Smettiamola di chiamarci liberali”. Comincia con un paradosso questa nuova conversazione con il liberale qualunque Franco Chiarenza. L’animatore di un blog che porta la parola liberale nel titolo spiega che essere liberali è una questione di approccio ai problemi, non di ideologia o di appartenenze. La priorità dei nostri tempi non è quella di sventolare bandiere o di costruire steccati. È piuttosto quella di declinare un certo metodo alla luce dei problemi della contemporaneità – anche attraverso i mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione – senza dare troppa importanza ai nominalismi e alle etichette. Quello che stiamo vivendo è un periodo di grandi cambiamenti, da molti punti di vista. E chi vuole proporre idee liberali dovrebbe essere in grado di interpretare questo mondo in trasformazione. “Siamo in un periodo di transizione. C’è la rete, ma ci sono ancora i sistemi tradizionali di informazione. È, insomma, una realtà in movimento. Mi piacerebbe che quelli che dicono di essere liberali si inserissero in questo movimento e cercassero di proporre degli strumenti nuovi invece di starsene alla finestra a brontolare. La cultura del brontolio non dovrebbe essere la cultura dei liberali.”

Tu sei un liberale storico che però è sempre interessato alle novità, sia sul piano politico che su quello della comunicazione. Si dice spesso: il liberalismo è più un metodo che un’ideologia. Che cosa suggerisce il metodo liberale, per dare una risposta ai problemi di oggi?

Inizierei con un paradosso: smettiamola di chiamarci liberali. Non ne posso più di quelli che dicono di essere liberali e poi però sono tutt’altra cosa. Il liberalismo è una concezione della società che vede al centro l’individuo, con le sue libertà e le sue possibilità di scelta: questa concezione è oggi accettata, almeno in linea di principio, dalla stragrande maggioranza delle persone. Il problema non è inventarsi delle ricette liberali, che poi non esistono. Anzi, il liberalismo è tale perché non ha ricette predefinite da proporre. Come tu dicevi – e come io sostengo da tempo – il liberalismo è un metodo: un metodo con il quale si affrontano i problemi politici. È un metodo caratterizzato dalla massima flessibilità e dalla massima tolleranza nei confronti delle opinioni diverse. È basato sul confronto, ma ha alcuni valori non negoziabili: la salvaguardia dei diritti individuali e dello stato di diritto.

Quali sono oggi le priorità a cui bisogna far fronte?

I nuovi problemi sono l’ecologia, il clima, la sanità, le migrazioni, le disuguaglianze che spingono milioni di persone a muoversi da un continente all’altro; una globalizzazione che rischia, se non è governata, di divorare se stessa. Questi problemi non si possono affrontare con le vecchie etichette ottocentesche: né quella del liberalismo, né quella del socialismo, né tantomeno quella delle tradizioni cristiane. In questi nuovi grandi scenari i paesi liberaldemocratici devono confrontarsi necessariamente anche con quelli che non lo sono. È finito il tempo della colonizzazione culturale, per cui noi occidentali eravamo in grado di imporre i confini entro i quali il dialogo era possibile. Oggi non è più così. Ma questa è una buona ragione per rinsaldare la nostra alleanza, per metterla in grado di dialogare meglio con quelli che ne sono fuori. Il dialogo è la chiave che i liberali devono usare per cercare delle soluzioni condivise.

Che ruolo possono avere gli Stati Uniti all’interno di questi scenari?

La vittoria di Biden ha significato questo: non arrendersi a una deriva nella quale ognuno finisce per chiudersi dentro le proprie mura, convinto che gli altri siano più deboli e abbiano tutto da perdere (questa era invece la filosofia di Trump). Oggi i problemi sono tali che nessun paese da solo può risolverli, e quindi bisogna convincere gli altri. Draghi ha detto delle cose molto belle al G20, proprio in questa chiave: non aspettiamoci che da questi vertici escano soluzioni miracolose; deve piuttosto emergere un metodo, il metodo del confronto. Anche in questa circostanza Draghi ha dato la dimostrazione di essere un leader a livello mondiale, come probabilmente il nostro paese non vedeva da tempo.

La rete ha cambiato il modo di fare politica. Come si può utilizzarla nel modo migliore per rendere il dibattito pubblico più partecipato e approfondito?

