin ha compiuto c’è anche quello, coerente con una concezione ottocentesca dei rapporti di forza, di non aver compreso la rivoluzione comunicativa (e quindi informativa) del secolo XXI la quale – piaccia o no – offre alle popolazioni nelle loro diverse articolazioni (religiose, sociali, economiche, culturali) una capacità di intervento nella determinazione dei propri interessi che era sconosciuta in passato: contro questa rete che tutto avvolge in un’infinità di connessioni è impossibile combattere con i carri armati e i missili.

Franco Chiarenza
20 aprile 2022

© Eric Drooker – www.drooker.com

La diversità italiana riguarda anche il variegato mondo che si definisce liberale; soltanto da noi infatti si levano tante voci che in nome del rifiuto all’omologazione si smarcano da opinioni considerate effetto di pregiudizi orchestrati da mass-media compiacenti. Lo abbiamo visto coi no-vax difesi da alcuni noti intellettuali e lo rivediamo oggi per l’Ucraina. Mi chiedo: davvero essere liberali significa fare i bastian-contrari ad ogni costo? La mia risposta è no perché altro è garantire la libertà di espressione, altro condividere alcuni contenuti per il solo fatto che contestano il parere della maggioranza. Poiché appartengo alla scuola del liberalismo metodologico (per il quale si è liberali più per il metodo che si adotta nel confronto che non per la qualità dei contenuti) credo che i liberali nel discutere di questi problemi debbano distinguere le questioni di principio dall’analisi dei fatti.

Sui no-vax, per esempio, c’è una questione di principio dalla quale i liberali non possono derogare: la libertà di ciascuno trova il suo limite nel rispetto dei diritti altrui. Se quindi si dimostra che determinate azioni provocano danno agli altri (per esempio tramite contagio infettivo) l’obbligo di vaccinazione è perfettamente compatibile con l’essere liberali. Naturalmente si può contestare che la libera circolazione sia davvero dannosa, e non, come insinuano alcuni no-vax, pretesti per limitare i diritti individuali, ma bisogna dimostrarlo in maniera convincente. Altrimenti scatta un altro principio liberale per il quale in caso di dissenso tra opinioni diverse prevale quella che raccoglie i maggiori consensi, il che si misura – almeno fino ad oggi – attraverso gli strumenti che la democrazia rappresentativa ci mette a disposizione: parlamento e governo. Ciò vuol dire che i liberali contestano ai dissenzienti il diritto di manifestare? Assolutamente no; le manifestazioni, quando non si trasformano in azioni violente, sono tutelate dalla Costituzione e rientrano nella libertà di esprimere con ogni mezzo il proprio pensiero. E allora? Allora significa soltanto che i no-vax non possono definirsi liberali, pur restando liberi, nell’ambito della legalità, di manifestare il proprio dissenso “illiberale”.

Nel caso dell’Ucraina la questione di principio preliminare è ancora più netta. Aggredire militarmente una nazione sovrana è sempre e comunque inaccettabile, qualunque siano le giustificazioni addotte; ancor di più se chi aggredisce rivendica un diritto alla “difesa preventiva” che trasformerebbe il mondo intero in una rissa permanente. L’Ucraina per esempio è stata attaccata dalla Russia per il timore che, pur esercitando la propria legittima sovranità, potesse trasformarsi in una base militare ostile; ma essa, come altri stati federati, faceva parte dell’Unione delle Repubbliche sovietiche e, come altri, dopo lo scioglimento dell’URSS aveva optato nel 1991 per l’indipendenza, ottenendo il pieno riconoscimento della comunità internazionale (Russia compresa). Nessuno quindi aveva il diritto di interferire militarmente per limitare la sua sovranità, qualunque ne fossero le motivazioni. Chi pensa che tale questione di principio possa essere accantonata per ragioni geo-politiche o per motivi di convenienza, esprime legittimamente un’opinione (purtroppo molto diffusa) ma non può definirsi liberale. Tra le ragioni dell’intervento la Russia ha anche sollevato la tutela delle minoranze russofone presenti nel Donbass e in altri territori ucraini. In proposito va rilevato che il problema delle garanzie per le minoranze costituisce un problema assai diffuso in tutto il mondo (e persino in Italia) ma è da tempo considerato come questione da regolare attraverso accordi che non mettano in discussione i confini nazionali riconosciuti dalla comunità internazionale che oggi si esprime essenzialmente nella partecipazione all’ONU, di cui l’Ucraina è membro a pieno titolo sin dal 1991.
Detto ciò si potrebbe por fine al dibattito. Ma nel caso dell’Ucraina il contesto geo-politico, da mantenere ben separato dalle questioni di principio, merita un approfondimento al quale, esaminate le tante diverse opinioni, non mi sottraggo.

