Che nell’opinione pubblica emergano posizioni diverse nei confronti del blitz di Putin che di fatto sta annettendo alla Russia una parte dell’Ucraina non stupisce e rientra in una sana dialettica democratica. Anche perchè, come sempre in politica, non mancano argomenti validi per i favorevoli quanto per i contrari. Stupisce di più trovare tra coloro che difendono l’operato della Russia alcuni amici liberali. Soltanto per questa ragione ritengo necessario fare un po’ di chiarezza nella mia qualità di componente della tribù dei “liberali qualunque”.

  1. La guerra in corso si svolge su due piani distinti che si intersecano ma non vanno confusi: c’è un conflitto tra stati in cui una grande potenza sta cercando di sopraffare e di annettersi un paese confinante e che si esprime attraverso un duro scontro militare, e c’è una contrapposizione ideologica tra una concezione autoritaria dello Stato e quella opposta articolata in un sistema liberal-democratico. Non sempre i due piani coincidono: ci sono fautori del populismo autoritario anche nell’Unione Europea (Polonia, Ungheria), oggi silenti ma pronti a riemergere, e ci sono (per fortuna) convinti democratici anche in Russia (repressi con durezza dal regime). I liberali non possono nelle loro valutazioni non tenere conto che lo scontro ideologico è più importante di quello tra forze armate nazionali. Come d’altronde avvenne anche nella seconda guerra mondiale.
  2. Le rivendicazioni storiche di Putin non rappresentano quindi il punto della questione; inutile addentrarsi in una discussione sul patriarcato di Kiev, sulla linea di confine tra russofoni e autoctoni (sostanzialmente ruteni), sulle infinite modifiche territoriali e etniche prodotte da secoli turbolenti caratterizzati da antiche ambizioni egemoniche della Russia ma anche dai tentativi ricorrenti di molti popoli slavi di staccarsi dalla “Grande Madre”. Se dovessimo rifarci alla storia apriremmo un contenzioso infinito che coinvolgerebbe anche il nostro Paese dove esistono minoranze di lingua tedesca (Alto Adige) e che è stato privato di territori certamente in prevalenza italofoni come l’Istria del Litorale, alcune città della Dalmazia, e, cedute alla Francia per ragioni e modalità diverse, la città di Nizza e la stessa Corsica (dove la lingua ufficiale si rifaceva alla lunga dominazione dei pisani e dei genovesi.). E’ tipico delle dittature appoggiare le proprie mire espansioniste e egemoniche a rivendicazioni etniche superate dalla storia (e infatti hanno rappresentato per Hitler e Mussolini il pretesto per scatenare la seconda guerra mondiale).
  3. Per queste ragioni che riguardano quasi tutti i paesi europei vennero sottoscritti anche dall’Unione Sovietica nel 1975 a Helsinki degli accordi che stabilivano l’inviolabilità dei confini stabiliti dopo la seconda guerra mondiale, giusti o sbagliati che fossero, e che i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare (come noi abbiamo fatto per l’Alto Adige). Putin non lo nega ma sostiene che tali accordi sono stati violati dalla Nato in occasione del conflitto in Bosnia e col riconoscimento del Kosovo sottratto nel 2008 alla sovranità serba. Il che è vero ma senza dimenticare che la complessa vicenda dello smembramento della Jugoslavia generò una vera e propria guerra che durò anni e che non si è mai completamente risolta; e comunque è stata gestita col coinvolgimento delle Nazioni Unite.
  4. Altrettanto irrilevanti sono le motivazioni fondate sull’”accerchiamento” della NATO che non ci sarebbe mai stato se le popolazioni confinanti (e non soltanto i loro governi) non temessero le mire egemoniche della Russia, ben a ragione considerando le vicende storiche del secolo scorso quando i carri armati soffocarono brutalmente ogni tentativo di riforma. Per essere credibili nel sostenere che l’odierna Russia è cosa diversa dall’URSS bisognerebbe non ricalcarne l’autoritarismo e le mire egemoniche condensate mirabilmente nella teoria brezneviana della “sovranità limitata” dei paesi confinanti.
  5. Dopo l’annessione della Crimea (russofona) con gli accordi di Minsk la Russia si era impegnata a rispettare la sovranità dell’Ucraina, in cambio di un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata, anche perché in esse era subito scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi.
  6. Putin ha ragione quando lamenta che gli equilibri in Europa dopo la fine della guerra fredda si sono modificati a favore degli occidentali; dimentica però di dire che tali cambiamenti sono stati condivisi e sollecitati dalle popolazioni dei paesi ex-satelliti e che, venuta meno la giustificazione ideologica staliniana, la sicurezza della Russia è largamente garantita dal suo “status” di potenza nucleare e da un apparato militare perfettamente in grado di impedire eventuali attacchi alla sua indipendenza, da qualunque parte provengano.
  7. Ciò di cui non parlano i sedicenti liberali in cerca di giustificazioni per l’azione russa – quasi si trattasse di questione secondaria – è la volontà delle popolazioni coinvolte in questo conflitto. Quanto contano le intenzioni e i propositi degli abitanti dei paesi confinanti, chiamati in realtà a scegliere non tanto tra gruppi etnici differenti ma tra modelli politici e sociali tra loro incompatibili quali sono oggi quello europeo occidentale e il sistema politico instaurato a Mosca? La sicurezza che chiede Putin riguarda la Russia o non piuttosto il suo regime autocratico e repressivo ?
  8. Oggi – piaccia o no a Putin – l’Europa liberal-democratica arriva fino al confine russo. E’ un diritto inalienabile degli ucraini decidere se farne parte, come a suo tempo hanno fatto liberamente lituani, lettoni, estoni e polacchi. Il timore di Putin probabilmente non è legato alla sicurezza militare (dove la sua superiorità sul campo è schiacciante) ma alle possibili contaminazioni che potrebbero minare il suo regime come avvenne quando si dissolse l’Unione Sovietica.
  9. La Russia deve fare oggi le scelte che non fece in passato. Se consolidare un modello di democrazia plebiscitaria guidata da un autocrate, secondo una tradizione collettivista di matrice orientale che tiene poco conto dei diritti individuali (a cominciare da quello di manifestare il proprio dissenso) oppure tornare a imboccare la strada della costruzione di uno stato di diritto compatibile con quello che caratterizza le democrazie liberali occidentali. La scelta autocratica avvicinerà la Russia alla Cina pseudo-comunista, l’altro percorso la riporterebbe in Europa con la quale diverrebbe possibile realizzare forme di cooperazione anche intense e risolvere in modo pacifico ogni conflittualità con i paesi adiacenti.

Infine due ultime considerazioni:

  1. i rapporti tra Europa e Russia sono sempre stati caratterizzati dalla consapevolezza della loro inevitabile interdipendenza; ma mentre la Russia ha bisogno dell’Europa per modernizzare le sue strutture economiche e sociali, non è vero il contrario. L’Europa ha bisogno della Russia soltanto per le risorse energetiche di cui dispone e tale dipendenza potrà essere sostituita da fonti alternative in un periodo relativamente breve, avendo gli stati europei risorse e tecnologie in grado di farlo. Gli esiti della seconda guerra mondiale hanno favorito la creazione di un’area atlantica euro-americana (con appendici importanti nel Pacifico) molto più omogenea nelle strutture economiche e sociali e nelle relazioni culturali di quanto non sia l’unità geografica dell’Europa “fino agli Urali” come un’ importante corrente di pensiero avrebbe desiderato (da Pietro il Grande a De Gaulle). Si tratta di una realtà irreversibile, soprattutto per noi liberali. Stalin (assai più di Lenin) aveva concepito il comunismo sovietico come un sistema chiuso e autoreferenziale da salvaguardare da qualsiasi contaminazione liberale, militarmente in grado di difendersi da qualsiasi attacco esterno. Dopo la breve parentesi di Krusciov (il quale invece immaginava una capacità competitiva del sistema sovietico in termini di sviluppo economico e sociale) l’URSS è tornata a chiudersi come in una fortezza assediata senza riuscire, malgrado il suo potenziale di risorse naturali, a costituire una reale alternativa al modello delle democrazie occidentali, fino a implodere anche simbolicamente col crollo del muro di Berlino. Il dilemma della Russia post-sovietica consiste appunto se tornare alla concezione staliniana della “fortezza assediata”, oppure aprire un dialogo con l’Occidente. Il quadro geo-politico però non è più quello in cui operava l’Unione Sovietica: oggi bisogna fare i conti con la Cina, il cui regime totalitario, diversamente da quello russo, è stato capace di inventare un modello economico espansivo in grado di contrastare il sistema di contenimento liberal-democratico che – analogamente a quanto fu fatto in Europa – gli Stati Uniti avevano messo in piedi in Oriente per arginare il comunismo cinese. Non c’è spazio per un terzo incomodo: il futuro della Russia si gioca su questa opzione, o con le democrazie europee (trovando un accomodamento con gli Stati Uniti) oppure con la Cina;
  2. i rapporti economici tra Italia e Russia sono sempre stati buoni anche durante la guerra fredda. Ma essi non possono riguardare soltanto valutazioni di convenienza economica, anche se la dipendenza energetica rende assai fragile la nostra posizione contrattuale; tolto l’approvvigionamento di gas il nostro interscambio commerciale è piuttosto modesto comparato a quello di altri paesi europei. La teoria business is business comporta necessariamente il mantenimento di relazioni commerciali con paesi autoritari e illiberali (come per esempio l’Egitto, la Cina, l’Iran, l’Arabia ecc.); ma la Russia affaccia in Europa e i problemi di sicurezza riguardano chi è militarmente debole (come noi) non certo una potenza nucleare come quella che Putin ha ereditato dall’Unione Sovietica.