Spesso le persone della mia generazione tendono a sottovalutare la rete, o peggio a disprezzarla. Naturalmente è vero che attraverso la rete circola un mare di banalità, fake news, cialtronerie, faziosità, e commettiamo il classico errore di darne la colpa allo strumento come si faceva in passato anche con la televisione. Ma le cialtronerie ci sono sempre state anche se non riuscivano a diffondersi con la facilità oggi consentita dalla rete. Aver aperto la pentola di quella che era la grande massa muta di chi non aveva la possibilità di esprimere – anche rozzamente – i propri sentimenti e il proprio modo di pensare non è un problema. Anzi, è stato un fatto positivo, perché adesso sappiamo di dover fare i conti con questa realtà che in passato non preoccupava perchè era costretta a contenersi nei limiti imposti da tanti strumenti di mediazione e di filtraggio che oggi non ci sono più. Quindi non bisogna criminalizzare la rete. Bisogna invece adottare un atteggiamento propositivo.

In che modo?

È necessario ricostruire tramite internet degli strumenti che servano da affidabili punti di riferimento. Quel rapporto di fiducia che una volta legava i cittadini alla rappresentanza attraverso i partiti, i sindacati, la stampa, la radio, va riformulato all’interno della rete attraverso processi che sono ancora in fase di definizione ma che già si cominciano a intravedere. Il liberalismo non ha nulla da perdere nella ricerca di nuovi luoghi di confronto (anche digitali), dove si discuta delle cose, dei problemi, cercando di individuarli per suggerire delle soluzioni in chiave liberale. Non serve oggi elaborare nuove teorie di aggiornamento del liberalismo, compito peraltro che le università umanistiche svolgono perfettamente, svolgendo in tal modo una funzione preziosa per le èlites intellettuali. Il problema è trasmettere dalle élites ai grandi movimenti di massa sentimenti, emozioni, metodi di confronto, senso di responsabilità che sono indispensabili in una democrazia moderna. Io credo che su questo sia necessario fare una profonda riflessione. L’Italia può essere un buon laboratorio di sperimentazione, da questo punto di vista.

Perché proprio l’Italia?

Perché gli altri paesi europei – e anche non europei – hanno delle strutture politiche funzionanti e meccanismi di trasmissione tra ceti sociali che da noi non esistono più. Per questo, paradossalmente, siamo il luogo ideale – tra le democrazie avanzate – dove è possibile sperimentare modi nuovi di governare, anche utilizzando in maniera positiva le opportunità offerte dalla rete. La rete deve essere interpretata come uno strumento flessibile, aperto e coinvolgente, in grado di allargare le maglie del dibattito pubblico. Oggi, al contrario, i social portano spesso all’atomizzazione, per cui ad esempio il militante di un partito guarda solo contenuti riferibili alla propria parte politica. Sembra di essere tornati ai tempi lontani quando i comunisti leggevano soltanto l’Unità e ogni partito chiudeva i recinti delle rispettive basi elettorali per impedire che il confronto uscisse dai corridoi impenetrabili dove i vertici gestivano i necessari compromessi. Io credo che la potenzialità della rete sia quella del confronto aperto e senza pregiudizi. Se non riesce ad essere questo, si ritorna alle contrapposizioni frontali in cui maturavano gli estremismi fondamentalisti.

C’è spesso l’impressione che i partiti siano oggi semplicemente la proiezione delle ambizioni dei loro leader: tra l’altro, quasi sempre, personalità molto modeste quando non palesemente inadeguate. Non c’è un dibattito interno, non si confrontano orientamenti generali o progetti contrapposti. C’è un declino delle classi dirigenti oppure è un problema connesso con i nuovi metodi di selezione del personale politico?

È cambiato tutto con la seconda repubblica. I partiti della prima repubblica, con tutti i loro difetti, garantivano una certa selezione. Sono stati sostituiti da leadership personali spesso impersonate da dilettanti. Berlusconi per esempio è un dilettante della politica perché è arrivato al governo senza aver fatto nessuna delle esperienze di governo (enti locali, partiti, parlamento) che dovrebbe fare chi vuole dedicarsi agli affari pubblici. Molto spesso anche altrove i leader populisti sono dei dilettanti della politica; valga per tutti l’esempio di Trump. Il populismo infatti si nutre dell’anti-politica, cioè di un sentimento di sfiducia nei confronti dei decisori politici, qualunque sia il loro colore. L’esperienza politica in tale contesto diventa un dis-valore.

