Un libro – questo di Gianna Radiconcini – quasi postumo, finito di scrivere pochi giorni prima di concludere la sua lunga attivissima esistenza. Si tratta di una straordinaria testimonianza di vita per almeno tre ragioni: la prima è certamente la singolarità del personaggio che ha attraversato un periodo di cruciali trasformazioni politiche e sociali senza mai perdere l’occasione per sentirsi partecipante attiva di quei cambiamenti. Il secondo motivo di interesse sta nel modo in cui ha vissuto la sua condizione femminile e le complicazioni familiari facendole diventare battaglie per la liberazione della donna in un contesto politico e giuridico che rendeva problematico anche alle più preparate di loro di svolgere un impegno attivo in un mondo ancora fortemente maschilista. La terza, non ultima, ragione di interesse si connette alla sua professione giornalistica che esercitò con scrupolo e passione e che le ha consentito di assistere a molti eventi epocali “in diretta”.
Gianna Radiconcini era una donna d’azione, non soltanto per avere militato dopo la guerra nel partito d’azione (seguendo poi, al momento della scissione, la scelta compiuta da Parri e da La Malfa), ma soprattutto per il suo modo di concepire la politica sempre come impegno militante al quale apportava un entusiasmo “ragazzesco” che sfiorava l’ingenuità. Il che le ha anche consentito di svolgere un ruolo di pressione sul suo partito perchè si facesse carico in sede di governo delle due grandi tematiche che l’appassionavano: la riforma del diritto di famiglia (ancora fermo alle norme fasciste del codice) e la causa dell’unità europea nella visione federalista di Altiero Spinelli di cui era stata grande ammiratrice. L’Europa del trattato di Maastricht con le sue estenuanti mediazioni che si celebravano tra Bruxelles e Strasburgo non poteva soddisfare i suoi slanci idealistici, ma ciò non le impediva di svolgere il suo lavoro di corrispondente della RAI con correttezza e serietà, sempre giustamente denunciando la scarsa attenzione che la politica italiana in quegli anni sembrava dedicare a una questione tanto importante.
Gianna Radiconcini era sempre indignata (e chi, come me, la conosceva, lo sapeva bene) contro qualcuno o qualcosa che violava i principi di moralità politica in cui si riconosceva e, di conseguenza, era poco propensa alla virtù liberale della tolleranza. Non stupisce quindi che il libro rifletta il suo carattere, che certi profili siano tagliati con l’accetta, certi fenomeni vengano interpretati in modo severo e senza attenuanti; il che nulla toglie alla straordinarietà di una testimonianza che percorre quasi un secolo, aprendosi coi ricordi della Resistenza a Roma nel 1944 andando avanti tra alti e bassi sempre in attesa che si realizzi una vera unità europea che invece non arrivava mai.
Sempre attiva fino all’ultimo ha scritto questo libro – gradevolissimo da leggere – in punta di penna, con una vena ironica che non trascende mai nel pessimismo. Lo dovrebbero leggere i più giovani (tra quei pochi che ancora lo fanno) per capire con quanta intensità si può vivere la propria esistenza quando la si considera al servizio degli altri, avendo come guida le proprie idee e la capacità di confrontarle con tutti. Per questa passione un po’ ingenua ma trascinante aveva sempre successo quando andava a parlare nelle scuole; tra ragazzi ci si intende.

Franco Chiarenza

Gianna Radiconcini: Profili a memoria. (La Lepre Edizioni – Roma 2022 – pag.222, euro 16)

Torna a farsi sentire la vena satirica di Saro Freni dopo il suo fortunato esordio (Lettere dall’Italia – 2016). Ancora una volta si tratta di ritratti disegnati per lettori stranieri che vogliano capire qualcosa di questo strano nostro Paese; un esercizio, quello di vederci con occhi a noi estranei, altre volte praticato e non sempre riuscito perchè inevitabilmente si finisce per guardarsi allo specchio, il quale, per deformato che sia, non corrisponde sempre a come davvero ci percepiscono gli altri. Premesso quindi che il libro si legge con grande piacere anche per la scrittura ironica ma sempre garbata che riflette la personalità dell’autore, rara avis in un mondo dove la volgarità sembra diventata la regola (soprattutto quando si parla di avversari), ho riscontrato qualche criticità che l’amicizia per Saro non mi consente di trascurare.
La prima riguarda la cronologia. I ritratti sono necessariamente datati (si tratta infatti di una raccolta di articoli pubblicati su un giornale svizzero) e per qualcuno di essi le novità che si sono aggiunte rendono i profili abbozzati poco adattabili agli avvenimenti successivi. Ciò vale soprattutto per la politica anche perchè in certi momenti essa ha assunto da noi tempi e modi talmente frenetici che è difficile pure per gli italiani seguirne i ritmi sconvolgenti; non fai in tempo a scrivere di un governo che pochi giorni dopo i suoi componenti sono all’opposizione, spegni il computer e li ritrovi alleati con quelli che risultavano essere i peggiori nemici, si dimentica quanto era stato detto il giorno prima o addirittura se ne rovescia il significato, persino l’abbigliamento confonde le idee, chi era in t-shirt fino a quel giorno ricompare improvvisamente in giacca e cravatta e, al contrario, compassati dilettanti del potere ingessati in un completo grigio scoprono la gioia del deshabillè. Più che un libro servirebbe un blog continuamente aggiornato.
La seconda osservazione è più seria. In alcuni articoli il mio amico Saro si incazza. Abbandona il tono ironico e disinvolto per assumerne uno diverso, più preoccupato. Lo capisco, per come stanno le cose ci sarebbe da incavolarsi tutti i giorni; ma è una mutazione che mi ha sorpreso perchè rivela un timore profondo ben diverso dal sarcasmo con cui vengono giustamente trattati certi personaggi che occupano indecorosamente la ribalta (non soltanto politica); ne risulta una satira amara e pessimistica che induce a riflettere, come dire che non è più tempo di scherzare. Il mio inossidabile ottimismo ne resta inevitabilmente compromesso e il “dover essere” sostituisce la leggerezza irridente del “come siamo”. Quando gli amici svizzeri che leggono i suoi divertenti ritratti faranno parte della NATO (ammesso che ciò avvenga davvero) si renderanno conto perchè noi ci siamo entrati sin dal 1949, pur essendo l’Atlantico piuttosto lontano dalle nostre coste. Il fatto è che gli italiani cercano sempre qualcuno o qualcosa che li protegga per poi esercitare nei suoi confronti lo sport che preferiscono (dopo il tifo calcistico): il tiro a segno della maldicenza. Ma se Freni non ha deciso di assumere la cittadinanza svizzera farà meglio a rassegnarsi e continuare con ironia a descrivere lo spettacolo messo in scena quotidianamente dai nostri connazionali; se è vero che il teatro serve a mascherare la realtà fingendola diversa, come Pirandello ci ha insegnato, bisogna riconoscere il loro talento nella recitazione. La tragedia – invisibile – si consuma dietro le quinte dove gli attori devono prendere atto che le cose che contano si decidono e si fanno altrove. Rivelando a sipario aperto le loro debolezze e le loro finzioni Saro Freni infrange la sacralità del palcoscenico. Corre voce che un “teatrante” stia facendo scomparire tutte le copie del suo libro dalle librerie; ragione di più per acquistarlo subito.