Qualcuno ha proposto: Biden voli a Mosca, si sieda al lungo tavolo che Putin riserva agli ospiti che non vogliono sottoporsi a tamponi e gli proponga un trattato di non aggressione e la creazione di una fascia di sicurezza con i paesi confinanti (che comprenda però anche i territori russi adiacenti) con reciproci controlli. Sarebbe ragionevole se il problema fosse davvero quello della sicurezza russa, ma è davvero così? O piuttosto la vera intenzione di Putin è di ricostruire la “cortina di ferro”, ideologica prima che militare, con o senza il consenso delle popolazioni interessate?

Franco Chiarenza
27 febbraio 2022

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella davanti al Parlamento in seduta comune per la cerimonia di giuramento
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Non c’è che da scegliere: da destra a sinistra passando per i talk show apparentemente neutrali è tutto un fiorire di lamentazioni sulla incapacità dei partiti, sulla loro inarrestabile crisi, sullo “spettacolo indecoroso” offerto dai mille grandi elettori, sui ritardi incompatibili con una seria democrazia, e chi più ne ha più ne metta. Dall’alto dei miei anni (pari a quelli di Mattarella) resto un po’ stupito e divertito. Scopriamo adesso che i partiti – almeno nel formato ideologicamente compatto di cinquant’anni fa – sono in crisi? E, dopo avere inveito contro la partitocrazia che toglieva autonomia ai rappresentanti del popolo, adesso che è successo ce ne lamentiamo? E quante volte l’elezione del presidente della Repubblica è avvenuta attraverso accordi di segreteria? Pochissime, mi pare. Tempi lunghi? Uno dei presidenti più popolari della storia repubblicana – Sandro Pertini – fu eletto alla sedicesima votazione. Ho l’impressione – ma forse sbaglio io – che le cose siano andate diversamente da come la raccontano tanti commentatori ed esperti delle vicende politiche.

Facciamo il gioco alla rovescia. Qual era il vero problema politico che rendeva importante questa elezione più di quanto sia avvenuto in passato? Il fatto che la presenza di Draghi era indispensabile per la sopravvivenza del governo – nessun altro essendo in grado di prenderne il posto con la stessa autorevolezza – e che quindi non era opportuno trasferirlo da palazzo Chigi al Quirinale. Molti giornalisti si sono lasciati influenzare dalla disponibilità espressa da Draghi ma in realtà si trattava soltanto di una mossa tattica che serviva a portare allo scoperto le manovre di chi voleva affossarlo non come candidato al Quirinale ma come inquilino di palazzo Chigi; il silenzio di Letta, il blocco degli astenuti, preludevano a un chiarimento definitivo sul governo non sulla presidenza della Repubblica. La manovra infatti ha messo in gravi difficoltà Salvini il quale da un lato non voleva lasciare alla Meloni il monopolio della rappresentanza degli umori populisti e sovranisti (per i quali personalmente ha molta simpatia) ma dall’altra doveva tenere conto del cosiddetto “partito dei governatori” (Zaia, Fontana, e Fedriga, con Giorgetti dietro le quinte) schierato nettamente a favore dell’orientamento filo-europeo e filo-atlantico del governo.
Ma se Draghi era indispensabile a palazzo Chigi (almeno per ora) chi al Quirinale? Qualcuno che presumibilmente non lo tenesse occupato per l’intero settennato e che desse garanzie di continuità con la politica di Mattarella. E chi meglio di Mattarella stesso?
La verità è che sulla sua riconferma erano tutti d’accordo, salvo la Meloni che vedeva così naufragare il suo progetto di affondare Draghi ricattando Salvini e conseguire il duplice obiettivo di fare fallire il PNRR e andare a elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale che gli consentirebbe di assicurare a una destra egemonizzata da Fratelli d’Italia la maggioranza nel nuovo parlamento. C’era però un problema che riguardava la persona di Mattarella, non tanto per i suoi scrupoli costituzionali quanto per la necessità di spiegare all’opinione pubblica che l’opzione della riconferma nasceva da una impossibilità di trovare altre soluzioni condivise.
Per questa ragione Letta e Salvini (con Letta zio, cioè Gianni come arbitro?) hanno giocato a porte chiuse una partita di ping pong rimbalzandosi candidature reciprocamente inaccettabili. La Meloni l’aveva capito e candidando la Casellati (e poi la Belloni) cercava di mettersi di traverso; tuttavia la presidente del Senato era per molte ragioni impresentabile (ed è stata infatti cecchinata all’interno del centro-destra) e la Belloni era troppo poco conosciuta per rappresentare una candidatura credibile (e tuttavia si trattava di una mossa abile che non a caso Renzi ha cercato subito di “sterilizzare” con l’accusa pretestuosa della sua permanenza nei servizi segreti).
Fallita la manovra della Meloni, Salvini ha fermato l’ascensore col quale stava salendo da lei a metà strada e invece di imboccare il suo ufficio si è ritrovato in quello di Letta per l’ accordo definitivo.

Fantapolitica? Forse soltanto politica che da sempre passa anche attraverso espedienti tattici purché funzionali alle finalità strategiche (che in questo caso investono il futuro del Paese che non lo sa ma è davanti a un bivio: o con Macron e Scholz verso l’integrazione europea o con Orban e Kaczynski verso la sua dissoluzione).

Naturalmente la storia non finisce qui: Mattarella non potrà restare al Quirinale per altri sette anni, lo sanno tutti a cominciare da lui. Il problema si riproporrà quindi tra un anno. Dopo le elezioni, dicono i soliti “quirinalizi”. Ma, mi permetto di osservare, perché mai? Se l’obiettivo sarà a quel punto di portare Draghi finalmente in sicurezza in cima al Colle, meglio farlo con questo parlamento dove esiste un’obiettiva convergenza sull’opportunità di garantire attraverso la sua persona le relazioni con l’Europa e le alleanze internazionali piuttosto che correre il rischio di nuovi rapporti di forza che potrebbero scaturire dal prossimo parlamento. Non vi pare? Oppure sto confondendo i miei desideri con una realtà del tutto diversa?

Franco Chiarenza
06 febbraio 2022

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Il teatrino cui stiamo assistendo in questi giorni mostra quanto in basso sia caduta la nostra stampa; giornali considerati a suo tempo autorevoli alimentano un gossip senza fine sulle intenzioni di voto dei circa mille grandi elettori chiamati a gennaio a scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Pronostici senza senso si intrecciano con manovre poco trasparenti per rendere ancora più difficile una decisione che, per un insieme di circostanze, assume un’importanza maggiore che in passato.
La scadenza del settennato di Mattarella coincide infatti con un passaggio fondamentale dell’azione di governo di Draghi, quello in cui l’Unione Europea avrà i primi elementi per verificare la credibilità del nostro Paese nell’utilizzazione dei fondi straordinari (PNRR) che vengono messi a disposizione per avviare incisive riforme di struttura. A questo si aggiunge una difficile fase della politica internazionale in cui gli Stati Uniti sono passati dall’isolazionismo di Trump all’attivismo di Biden, con le conseguenti tensioni in Ucraina e a Taiwan, mentre l’Europa dopo la costituzione del nuovo governo tedesco attende di conoscere il risultato delle elezioni francesi l’anno prossimo per capire se attraverso una saldatura strategica tra Germania, Italia e Francia essa potrà tornare ad avere voce in capitolo. Al centro di questi intrecci, decisivi per il nostro futuro, c’è Mario Draghi, il solo che ha il prestigio internazionale per fare dell’Italia, per la prima volta da molti anni, un protagonista della partita e non una semplice comparsa.