Esiste un sistema per rinnovare la forma partito in modo tale da avere una classe dirigente all’altezza delle necessità del paese?

Si parla spesso di modello tedesco. Ma io penso che la situazione in Italia sia molto diversa. I partiti tedeschi – non da oggi – dispongono di valide strutture per formare la loro classe dirigente. Lì sarebbe impossibile un fenomeno dilettantesco come quello dei Cinque Stelle i quali del proprio dilettantismo hanno menato vanto, in contrapposizione alle degenerazioni del professionismo politico da loro definito “casta. E certamente la casta non va bene. Ma una classe dirigente ben formata è indispensabile per il buon funzionamento di una democrazia. Dove, come in Germania o in Inghilterra, ci sono partiti solidi, con una classe dirigente formata in maniera adeguata, c’è anche la legittimazione reciproca tra idee diverse, che noi ignoriamo. In questi ultimi vertici internazionali, la Merkel è andata assieme a quello che probabilmente sarà il prossimo cancelliere, che non è neanche del suo partito: è un segno di continuità istituzionale. Te la immagini una cosa simile da noi?
Non è un caso che nei momenti di crisi, quando si tratta di mettere i piedi in terra e risolvere problemi concreti, la maggioranza silenziosa del nostro Paese si rivolga a figure affidabili e prestigiose, talvolta travestite da tecnici, in grado di aggirare le fragilità strutturali dei partiti: l’ha fatto con Ciampi, poi con Monti, oggi con Draghi. Governatori di banche centrali o rettori di università che diventano capi del governo per investitura sovrana (anche quando il sovrano è la pubblica opinione) e vengano acclamati da parti politiche fino al giorno prima ferocemente contrapposte non ne conosco né in Francia, né in Germania, né in Gran Bretagna. Ma l’Italia è la patria della commedia dell’arte dove le parti si scambiano e gli spettatori non se ne scandalizzano.

 

Intervista a cura di Saro Freni

Il sistema partitico è in crisi. Se si devono fare delle riforme istituzionali, occorre farle adesso. Ma è necessario anche organizzare un’offerta politica per chi non si riconosce né in questa destra né in questa sinistra.

Su internet è Il Liberale Qualunque, che è il nome del suo blog di analisi e commenti. Nella vita reale (ma anche internet ormai è vita reale) è Franco Chiarenza, classe 1934: un passato da giornalista Rai e docente di storia della comunicazione, un presente da acuto osservatore della realtà italiana e non solo. Lo abbiamo intervistato per I Liberali.

Come vede un “liberale qualunque” l’Italia del 2021?

Questa è l’Italia all’insegna di Draghi: lo è stata in questi ultimi mesi del 2021 e lo sarà presumibilmente per tutto il 2022. Ma il discorso va oltre la sua persona, che imprevedibilmente continua a riscuotere la fiducia della maggior parte degli italiani. Il problema è istituzionale: le istituzioni repubblicane, per come sono arrivate fino ad oggi, non sono adeguate a governare delle realtà complesse e difficili come quelle che ci troviamo di fronte adesso e ancor più domani. Questo, secondo me, è il nodo che si deve in qualche modo sciogliere; anche per evitare che venga risolto in modo traumatico dagli eventi.

Cioè, bisogna affrettarsi a fare le riforme istituzionali prima che sia troppo tardi?

Ho letto una cosa che ha scritto Enrico Cisnetto e che condivido. Se si devono fare delle riforme istituzionali – senza le quali non si riesce a sbloccare la situazione – occorre farle adesso. Non bisogna aspettare che si crei una situazione di ingovernabilità. Quando si cambiano le strutture istituzionali, cambia tutto, anche il modo di votare della gente. Non è vero che la cosiddetta ingegneria istituzionale non serve a nulla. Ne abbiamo la dimostrazione se pensiamo a come è cambiato il governo degli enti locali dopo che è stata introdotta l’elezione diretta del sindaco.

A tuo avviso il governo Draghi è una parentesi oppure può essere l’inizio di una nuova fase della nostra vita politica?