La prima delle ragioni dei “giustificazionisti” (dell’aggressione russa) consiste sostanzialmente nei comportamenti “provocatori” della NATO che, violando gli impegni presi dopo la scomparsa dell’URSS, avrebbe inglobato nell’alleanza tutti i paesi dell’Europa orientale che erano membri del patto di Varsavia, aggiungendovi quelli baltici che si erano resi indipendenti. Se anche l’Ucraina – come aveva chiesto – fosse entrata a far parte della NATO i suoi missili sarebbero stati a poca distanza dalla Russia compromettendone la sicurezza. E’ un argomento che colpisce l’opinione pubblica meno informata e consente di distribuire equamente tra le due parti in conflitto la responsabilità di una guerra che, ovviamente, fa orrore a tutti.
Però le cose non sono andate così. E’ vero che dopo il crollo del muro di Berlino vi erano stati generici affidamenti verbali da parte americana di non allargare l’ambito dell’alleanza atlantica ai paesi che si erano liberati dal giogo sovietico, ma non ne era seguito alcun impegno ufficiale; anche perché i paesi interessati hanno insistito per farne parte. Poteva la NATO rifiutare protezione a paesi che la chiedevano proprio perché avevano fondate ragioni per difendersi dall’imperialismo russo? Si potrà obiettare che gli USA pretesero la smobilitazione dei missili sovietici a Cuba nella famosa crisi del 1962 ma dopo averla ottenuta (in cambio peraltro di misure analoghe in Turchia) il governo di Washington ha sempre rispettato la sovranità cubana, limitandosi a contrastarla con misure economiche (sanzioni) e politiche; insomma i carri armati – piaccia o no – fanno la differenza, tant’è che ancora oggi, a cinquant’anni di distanza a Cuba governa un regime esplicitamente anti-americano.
Ma anche se le nefandezze attribuite alla NATO fossero vere forse ciò potrebbe giustificare quelle che Putin sta perpetrando in Ucraina? Quando l’America ha compiuto interventi armati ingiustificati o comunque discutibili, giornali, opinionisti, intellettuali, uomini politici di parte avversa, si sono giustamente scatenati contro il governo di Washington; non ho visto nulla di simile in Russia dove le poche centinaia di giovani coraggiosi scesi in piazza per protestare sono spariti dalla circolazione senza che nessuno se ne scandalizzasse.
Certamente anch’io – come altri liberali – sono convinto che negli anni ’90, dopo il crollo del regime comunista non si colse l’occasione per trasformare l’alleanza atlantica in uno strumento diverso volto a garantire pace e sicurezza nelle “aree calde” dell’emisfero occidentale in collaborazione con la Russia e non contro di essa. In un primo tempo infatti i tentativi di incorporare la Russia in un sistema di coordinamento e stabilizzazione dettero qualche risultato (il G7 per esempio divenne G8 con la Russia) ma non si andò molto oltre per il prevalere a Mosca di un regime sempre più autoritario (elezioni truccate, oppositori imprigionati, stampa imbavagliata, ripudio dello stato di diritto, “superamento” del liberalismo”) che allarmavano i paesi europei, confinanti e non. Peraltro, malgrado il peggioramento delle relazioni, la presenza militare della NATO non ha mai assunto dimensioni tali da potere costituire una minaccia per la Russia essendo le forze armate russe di gran lunga superiori (anche nello spiegamento di armi nucleari). Per di più la NATO, malgrado le incessanti richieste dell’Ucraina e della Georgia (quando la sua sovranità non era ancora stata limitata da Putin; ma nessuno ricorda tale precedente) è stata molto prudente e non ha mai allargato ulteriormente il suo perimetro.
Un altro argomento molto usato dai “giustificazionisti” è quello della neutralità e del disarmo dell’Ucraina come richiesta legittima della Russia. Ma esso rientra in quello più ampio (e di principio) della legittimità di imporre limitazioni alla sovranità di altri paesi, non soltanto nei fatti ma anche formalmente; in proposito si citano i precedenti dell’Austria e della Finlandia dimenticando però che si tratta di due paesi usciti sconfitti dal crollo del nazismo nel 1945 i quali, come avvenne anche per la Germania e l’Italia, non poterono fare valere le proprie ragioni quando i vincitori ne decisero i destini. Per l’Ucraina è diverso, si tratta di legittimare l’uso delle armi per coartare la volontà di un altro popolo. Si chiama guerra (e non è un caso che Putin non voglia definirla tale). Comunque poiché la politica (soprattutto quella internazionale) è fatta di compromessi, alla fine probabilmente i russi riusciranno a imporre una soluzione del genere; ma non viene in mente ai liberali che si tratta di una misura che limitando la libertà degli ucraini di decidere da che parte stare non è compatibile con i principi di autodeterminazione a cui dicono di ispirarsi?
Infine resta l’Europa. Sull’adesione dell’Ucraina all’Unione le obiezioni dei “giustificazionisti” sono più deboli, limitandosi a porre la condizione che il paese a sovranità limitata non entri a far parte di eventuali future forme di integrazione politica e militare. Se proprio l’Ucraina vuole far parte del parlamento europeo faccia pure, purché sia chiaro che prima di votare al Consiglio dei capi di stato e di governo a Bruxelles il governo di Kiev farà bene a consultarsi con Mosca.

Ai “giustificazionisti geopolitici” che teorizzano il diritto dei più forti di ottenere garanzie dai più deboli (invece del contrario, come ogni liberale dovrebbe volere) si aggiungono gli opportunisti, quelli che dicono che non bisogna aiutare la resistenza ucraina perché tanto non può impedire il peggio: meglio arrendersi senza tante storie e smettere di disturbare il nostro quieto vivere. Sono della stessa razza di quelli che non si sono mai schierati, il cui neutralismo è sempre servito a coprire la loro viltà, né coi nazi-fascisti né coi partigiani, né coi terroristi né con lo Stato, sempre grigi, pronti a schierarsi col vincitore e soltanto quando è chiaro chi ha vinto. Ci sono sempre stati, ci saranno sempre, non fanno la storia ma ne condizionano gli sviluppi collaterali. Quando non avranno altri argomenti diranno che non vogliono adeguarsi al pensiero unico. Sono liberali? Se lo fossero io dovrei collocarmi altrove.