Franco Chiarenza

Saro Freni: Che figure! (Rubbettino – Soveria Mannelli 2022) – pag. 152

Il destino dell’Ucraina di Simone Attilio Bellezza (ed Scholé) – denso e circostanziato – è una descrizione dell’evoluzione dell’Ucraina verso la democrazia. La società post sovietica è la stessa descritta nella “La Russia di Putin” di Anna Politkovskaja: ex dirigenti sovietici ed ex componenti dell’organizzazione giovanile comunista che appropriandosi dei settori produttivi del Paese si trasformano in ricchi oligarchi. Violenza, clientele e corruzione ovunque, e persone da un passato dubbio fanno ricche carriere politiche, come il futuro presidente Victor Janukovic, da adolescente “criminale di quartiere con a carico rapine a mano armata e violenza privata”. “La massima camera di compensazione e direzione di questo sistema di clientele politico-economiche era il Parlamento dove sedevano gli oligarchi che si spartivano le parti più importanti del potere economico e politico”.

Il distacco dalla Russia inizia con la disgregazione dell’URSS, con le dichiarazioni di sovranità nel 1990 e poi di indipendenza da Mosca nel ‘91 e si sviluppa nei travagliati anni successivi: l’Ucraina tende verso l’Unione Europea allontanandosi da una Russia che non accetta accanto a sé modelli di evoluzioni diversi e concorrenti. Qui l’autore fa notare che “sia in russo che in ucraino l’aggettivo ‘europeo’ aveva il significato secondario di “bello, prestigioso, ricco”.

Lo sviluppo verso democrazia e libertà non è indolore: lotte politiche, manifestazioni di protesta di centinaia di migliaia di persone, brutali repressioni della polizia che nel febbraio 2014 spara sui manifestanti provocando 77 morti in soli 2 giorni con successiva fuga in Russia del presidente Janukovic e con Putin che fa subito approvare dal Parlamento l’autorizzazione a utilizzare truppe russe in Ucraina. Segue l’occupazione della Crimea da soldati russi ”anonimi” non contrastati dai soldati ucraini a cui era stato ordinato di non agire per evitare una guerra con Mosca. Successivamente un referendum in “un clima di terrore” con affluenza e opzione per la Russia ufficialmente dell’83 e del 96% mentre i dati reali, pubblicati per errore, risultavano rispettivamente del 30 e del 15 %. Successive operazioni di Mosca che facendo leva sulle popolazioni più russofone provoca/favorisce la nascita di repubbliche autonome nel sud dell’Ucraina.

La restante parte del libro arriva alla elezione di Zelenski ma non ancora all’attuale guerra, prevista ma non ancora iniziata.

Il libro è la cronografia della non facile evoluzione dell’Ucraina verso uno stile istituzionale europeo costata cara nel suo sviluppo e molto di più nella sua attuale tragica situazione non ancora conclusa ma che sta dando all’Ucraina una identità che forse non ha mai avuto, creando eroi e leggende quasi fondative dello stato; e provocando negli altri paesi europei ammirazione e solidarietà. Situazione che sta anche creando con la Russia solchi che potranno essere superati solo dopo la scomparsa delle generazioni che stanno vivendo l’attuale gratuita tragedia provocata e diretta in prima persona dall’ex KGB Putin.

È leggendo “La Russia di Putin” (Adelphi) scritto da Anna Politkovskaja nel 2004 che si capisce perché Anna Politkovskaja sia stata uccisa e quanto sia plausibile il sospetto che sia stata uccisa il 7 ottobre 2006, come regalo a Vladimir Putin, che nato il 7 ottobre 1952, quel giorno compiva il suo 54esimo compleanno.

È un libro di un coraggio estremo, il quadro di una Russia che “è il prodotto dell’Unione Sovietica”, dove la corruzione, generalizzata e gerarchizzata con in testa il suo presidente, costituisce l’organizzazione stessa dello stato; dove le ricchezze degli oligarchi sono i risultati della privatizzazione di pezzi di stato di cui si sono impossessati coloro che al momento dello sfaldamento dell’Unione Sovietica erano all’interno dello stato nelle posizioni e condizioni di farlo, persone cioè della “nomenclatura” del partito comunista. Una società dove tutto ha un prezzo, dove ogni ricchezza nasce e si mantiene pagando burocrati, polizia e tribunali. Dove le aziende che funzionano vengono spolpate, chi alza la testa viene fisicamente eliminato e gli ex soldati e ufficiali che hanno combattuto anni e anni in Cecenia, non più adatti alla vita civile e non sapendo fare altro che combattere e uccidere, si sono riciclati in killer e guardie del corpo.