Penso che nulla dopo Draghi sarà come prima, proprio perché è stata messa in luce la fragilità del sistema partitico. Il problema è esattamente quello della riforma istituzionale, a cominciare dai poteri del capo dello Stato. È vero che i poteri presidenziali sono come una fisarmonica, tutto dipende da chi occupa il Quirinale, ma, come dice Ainis, anche la fisarmonica ha dei limiti oltre i quali non può andare. Per questo bisogna mettere mano a una vera riforma costituzionale che, insieme ad altre cose, ridisegni i poteri del presidente. Siamo di fronte ad una svolta importante.

Secondo molti commentatori, alle ultime elezioni amministrative ha vinto chi si è presentato come più ragionevole e moderato. Il messaggio è che il paese è stanco di inutili baruffe? È ancora vero, persino nell’era del populismo, che si vince al centro?

A mio giudizio, le amministrative vanno lette in un altro modo. Si conferma un dato, che non vale solo per il nostro paese: l’elettorato più consapevole e informato, quindi meno sensibile al richiamo del populismo, è concentrato nelle città grandi e medio-grandi. La forza del populismo, basato sugli slogan e sulle approssimazioni, viene da quell’immensa periferia che è costituita dai piccoli centri. Lo dimostra se non altro il fatto che la destra non riesce nelle grandi città nemmeno a trovare dei candidati credibili.

Dicevi che questo non vale solo per il nostro paese…

Sì, nel senso che anche in altri paesi europei c’è una spaccatura profonda tra l’elettorato delle grandi città e quello arroccato nelle piccole realtà locali. Vale anche per i paesi dell’Est. Non a caso, nelle grandi città polacche o ungheresi governano partiti che sono all’opposizione nel parlamento nazionale. Vale per Varsavia e vale per Budapest. Abbiamo avuto in questi giorni la sorpresa della vittoria dell’opposizione di centrodestra contro il governo sovranista della Repubblica Ceca: e già prima a Praga c’era un sindaco che era su posizioni diverse da quelle del governo centrale. C’è questa spaccatura profonda, che è soprattutto culturale ma si riflette anche nelle scelte politiche.

Tornando all’Italia, parlavi dei candidati poco credibili della destra. Da dove nasce questa inadeguatezza?

La debolezza della destra, da quando è venuta meno l’egemonia democristiana, è che riesce ad avere dei leader più o meno carismatici ma non una classe dirigente in grado di governare realmente il paese. La Lega fa eccezione, ma solo in parte: nel nord Italia – e quindi dove sicuramente è più forte l’asse Giorgetti-Zaia – ha un radicamento territoriale e un’esperienza di governo che ormai risale a decenni fa, e questo fa la differenza con Fratelli d’Italia. Nel centro sud è vero il contrario; il partito di Giorgia Meloni ha ereditato dall’esperienza dei quadri di Alleanza Nazionale una presenza articolata in grado di assorbire i sentimenti populisti man mano che emergono.

Perché allora hanno perso a Milano e in altri centri importanti?

Perché una parte dell’elettorato della Lega è disorientata e si è rifugiata nell’astensione. D’altronde all’interno della Lega si sta consumando una profonda spaccatura tra la vecchia Lega Nord, che ha imposto alla leadership di appoggiare il governo Draghi (se Salvini fosse stato libero di scegliere avrebbe preferito probabilmente attestarsi su una linea simile a quella della Meloni) e la nuova Lega nazionale rifondata nel 2020. C’è nella Lega una dialettica interna molto vivace che un unanimismo di facciata non riesce a nascondere. Non sappiamo come andrà a finire, ma non ha molta importanza. Se anche vincerà Salvini – che ha i numeri per prevalere – resterebbe comunque una contraddizione interna tra posizioni inconciliabili destinata prima o poi ad esplodere.

Vale anche per le alleanze europee del suo partito?

Sì. Salvini preferisce essere il primo in un’alleanza sovranista piuttosto che l’ultimo in un partito popolare europeo dove verrebbe emarginato, come a suo tempo lo è stato Orbán; la sua riluttanza ad accogliere la proposta di Giorgetti è quindi comprensibile, ma anche nel parlamento europeo quella parte della Lega di governo che oggi appoggia fortemente Draghi non può riconoscersi in una coalizione di sovranisti.