Di tutto ciò nessuno dubita. Il problema è: da quale palazzo Draghi potrà meglio svolgere il ruolo che le circostanze gli impongono?
La risposta più logica porta a scegliere il Quirinale soprattutto per le garanzie di stabilità e di indipendenza che i sette anni di mandato garantiscono al Capo dello Stato; ma chi potrà con la stessa autorevolezza prendere il suo posto a palazzo Chigi, dove comunque, a costituzione invariata, si attuano le strategie politiche nazionali?
Attualmente, stando ai sondaggi più credibili, nuove elezioni non sarebbero in grado di assicurare maggioranze stabili: il Paese è diviso in due schieramenti contrapposti entrambi al di sotto della soglia di governabilità, il che prefigura uno scenario di variabilità politica come quello che già abbiamo vissuto recentemente con Conte e le sue maggioranze intercambiabili. Uno scenario che ci farebbe perdere tutta la credibilità internazionale faticosamente conquistata.
La soluzione migliore sarebbe quindi che Draghi restasse a palazzo Chigi il tempo sufficiente per avviare la seconda fase del Recovery Plan e il suo trasloco al Quirinale venisse rinviato alla fine dell’anno prossimo quando di fatto il governo sarà comunque paralizzato dalle divisioni tra i partiti impegnati nella campagna elettorale. Un trasferimento che potrebbe servire anche ad accelerare di qualche mese la scadenza elettorale.
Ma per ottenere questo risultato Mattarella dovrebbe accettare una rielezione che andrebbe incontro al desiderio di gran parte della pubblica opinione ma che il Capo dello Stato ha però, a più riprese, escluso, lasciando intendere che la soluzione va trovata a Montecitorio dove i partiti devono decidere – di fatto – se procedere nell’esperimento Draghi (lasciandolo a palazzo Chigi e individuando una candidatura accettabile e più defilata per il Quirinale) oppure “resettare” la maggioranza di governo imbalsamando Draghi al Quirinale. Questo, per lo meno è ciò che sembra, ma non è detto che le cose stiano davvero così.
Sergio Mattarella infatti è un uomo politico di lungo corso, conosce le trappole e i sentieri meno visibili dell’arte di governo, e sa che la carta di un’eventuale rielezione per essere attendibile va giocata all’ultimo momento, quando si è verificato sul campo che non vi sono alternative possibili e non deve scaturire da un accordo preventivo tra i partiti. Non prima quindi della quarta votazione a Montecitorio.

In effetti, al momento attuale, non si vede una candidatura che abbia serie possibilità di riuscita: non Berlusconi che sa di non potere contare su molti voti della destra, al di là di quelli che dovrebbe raccogliere nel magma confuso dei Cinque Stelle; non Marta Cartabia che sconta l’avversione del “partito dei giudici” nascosto ma presente in tutto il centro-sinistra; non Giuliano Amato per ragioni anagrafiche ma soprattutto per quel “fumus” di craxismo che non lo rende simpatico al PD e ai Cinque Stelle; non Gentiloni, la cui presenza a Bruxelles è in questo momento di cruciale importanza. Né vedo tra le “soluzioni B” di cui parlano i giornali altre candidature in grado di superare la soglia fatidica necessaria all’elezione; senza contare che un presidente eletto faticosamente dopo molte votazione apparirebbe una soluzione inadeguata alla gravità del momento.

I frequentatori delle prime dei teatri lirici non rappresentano certo la realtà del Paese, ma le ovazioni della Scala e del San Carlo con la richiesta di un bis che non riguardava gli spettacoli in scena forse sono più significative di quanto possa sembrare; ci sono stati nella nostra storia altri momenti in cui le platee teatrali hanno indicato la strada da percorrere, come il nostro presidente sa bene.

 

Franco Chiarenza
30 dicembre 2021

Caduto, tra polemiche più o meno pretestuose, il ddl Zan, si può cominciare un confronto serio sui suoi contenuti, o meglio, sulla tutela delle minoranze sessuali che costituisce la motivazione del controverso disegno di legge. A noi “liberali qualunque” tocca affrontarlo dal nostro punto di vista. Per farlo in modo chiaro e comprensibile rispondiamo ad alcune domande:

  • Chiunque abbia seguito anche superficialmente le polemiche che hanno accompagnato la mancata approvazione del ddl Zan ha avuto l’impressione che oggi nell’ordinamento italiano le minoranze sessuali non siano tutelate e di conseguenza chi si oppone al ddl Zan sia sostanzialmente un omofobo o quanto meno una persona insensibile alla parità di diritti e di riconoscimento sociale estesa a omosessuali, bisessuali e ogni altro orientamento sessuale che rientra nella libertà di ciascuno di noi. E’ così?

No, non è così, anche se si è lasciato credere che di questo si trattasse. La normativa esistente, anche a prescindere dalla discutibile legge Mancino, se applicata con giusta severità, è in grado di tutelare i diritti di ogni minoranza e quindi anche di quelle caratterizzate da orientamenti sessuali minoritari e legittimi (quindi sempre tra maggiorenni). Tutt’al più si potrebbero apportare alcune modifiche al codice penale per venire incontro alla maggiore sensibilità su questi temi che deriva dalle profonde trasformazioni sociali di questi ultimi anni. Mi riferisco in particolare a una migliore definizione delle minoranze di genere e alle procedure accusatorie. Ma per fare questo non c’è alcun bisogno di leggi speciali. Il ddl Zan persegue infatti una finalità diversa, quella di contrastare penalmente le espressioni di “istigazione all’odio” dirette alle minoranze sessuali e di inasprire le pene nei confronti di chi se ne rende responsabile.

  • Non esiste già una legge (cosiddetta legge Mancino del 1993) che prevede una tutela rafforzata delle minoranze? non basterebbe integrarla comprendendovi le minoranze sessuali?

Certamente sì. Visto che una legge speciale per tutelare le minoranze (razziali, religiose, ecc.) già esiste non si capisce perché non si proceda semplicemente a modificarla comprendendovi anche le minoranze sessuali, ed è questa infatti una delle critiche che vengono mosse al ddl Zan anche da chi non si ritiene né omofobo né intollerante. Da liberale però devo aggiungere che anche la legge Mancino, pur essendo una legge dello Stato e come tale da rispettare, non corrisponde ai principi di uno stato di diritto per almeno due ragioni: la prima è proprio la “specialità” delle tutele previste che collide col principio di generalità per il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Perché mai insultare un omosessuale deve essere diversamente considerato dal farlo nei confronti di qualsiasi cittadino? Tutt’al più può rappresentare un’ aggravante per le presunte condizioni di inferiorità dell’aggredito e per le sue spregevoli motivazioni (ma questo è già previsto dal codice penale). La seconda ragione per cui la legge Mancino non piace ai liberali è perché introduce il principio di incitamento all’odio come reato, a prescindere da ogni intento a delinquere. Un concetto generico, pericoloso per le interpretazioni estensive che potrebbero entrare in contrasto con la libertà di espressione tutelata dall’art. 21 della Costituzione; dubbi che restano immutati perché finora la sua applicazione è rimasta abbastanza sporadica e la Corte costituzionale non ha ancora avuto occasione per esprimersi in proposito.

  • I manifestanti a favore della legge Zan inalberavano un cartello in cui era scritto che “l’odio non è un’opinione”. Non hanno ragione?

Lo slogan “l’odio non è un’opinione”, che riprende il titolo di una nota ricerca del COSPE, è suggestivo ma parziale; certamente l’odio non è un’opinione perchè è un sentimento, e quindi irrazionale per definizione, ma anche i sentimenti se non sono tali da indurre alla commissione di reati sono tutelati dalla libertà di espressione. Pure l’amore è un sentimento e nessuno si sognerà mai di sanzionarlo finchè non produce danni e limitazioni concrete nei confronti di altri (come lo stalking). Quando si propone che l’istigazione all’odio diventi un reato punibile con sei anni di galera bisogna fare attenzione perchè l’estensione interpretativa del concetto di odio può diventare un boomerang di cui per primi potrebbero dolersi gli attuali sostenitori della legge Zan. Le leggi sono pericolose: partono con precise finalità nelle intenzioni del legislatore ma poi vivono di vita propria e si trasformano per analogia in interpretazioni giurisprudenziali talvolta utilizzate per scopi ben diversi da quelli che le avevano ispirate. Per questa ragione – sia detto per inciso – la cultura giuridica anglosassone, che si esprime attraverso la common law, diffida dell’abuso della funzione legislativa preferendo ad essa un aggiornamento pragmatico dei precedenti giurisprudenziali adattandoli, nel quadro di principi generali incontrovertibili, caso per caso.