P.S. Non ho trattato un’altra specie di “giustificazionisti” quella degli anti-americani “a prescindere”. Sono più numerosi di quanto si crede (anche in America) e sostengono tutte le accuse correnti contro l’egemonia degli Stati Uniti (di cui peraltro profetizzano soddisfatti l’imminente crollo ad opera dei benemeriti cinesi) in quanto portatori di un modello intrinsecamente illiberale perché fondato sulle diseguaglianze strutturali. Ad essi dico soltanto che un liberale, in prima fila nel criticare i difetti del sistema americano, considera l’equilibrio dei poteri che si è consolidato in duecento anni di storia l’esempio più significativo di una cultura liberale realizzata ma se proprio dovessi scegliere tra l’imperialismo americano e quelli che ci propongono Putin e Xi Jinpeng non ho dubbi dove collocarmi. Ma il bello è che non avrebbero dubbi nemmeno gli anti-americani (andandosi a rifugiare in America come hanno fatto i loro progenitori italiani, tedeschi e ebrei).
Conosco l’obiezione: né con gli uni né con gli altri, invece in Europa. Ma allora bisogna farla questa Europa politica e militare; il che ha dei costi non indifferenti. E quando mi volto per arringare questi europeisti del né mi ritrovo solo come Alberto Sordi all’uscita della galleria nel film “Tutti a casa”.

Franco Chiarenza
30 marzo 2022

Caro Franco,

ho letto il tuo “Russia: ieri, oggi, domani” e, nonostante sia un pezzo raziocinante come al solito, trovo abbia una carenza che desidero segnalarTi, convinto che un liberale, anche se ha il vezzo di qualificarsi qualunque, non possa trascurare un aspetto così essenziale per i liberali.

Al punto 3 tu richiami che, secondo gli accordi Helsinki del ’75, “i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare“. Poi al punto 5 richiami “un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata“. Ma dal richiamo non trai le conseguenze generali (decisive nella fattispecie), con la parziale giustificazione che era scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi. Così nel prosieguo sorvoli sulla mancata concessione dell’autonomia speciale che Putin ha reiteratamente richiesto invano anche la settimana precedente l’inizio delle attuali ostilità militari. Ma questo sorvolare non è accettabile. Primo perché il sostegno dei russi alla guerra civile nel Donbass è presunto (come quello degli ambienti Nato e della CIA dal ’14 in Ucraina o prima nelle primavere arabe o prima in Libia) ed anche successivo (d’altra parte le lotte tra filorussi e ucraini sono un retaggio storico, cioè una volontà dei popoli per usare una tua frase). Secondo perché non riflettere sui passaggi comprovanti gli interessi di Putin, è appunto il difetto di comportamento (che non a caso prescinde dal liberalismo) seguito dalla NATO e dagli ambienti super conservatori degli USA a fatica fronteggiati da Biden (e fatti trasparire con la frase di pochi giorni fa in cui Biden ha contrapposto esplicitamente le sanzioni alla terza guerra mondiale).

Il sorvolare sul dato di fatto della mancata attuazione dell’accordo per l’autonomia speciale, ha la gravissima conseguenza di accettare il ritorno alla guerra fredda, con la contrapposizione tra regime della libertà e regime comunista. E quindi di far riemergere come allora il pericolo della guerra atomica. Oltretutto, essendosi dimostrato nei fatti che la fine della guerra fredda ha prodotto molti vantaggi per la libertà nel mondo.

Il punto pericoloso della carenza in tema di liberalismo, sta qui: agevolare senza battere ciglio il ritorno alla guerra fredda. Non soltanto perché comporta pure il ritorno al rischio atomico. Ma in primo luogo perché esprimere l’idea che il ritorno a quel clima favorisca le democrazie libere. Oggi è l’esatto contrario. Perché sono di più i soggetti con armi atomiche, perché sono di più e maggiormente diffusi i motivi di tensione fatti emergere dalla crescita tecnologica e del livello di vita, perché sono di più i raggruppamenti di paesi attivi a livello internazionale con interessi divaricati. E soprattutto per la questione più importante: salvo i periodi in cui si fa la guerra vera e propria, la libertà vive di conflitti democratici ma non è esportabile (e neppure creabile con interferenze esterne di vario tipo) e deve essere fatta maturare nei luoghi in tensione. Ragion per cui i liberali non stanno a guardare sognando i marchi rispettivamente attribuiti alle varie nazioni, ma si attivano per far sì che i comportamenti reali nelle relazioni tra nazioni differenti siano il meno possibile distanti quelli della libertà. Quindi, se la prospettiva non è quella di voler arrivare alla guerra, aizzare l’opinione pubblica in modo massiccio contro gli stati avversari dipingendoli assalitori perfino al di là del vero e non tenendo conto dei loro espliciti punti di vista, è intrinsecamente illiberale.

Tanto più che i primi dello scorso febbraio a Pechino, nel comunicato stampa congiunto di Xi Jinping e Putin si denunciavano i cinque consecutivi allargamenti della Nato (fatto vero) e si insisteva sulle “legittime richieste per la sicurezza russa”. Dopo questo comunicato, i governi occidentali della NATO e degli USA avrebbero dovuto precipitarsi a premere su Zelensky – che è indiscutibilmente da loro assai influenzato – per indurlo a fare subito quello che non aveva fatto fino ad allora (l’autonomia speciale al Donbass) e a smettere con gli atteggiamenti provocatori funzionali alla guerra con la Russia. Naturalmente questo avrebbero fatto se fossero stati liberali. Ma lo sono esclusivamente a parole. E si comportano con l’esplicito obiettivo di sollevare i russi contro Putin (ma non dovevano essere evitati i tentativi di destabilizzazione negli altri paesi?).