Qua e là c’è un certo rimpianto per le speranze sorte con Gorbaciov e Elsin e subito cessate con l’arrivo di Putin che ha portato con sé i suoi sodali del KGB e questi a loro volta i loro colleghi e così via invadendo ogni punto nevralgico dello stato che è tornato a ritroso verso il mondo di Stalin. E in questo revanscismo Anna Politkovskaja cita anche l’aiuto avuto da Putin dal “coro di osanna” di molti dei leader politici dell’occidente. Un Putin che va avanti finché non incontra resistenza, che “tasta il terreno e sonda le reazioni e che se non ce ne sono o sono amorfe e gelatinose procede”. L’autrice però non incolpa gli altri per lo stato della Russia ma fa l’autocritica: “le nostre reazioni a quel che ha detto e fatto sono state non solo fiacche ma impaurite” mentre “il KGB rispetta solo i forti, i deboli li sbrana”.

Si parla delle guerre cecene, dei crimini di guerra, dei bombardamenti su città e villaggi, delle vendette e degli stupri lì commessi, del cinismo e della disumanità verso i civile così come vediamo ora nella guerra contro L’Ucraina. E l’esercito è un corpo assolutamente chiuso su se stesso, dove si ruba di tutto e dove ognuno esercita il proprio potere su chi è di grado inferiore anche picchiandolo. Si descrive il razzismo verso i ceceni che vivevano in Russia, perseguitati e arrestati con false prove da una polizia senza scrupoli.

Si parla in modo dettagliato anche degli attentati nel teatro Dubrovka del 2003 e nella scuola di Beslan del 2004 con il cinismo e la rozzezza degli interventi, l’uso di gas e i conseguenti massacri poi da ignorare e nascondere anche togliendo voce a sopravvissuti e parenti.

Al termine del suo libro Anna Politkovskaja si domanda perché ce l’ha tanto con Putin. La risposta – evidente – sta nel mondo che descrive e che spiega anche perché Putin ce l’ha avuta così tanto con lei che qualcuno ha ritenuto opportuno festeggiare il suo 54esimo compleanno regalandogli la vita di questa esemplare coraggiosa giornalista della Novaia Gazeta di Mosca.

Parlare del “Mondo” di Pannunzio – inteso come settimanale – significa parlare del mondo di Pannunzio: dei suoi amici, dei suoi maestri, del suo amato Tocqueville e soprattutto dell’atmosfera culturale che accompagnò l’avventura di un foglio destinato ad imporsi come una delle pubblicazioni più autorevoli del suo tempo. Questo volume curato da Pier Franco Quaglieni – Mario Pannunzio: La civiltà liberale (Golem edizioni, 2020) – rappresenta una lettura molto utile per comprendere tanto il profilo intellettuale di questa importante personalità del giornalismo italiano quanto la natura e le caratteristiche della sua creatura, che fondò nel 1949 e diresse fino alla chiusura. Questa ricostruzione risulta ricca e sfaccettata, anche grazie alla polifonia di voci al suo interno. Nel libro si possono infatti trovare ricordi e testimonianze – molte delle quali legate anche all’attività del “Centro Pannunzio” – ma anche ricostruzioni storiche o memorialistiche, oltre alla riproduzione di numerosi articoli pubblicati nel 1968 in morte del direttore del “Mondo”.
Questi interventi offrono un ritratto molto vivido di un intellettuale atipico, che scriveva poco e preferiva insegnare a scrivere, che leggeva di tutto ma che in vita pubblicò un solo libro: Le passioni di Tocqueville, autore nel quale si rivedeva e da cui traeva costante ispirazione. I contributi affrontano i temi più rilevanti della vita pubblica di Pannunzio e della sua attività di animatore culturale: la sua formazione, nella natia Lucca e poi a Roma; il rapporto con il regime, tra scetticismo, fronda e disimpegno; il ritorno alla democrazia, che lo vide protagonista anche attraverso la direzione di “Risorgimento liberale” e in seguito del “Mondo”; il sodalizio con Ernesto Rossi, venuto meno dopo lo scoppio del caso Piccardi; l’impegno politico, nel partito liberale prima e in quello radicale poi; infine le disillusioni, la fine del giornale, che precedette di appena due anni la morte del suo fondatore.
“Il Mondo” fu un settimanale molto innovativo, caratterizzato dalla notevole qualità grafica e da una cura certosina per i dettagli. L’impareggiabile prestigio dei collaboratori ne fece una tribuna ascoltata e rispettata anche da coloro che non si riconoscevano nel suo punto di vista. Giornale di nicchia, con un tratto di ostentato snobismo, fu anche una palestra per giovani di grande avvenire e costituì un modello che tanti provarono poi ad emulare, nell’ispirazione ideale se non nella formula giornalistica. Col tempo, è nato anche un mito del “Mondo”; un mito anche giustificato, che però come tutti i miti rischia sempre di scadere nell’agiografia o nel cliché.
La polemica sull’eredità morale di Pannunzio, sui suoi veri o presunti successori, sulle annessioni postume più o meno abusive è – in tutta sincerità – di scarsissimo interesse, da qualsiasi parte provenga. Piuttosto, sarebbe necessaria un’analisi su alcune questioni che percorrono tutto il libro e che meriterebbero un’approfondita riflessione: quali erano le concrete prospettive di una sinistra liberale – come quella che Pannunzio intendeva rappresentare – negli anni della guerra fredda? Su quali forze poteva contare? Come doveva strutturarsi il rapporto tra élite intellettuali e politica, nel quadro di una democrazia di massa e di una “repubblica dei partiti” in cui prevaleva la forza degli interessi organizzati? Quali erano le cause profonde della lamentata lontananza del nostro paese dai canoni delle democrazie avanzate e dalle idee più compatibili con le esigenze della vita contemporanea? E a questo proposito: la chiave interpretativa dell’anomalia italiana regge davvero alla prova del tempo?
Al di là di questi interrogativi di natura puramente storica, è impressionante l’attualità di alcune pagine riportate nel libro. Nell’editoriale comparso sull’ultimo numero del “Mondo” – 8 marzo 1966 – si poteva leggere: “Non accade soltanto in Italia, e lo si sa bene; ma in Italia il disinteresse per la cosa pubblica e per i dibattiti morali e culturali trova sempre un terreno di rifugio e di fuga. Il nostro Paese legge meno degli altri Paesi e i mezzi d’informazione sono più che altrove dominati dal conformismo e dall’ossequio. Domina soprattutto, in Italia, la presenza di un potere radicato e penetrante, di un governo segreto, morbido e sacerdotale, che conquista amici ed avversari e tende a snervare ogni iniziativa e ogni resistenza.” Era la famosa Italia alle vongole, spesso descritta da Pannunzio e dai suoi amici con severità e intransigenza: cinica, meschina, cortigiana, facilona, superficiale, servile, trasformista. È in fondo anche l’Italia di oggi, con molti anni in più e qualche speranza in meno. E senza un Pannunzio che la esorti a diventare qualcosa di meglio.