  • Nella realtà concreta però le minoranze sessuali sono di fatto discriminate, perseguitate o nel migliore dei casi, emarginate. Non far nulla non può sembrare una forma di tolleranza per gli intolleranti?

Cambiare in profondità (cioè ben oltre la borghesia illuminata che detta le regole del polically correct) atteggiamenti e culture fondati da secoli sulla prassi ipocrita per cui le cose si fanno ma di nascosto, richiede tempi lunghi; soprattutto quando certi pregiudizi sono radicati nelle famiglie. Cercare di mutare le culture dominanti attraverso le sanzioni penali non è soltanto illiberale ma anche inutile e controproducente. Oggi però la pervasività dei nuovi mezzi di comunicazione consente una forte accelerazione del cambiamento, che, in questo caso, sarebbe positiva. Anche se non bisogna dimenticare che i nostri valori di tolleranza e inclusione valgono soltanto per una parte dell’umanità; la grande maggioranza (nei paesi islamici, nell’Estremo Oriente o in Africa) ne è invece ancora molto lontana. Sono ancora tanti i paesi in cui l’omosessualità maschile è punita con sanzioni penali anche rilevanti.

  • Allora bisogna lasciare le cose come stanno?

Ci sono casi eccezionali in cui anche i liberali ammettono la necessità di leggi speciali che possono incidere sui diritti fondamentali (tra cui essenziale quello della libertà di espressione) ma devono corrispondere ad alcune condizioni: emergenze conclamate, temporaneità delle misure adottate, ecc.; non è questo il caso del ddl Zan che investe invece una questione più generale, la tutela delle minoranze socialmente (non giuridicamente) discriminate. Esso ha riaperto un dibattito sui rischi legati a leggi speciali mirate a proteggere determinate istituzioni, categorie, minoranze in maniera rafforzata rispetto alla normale applicazione delle norme vigenti; una querelle antica che risale a Locke (uno dei padri del liberalismo moderno) il quale voleva discriminare i cattolici, continua con le varie specie di contrasto penale al “negazionismo”, fino allo hate speech e alla cancel culture dei nostri giorni. Per quanti non sono particolarmente interessati alle complicazioni giuridiche (e alle relative scuole di pensiero) riassumo in termini essenziali la questione (scusandomi coi giuristi per l’approssimazione): da una parte c’è il diritto di esprimere liberamente la propria opinione (qualunque essa sia) tutelato in tutti gli ordinamenti liberal-democratici, dall’altra l’esigenza di proteggere le minoranze razziali, religiose, sessuali, ecc, da un uso improprio di tale libertà anche quando non si concretizza in uno specifico delitto già previsto dalla legge ordinaria (ingiurie, offese, diffamazione, istigazione a commettere reati, ecc.) oppure rafforzando le sanzioni già previste. Bisogna fare attenzione che i due piatti della bilancia restino in equilibrio; se si eccede nelle tutele rafforzate si rischia di cadere, al di là delle migliori intenzioni, nel reato di opinione, tipico di una concezione etica dello Stato che un liberale non può condividere. Il perno su cui si gioca questo equilibrio nel caso nostro è rappresentato da una sola parola: l’odio (cioè cosa esattamente si intende per tale) e il ddl Zan appare in proposito squilibrato e chiaramente ispirato da intenti punitivi esorbitanti. Per noi liberali si ricorre a nuove leggi quando quelle esistenti si dimostrano inadeguate, per molti altri invece ciò che conta è sbandierare nuove leggi anche quando non ce n’è bisogno (perché basterebbe applicare quelle che già ci sono), per potersene attribuire il merito.

  • Perché è stata tanto osteggiata l’idea (contenuta nella legge Zan) di sensibilizzare i giovani alla tolleranza delle diversità (anche sessuali)?

Perché si trattava di un’idea giusta formulata male. L’idea giusta è che la tolleranza e il rispetto delle diversità sono valori che si dovrebbero imparare a scuola nell’ambito di un’educazione civica (da noi invece inspiegabilmente trascurata); istituire una giornata nazionale ad hoc, oltre che poco efficace, preoccupa le famiglie più tradizionaliste che vi scorgono un’indebita invasione di campo dello Stato nell’educazione dei figli e naturalmente (anche se a noi liberali interessa meno) agita il mondo cattolico che teme un conflitto tra norme civili e dottrina cristiana all’interno delle prerogative che lo sciagurato Concordato (inserito nella Costituzione) riconosce alla Chiesa in materia di insegnamento religioso.

  • La legge Zan è diventata motivo di contrapposizione politica; non si poteva evitare?

Si poteva ma non si è voluto. La politica diventa tanto più irragionevole quanto più i partiti che la rappresentano sono deboli (come in questo momento). Alla ricerca disperata di identità i partiti spingono alle estremizzazioni e leggi che potrebbero essere partecipate da tutti (anche tenendo conto di alcune criticità incontestabili) si trasformano in pugni in faccia all’avversario, le cui ragioni non vengono nemmeno prese in considerazione. In Italia le leggi hanno quasi sempre un sottinteso politico contingente; al di là del loro contenuto nessuno si cura della loro applicabilità, delle conseguenze di eventuali strumentalizzazioni, della ripetizione di norme già esistenti, perché l’importante è piantare una bandierina e rivendersela al proprio presunto elettorato. Quante volte ho sentito dire che la legge Zan andava votata senza se e senza ma perché l’importante era sconfiggere Salvini; e per converso quanti sostenere che la legge andava bocciata come “prova generale” contro eventuali accordi tra PD e Cinque Stelle per il Quirinale! Salvo poi confessare – gli uni e gli altri – che dei suoi contenuti (al di là di una generica “tutela degli omosessuali dalle discriminazioni”) nulla sapevano né gli interessava !!! E’ successo altre volte; in un recente passato la riforma istituzionale proposta da Renzi fu bocciata non per i suoi contenuti (molto discutibili) ma soltanto per colpire chi l’aveva proposta.

Quel che oggi si può fare è trovare un ragionevole compromesso, lasciando da parte i toni da crociata e tornando al merito della questione. I nodi da sciogliere a mio parere sono:

  1. definire le minoranze sessuali e inserirne la menzione nella legge Mancino, oggi applicabile soltanto per analogia;
  2. abolire ogni riferimento all’art. 21 della Costituzione, in quanto pleonastico. Tutte le leggi dello Stato devono essere compatibili con la Costituzione. Men che meno è accettabile che la sua applicazione venga sottoposta a condizioni limitative con una legge ordinaria;
  3. definire con esattezza cosa si intende per “incitamento all’odio” per evitare che discutibili interpretazioni giurisprudenziali lo trasformino in una censura ideologica; il codice penale già prevede la punibilità di chi incita o favorisce concretamente la commissione di reati, ma non a caso evita che la semplice espressione di idee non conformi (anche ai principi costituzionali) possa essere sanzionata (e in questo senso si è espressa la Corte costituzionale in merito a leggi che vietano la ricostituzione del partito fascista). Rischiamo altrimenti che un prete che ricordi pubblicamente che la dottrina cattolica considera peccato mortale una convivenza tra persone dello stesso sesso (figurarsi il matrimonio!) possa essere incriminato per “incitamento all’odio”;
  4. abolire la giornata di sensibilizzazione nelle scuole. Il modo corretto di sollecitare la riflessione dei giovani senza rischiare fratture tra famiglie e scuola è di accelerare l’introduzione dell’educazione civica come materia autonoma e fondamentale sin dalle scuole medie e in quel contesto dare il rilievo dovuto al rispetto e alla tutela di ogni minoranza, anche sessuale.

Per i liberali nelle leggi non si deve cercare la perfezione (che ciascuno interpreta a modo suo) ma piuttosto trovare un ragionevole compromesso tra tutti gli interessi legittimi che hanno diritto di essere tutelati. Nel nostro caso bisogna mettere insieme: la protezione delle minoranze sessuali da ogni possibile discriminazione, la preoccupazione dei liberali che, al di là delle intenzioni dei proponenti, si introducano nell’ordinamento norme restrittive sul diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni, l’esigenza del mondo cattolico di sostenere le proprie convinzioni etiche e morali senza correre il rischio di essere incriminati, il timore di molte famiglie che su un momento sensibile della crescita degli adolescenti lo Stato interferisca nelle modalità educative che sono parte essenziale della responsabilità genitoriale, la necessità per uno stato liberal-democratico di promuovere attraverso la scuola quei valori di tolleranza e di rispetto che devono caratterizzare l’esercizio delle libertà individuali senza trasformare la diversità di opinioni in risse scomposte.