Insomma, la carenza politica da colmare presto è quella dell’accettare l’omettere la cultura liberale. Che si batte senza incertezze contro la politica fatta di pure emozioni e incline alle pratiche illiberali effettive, anche se mascherate altrimenti. L’Ucraina non è un nuovo idealismo democratico e non combatte anche per noi europei (ragionamenti che per alcuni dovrebbero portare all’arruolare volontari per la libertà in Ucraina). Concetti simili appartengono solo alle stagioni di guerra. E occorre che ci decidiamo. O si passa alla terza guerra mondiale (sarebbe una follia che però giustificherebbe tali idee dissennate e illiberali) oppure, restando in pace, ci si comporta in modo coerente non aizzando l’opinione pubblica verso la guerra (tesi della cultura liberale). Perciò i liberali debbono presidiare con fermezza quest’ultima posizione e battersi senza sognare al fine di costruire in tutto il mondo, nel tempo, istituzioni più libere mediante il diffondere la pratica degli scambi nel segno della libertà civile e del senso critico per osservare e scegliere, che negli ultimi secoli ha pure prodotto in concreto un grande sviluppo economico sociale.

Raffaello Morelli

Caro Raffaello,

innanzi tutto ti ringrazio per l’attenzione che hai dedicato al mio scritto e scusami per il ritardo nel risponderti. Confrontarsi tra noi liberali è sempre utile; farlo con te richiede attente riflessioni perchè le tue idee non sono mai banali.
Vengo ai punti di contestazione che mi pare siano sostanzialmente due: la mancata autonomia al Donbass e la campagna anti-russa pregiudizialmente ostile.

Per quanto riguarda il Donbass è innegabile che gli accordi di Minsk prevedevano la concessione di un’autonomia speciale che, di fatto, non è stata nemmeno messa all’ordine del giorno da parte del governo ucraino. Dimentichi tuttavia che la guerra civile era già in corso e non si è arrestata in seguito agli accordi; anche ammesso (e non concesso) che la Russia non fosse già direttamente coinvolta nel conflitto, resta il fatto che esso è servito come pretesto per un’invasione che è andata ben oltre la questione delle minoranze russofone, mettendo in discussione gli stessi accordi di Helsinki sulla intangibilità dei confini. Addirittura Putin ha contestato la stessa legittimità dell’esistenza di uno stato ucraino, malgrado con esso esistessero da molti anni regolari relazioni diplomatiche. Il che fa presumere che altri stati dove vivono minoranze russofone (come i paesi baltici) corrano il rischio di vedere contestata la loro indipendenza. Naturalmente l’appartenenza alla NATO fa la differenza e questo spiega almeno in parte perchè Putin abbia scatenato una guerra preventiva per impedire che l’Ucraina ne seguisse l’esempio.
In effetti questo è il punto geo-politico: ha diritto una grande potenza nucleare di limitare la sovranità di uno stato confinante per garantire la propria sicurezza? Secondo Putin evidentemente sì, ma questa convinzione apre uno scenario inquietante se la sicurezza di uno stato è valutata dal governo del paese che ritiene di essere minacciato. La sicurezza può diventare il pretesto per condizionamenti di altro tipo (politici ed economici per esempio) che di fatto limiterebbero il diritto dei popoli di scegliere il modello di società che preferiscono. E poi in cosa consiste la minaccia alla sicurezza russa? Non certo nelle forze armate ucraine o baltiche; consiste nella NATO e in particolare negli USA che nell’alleanza sono preponderanti. Questo dunque è il vero nodo della questione: la Russia vuole allontanare la NATO dai propri confini perchè la ritiene un’alleanza ostile; ma è lecito il sospetto che il timore di Putin non sia limitato all’aspetto militare (anche perchè le forze schierate sono equivalenti e semmai in favore dell’armata rossa) ma piuttosto coinvolga una sfera di influenza che comprende il sistema politico e i contesti economici e sociali, esattamente come avveniva durante il regime comunista.
E’ quindi comprensibile e legittimo che le nazioni interessate non siano d’accordo e cerchino di difendersi. Quando un paese piccolo ha la sventura di confinare con uno grande che vuole imporre la sua egemonia ha due scelte: o accettarne una sostanziale subordinazione oppure allearsi con una grande potenza alternativa che funzioni da deterrente, come fece infatti (con successo) Fidel Castro quando si alleò con l’URSS per sfuggire alla colonizzazione americana. La resistenza ucraina quindi potrebbe essere spiegata non tanto per mantenere all’interno dei propri confini la Crimea e il Donbas quanto per la volontà di differenziarsi dall’involuzione politica ed economica della Russia.
Putin ha ragione quando sostiene che la cultura russa e quella ucraina hanno molti aspetti in comune; ma non quando ne trae come conclusione che non esista un’identità nazionale ucraina, la quale invece affonda le sue radici nei ruteni che hanno fatto parte per secoli dell’impero asburgico e che, diversamente dai russi, erano prevalentemente cattolici. Fu Stalin, con metodi brutali che ricordano sinistramente quelli che sta utilizzando l’attuale autocrate russo, a stroncare la resistenza ucraina e imporre la “russificazione” del paese.

Per quanto riguarda l’inopportunità di un ritorno alla guerra fredda e al clima di reciproca delegittimazione che l’avevano caratterizzata, posso convenire con le tue preoccupazioni ma rilevo che non si tratta soltanto del risultato di una campagna mediatica occidentale ma di un preciso obiettivo di Putin (da lui chiaramente enunciato) di tornare a una contrapposizione frontale per evitare contaminazioni che contrasterebbero il suo progetto di sperimentare nuove forme di democrazia plebiscitaria in grado di prendere il posto di quelle liberali ormai superate dalla storia (sempre parole di Putin).
Non bisogna dimenticare che la guerra fredda è stata una guerra come tutte le altre, anche se non combattuta sul campo, ed è stata vinta dall’alleanza occidentale anti-sovietica, piaccia o no; il che non poteva non comportare nuovi equilibri nell’Europa dell’Est anche per rispondere a una pressante richiesta di quei governi liberamente eletti, i quali nella dimensione economica dell’Unione Europea e in quella militare della NATO intendevano tutelare la loro sicurezza che non era certo minacciata dagli americani. Oppure conta soltanto la sicurezza della Russia che in realtà viene spesso confusa con quella del regime di Putin?