Saro Freni
31 ottobre 2021

L’ultimo libro di Giuseppe Bedeschi (I maestri del liberalismo nell’Italia Repubblicana, Rubbettino, 2021) dimostra che al liberalismo i maestri non sono mancati, né sono mancate le scuole: cioè le correnti di pensiero, spesso in contrasto tra loro. Sono mancati, tragicamente, alunni attenti e volenterosi. E una lezione così importante è stata ascoltata da pochi e messa in pratica da quasi nessuno.
L’autore passa in rassegna quelli che a suo avviso sono stati i principali protagonisti della cultura liberale italiana del periodo, mettendo in luce gli elementi fondamentali del loro pensiero. A comporre questo pantheon sono Croce, Einaudi, Salvemini, Calogero, Antoni, Maranini, Bobbio, Matteucci, Sartori, Romeo. Un capitolo a parte è dedicato alla critica liberale del marxismo; un altro alla tradizione meridionalista. In appendice si può trovare un ritratto di Lucio Colletti, in cui viene ricostruita la sua particolare parabola intellettuale.

Il libro ha alcuni meriti che è opportuno mettere in luce. In primo luogo, viene riscoperta la tradizione del liberalismo nazionale, che in molti casi è stata sottovalutata, misconosciuta e vista come un residuo provinciale, una specie di salotto di nonna Speranza. Bedeschi riesce a restituire la complessità di questo pensiero, nei differenti approcci, senza negare divergenze e contrasti. Non cade, insomma, nella tentazione di ricondurre questi filoni ad una forzata unità con azzardati sincretismi o con spericolati tentativi di riconciliazione a posteriori. Lo stile di scrittura è piano e scorrevole, facilmente comprensibile da tutti.

In medaglioni di poche pagine non si può ovviamente esaurire il pensiero di un autore. Possiamo considerare questo libro come una lettura introduttiva per comprendere una parte importante della cultura filosofica, storica e politica del nostro paese, alla luce dei temi e dei problemi che si è trovata di fronte. Ma anche come punto di partenza per riflessioni ulteriori intorno al liberalismo italiano, con particolare riferimento alle ragioni del suo declino politico.
In altri termini, ci si potrebbe chiedere per quale motivo – per restare soltanto al periodo repubblicano – il liberalismo italiano non sia riuscito a guidare – o comunque a influenzare in modo significativo – i processi di trasformazione del paese. Un esame del genere non potrebbe prescindere da una seria analisi degli errori del suo ceto politico e intellettuale, e spesso delle sue compromissioni e dei suoi cedimenti. La convinzione di aver rappresentato la minoranza illuminata ma inascoltata in un contesto ostile è una gradevole consolazione, ma in molti casi è un facile alibi per nobilitare la propria irrilevanza.

A questo proposito, si potrebbe riflettere su quanti danni abbia provocato – soprattutto negli ultimi decenni – l’uso scriteriato del termine liberalismo per designare fenomeni culturali e politici che del liberalismo erano l’antitesi o la parodia: dal berlusconismo al leghismo. Anche adesso, di fronte a certe comiche mistificazioni, qualche maestro del liberalismo servirebbe ancora. Sono tanti i finti liberali – e i loro cantori di corte – a cui far indossare un bel cappello d’asino.

 

Saro Freni
09 ottobre 2021

Una carrellata di 650 pagine e 350 anni; dai tempi del cardinal Richelieu, definito come padre della moderna idea di stato, a quasi il 2000. Una storia che diventa rapidamente cronaca dei nostri tempi.

Un libro più da studiare che semplicemente da leggere, ricco di considerazioni, analisi e riflessioni e dove sono evidenti le continuità e preoccupazioni dei singoli stati ognuno condizionato in modo inestricabile dalla propria storia, dalla propria geografia e dalla propria “cultura” di fondo che ne hanno forgiato caratteri e comportamenti che si ripetono nei tempi. Sembra quasi che ogni stato sia una persona le cui azioni nel tempo siano quasi prevedibili o comunque non sorprendenti. È interessante quanta importanza viene data alle situazioni e alla potenza oggettiva dei singoli stati che in termini di economia, popolazione e territorio ne condizionano i comportamenti quasi fossero spinti da leggi fisiche.

La politica estera dell’Inghilterra, condizionata dalla preoccupazione di un’Europa dominata da un solo paese nel qual caso essa sarebbe stata una semplice appendice di un impero continentale, è stata di conseguenza quella di uno “splendido isolamento” dal quale uscire solo per mantenere in Europa – Russia compresa – un costante equilibrio intervenendo a sostegno del più debole ogni qualvolta questo equilibrio veniva rotto.