Si può? Sì, se si vuole. Si vuole? O si preferisce ricominciare il gioco delle bandierine dove gli avversari tornano ad essere nemici non da convincere ma da delegittimare, i testi delle leggi diventano icone intangibili “a prescindere” dai loro contenuti perché l’importante è distruggere chi non la pensa come noi? Ma noi come la pensiamo veramente?

Franco Chiarenza
28 novembre 2021

Di Sconosciuto – [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15871438

Il fascismo è stato molte cose. Innanzi tutto un regime fondato sull’autoritarismo carismatico di un dittatore e su una concezione razzista della società che ha governato in alcuni paesi europei (Italia, Germania, Spagna) nella prima metà del secolo scorso. Esso fu il prodotto di un disagio profondo che attraversò l’Europa dopo la prima guerra mondiale infrangendo i precedenti equilibri politici e sociali. La sua ideologia derivava da una lettura deformata delle filosofie di Nietzsche e di Sorel e si esprimeva ostentando sentimenti di radicale ostilità nei confronti dei sistemi liberal-democratici, ragion per cui essa si iscrive a giusto titolo (insieme al comunismo leninista e al radicalismo islamico) nelle teorie totalitarie che pretendono di permeare ogni aspetto della vita civile come in una gigantesca caserma abitata da automi obbedienti.

Ma al di là di questi aspetti “culturali” che – almeno in Occidente – sono stati sepolti dalle rovine della seconda guerra mondiale, è rimasto ed è tuttora vitale un metodo di fare politica che dal fascismo deriva e che riesce ancora oggi a esercitare una certa attrazione nelle persone più fragili, nelle minoranze smarrite che popolano i margini di ogni sistema sociale strutturato su regole di convivenza, nei giovani abbagliati dal mito della forza fisica e dalla voglia di comparire ad ogni costo perchè solo così si sentono vivi. E’ il metodo fascista e resta tale chiunque lo utilizzi, destra, sinistra, centro, a prescindere dalle motivazioni, quasi sempre peraltro ambigue e confuse. E’ il ritorno alla barbarie cavernicola dell’età della pietra quando per prevalere le diverse tribù si spaccavano le rispettive teste, fin quando scoprirono – come ricordava ironicamente Einaudi – che piuttosto che rompersele reciprocamente era meglio – per risolvere i conflitti – contarle. Ed è da allora che cominciò la lunga marcia delle democrazie e dello stato di diritto dove le controversie sono regolate dalle leggi e il governo trae la sua legittimità dal principio di maggioranza (che i liberali hanno temperato, per contrastare possibili deviazioni populiste, con i diritti personali imprescindibili).

Quello che è successo in molte città italiane – a cominciare da Roma – non è una novità. Esistono gruppi organizzati di facinorosi che spacciano la violenza teppistica per rivoluzioni politiche (che sono altra cosa perchè indirizzate a rovesciare regimi illiberali e oppressivi) pronti a cogliere ogni occasione per contrapporsi al potere legittimo dello Stato. Cambiano nome (black block, gilet gialli, naziskin, combattenti proletari, ecc,), indossano divise di colore diverso, ma sono tutti metodologicamente fascisti perchè non tollerano il pluralismo delle idee e le regole che lo governano.

Contro costoro, comunque si chiamino, qualunque sia il pretesto di cui si servono, lo Stato ha il diritto e il dovere di intervenire senza remore, e i partiti devono smettere di denunciare i gruppi eversivi soltanto quando la loro presunta ispirazione ideologica è lontana dalla propria. Il fascismo rosso non è diverso da quello nero e i movimenti che legittimamente mobilitano i loro militanti dovrebbero fare attenzione a non consentire mai ai provocatori in servizio permanente di strumentalizzare le loro ragioni. Basterebbe questo e i teppisti resterebbero isolati nel loro narcisismo criminale mentre la giustizia farebbe il suo corso senza la preoccupazione di alimentare un ingiustificabile vittimismo come quello che ostentano alcuni capi-bastone quando ricevono ciò che meritano: la condanna penale prevista dalla legge.
Punto e basta.

Franco Chiarenza
14 ottobre 2021

© Carlo Calenda/Twitter

  1. Perché è l’unico candidato che rifiuta i genericismi ideologici (è di destra o di sinistra?) ma affronta i problemi concreti suggerendo soluzioni pragmatiche (dove, quando, perché, con quali risorse).
  2. Perché ha rifiutato i condizionamenti clientelari che si celano dietro le svariate “liste di supporto” che affiancano Michetti e Gualtieri.
  3. Perché è netto nella sua opposizione all’operato della Giunta Raggi e non accetterebbe mai un’alleanza coi grillini per il ballottaggio (come invece probabilmente farà Gualtieri su indicazione di Letta).
  4. Perché è venuto il momento di scegliere gli uomini di governo per la loro competenza e affidabilità lasciando ai globetrotters dei social il gossip delle apparenze per nascondere quanta poca sostanza hanno le loro argomentazioni.
  5. Perché non ha nulla a che fare né con gli apparati di sottogoverno cittadino che la Meloni ha ereditato da Alemanno né con quelli speculari che sotto l’ala protettiva di Bettini hanno sempre fatto il bello e cattivo tempo nelle giunte di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni ne sanno qualcosa!).
  6. Perché è l’unico a dire chiaramente che i termovalorizzatori non sono tumorifici e risolvono in gran parte il problema della spazzatura (che la Raggi è stata costretta a piazzare a caro prezzo nei “tumorifici” esistenti oppure ad abbandonarla per strada, come i romani sanno bene).
  7. Perché è l’unico a dire chiaramente che bisogna investire nelle metropolitane, nelle tramvie protette e veloci, e non soltanto in piste ciclabili maltenute e poco protette o in improbabili funivie che avrebbero costi di costruzione e di esercizio sproporzionati rispetto alla loro utilità.
  8. Perché fa meno demagogia degli altri candidati e non liscia il pelo alle corporazioni che soffocano da sempre lo sviluppo della Capitale (a cominciare dai tassisti e dalle categorie protette per finire allo scandalo delle licenze e dei permessi dietro il cui rilascio si cela una diffusa corruzione).
  9. Perché anche se porta il Rolex e vive ai Parioli (il che in realtà non risulta) è una persona per bene. Ma perchè se ad abitare ai Parioli e indossare orologi preziosi sono personaggi della sinistra nessuno ha nulla da ridire
  10. Perché viene criminalizzato da tutti coloro che temono l’arrivo a Roma di qualcuno che adotti lo stesso metodo di governo di Draghi: ascoltare tutti e decidere assumendosene la piena responsabilità. E gli intrugli, le connivenze, i parentadi, gli scambi di favori, le centinaia di inutili poltrone e poltroncine, dove andrebbero a finire? Meglio Michetti e Gualtieri, con loro ci si può intendere.

Un voto inutile? obiettano molti che pur ne condividono il programma. Non lo è in nessun caso, anche se è molto probabile che al ballottaggio vadano Gualtieri e Michetti, perché un’affermazione di Calenda a Roma segnerebbe l’esistenza di uno spazio elettorale anche a livello nazionale nettamente differenziato dall’asse Letta/Conte promosso dal PD e ancor di più dall’alleanza Salvini/Meloni che non lascia più posto a una destra moderata (soprattutto dopo la scomparsa politica di Berlusconi).

Per queste ragioni – a mio avviso – i liberali dovrebbero votare Calenda, lasciando da parte le tante etichette pretestuosamente liberali che spesso nascondono soltanto modeste ambizioni personali, o certi “distinguo” terminologici (è azionista, è liberal-socialista, ecc.) che non hanno più alcuna ragione di essere. Al di là degli esami del sangue oggi è liberale chi sostiene proposte serie e compatibili con lo stato di diritto e l’economia di mercato. Il resto è fuffa.