Non ho difficoltà ad ammettere che dopo la caduta del sistema comunista sovietico la NATO (e quindi pure noi) perse l’occasione di trasformare l’alleanza in un patto di non aggressione e di sicurezza che garantisse stabilità anche a contesti geo-politici in fase di trasformazione (Medio Oriente, Africa, ecc.). Il presupposto di tale nuova Alleanza però non poteva che essere l’accettazione dei principi di uno stato di diritto liberal-democratico (che nulla ha a che fare con l’esportazione della democrazia) almeno al proprio interno; se il progetto fallì fu responsabilità degli opposti estremismi con cui i liberali purtroppo devono sempre fare i conti.
Vi furono errori da parte della Nato? Certamente, a cominciare dall’infelice intervento contro la Serbia dopo l’implosione della Federazione Jugoslava. Ma non possono essere usati in nessun modo per giustificare quello che Putin sta facendo in Ucraina.
Se accettiamo il principio della liceità di interventi armati a tutela della propria presunta sicurezza si aprirebbe un vaso di Pandora incontrollabile: la Turchia di Erdogan contro i curdi, l’Iraq contro gli sciti, India contro Pakistan, Cina per riprendersi Taiwan. Anche noi potremmo schierare le nostre armate contro la Slovenia per riprenderci Capodistria e fare una guerra preventiva contro il Tirolo per difendere gli italiani di Bolzano! Il che guasterebbe i miei progetti di villeggiatura nel Renon.

Cordiali saluti

Franco

PS Naturalmente sarò lieto di pubblicare sul mio blog la tua lettera con la mia risposta. F.

Che nell’opinione pubblica emergano posizioni diverse nei confronti del blitz di Putin che di fatto sta annettendo alla Russia una parte dell’Ucraina non stupisce e rientra in una sana dialettica democratica. Anche perchè, come sempre in politica, non mancano argomenti validi per i favorevoli quanto per i contrari. Stupisce di più trovare tra coloro che difendono l’operato della Russia alcuni amici liberali. Soltanto per questa ragione ritengo necessario fare un po’ di chiarezza nella mia qualità di componente della tribù dei “liberali qualunque”.

  1. La guerra in corso si svolge su due piani distinti che si intersecano ma non vanno confusi: c’è un conflitto tra stati in cui una grande potenza sta cercando di sopraffare e di annettersi un paese confinante e che si esprime attraverso un duro scontro militare, e c’è una contrapposizione ideologica tra una concezione autoritaria dello Stato e quella opposta articolata in un sistema liberal-democratico. Non sempre i due piani coincidono: ci sono fautori del populismo autoritario anche nell’Unione Europea (Polonia, Ungheria), oggi silenti ma pronti a riemergere, e ci sono (per fortuna) convinti democratici anche in Russia (repressi con durezza dal regime). I liberali non possono nelle loro valutazioni non tenere conto che lo scontro ideologico è più importante di quello tra forze armate nazionali. Come d’altronde avvenne anche nella seconda guerra mondiale.
  2. Le rivendicazioni storiche di Putin non rappresentano quindi il punto della questione; inutile addentrarsi in una discussione sul patriarcato di Kiev, sulla linea di confine tra russofoni e autoctoni (sostanzialmente ruteni), sulle infinite modifiche territoriali e etniche prodotte da secoli turbolenti caratterizzati da antiche ambizioni egemoniche della Russia ma anche dai tentativi ricorrenti di molti popoli slavi di staccarsi dalla “Grande Madre”. Se dovessimo rifarci alla storia apriremmo un contenzioso infinito che coinvolgerebbe anche il nostro Paese dove esistono minoranze di lingua tedesca (Alto Adige) e che è stato privato di territori certamente in prevalenza italofoni come l’Istria del Litorale, alcune città della Dalmazia, e, cedute alla Francia per ragioni e modalità diverse, la città di Nizza e la stessa Corsica (dove la lingua ufficiale si rifaceva alla lunga dominazione dei pisani e dei genovesi.). E’ tipico delle dittature appoggiare le proprie mire espansioniste e egemoniche a rivendicazioni etniche superate dalla storia (e infatti hanno rappresentato per Hitler e Mussolini il pretesto per scatenare la seconda guerra mondiale).
  3. Per queste ragioni che riguardano quasi tutti i paesi europei vennero sottoscritti anche dall’Unione Sovietica nel 1975 a Helsinki degli accordi che stabilivano l’inviolabilità dei confini stabiliti dopo la seconda guerra mondiale, giusti o sbagliati che fossero, e che i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare (come noi abbiamo fatto per l’Alto Adige). Putin non lo nega ma sostiene che tali accordi sono stati violati dalla Nato in occasione del conflitto in Bosnia e col riconoscimento del Kosovo sottratto nel 2008 alla sovranità serba. Il che è vero ma senza dimenticare che la complessa vicenda dello smembramento della Jugoslavia generò una vera e propria guerra che durò anni e che non si è mai completamente risolta; e comunque è stata gestita col coinvolgimento delle Nazioni Unite.
  4. Altrettanto irrilevanti sono le motivazioni fondate sull’”accerchiamento” della NATO che non ci sarebbe mai stato se le popolazioni confinanti (e non soltanto i loro governi) non temessero le mire egemoniche della Russia, ben a ragione considerando le vicende storiche del secolo scorso quando i carri armati soffocarono brutalmente ogni tentativo di riforma. Per essere credibili nel sostenere che l’odierna Russia è cosa diversa dall’URSS bisognerebbe non ricalcarne l’autoritarismo e le mire egemoniche condensate mirabilmente nella teoria brezneviana della “sovranità limitata” dei paesi confinanti.
  5. Dopo l’annessione della Crimea (russofona) con gli accordi di Minsk la Russia si era impegnata a rispettare la sovranità dell’Ucraina, in cambio di un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata, anche perché in esse era subito scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi.
  6. Putin ha ragione quando lamenta che gli equilibri in Europa dopo la fine della guerra fredda si sono modificati a favore degli occidentali; dimentica però di dire che tali cambiamenti sono stati condivisi e sollecitati dalle popolazioni dei paesi ex-satelliti e che, venuta meno la giustificazione ideologica staliniana, la sicurezza della Russia è largamente garantita dal suo “status” di potenza nucleare e da un apparato militare perfettamente in grado di impedire eventuali attacchi alla sua indipendenza, da qualunque parte provengano.
  7. Ciò di cui non parlano i sedicenti liberali in cerca di giustificazioni per l’azione russa – quasi si trattasse di questione secondaria – è la volontà delle popolazioni coinvolte in questo conflitto. Quanto contano le intenzioni e i propositi degli abitanti dei paesi confinanti, chiamati in realtà a scegliere non tanto tra gruppi etnici differenti ma tra modelli politici e sociali tra loro incompatibili quali sono oggi quello europeo occidentale e il sistema politico instaurato a Mosca? La sicurezza che chiede Putin riguarda la Russia o non piuttosto il suo regime autocratico e repressivo ?
  8. Oggi – piaccia o no a Putin – l’Europa liberal-democratica arriva fino al confine russo. E’ un diritto inalienabile degli ucraini decidere se farne parte, come a suo tempo hanno fatto liberamente lituani, lettoni, estoni e polacchi. Il timore di Putin probabilmente non è legato alla sicurezza militare (dove la sua superiorità sul campo è schiacciante) ma alle possibili contaminazioni che potrebbero minare il suo regime come avvenne quando si dissolse l’Unione Sovietica.
  9. La Russia deve fare oggi le scelte che non fece in passato. Se consolidare un modello di democrazia plebiscitaria guidata da un autocrate, secondo una tradizione collettivista di matrice orientale che tiene poco conto dei diritti individuali (a cominciare da quello di manifestare il proprio dissenso) oppure tornare a imboccare la strada della costruzione di uno stato di diritto compatibile con quello che caratterizza le democrazie liberali occidentali. La scelta autocratica avvicinerà la Russia alla Cina pseudo-comunista, l’altro percorso la riporterebbe in Europa con la quale diverrebbe possibile realizzare forme di cooperazione anche intense e risolvere in modo pacifico ogni conflittualità con i paesi adiacenti.