La politica della Francia condizionata invece dalla preoccupazione di una possibile formazione di una potenza ad est del suo territorio e quindi interessata a che nel centro dell’Europa ci fosse una vuoto di potere dove poter anche spostare i suoi confini orientali. Qui, a proposito della Francia, Kissinger riserva non poco spazio e ammirazione per il cardinal Richelieu, “inventore” della “ragion di stato”- poi chiamata “realpolitik” – che, pur di evitare la supremazia in Europa della casa d’Asburgo che con i suoi possedimenti avrebbe circondato la Francia, non esitò, contro la cattolica Austria, ad allearsi con gli stati protestanti e con l’impero ottomano tanto che, come viene riportato, Urbano VIII dirà alla sua morte “se Dio esiste, il cardinal Richelieu dovrà rispondere di molte cose”. Si sottolinea come proprio con Richelieu e poi con la guerra dei trent’anni e il trattato di Westfalia si superò la visione di un mondo che tra papato e impero si rifaceva a principi etici e religiosi per passare a un mondo dominato dalla cinica ragion di stato che giustifica qualunque mezzo sia necessario al fine dell’interesse del proprio paese e per la quale gli stati non debbono fare ciò che è giusto ma ciò che è necessario portando nell’insieme a un equilibrio generale. Fu con la guerra dei trent’anni che a oggettivo beneficio della Francia, nel centro dell’Europa, con i territori germanici che avevano perso un terzo della popolazione, si creò un vuoto di potere costituito da oltre trecento piccoli stati che agivano ognuno con una propria politica estera.

Fu poi Bismark a riempire quel vuoto al centro dell’Europa unificando la Germania nella seconda metà dell’ottocento e facendo in un certo senso rimpiangere, di fronte alle tragedie delle due guerre mondiali, il tempo dei trecento stati indipendenti, deboli e necessariamente innocui. E qui viene alla mente la frase di Andreotti che evidentemente memore della storia, quando Kohl riunificò la Germania Federale con quella dell’est disse “amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. Con ciò non volendo addossare le cause delle due guerre alla sola Germania. Bismark riunificò la Germania essenzialmente come ampliamento della Prussia seguendo tra l’altro una politica estera di accordi, alleanze e trattati di assicurazioni e controssicurazioni talmente complicati che un suo successore lo paragonò a un prestigiatore. Alleanze e trattati che, a differenza della strategia inglese, tendevano a mantenere l’equilibrio prevenendo invece che intervenendo successivamente alla sua rottura.

Insieme con Bismark si parla ampiamente di Napoleone III, presentato come persona alquanto pasticciona e che “rese possibile l’unificazione dell’Italia e della Germania che indebolirono geopoliticamente il suo paese e minarono la base storica della prevalente influenza francese in Europa centrale”. Trattando di Bismark e Napoleone III – che si detestavano l’un l’altro – si parla del come e delle diverse ragioni per cui entrambi contribuirono a distruggere il sistema realizzato da Metternich con gli accordi di Vienna

Si parla della politica estera della Russia, paese bifronte, europeo e insieme asiatico, caratterizzata dalla costante ricerca della sicurezza dei propri confini, cercata essenzialmente nella loro continua espansione sia ad est che ad ovest con ampliamento del proprio territorio e il sorgere dei problemi che conseguono all’inglobamento di popoli ed etnie diverse. Una Russia che ha sempre sentito la “missione” della protezione dei popoli slavi con particolare tendenza a inserirsi nei Balcani e a spingersi verso il Mediterraneo attraverso i Dardanelli.

L’immagine che si fa degli Stati Uniti è di un misto e contraddizione di idealismo missionario, manicheismo, latente tendenza all’isolazionismo e al rifiuto del compromesso e del metodo dell’equilibrio delle forze che per secoli sono stati la regola della diplomazia europea. Intervenendo contemporaneamente e quasi ovunque nel mondo dopo la seconda guerra mondiale persegue una politica di “contenimento” del mondo comunista ad evitarne l’espansione e con la “missione” di esportare la democrazia ovunque, anche in paesi dove l’assenza di qualsiasi precedente traccia ne rendeva impossibile “l’importazione”.

L’immagine della Cina è invece quella di un grande paese di trimillenaria civiltà, in fase di forte crescita ma sempre diffidente e reattivo ai tentativi di essere influenzato da parte dell’occidente memore delle umiliazioni delle guerre dell’oppio subite a suo tempo da parte dei paesi occidentali.

A partire dagli albori dell’Europa moderna visti col trattato di Westfalia il libro, necessariamente un po’ “americanocentrico”, si dipana fino a quasi i nostri giorni con minuziosa descrizione della politica estera, dei suoi personaggi e dell’azione delle diplomazia. Si passa per la maldestra crisi di Suez che certificò con l’intervento dell’America la fine delle potenze Inglese e francese, per la guerra di Corea, la tragedia del Vietnam, la lunga guerra fredda, la politica di contenimento del mondo comunista, l’equilibrio dovuto alla paura delle armi nucleari, la crisi di Berlino, le rivolte nei paesi europei satelliti della Russa, il disfacimento dell’impero sovietico e la fine della guerra fredda.

Noi europei, e forse in particolare l’Italia dovremmo renderci conto che se viviamo in pace ormai da 76 anni non è un caso o un miracolo ma il risultato di equilibri di forze e di una diplomazia continua che senza la presenza di queste forze sarebbe stata del tutto inane. Dovremmo renderci conto che queste forze che hanno permesso alla diplomazia di fare il suo lavoro erano forze essenzialmente – o quasi solo – americane. Ora che l’America non è più come un tempo quasi la padrona del mondo, che altre potenze grandi e medie sono sorte anche ai nostri confini europei, che le spinte geopolitiche, a prescindere dai presidenti che ha e avrà, stanno facendo rivolgere l’America (anche) altrove distogliendo la sua attenzione dall’Europa, dovremmo con una certa urgenza capire che non è più tempo di essere imbelli e vivere in una sicurezza garantita da una copertura americana che non durerà per sempre e forse nemmeno per molto.
Pacifici sì ma anche armati. Non denti per azzannare ma muscoli per essere forti e sostenere una diplomazia atta a mantenere ordine e pace: non sembra che ai confini dell’Europa e nel Mediterraneo di pace se ne prospetti molta. E i confini non sono impermeabili.