Le posizioni della cosiddetta Lega moderata resteranno in minoranza?

Giorgetti sperava che una Lega che si riportasse verso delle posizioni moderate potesse raccogliere l’eredità di Berlusconi, almeno per quanto riguarda il centrodestra. Salvini non ci vuole stare e anzi teme questa prospettiva, perché sa che non sarebbe lui l’uomo in grado di condurre la Lega in quella direzione. Salvini ha fiuto: se non ce l’avesse, non sarebbe lì. Lui è l’uomo del populismo, della Lega di lotta, non di governo. E quindi farà di tutto affinché il progetto di Giorgetti non prevalga.

Come si risolverà, a tuo avviso, il gioco del Quirinale? Ultimamente si è fatto anche il nome di Giuliano Amato. Non è la prima volta che si parla di Amato come presidente della Repubblica.

Oggi Giuliano Amato ha maggiori possibilità che in passato, quando il suo nome veniva inesorabilmente associato a quello di Craxi. La damnatio memoriae su Craxi, sancita da una parte importante dell’opinione pubblica, coinvolse anche lui: in politica, molto spesso, le impressioni e i falsi ricordi contano più della realtà. Oggi tutto questo non esiste più, e quindi Amato potrebbe anche farcela; sarebbe un’ottima soluzione perché si tratta di un uomo di grande intelligenza ed esperienza e il ticket con Draghi funzionerebbe molto bene.

Si è parlato anche del ministro Cartabia. Ha delle possibilità?

Secondo me, la Cartabia ha delle carte da giocare: anche perché è donna, e oggi questo conta. C’è poi l’ipotesi che Mattarella, sia pure all’ultimo momento, accetti una riconferma, con l’intenzione di dimettersi quando lo riterrà opportuno: sicuramente non prima del 2023, in modo da consentire a Draghi di completare il suo percorso.

In questo scenario, si andrebbe a elezioni alla scadenza della legislatura. E potrebbero anche formarsi le condizioni per un nuovo governo Draghi, sostenuto dal parlamento rinnovato. Ma la domanda è: può reggere una soluzione politica di questo tipo senza un partito di Draghi o comunque senza una coalizione di forze che chiaramente ed esplicitamente, durante la campagna elettorale, si richiamino all’agenda Draghi?

Il problema, come sempre, è quello del centro. Esiste una vasta fascia di elettorato che non si riconosce negli estremismi di Salvini e men che meno in quelli della Meloni e che d’altra parte diffida profondamente del Partito democratico. E ne diffida, in buona sostanza, perché è fallito il tentativo di Veltroni di costruire attraverso il Pd uno schieramento di centro-sinistra, e non di sinistra-centro. Il partito democratico americano – che era un po’ il suo riferimento – parte dal centro e arriva poi a comprendere tutte le frange di sinistra, ma nel senso che esse diventano complementari rispetto alla centralità del partito (centralità sociale, economica ecc.). Il partito democratico italiano non è riuscito ad essere questo. Ci ha provato con Renzi (e non a caso aveva raccolto il 40%). È andata a finire come tutti sappiamo e al fallimento del suo progetto ha contribuito lui stesso con atteggiamenti arroganti, personalismi, una presunzione smisurata. Ma non era sbagliata l’idea su cui si basava il suo progetto: trasformare un partito di sinistra aperto al centro in partito di centro che comprende la sinistra.

Come vedi il progetto di Enrico Letta?

Quando ha preso in mano il Pd, il primo problema che si è posto Letta non è stato quello di recuperare al centro, bensì un’identità forte di sinistra su cui poi il centro fatalmente – non avendo altre opzioni possibili – si sarebbe aggregato. Anche questo è stato un errore di calcolo gravissimo, perché c’è un elettorato di centro che non si riconosce nella politica un po’ sloganistica e un po’ demagogica di Letta e cerca uno spazio che nell’attuale composizione parlamentare non trova. E non trovandolo si rifugia nell’astensionismo andando ad aumentare l’esercito dei non votanti che ha ormai raggiunto e talvolta superato la metà dell’elettorato.

Però oggi il centro sembra piuttosto affollato. Più leader che voti?