Infine due ultime considerazioni:

  1. i rapporti tra Europa e Russia sono sempre stati caratterizzati dalla consapevolezza della loro inevitabile interdipendenza; ma mentre la Russia ha bisogno dell’Europa per modernizzare le sue strutture economiche e sociali, non è vero il contrario. L’Europa ha bisogno della Russia soltanto per le risorse energetiche di cui dispone e tale dipendenza potrà essere sostituita da fonti alternative in un periodo relativamente breve, avendo gli stati europei risorse e tecnologie in grado di farlo. Gli esiti della seconda guerra mondiale hanno favorito la creazione di un’area atlantica euro-americana (con appendici importanti nel Pacifico) molto più omogenea nelle strutture economiche e sociali e nelle relazioni culturali di quanto non sia l’unità geografica dell’Europa “fino agli Urali” come un’ importante corrente di pensiero avrebbe desiderato (da Pietro il Grande a De Gaulle). Si tratta di una realtà irreversibile, soprattutto per noi liberali. Stalin (assai più di Lenin) aveva concepito il comunismo sovietico come un sistema chiuso e autoreferenziale da salvaguardare da qualsiasi contaminazione liberale, militarmente in grado di difendersi da qualsiasi attacco esterno. Dopo la breve parentesi di Krusciov (il quale invece immaginava una capacità competitiva del sistema sovietico in termini di sviluppo economico e sociale) l’URSS è tornata a chiudersi come in una fortezza assediata senza riuscire, malgrado il suo potenziale di risorse naturali, a costituire una reale alternativa al modello delle democrazie occidentali, fino a implodere anche simbolicamente col crollo del muro di Berlino. Il dilemma della Russia post-sovietica consiste appunto se tornare alla concezione staliniana della “fortezza assediata”, oppure aprire un dialogo con l’Occidente. Il quadro geo-politico però non è più quello in cui operava l’Unione Sovietica: oggi bisogna fare i conti con la Cina, il cui regime totalitario, diversamente da quello russo, è stato capace di inventare un modello economico espansivo in grado di contrastare il sistema di contenimento liberal-democratico che – analogamente a quanto fu fatto in Europa – gli Stati Uniti avevano messo in piedi in Oriente per arginare il comunismo cinese. Non c’è spazio per un terzo incomodo: il futuro della Russia si gioca su questa opzione, o con le democrazie europee (trovando un accomodamento con gli Stati Uniti) oppure con la Cina;
  2. i rapporti economici tra Italia e Russia sono sempre stati buoni anche durante la guerra fredda. Ma essi non possono riguardare soltanto valutazioni di convenienza economica, anche se la dipendenza energetica rende assai fragile la nostra posizione contrattuale; tolto l’approvvigionamento di gas il nostro interscambio commerciale è piuttosto modesto comparato a quello di altri paesi europei. La teoria business is business comporta necessariamente il mantenimento di relazioni commerciali con paesi autoritari e illiberali (come per esempio l’Egitto, la Cina, l’Iran, l’Arabia ecc.); ma la Russia affaccia in Europa e i problemi di sicurezza riguardano chi è militarmente debole (come noi) non certo una potenza nucleare come quella che Putin ha ereditato dall’Unione Sovietica.