 

L’arte della diplomazia di Henry Kissinger – Sperling Paperback – pagine 698 – € 19

 

Guido Di Massimo
17 agosto 2021

Viviamo – dice Anne Applebaum – un momento di trasformazione delle nostre società, una fase di transizione che potrebbe condurci ad esiti oggi imprevedibili. In questo saggio da poco disponibile in italiano – Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo (Mondadori, 2021) – l’autrice si interroga sui motivi di un fenomeno insidioso: il declino dei valori della società aperta, la perdita di fiducia verso la democrazia liberale. Sarà forse un tramonto lungo, non necessariamente bello da vedere. Potrebbe anche portare (e in alcuni paesi è già stato così) alla cupa notte dell’autoritarismo o della democratura, ma potrebbe anche preludere a una nuova alba, a una reazione contro queste minacce e alla rinascita morale e civile fondata sui principi della libertà politica.
Il saggio contiene numerosi riferimenti autobiografici. Inizia con una festa, un party di capodanno a base di musica e allegria, stufato di manzo e barbabietole arrosto; un ricevimento informale, tra amici, come tanti altri se ne tennero nel mondo in quel 31 dicembre 1999. Era un periodo di entusiasmi, forse eccessivi, e di grande ottimismo, forse immotivato. Gli invitati si consideravano tutti liberali. “Liberali del libero mercato, liberali classici, magari thatcheriani. Anche coloro che in campo economico avevano posizioni meno definite credevano nella democrazia, nello Stato di diritto, nei meccanismi di controlli ed equilibri, e in una Polonia membro della NATO e sulla via di aderire all’Unione Europea, una Polonia parte integrante dell’Europa moderna. Negli anni Novanta era questo che significava essere ‘di destra’.”
Pur nelle ovvie differenze interne, il mondo che potremmo chiamare liberale o liberalconservatore – nel quale si riconosce l’autrice – condivideva alcuni principi basilari. Poi molta acqua è passata sotto i ponti, il mondo è cambiato, e con esso gli orientamenti generali dell’opinione pubblica. Si è diffuso e consolidato un punto di vista critico verso gli ideali liberali, considerati nel loro senso più ampio. E ciò ha prodotto una spaccatura nel mondo conservatore, cioè nel mondo della Applebaum. Due decenni dopo, sembra tutto diverso. “Circa metà degli invitati alla festa non parlerebbe più con l’altra metà. E per motivi politici, non personali. La Polonia è ormai una delle società più polarizzate d’Europa, e abbiamo finito per trovarci sui lati opposti di una profonda linea di divisione, che attraversa non solo quella che era la destra polacca, ma anche la vecchia destra ungherese, la destra spagnola, la destra francese, la destra italiana e, con qualche differenza, anche la destra britannica e la destra americana.”
L’autrice racconta l’evoluzione di questi ultimi anni, che spesso paragona agli anni della Trahison des clercs, di quel tradimento dei chierici raccontato da Julien Benda frutto del compromesso morale e della pavidità intellettuale, ma anche della convenienza, della faziosità, dell’avventurismo di quei cattivi e talvolta pessimi maestri che credevano di possedere delle idee senza capire che ne è erano posseduti. E così molti intellettuali di oggi si sono ridotti a fare i burattini dei dittatori o degli aspiranti dittatori: chi per senso di rivalsa, per rancore o per megalomania, chi per interesse e arrivismo, per appagare l’aspirazione ad essere cooptato nella nuova oligarchia, nella cerchia di quelli che contano. “Se si è convinti di meritare il potere, la motivazione per attaccare l’élite, controllare il sistema giudiziario e manipolare la stampa per soddisfare le proprie ambizioni è forte. Il risentimento, l’invidia e soprattutto la convinzione che il ‘sistema’ sia ingiusto, non solo nei confronti del paese, ma di se stessi, sono sentimenti che svolgono un ruolo importante fra gli stessi ideologi nativisti della destra polacca, tanto che distinguere le loro motivazioni personali da quelle politiche non è facile.” Improvvise – anche se forse covate negli anni – sono fiorite le conversioni, le giravolte, i revirement, anche da parte di personaggi insospettabili. Anne Applebaum racconta la delusione nel constatare che alcune sue vecchie frequentazioni avevano nel frattempo cambiato bandiera, dopo aver ammainato quella del liberalismo.
L’autrice si sofferma anche sulla natura di questo pensiero illiberale, sul suo fascino, sulle ragioni del suo successo: rifiuto della complessità, ostilità verso il dissenso, ricerca di un’armonia priva di fratture e divisioni in una comunità nazionale vissuta come organica, ossessione verso il nemico, interno o esterno che sia. C’è poi la grande suggestione della cospirazione, sempre in voga in questo genere di costruzioni ideologiche. “La presa emotiva di una teoria del complotto è dovuta alla sua semplicità. Essa spiega fenomeni complessi, rende conto del caso e di accidenti, offre al credente la gratificante sensazione di avere un accesso speciale e privilegiato alla verità. Per coloro che divengono i guardiani dello Stato a partito unico, la ripetizione di tali teorie del complotto offre anche un’altra ricompensa: il potere.” Queste teorie – diciamo pure: queste farneticazioni – hanno trovato, a giudizio dell’autrice, un nuovo veicolo nei mutamenti della tecnologia, che hanno cambiato il modo di informarsi e costruirsi un’opinione. Si dice spesso: fake news, ecco il problema. Ma le fake news ci sono sempre state, anche quando ci limitavamo a chiamarle mistificazioni, bugie, disinformazione; in una parola: balle. Ma adesso sembra sparita quella convenzione per cui – all’interno di un universo pluralistico di valori – si convergeva almeno su alcuni elementari dati di realtà. Come spiega molto bene la Applebaum, “i vecchi giornali e le vecchie emittenti creavano la possibilità di un dialogo nazionale unitario. In molte democrazie avanzate, oggi, un dibattito comune non esiste, e tanto meno una narrazione comune. Le persone hanno sempre avuto opinioni diverse. Oggi hanno fatti diversi.”
Anne Applebaum invita all’ottimismo, dice di credere nelle nuove generazioni, soprattutto a quelle che si avvicinano adesso alla politica e all’impegno civile. Descrive una nuova festa, tenutasi vent’anni dopo, e la mente corre a un romanzo di Dumas. Ma qui i protagonisti non sono moschettieri incanutiti e astuti cardinali, bensì i reduci della vecchia festa, gli amici rimasti tali, più i molti altri che vi si sono aggiunti, figli compresi. “Insieme possiamo far sì che parole vecchie e fraintese come liberalismo tornino a significare qualcosa”.
Il libro si conclude con un omaggio e con una speranza. L’omaggio è rivolto a Ignazio Silone, uno dei nostri maggiori scrittori, mente lucida e consapevole, simbolo della cultura terzaforzista, nemico dei totalitarismi di ogni colore. La speranza è che le sue parole possano servire ancora da ammonimento. Gli avversari di oggi, come quelli di allora, sono i fanatici, gli estremisti, gli sfascisti, i mestatori del tanto peggio tanto meglio; ma anche i tiepidi, i rassegnati, gli equilibristi, i cinici, i sostenitori di false equivalenze morali tra la libertà e la sua negazione.