Eh, sì. Da destra a sinistra è tutto un fiorire di gente che si auto-promuove per guidare una forza di centro. È un affollamento di partitini e movimenti che non superano l’1 o il 2 percento ciascuno. E che quindi non rappresentano mai una massa critica in grado di rappresentare davvero un momento di aggregazione che possa distinguersi rispetto alla destra e alla sinistra, che sia in grado di far propria la strategia di Draghi come punto di riferimento sia di contenuti che di metodo di governo. Di tutti questi, a me pare che il movimento di Calenda sia quello che ha le carte migliori da giocare.

Anche alla luce del risultato romano…

Ha avuto il coraggio di correre da solo nelle elezioni romane contro i collaudati apparati di destra e di sinistra ottenendo un risultato di tutto rispetto. È importante capire se Calenda riuscirà a creare delle aggregazioni in grado di renderlo un soggetto politico di dimensioni tali da essere determinante nel prossimo parlamento. Vale comunque anche in politica la fondamentale legge che regola il mercato: dove c’è domanda si crea l’offerta mentre non è vero il contrario. La domanda di un centro liberal-democratico c’è, l’offerta è scarsa e ancora poco convincente.

Non abbiamo parlato ancora dei Cinque Stelle. Quale sarà il loro destino politico?

Il movimento Cinque Stelle, col suo elettorato potenziale del 15%, costituisce un elemento indispensabile della strategia di Letta per rovesciare i rapporti di forza nel futuro parlamento consentendo al centrosinistra a guida Pd di arrivare a raggiungere la maggioranza parlamentare. I Cinque Stelle devono scegliere tra la dissoluzione in uno schieramento socialista democratico (italiano ed europeo) oppure l’occupazione di uno spazio elettorale ambientalista oggi poco e male rappresentato. Conte, per la sua storia e la capacità di mediazione che ha dimostrato, è la persona adatta per facilitare la riuscita del progetto di Letta ma non per guidare una rifondazione del movimento che lo porti a sintonizzarsi con i partiti verdi sempre più influenti nello scenario europeo. Sarà una scelta dolorosa nella quale è probabile che Grillo giocherà ancora un ruolo determinante.

In che modo?

Secondo me, il futuro dei Cinque Stelle è sempre nelle mani del suo fondatore. Il suo attuale silenzio potrebbe preludere alla tempesta; non credo affatto che Grillo si sia ritirato dalla scena. E non credo nemmeno che si sia rassegnato all’idea che il movimento Cinque Stelle si trasformi in una sorta di partito di complemento del partito democratico, sostanzialmente integrato in una strategia unitaria di centrosinistra. Io non credo affatto che la base dei militanti pentastellati sia su queste posizioni e penso perciò che Grillo stia aspettando l’elezione del presidente della Repubblica per uscire di nuovo allo scoperto e suscitare nuovi conflitti all’interno del movimento.

 

Intervista a cura di Saro Freni

Non è un appello sentimentale per tenere viva l’attenzione nei confronti delle uniche vere vittime della tragedia afghana, le donne, gli uomini e i bambini che da un giorno all’altro sono rimasti ingabbiati in un sistema politico e sociale diverso da quello in cui, tra attentati e difficoltà di ogni genere, erano comunque vissuti negli ultimi vent’anni. Una doccia scozzese che dura peraltro da settant’anni. Quando ci andai negli anni ’70 a Kabul regnava ancora Zahir Shah; il paese si presentava come una confusa aggregazione di tribù pressochè indipendenti ma nelle città principali funzionava un primo abbozzo di stato moderno con scuole, mercati, servizi che progressivamente tendevano a trasformare anche l’Afghanistan in una nazione moderatamente laica (come erano in quegli anni le altre del Medio Oriente).

Pochi anni dopo un colpo di stato portò alla costituzione di una repubblica socialista ispirata e sostenuta dall’Unione Sovietica; durò vent’anni finchè, incalzato dai guerriglieri armati e finanziati dagli Stati Uniti, anche il regime filo-comunista dovette rassegnarsi a soccombere senza essere riuscito a scalfire il potere medioevale delle diverse etnie locali. Al loro posto gli “studenti islamici” – gli ormai famosi talebani – che tutto sono fuorchè studenti nel senso che noi diamo alla parola, istituirono un regime fondamentalista religioso rimasto famoso per i suoi estremismi e il fanatismo dei governanti; i quali peraltro sarebbero stati lasciati in tranquilla pace (anche per la ridotta importanza geopolitica che ormai l’Afghanistan rivestiva) se non avessero commesso un errore gravissimo: ospitare e proteggere le basi del terrorismo islamico che minacciava la sicurezza del mondo occidentale.