Franco Chiarenza
01 ottobre 2021

Nel 1939 il pretesto per l’avvio della seconda guerra mondiale fu la questione di Danzica, il porto prussiano sul Baltico che il trattato di Versailles aveva assegnato alla Polonia per assicurarle uno sbocco al mare ma di cui, per ragioni storiche ed etniche, la Germania rivendicava la restituzione già prima dell’avvento del nazismo. “Morire per Danzica?” fu la domanda retorica che i pacifisti europei ponevano ai loro governi quando la Francia e la Gran Bretagna, alleate della Polonia, furono costrette a intervenire per arginare le spinte aggressive di Hitler. Per nostra fortuna l’interrogativo rimase senza risposta perché non era per Danzica che le democrazie occidentali mandavano i loro figli a morire ma per salvaguardare in futuro la loro libertà.
E’ passato molto tempo; oggi, sollecitati dalle immagini drammatiche che arrivano dall’Afghanistan, ci chiediamo se possediamo ancora motivazioni ideali talmente forti da giustificare il sacrificio della vita; senza di che – sostiene Galli della Loggia nell’articolo che ha dato il via a questo dibattito – la proposizione del nostro modello politico e sociale perde credibilità nei confronti di chi è ancora riluttante ad adottarlo.
La questione è apparentemente semplice. Viviamo in una società che si riconosce abbastanza stabilmente in alcuni valori: stato di diritto, parità di genere, rispetto delle minoranze, libertà di espressione, servizi pubblici (più o meno estesi ma comunque presenti), scambi commerciali aperti (seppure regolati da norme che tutelino la concorrenza), ecc. Siamo pure convinti (anche se lo diciamo sottovoce per non sembrare politicamente scorretti) che la civiltà che abbiamo costruito tra grandi difficoltà e contraddizioni in tremila anni, a partire dalla filosofia greca fino alla rete internet, sia superiore ad ogni altra, almeno dal punto di vista dei risultati raggiunti in termini di libertà individuali e tenore di vita. Da tale convinzione scaturisce come logica conseguenza che abbiamo il diritto (e forse il dovere) di trasferire anche ai popoli che non hanno percorso il nostro processo di sviluppo non soltanto le tecniche che ci hanno consentito di aumentare il nostro benessere ma anche i valori che l’hanno accompagnato. Si tratta di un riflesso condizionato ben noto agli studiosi del colonialismo unanimi nel convenire che questo aspetto di “promozione culturale” ha avuto grande importanza nella giustificazione morale dell’espansione europea in Africa e in Asia. Persino lo sfruttamento delle materie prime, che era la vera ragione di molte conquiste coloniali, veniva spiegato come un vantaggio reciproco per l’incapacità delle popolazioni indigene di valorizzarlo. D’altronde il fatto stesso che insieme alle occupazioni militari gli europei “esportassero” attraverso le “missioni” anche le loro religioni (cattoliche nelle colonie francesi, italiane, belghe e portoghesi, protestanti o anglicane in quelle inglesi o olandesi) dimostra l’importanza che veniva data all’aspetto culturale di un fenomeno che, nel bene o nel male, ha comunque cambiato la storia di grandi territori che erano rimasti esclusi dal nostro modello di civilizzazione.

Fino a che punto?
Dopo la seconda e la terza (mancata) guerra mondiale è cambiato tutto ma negli Stati Uniti, usciti vincenti dal confronto, è rimasta molto radicata l’idea che i cardini su cui si fonda la nostra civiltà abbiano una validità universale e pertanto sia giusto favorirne l’espansione ovunque possibile. I risultati sono stati ambivalenti: India, Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno percorso, seppure con le necessarie modifiche, la strada maestra delle democrazie liberali; altri paesi hanno creato sistemi ibridi dove la preesistente cultura tribale (prevalentemente musulmana) si è adattata ai modelli occidentali consentendo in qualche misura un certo pluralismo politico e religioso (come in Pakistan e in Indonesia). Insomma si può dire che in molti stati sorti dalle ceneri della colonizzazione bene o male sono stati avviati processi di modernizzazione che, anche quando non hanno prodotto sistemi liberal-democratici, rientrano comunque in un processo di sviluppo compatibile coi modelli occidentali. La stessa Cina – come è ben noto – si dibatte tra l’accettazione dell’economia capitalistica e il rifiuto dei suoi presupposti liberali che trovano nello stato di diritto la loro espressione; una contraddizione che sta emergendo con la crescita del potere personale di Xi Jinpiang e l’accantonamento della teoria della convivenza di modelli politici e sociali diversi all’interno di un unico stato comunista.
Le maggiori resistenze alla modernizzazione si sono manifestate in Medio Oriente attraverso il fondamentalismo islamico che contesta un principio essenziale del nostro modello comunitario, la distinzione tra Stato e religione (oggi ampiamente riconosciuto ma al quale anche l’Occidente è pervenuto attraverso lotte e conflitti durati tre secoli). Il fondamentalismo, basato su una lettura integralista del Corano (peraltro contestata da parti consistenti dell’Islam), è riuscito a imporsi in due paesi molto importanti (per popolazione, risorse energetiche, posizione geografica), l’Iran e l’Arabia Saudita. Nel primo il clero scita ha creato uno stato islamico che, pur tentando in una certa misura di conciliare limitate forme di democrazia con le prescrizioni coraniche, di fatto resta una teocrazia appena mascherata da un pallido pluralismo, nel secondo soltanto da qualche anno la dinastia regnante sta cercando di uscire dalla frammentazione tribale e accantonare la fede wahabita su cui ha fondato il suo potere.
In altre nazioni (prevalentemente arabe) il fondamentalismo religioso ha tentato a più riprese di conquistare il potere trovando soltanto nell’esercito un ostacolo insuperabile (per esempio in Egitto, Algeria, Giordania). Spesso però la tutela militare si esprime attraverso regimi autoritari che certamente non corrispondono ai modelli democratici occidentali; e tuttavia, piaccia o no (e ai puristi del politically correct non piace) le ridotte laiche in campo musulmano sono sempre state presidiate dalle dittature militari e dove esse sono venute meno si è immediatamente riaffacciato l’estremismo islamico. Già dagli anni ’50 i regimi militari hanno comunque consentito (anche per effetto della diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione) una penetrazione della cultura occidentale che ha prodotto intermediazioni sociali che contestano l’integralismo islamico, come avvenne per il “socialismo arabo” promosso da Nasser in Egitto. Le stesse “primavere arabe” del 2010, seppure fallite nel tentativo di creare forme di democrazia compatibili con i nostri valori, hanno lasciato un’eredità laica di sensibilità ai diritti umani di cui ogni successivo governo ha dovuto tenere conto, soprattutto nei grandi centri urbani dove le nuove generazioni riescono in certa misura a imporre cambiamenti culturali significativi.

Che fare?
Fin qui, si potrebbe dire, nulla di nuovo che già non si sapesse. Dove sta il problema messo in luce con tanta preoccupazione da Galli della Loggia? Nel fatto che con l’abbandono dell’Afghanistan l’Occidente scopre la sua fragilità e, finalmente, si interroga sulle vere cause che la determinano e comincia a temere della solidità del suo modello e soprattutto della sua capacità di difenderlo senza ricorrere a sua volta a fondamentalismi intolleranti contrapposti (come vorrebbero alcuni “neo cristiani” che brandiscono il crocefisso come una clava).
Galli della Loggia ci ricorda che le grandi idealità per essere credibili vanno difese mettendo in gioco la vita; e, in effetti, le grandi religioni monoteiste si sono affermate anche perchè la loro narrazione dell’Aldilà facilitava il sacrificio di esistenze spesso miserabili e ingenue. Inutile qui ricordare i martirologi cristiani; anche i kamikaze musulmani vengono chiamati martiri.
I processi di secolarizzazione in Occidente hanno fortemente attenuato tale narrazione e la vita, unica e inimitabile, è tornata al centro dell’attenzione, talvolta anche in forme quasi ossessive per prolungarne la durata oltre il limite dell’autocoscienza. La vita è oggi da tutti considerata un valore che non può essere messo in gioco neanche per difendere idealità forti come ancora furono quelle che hanno animato le due guerre mondiali. Gli americani che morivano in Europa per difenderla dal nazifascismo erano convinti di sacrificarsi per un ideale alto e condiviso, quello della libertà.