 

Saro Freni
02/08/2021

 

Per un liberale sognare di mettere all’indice un libro è assurdo. Eppure è questa l’insana voglia che mi è venuta leggendo questo libro. Forse perché un contrasto razionale a quello che afferma non è facile. Non ho mai letto un libro più radicalmente e assolutamente materialista di questo.
Me lo consigliò anni fa uno psicologo italo-argentino con il quale ebbi una interessante conversazione, una di quelle conversazioni in treno che rimangono in genere senza seguito. Tra le altre cose si parlò della libertà dell’uomo e lui affermava che non esisteva. Ero d’accordo sul forte condizionamento che ha l’uomo, ma ovviamente non ero d’accordo sulla radicalità della sua posizione, ma prima di lasciarci gli chiesi un libro che parlasse delle sue tesi. Me lo consigliò e lo lessi anni fa; forse non come l’ho riletto ultimamente.
È sconcertante.
L’autore considera che se nel campo della scienza l’evoluzione dai tempi della Grecia è stata enorme al punto che nessuno ora ricorrerebbe alle conoscenze di allora se non per curiosità storica, nel campo della conoscenza umana siamo ancora dove eravamo. Uno scienziato di allora non capirebbe nulla della scienza moderna mentre un filosofo di quei tempi si troverebbe perfettamente a suo agio anche in questi tempi. E la ragione sta nel fatto che nei tempi antichi dietro o dentro ogni cosa, essere o fenomeno si vedeva un dio o un demone o uno spirito che la muoveva o animava, e la scienza cominciò a progredire quando si cominciò a studiarla rinunciando a vedere e cercare nelle cose demoni o dei. Ma questo non è avvenuto per l’uomo: nell’uomo esterno si va ancora in cerca di un uomo interno, di un ego o un super ego o in id che lo muove ed anima. E finché si va a caccia di quest’uomo interno non si approderà mai nulla. Per capire e conoscere l’uomo è necessario considerarne il comportamento in relazione all’ambiente naturale e sociale nel quale si è evoluto e che lo ha quindi formato dotandolo di tutto ciò che ha ed è. Darwin non vale solo per gli organismi ma anche per quello che noi erroneamente chiamiamo mente e che non esiste come entità a sé stante. È l’ambiente che punisce e premia, e quindi educa e forma: la natura punisce chi fa un salto senza guardare prima dove andrà a mettere i piedi, così come punisce chi mette le mani nei rovi spinosi senza cautela.
Finora il comportamento dell’uomo è stato visto come segno e conseguenza dei suoi sentimenti, “il mondo della mente ha rubato la scena, il comportamento non viene studiato come fatto a se stante” e le variabili che lo determinano sono state trascurate. Questo perché è difficile individuare l’influenza dell’ambiente esterno sull’uomo: questa influenza è continua e incessante ma lenta e invisibile. Diciamo che l’uomo è autonomo e indipendente solo perché non sapremmo spiegare altrimenti i suoi comportamenti. L’esistenza di questo tipo di uomo dipende dalla nostra ignoranza, ma egli perde via via il suo status di uomo autonomo e indipendente man mano che si conoscono le cause del suo comportamento. E man mano che la scienza progredisce si ha un trasferimento dei “meriti” e delle “colpe” dall’uomo all’ambiente nel quale si è sviluppato e vive. Scopo dell’analisi scientifica è di capire come la condotta di una persona sia legata alle condizioni sotto cui la specie umana si è evoluta e le condizioni sotto cui si è sviluppata la sua vita individuale.
L’ambiente esterno è stato sempre visto come oggetto di modifica da parte dell’uomo ma non come influente sul suo comportamento. E se il comportamento dell’uomo dipende dall’ambiente esterno, se vogliamo modificare l’uomo dobbiamo modificare l’ambiente nel quale si sviluppa e vive. E a questo punto sorge il problema del chi dovrebbe cambiare l’uomo, del perché e a quale fine. E quindi il problema dei valori. Cosa sono e come nascono? Come dovrebbe essere modificato “l’uomo”? Che dovrebbe però essere modificato non per avere un uomo “buono” ma per avere un uomo che si comporti bene.
E cosa sono i valori? Il bene e il male, e i loro corrispondenti, il giusto e l’ingiusto, il corretto e l’errato, il leale e l’illegale, il peccaminoso e il virtuoso sono così caratterizzati dalle conseguenze della cosa o del fatto; dal se essi nel tempo hanno corroborato (rinforzato) o danneggiato l’uomo.
E chi cerca e combatte per la libertà semplicemente combatte i limiti e i controlli intenzionali della libertà degli uomini, ma l’uomo è sempre controllato da qualcosa che gli è esterno. Eliminare un tipo di controllo significa semplicemente lasciare spazio a un altro.
Sembra che la conclusione di queste tesi sia la morte dell’uomo così come noi lo intendiamo. Dal “conosci te stesso” rivolto al singolo uomo si è passati al conosci l’uomo come specie evoluta dalla notte dei tempi, al conoscerlo senza più misteri, al sezionarlo e trattarlo come i bambini trattano i giocattoli che si muovono per vedere cosa c’è dentro distruggendoli.
La conclusione sembra sia il determinismo assoluto. Ma è un libro da leggere e dal quale c’è molto da imparare e molto su cui riflettere. Anche rifiutandolo e sognando di metterlo all’indice.