Qualcuno ha proposto: Biden voli a Mosca, si sieda al lungo tavolo che Putin riserva agli ospiti che non vogliono sottoporsi a tamponi e gli proponga un trattato di non aggressione e la creazione di una fascia di sicurezza con i paesi confinanti (che comprenda però anche i territori russi adiacenti) con reciproci controlli. Sarebbe ragionevole se il problema fosse davvero quello della sicurezza russa, ma è davvero così? O piuttosto la vera intenzione di Putin è di ricostruire la “cortina di ferro”, ideologica prima che militare, con o senza il consenso delle popolazioni interessate?

Franco Chiarenza
27 febbraio 2022

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella davanti al Parlamento in seduta comune per la cerimonia di giuramento
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Non c’è che da scegliere: da destra a sinistra passando per i talk show apparentemente neutrali è tutto un fiorire di lamentazioni sulla incapacità dei partiti, sulla loro inarrestabile crisi, sullo “spettacolo indecoroso” offerto dai mille grandi elettori, sui ritardi incompatibili con una seria democrazia, e chi più ne ha più ne metta. Dall’alto dei miei anni (pari a quelli di Mattarella) resto un po’ stupito e divertito. Scopriamo adesso che i partiti – almeno nel formato ideologicamente compatto di cinquant’anni fa – sono in crisi? E, dopo avere inveito contro la partitocrazia che toglieva autonomia ai rappresentanti del popolo, adesso che è successo ce ne lamentiamo? E quante volte l’elezione del presidente della Repubblica è avvenuta attraverso accordi di segreteria? Pochissime, mi pare. Tempi lunghi? Uno dei presidenti più popolari della storia repubblicana – Sandro Pertini – fu eletto alla sedicesima votazione. Ho l’impressione – ma forse sbaglio io – che le cose siano andate diversamente da come la raccontano tanti commentatori ed esperti delle vicende politiche.

Facciamo il gioco alla rovescia. Qual era il vero problema politico che rendeva importante questa elezione più di quanto sia avvenuto in passato? Il fatto che la presenza di Draghi era indispensabile per la sopravvivenza del governo – nessun altro essendo in grado di prenderne il posto con la stessa autorevolezza – e che quindi non era opportuno trasferirlo da palazzo Chigi al Quirinale. Molti giornalisti si sono lasciati influenzare dalla disponibilità espressa da Draghi ma in realtà si trattava soltanto di una mossa tattica che serviva a portare allo scoperto le manovre di chi voleva affossarlo non come candidato al Quirinale ma come inquilino di palazzo Chigi; il silenzio di Letta, il blocco degli astenuti, preludevano a un chiarimento definitivo sul governo non sulla presidenza della Repubblica. La manovra infatti ha messo in gravi difficoltà Salvini il quale da un lato non voleva lasciare alla Meloni il monopolio della rappresentanza degli umori populisti e sovranisti (per i quali personalmente ha molta simpatia) ma dall’altra doveva tenere conto del cosiddetto “partito dei governatori” (Zaia, Fontana, e Fedriga, con Giorgetti dietro le quinte) schierato nettamente a favore dell’orientamento filo-europeo e filo-atlantico del governo.
Ma se Draghi era indispensabile a palazzo Chigi (almeno per ora) chi al Quirinale? Qualcuno che presumibilmente non lo tenesse occupato per l’intero settennato e che desse garanzie di continuità con la politica di Mattarella. E chi meglio di Mattarella stesso?
La verità è che sulla sua riconferma erano tutti d’accordo, salvo la Meloni che vedeva così naufragare il suo progetto di affondare Draghi ricattando Salvini e conseguire il duplice obiettivo di fare fallire il PNRR e andare a elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale che gli consentirebbe di assicurare a una destra egemonizzata da Fratelli d’Italia la maggioranza nel nuovo parlamento. C’era però un problema che riguardava la persona di Mattarella, non tanto per i suoi scrupoli costituzionali quanto per la necessità di spiegare all’opinione pubblica che l’opzione della riconferma nasceva da una impossibilità di trovare altre soluzioni condivise.
Per questa ragione Letta e Salvini (con Letta zio, cioè Gianni come arbitro?) hanno giocato a porte chiuse una partita di ping pong rimbalzandosi candidature reciprocamente inaccettabili. La Meloni l’aveva capito e candidando la Casellati (e poi la Belloni) cercava di mettersi di traverso; tuttavia la presidente del Senato era per molte ragioni impresentabile (ed è stata infatti cecchinata all’interno del centro-destra) e la Belloni era troppo poco conosciuta per rappresentare una candidatura credibile (e tuttavia si trattava di una mossa abile che non a caso Renzi ha cercato subito di “sterilizzare” con l’accusa pretestuosa della sua permanenza nei servizi segreti).
Fallita la manovra della Meloni, Salvini ha fermato l’ascensore col quale stava salendo da lei a metà strada e invece di imboccare il suo ufficio si è ritrovato in quello di Letta per l’ accordo definitivo.

Fantapolitica? Forse soltanto politica che da sempre passa anche attraverso espedienti tattici purché funzionali alle finalità strategiche (che in questo caso investono il futuro del Paese che non lo sa ma è davanti a un bivio: o con Macron e Scholz verso l’integrazione europea o con Orban e Kaczynski verso la sua dissoluzione).