Dove si colloca dunque l’asticella oltre la quale val la pena morire?
La risposta tentata dagli americani quando il problema ha cominciato ad evidenziarsi nella guerra del Vietnam (che fu vinta a Washington più che a Saigon quando gli studenti americani, sostenuti da una parte consistente dell’opinione pubblica, rifiutarono di andare a combattere) è stata di carattere tecnologico. Oggi la guerra si può fare senza sacrificare vite umane attraverso nuovi armamenti sempre più sofisticati, e dove fosse assolutamente necessario tramite l’impiego di mercenari ben addestrati e che hanno messo in conto (con laute ricompense) il rischio di perdere la vita.
Ma le contraddizioni di questa soluzione sono subito apparse evidenti per i danni collaterali che provocava nelle popolazioni civili, ma soprattutto quando il “nemico” si presentava allo scontro con motivazioni ideali e religiose talmente forti da non temere il sacrificio della vita; quando cioè i nemici sono i kamikaze, i terroristi, quei poveri disgraziati che si immolano per la loro fede ignorando che difendono semplicemente gli interessi e i privilegi dei loro sceicchi (i cui figli non mi risulta si siano mai fatti saltare in aria).
Come può difendersi un Occidente che ha mandato in soffitta con la leva obbligatoria gli eserciti popolari, passaggio obbligato in passato per costruire un’identità nazionale condivisa? Anche noi liberali salutammo come doveroso il superamento della “ferma”: anni buttati, non servono a nulla, bisogna immettere nella vita lavorativa i figli più presto possibile. E’ stata la scelta giusta per loro e per il Paese?
Domande inutili: tornare indietro è impossibile. Altre risposte vanno quindi cercate, ma quali?

Apriamo una seria riflessione possibilmente esente da ipocrisie e strumentalizzazioni. Al fanatismo di minoranze irresponsabili si risponde con la diffusione delle conoscenze che i nuovi mezzi di comunicazione, utilizzati correttamente, consentono coma mai in precedenza. Tempi lunghi; e nel frattempo?

Franco Chiarenza
05 settembre 2021

Quel che è stato è stato e, dopo la conferma di Biden che gli americani si sarebbero ritirati dall’Afghanistan, stupisce soltanto la rapidità con cui l’occupazione talebana si è completata.
Prova evidente che, come abbiamo visto in molte altre occasioni, gli innesti culturali prodotti artificialmente non riescono mai, anche quando si tratta di comportamenti politically correct che a noi sembrano avere una validità universale.
L’Occidente deve abituarsi a dialogare con culture diverse, spesso sedimentate in tradizioni religiose chiuse in difesa di un’ortodossia che, a torto o a ragione, sentono minacciata; il che vale sopratutto per l’Islam alle prese con un lento e faticoso processo di evoluzione che, per molti aspetti, somiglia a quello che dall’Illuminismo in poi ha dovuto affrontare il cristianesimo e che – non dimentichiamolo – si è concluso (se si è concluso davvero) soltanto con il Concilio Vaticano II negli anni ’60 del secolo scorso. Naturalmente le condizioni storiche sono molto diverse, le conseguenze sociali del colonialismo si innestano su realtà etniche assai diverse, la globalizzazione e i nuovi mezzi di comunicazione sono ovviamente percepiti come strumenti di subordinazione non soltanto politica ed economica ma anche e soprattutto culturale.

Le tre vie
Quello che l’Occidente può fare oggi è soltanto favorire i processi endogeni che, tra molte contraddizioni, sono avvertibili nel mondo islamico, il quale, nelle sue componenti intellettuali più avanzate è ben consapevole che con la modernità occidentale – piaccia o no – bisogna fare i conti, se non altro per una superiorità tecnologica impossibile da mettere in discussione.

Le strade che possono essere scelte (e in parte già sono in fase di avanzamento) possono essere riassunte in tre tipologie (anche se le diverse realtà storiche, economiche e sociali ne consentono molte variabili): 1) la prima è quella filo-occidentale che punta decisamente sulla compatibilità tra la tradizione islamica e i valori laici della cultura europea: tutto il Nord Africa, dal Magreb all’Egitto, si muove sostanzialmente in tale direzione con modalità diverse ma obiettivi convergenti. Però per contenere le spinte integraliste al loro interno questi paesi hanno bisogno di forti supporti come quello assicurato in Marocco da una monarchia illuminata ma religiosamente legittimata, in Algeria e in Tunisia da eserciti “figli” della rivoluzione anti-francese degli anni ’50 ma formati nel contesto culturale europeo, in Egitto – dove peraltro un’importante minoranza cristiana copta svolge un ruolo rilevante – un apparato costruito ai tempi di Nasser che non è soltanto militare ma anche politico ed economico. Anche alcuni paesi del Medio Oriente, malgrado le drammatiche disavventure che hanno dovuto subire in conseguenza della ferita lacerante che la creazione dello Stato di Israele in Palestina ha determinato nel mondo arabo, si muovono sostanzialmente nella stessa direzione: così il Libano, alle prese con un difficile equilibrio tra le componenti musulmane e quelle cristiane, l’Iraq e la Siria (soprattutto nelle regioni abitate dai curdi). Lontano dall’Europa e dal Mediterraneo grandi comunità musulmane come il Pakistan e l’Indonesia sono alle prese con difficili processi di modernizzazione ma si può affermare che anche in Asia, almeno fino ad ora, il fondamentalismo islamico non è riuscito a prevalere sulle preesistenti eredità culturali derivate dal periodo coloniale. 2) La seconda strada è quella degli integralisti di varie scuole islamiche (a cominciare dai wahabiti) per i quali la religione di Maometto deve restare intangibile anche attraverso una lettura formalistica del Corano e le uniche intese possibili con l’Occidente sono limitate alle convenienze economiche. I suoi sostenitori non nascondono velleità espansionistiche non soltanto nell’Africa Equatoriale e in alcuni paesi dell’Estremo Oriente (come le Filippine) ma anche attraverso la rigorosa difesa delle usanze islamiche nelle comunità emigrate in Europa o negli Stati Uniti, in pratica osteggiando ogni forma di integrazione. 3) C’è una terza via che invece punta a una revisione profonda della dottrina islamica per mantenerne le caratteristiche essenziali ma aggiornandole ai mutamenti sociali che non possono più essere contrastati in un tempo in cui i mezzi di comunicazione interpersonali hanno assunto le attuali dimensioni. In questa prospettiva (fatta propria soprattutto dalla minoranza moderata degli sciiti) la condizione femminile è molto diversa da quella della tradizione sunnita e persino alcune forme di democrazia controllata vengono tollerate (come avviene in Iran, in Iraq e Azerbaigian).

E intanto?
I talebani con la loro rapida avanzata si trovano a gestire una situazione molto difficile che forse avrebbero preferito affrontare con maggiore gradualità; tanto che sorge il sospetto che gli americani – una volta deciso l’abbandono – l’abbiano favorita. A fronte del successo di immagine all’interno del mondo musulmano i talebani devono risolvere alcuni problemi abbastanza complicati, a cominciare dalla sopravvivenza economica e dalla necessità di accordarsi con tutte le etnie che compongono il complesso mosaico afgano. Hanno bisogno di alleati che non siano soltanto le frange wahabite più estreme: possono trovarli in Cina o in Russia, interessate per ragioni geo-politiche, oppure in Iran (dove peraltro la diversità religiosa rappresenterebbe un ostacolo di non poco conto). Però i prezzi da pagare sarebbero elevati. Alla fine potrebbero essere proprio gli occidentali gli interlocutori con cui avviare un processo di distensione: una conclusione paradossale ma meno inverosimile di quanto possa sembrare, anche perché è quanto in certa misura è avvenuto in Vietnam. In tal caso però la questione dei diritti umani fondamentali diventerebbe una condizione che sin d’ora dovrebbe essere in qualche misura garantita, e in questa direzione i talebani dovrebbero inviare segnali inequivocabili per accreditarsi come un componente aperta (almeno relativamente) al confronto. Soltanto così, cominciando dalla tutela delle minoranze che hanno collaborato con la NATO per avviare la modernizzazione del paese, si può superare il momento di contrapposizione e avviare un dialogo che sia credibile per le opinioni pubbliche occidentali.

Franco Chiarenza
18 agosto 2021

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Conte: la sesta stella
E’ una stella spuntata dal nulla chiamata a molteplici funzioni: inizialmente per mediare tra Grillo e Salvini, poi per mediare tra Grillo e Zingaretti, infine per trarre il movimento di Grillo fuori dalla palude in cui si è impantanato. In realtà non ha nulla da spartire con l’autentica cultura grillina fatta di giustizialismo a buon mercato, autoritarismo carismatico, assistenzialismo, decrescita più o meno felice. E infatti con Grillo può al massimo spartire una spigola al sale.