Guido Di Massimo
02/03/2021

 

Beyond Freedom & Dignity di B. F. Skinner (Hackett Publishing Company – € 24)

Una buona informazione è fondamentale per una buona democrazia: senza l’una, l’altra non può prosperare. In questo recente volumetto – I diritti dei lettori. Una proposta liberale per l’informazione in catene (Biblion Edizioni, 2020) – Enzo Marzo affronta questo inscindibile legame, riprendendo e aggiornando alcune sue precedenti riflessioni. Leggendo il libro – così come il più vecchio Le voci del padrone. Saggio sul liberalismo applicato alla servitù dei media – si capisce che padroni e catene esistono anche perché molti giornalisti trovano utile mettersi al servizio e farsi incatenare. A giudizio dell’autore, un serio rinnovamento della nostra vita nazionale “non potrà realizzarsi senza una vera resa dei conti, senza una riflessione critica di quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni, quando la gran parte della classe dirigente (non solo quella politica) ha immiserito il Paese, ha violato, addirittura irriso, le regole dello Stato di diritto, ha svuotato le istituzioni e ha fatto dilagare corruzione, evasione fiscale, egoismi. Ha inoltre depenalizzato ogni mascalzonata ed eliminato ogni sanzione effettiva, non solo in termini giuridici, ma, ciò che è più grave, nel giudizio morale e politico degli individui.” Enzo Marzo non sposa l’idea di un giornalismo notarile, fintamente neutrale. Pensa piuttosto ad un giornalismo indipendente, animato da forti idealità e da una rigorosa etica professionale. Propone uno statuto dei lettori, che ne metta al centro i legittimi interessi ad un’informazione non manipolata.
Il libro aiuta a ragionare su alcune significative questioni generali che riguardano il rapporto fra il cittadino e il potere. Vi sono infatti numerosi problemi strutturali che ostacolano la nascita di un sistema informativo valido e credibile: la vicinanza con il potere politico e talvolta la vera e propria identificazione di alcuni mezzi d’informazione con interessi di partito o di fazione; il ruolo giocato dal monopolio della Rai e poi dal duopolio tra questa e Mediaset, quella spartizione del mercato televisivo che ha consolidato gli equilibri creatisi negli anni ottanta a dispetto delle regole della concorrenza e del mercato; l’anomalia costituita dal conflitto d’interessi berlusconiano, che ha inquinato per anni la vita pubblica senza mai giungere ad una soluzione accettabile; il lungo e pervasivo condizionamento dei principali gruppi industriali italiani – pubblici e privati – su giornali che si rivolgono a una platea di lettori sempre più striminzita. A questi elementi di fondo bisogna aggiungere i problemi legati al costume civile del nostro Paese, su cui si è sedimentato un antico retaggio di servilismo e cortigianeria, conformismo di massa e ossequio verso quelli che Ernesto Rossi chiamava i padroni del vapore. Su questi tratti del nostro carattere nazionale hanno pesato e pesano anche i limiti delle nostre élite, incapaci di assumere la direzione politica del Paese fungendo da esempio e da guida, e propense invece ad assecondare gli umori peggiori e le facili demagogie mescolando cinico paternalismo, populismo plebiscitario, massimalismi di ogni sorta e astuzie curiali, nel quadro del vecchio e collaudato sovversivismo delle classi dirigenti.
Questi fattori hanno impedito – o comunque reso molto difficile – la nascita di un’opinione pubblica attenta ed esigente. “Se le masse non hanno strumenti corretti e plurimi” – scrive Marzo – “per farsi un’idea appropriata dell’agenda politica, sarà sempre più illusoria la loro trasformazione in ‘società civile’ in grado di svolgere costantemente una verifica e una valutazione dell’operato del governo e delle forze politiche che si candidano alla sua sostituzione.” Non è stato sufficiente il lavoro encomiabile di quei giornalisti che – spesso pagandone grossi prezzi – hanno dato e danno ripetute prove di autonomia e coraggio. E tuttavia le trasformazioni tecnologiche – che consentono oggi la proliferazione di nuove voci attraverso internet – aprono uno scenario molto interessante, che va guardato con grande attenzione. Esiste il rischio della cacofonia, della dispersione, dell’improvvisazione; ma anche una notevole opportunità di arricchimento culturale, fondato sulla più ampia pluralità di idee e punti di vista.
Hegel diceva che la lettura del giornale è la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Di questa preghiera oggi molti fanno a meno, rivolgendosi altrove per ottenere notizie e commenti. Fanno bene, se questa scelta nasce dalla considerazione dei limiti dell’informazione tradizionale; fanno male, se pensano di poter trovare di meglio nella cosiddetta informazione televisiva, fatta molto spesso – al netto delle ovvie eccezioni – di urla, liti, risse da comari, slogan, propaganda, sensazionalismo, superficialità, servi sciocchi, conduttori compiacenti e fenomeni da baraccone. È molto più istruttivo – per comprendere il mondo che ci circonda – leggere un libro come quello di Enzo Marzo. Non prenderà il posto della preghiera del mattino, come la lettura del quotidiano; ma potrà costituire un ottimo e laicissimo breviario per sostituire quella della sera.

 

Saro Freni
15 febbraio 2021