Naturalmente la storia non finisce qui: Mattarella non potrà restare al Quirinale per altri sette anni, lo sanno tutti a cominciare da lui. Il problema si riproporrà quindi tra un anno. Dopo le elezioni, dicono i soliti “quirinalizi”. Ma, mi permetto di osservare, perché mai? Se l’obiettivo sarà a quel punto di portare Draghi finalmente in sicurezza in cima al Colle, meglio farlo con questo parlamento dove esiste un’obiettiva convergenza sull’opportunità di garantire attraverso la sua persona le relazioni con l’Europa e le alleanze internazionali piuttosto che correre il rischio di nuovi rapporti di forza che potrebbero scaturire dal prossimo parlamento. Non vi pare? Oppure sto confondendo i miei desideri con una realtà del tutto diversa?

Franco Chiarenza
06 febbraio 2022

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Il teatrino cui stiamo assistendo in questi giorni mostra quanto in basso sia caduta la nostra stampa; giornali considerati a suo tempo autorevoli alimentano un gossip senza fine sulle intenzioni di voto dei circa mille grandi elettori chiamati a gennaio a scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Pronostici senza senso si intrecciano con manovre poco trasparenti per rendere ancora più difficile una decisione che, per un insieme di circostanze, assume un’importanza maggiore che in passato.
La scadenza del settennato di Mattarella coincide infatti con un passaggio fondamentale dell’azione di governo di Draghi, quello in cui l’Unione Europea avrà i primi elementi per verificare la credibilità del nostro Paese nell’utilizzazione dei fondi straordinari (PNRR) che vengono messi a disposizione per avviare incisive riforme di struttura. A questo si aggiunge una difficile fase della politica internazionale in cui gli Stati Uniti sono passati dall’isolazionismo di Trump all’attivismo di Biden, con le conseguenti tensioni in Ucraina e a Taiwan, mentre l’Europa dopo la costituzione del nuovo governo tedesco attende di conoscere il risultato delle elezioni francesi l’anno prossimo per capire se attraverso una saldatura strategica tra Germania, Italia e Francia essa potrà tornare ad avere voce in capitolo. Al centro di questi intrecci, decisivi per il nostro futuro, c’è Mario Draghi, il solo che ha il prestigio internazionale per fare dell’Italia, per la prima volta da molti anni, un protagonista della partita e non una semplice comparsa.

Di tutto ciò nessuno dubita. Il problema è: da quale palazzo Draghi potrà meglio svolgere il ruolo che le circostanze gli impongono?
La risposta più logica porta a scegliere il Quirinale soprattutto per le garanzie di stabilità e di indipendenza che i sette anni di mandato garantiscono al Capo dello Stato; ma chi potrà con la stessa autorevolezza prendere il suo posto a palazzo Chigi, dove comunque, a costituzione invariata, si attuano le strategie politiche nazionali?
Attualmente, stando ai sondaggi più credibili, nuove elezioni non sarebbero in grado di assicurare maggioranze stabili: il Paese è diviso in due schieramenti contrapposti entrambi al di sotto della soglia di governabilità, il che prefigura uno scenario di variabilità politica come quello che già abbiamo vissuto recentemente con Conte e le sue maggioranze intercambiabili. Uno scenario che ci farebbe perdere tutta la credibilità internazionale faticosamente conquistata.
La soluzione migliore sarebbe quindi che Draghi restasse a palazzo Chigi il tempo sufficiente per avviare la seconda fase del Recovery Plan e il suo trasloco al Quirinale venisse rinviato alla fine dell’anno prossimo quando di fatto il governo sarà comunque paralizzato dalle divisioni tra i partiti impegnati nella campagna elettorale. Un trasferimento che potrebbe servire anche ad accelerare di qualche mese la scadenza elettorale.
Ma per ottenere questo risultato Mattarella dovrebbe accettare una rielezione che andrebbe incontro al desiderio di gran parte della pubblica opinione ma che il Capo dello Stato ha però, a più riprese, escluso, lasciando intendere che la soluzione va trovata a Montecitorio dove i partiti devono decidere – di fatto – se procedere nell’esperimento Draghi (lasciandolo a palazzo Chigi e individuando una candidatura accettabile e più defilata per il Quirinale) oppure “resettare” la maggioranza di governo imbalsamando Draghi al Quirinale. Questo, per lo meno è ciò che sembra, ma non è detto che le cose stiano davvero così.
Sergio Mattarella infatti è un uomo politico di lungo corso, conosce le trappole e i sentieri meno visibili dell’arte di governo, e sa che la carta di un’eventuale rielezione per essere attendibile va giocata all’ultimo momento, quando si è verificato sul campo che non vi sono alternative possibili e non deve scaturire da un accordo preventivo tra i partiti. Non prima quindi della quarta votazione a Montecitorio.

In effetti, al momento attuale, non si vede una candidatura che abbia serie possibilità di riuscita: non Berlusconi che sa di non potere contare su molti voti della destra, al di là di quelli che dovrebbe raccogliere nel magma confuso dei Cinque Stelle; non Marta Cartabia che sconta l’avversione del “partito dei giudici” nascosto ma presente in tutto il centro-sinistra; non Giuliano Amato per ragioni anagrafiche ma soprattutto per quel “fumus” di craxismo che non lo rende simpatico al PD e ai Cinque Stelle; non Gentiloni, la cui presenza a Bruxelles è in questo momento di cruciale importanza. Né vedo tra le “soluzioni B” di cui parlano i giornali altre candidature in grado di superare la soglia fatidica necessaria all’elezione; senza contare che un presidente eletto faticosamente dopo molte votazione apparirebbe una soluzione inadeguata alla gravità del momento.

I frequentatori delle prime dei teatri lirici non rappresentano certo la realtà del Paese, ma le ovazioni della Scala e del San Carlo con la richiesta di un bis che non riguardava gli spettacoli in scena forse sono più significative di quanto possa sembrare; ci sono stati nella nostra storia altri momenti in cui le platee teatrali hanno indicato la strada da percorrere, come il nostro presidente sa bene.

 

Franco Chiarenza
30 dicembre 2021