Letta: mission impossible
Cattolico disobbediente, chiamato a risollevare le sorti del partito democratico dotandolo finalmente di una leggibile carta d’identità. Impresa impossibile (non ci riuscì nemmeno Veltroni) perchè il PD è inesorabilmente il partito degli ex (ex comunisti, ex cattolici di sinistra, ex socialisti a cui si aggiunge qualche ex proveniente da altre sponde politiche, persino liberali). Ha deciso di copiare la carta d’identità disegnata a suo tempo da Pannella, ma c’è qualche errore di stampa.

Salvini: destra di lotta e di governo
Dice tutto e il suo contrario, da sempre. Sa che l’analfabetismo politico degli italiani, sorretto da difficoltà di memoria, lo protegge. Non manca occasione per schierarsi dalla parte di chi può portargli qualche voto in più, ma non sempre il gioco riesce: da qualche tempo i sondaggi dimostrano che la sua leadership è in fase calante. Partecipa appassionatamente al governo europeista e filo-atlantico di Draghi ma firma manifesti anti-europei, si barcamena tra rosari e santini eppure non sa a che santo votarsi.

Meloni: dimmi con chi vai
Nasce (politicamente) neo-fascista. Dopo la svolta finiana di Fiuggi diventa post-fascista. Unica oppositrice formale del governo Draghi rivendica la sua coerenza nell’ostilità a governi “tecnici” o comunque apolitici e, approfittando delle contraddizioni della Lega, ne erode pazientemente la base elettorale. Sostiene un’unione europea disunita fondata sulla intangibilità delle sovranità nazionali, e perciò guarda con simpatia al regime ungherese di Orban. Spezzerà le reni a Ursula van der Leyen?

Renzi: tra il dire e il fare….
Dice cose sensate e condivisibili persino da un liberale, ma liberale non è. Anche perchè essere liberali si misura dai comportamenti concreti, e i suoi si prestano sempre a qualche fondata riserva. Come quando flirta con bin Salman Saud, il quale sarà pure un riformatore in Arabia Saudita ma ha adottato un’interpretazione spregiudicata di Machiavelli facendo uccidere gli oppositori. Sarà per questo che Renzi ha parlato di “rinascimento arabo”.

Calenda: la troppa (concretezza) stroppia
E’ presuntuoso, il che in politica non sarebbe un difetto. Lui però pretende niente meno di cambiare gli italiani costringendoli a misurarsi sulle soluzioni concrete dei problemi, cosa che tutti aborrono per paura di perdere la loro “identità”, da sempre affidata al vecchio gioco dei guelfi contro i ghibellini; chi si è mai preoccupato delle ragioni per cui si combattevano? Tanto basta per considerarlo un alieno; per di più è “pariolino” e di famiglia agiata, cosa che viene perdonata soltanto se si è estremisti di sinistra.

Speranza: senza speranza
E’ uno che crede ancora nelle idee, sballottato in un mondo senza idee. Per questo suscita simpatia. Purtroppo però le sue idee sono vecchie e sbagliate, incapaci di intercettare le nuove priorità dell’elettorato giovanile, al quale prevalentemente si rivolge. E’ uno di quelli che dice che dopo il Covid cambierà tutto (intendendo la fine del capitalismo e il trionfo di un nuovo collettivismo pseudo-socialista). Intanto però per imporre il quasi-obbligo vaccinale ha dovuto accettare la guida di un generale scelto da Draghi. Un po’ imbarazzante per un aspirante rivoluzionario.

E poi c’è Draghi. Il quale, nonostante le apparenze (è presidente del Consiglio dei ministri), non è un leader italiano perchè il suo prestigio internazionale, la sua preparazione, il suo modo paziente ma deciso di governare, fanno di lui un leader europeo. Travaglio non è d’accordo, lo insulta e lo ritiene un incompetente ma gli italiani (stando ai sondaggi) sono favorevolmente sorpresi: Draghi ascolta, si confronta, cerca mediazioni accettabili (necessarie in un governo emergenziale ad ampio spettro come quello che dirige), ma poi decide assumendosene la responsabilità, e da quel momento in poi non si torna indietro.
Altrimenti venga qualcun’altro a palazzo Chigi; lui è pronto a trasferirsi al colle Quirinale che è più comodo e da cui si gode un panorama impareggiabile sulla Città Eterna, al netto dei miasmi che l’avvolgono da quando una signora incompetente e presuntuosa è stata eletta ad amministrarla. Monito ai sostenitori della “democrazia diretta”.

 

Franco Chiarenza
04 agosto 2021

TIZIANA FABI / AFP

La “Dichiarazione sull’avvenire dell’Europa” sottoscritta pochi giorni fa da sedici partiti nazionalisti di destra (tra cui la Lega e Fratelli d’Italia) è stata analizzata da Sergio Fabbrini in un interessante articolo sul “Sole 24 ore. L’autore ha rilevato come elementi positivi (e certamente lo sono) il fatto che per la prima volta partiti nati contestando l’integrazione europea ammettano la necessità di un’unione europea e di una sua collocazione nei valori occidentali euro-americani, il che non era scontato, considerando certi ammiccamenti nei confronti di Putin. Ed è quindi certamente importante e positivo che la critica alle istituzioni europee si muova nell’ambito di un riconoscimento della sua esistenza. Ma gli aspetti positivi della Dichiarazione si fermano qui.

Il punto nodale di questa sorta di “patto” tra nazionalisti è la supremazia delle sovranità nazionali su ogni altra considerazione e, di conseguenza, il rifiuto di qualsiasi cessione di poteri e competenze che non siano revocabili; il che di fatto significa respingere qualunque ipotesi di federazione, comunque configurata. Il corollario di tale impostazione ha un inequivocabile contenuto ideologico: “proteggere la cultura e la storia delle nazioni europee, il rispetto dell’eredità giudeo-cristiana dell’Europa dei valori comuni che uniscono le nazioni europee”. Il che significa in pratica non riconoscere altri principi di riferimento che non derivino dalla tradizione “giudaico-cristiana”, con tanti saluti ai diritti umani, alla laicità dello Stato e alla tutela del pluralismo. Una sorta di riedizione della “Santa Alleanza” del 1815 in funzione di sostegno all’autoritarismo; non a caso i modelli a cui i partiti sovranisti guardano sono quelli che si sono insediati in Polonia e in Ungheria e che sono ormai in aperto conflitto con l’Unione Europea. Anche Orban e Kaczynski però devono affrontare sulla questione europea ostacoli non indifferenti: all’interno per il prevalere di posizioni europeiste e liberal-democratiche nelle grandi città (non a caso sia Varsavia che Budapest hanno amministrazioni “liberal”), nei rapporti con l’Unione che si sono irrigiditi e potrebbero provocare contraccolpi economici pericolosi per la stabilità politica dei loro regimi, per quanto puntellata da una gestione autoritaria del potere.
Quella espressa dai movimenti nazionalisti è oggi una posizione minoritaria in Europa (in quanto non condivisa da popolari, socialisti, liberali e verdi) che però non va sottovalutata. Essa potrebbe infatti saldarsi con una diversa rivendicazione del primato della sovranità nazionale, molto diffusa in Scandinavia, per la quale la salvaguardia dei diritti umani e le protezioni sociali sarebbero meglio garantiti dal mantenimento di una piena autonomia degli stati nazionali, rieccheggiando in qualche modo alcune delle ragioni che in Inghilterra hanno fatto prevalere la Brexit.

In tale situazione, mentre nel resto del mondo si stanno ridefinendo i rapporti di forza tra Stati Uniti, Russia e Cina, l’Europa dei “piccoli passi” appare velleitaria e impotente, costretta ancora una volta a rifugiarsi sotto le ali protettive di Washington che, con la presidenza Biden, le ha aperte fin troppo generosamente.
Da questa situazione di dipendenza obbligata non si esce con le parole e i proclami, occorre fare un salto coraggioso; chi lo vuole compiere ben venga, prima o poi l’intendence suivra. Comunque vadano le elezioni in Germania a settembre e in Francia nella primavera prossima, toccherà ai vecchi fondatori della Comunità Europea (Francia, Germania, Benelux e Italia), integrati dai paesi iberici e da altri che lo vorranno, segnare modi e tempi di una ripartenza che senza ambiguità metta insieme le politiche estere e militari completando l’unione economica di fatto già operante tra i paesi che hanno adottato la moneta comune. Non c’è più tempo da perdere. L’asta per effettuare il salto con successo potrebbe essere rappresentata in questo momento dall’Italia di Mario Draghi; Salvini però ci faccia capire da che parte sta, se con la dichiarazione dei sovranisti o con un’Europa che parli all’esterno con una voce sola. E prima di rispondere si consulti con Giorgetti e Zaia.

Franco Chiarenza
20 luglio 2021