Quando con gli attentati del 2001 e la distruzione delle torri gemelle di New York il terrorismo raggiunse il massimo livello sfidando a casa sua il paese simbolo del liberalismo occidentale, il governo americano reagì invadendo l’Afghanistan, eliminando i santuari terroristici e instaurando un sistema politico debolmente democratico; terzo tentativo di modernizzazione di un paese che ostinatamente, soprattutto fuori dalle maggiori città, sembrava rifiutare qualsiasi processo di cambiamento rispetto alle proprie tradizioni feudali. Puntualmente dopo vent’anni gli americani e i loro alleati (tra cui noi) hanno dovuto abbandonare Kabul al suo destino (né, malgrado le polemiche un po’ pretestuose, avrebbero potuto fare altro né in modo diverso, posto che un esercito e una classe dirigente coltivati per vent’anni si sono liquefatti in pochi giorni).

Il problema adesso è un altro: non dimenticare Kabul non significa abbandonare a sé stessi quegli afghani che avevano creduto nella protezione degli occidentali, entro i limiti in cui ciò sarà possibile e sperando che comunque qualche seme abbia attecchito; e soprattutto confidando nelle pressioni che potranno esercitare quei regimi autoritari confinanti (come Russia, Cina, Iran) interessati per ragioni geo-politiche a una trasformazione moderata del regime talebano.

Significa invece non dimenticare la lezione che arriva a noi occidentali dal fallimento dell’ennesimo tentativo di trapiantare i nostri valori in paesi che li rifiutano per ragioni culturali e religiose che a noi sembrano incomprensibili e indifendibili, scordandoci che per alcuni aspetti esse sono assai simili a quelle che vigevano anche in Europa prima che i grandi scismi del cristianesimo e il razionalismo illuministico consentissero la nascita degli stati liberali moderni ispirati al principio laico della separazione tra Chiesa e Stato (e quindi tra fede religiosa e diritti individuali). Senza tali evoluzioni non si sarebbe mai sviluppata l’egemonia occidentale (la quale, oltre che militare ed economica, è stata soprattutto culturale) ma siamo ormai talmente abituati alla velocità dei processi di trasformazione che dimentichiamo come i cambiamenti culturali siano graduali e debbano esserlo se si vuole che siano duraturi.

La questione riguarda soprattutto i paesi musulmani per diverse ragioni: per una resistenza relativamente maggiore di una religione strutturata intorno a un libro sacro che è un vero e proprio codice di comportamento, per la storica contrapposizione con il cristianesimo nel bacino del Mediterraneo (che riguarda essenzialmente noi europei), per il possesso e il controllo delle principali fonti energetiche (soprattutto gas e petrolio) di cui il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono ricchi.

Non vorrei essere frainteso: non dico che il mondo occidentale deve rinunciare ai propri valori adottando una lettura deviante del relativismo culturale, sostengo, al contrario, proprio perchè convinto della loro superiorità morale, che bisogna attendere pazientemente che essi maturino anche nei paesi di cultura islamica attraverso processi graduali come quelli che abbiamo attraversato noi. Certo, oggi ci sono strumenti che consentono accelerazioni fino a ieri non immaginabili, la globalizzazione contribuisce a ridurre gli spazi geopolitici e aumenta le contaminazioni culturali – soprattutto nei più giovani – e tutto ciò permetterà sviluppi più rapidi; internet sarà probabilmente ricordata in futuro per l’importanza che avrà rivestito in tale evoluzione, paragonabile a quella che la stampa ha avuto in Europa nel XVII secolo.

Ma per affondare le radici nelle coscienze e cambiare le tradizioni bisogna attendere passaggi generazionali ineludibili: le stesse diverse “chiese” islamiche comprendono ormai quanto sia inevitabile fare i conti con una concezione non teocratica dello stato, pretendendo però di controllare i processi di cambiamento non soltanto per renderli compatibili con le prescrizioni coraniche ma anche, più prosaicamente, per mantenere un potere di controllo sociale che garantisce privilegi politici ed economici che altrimenti perderebbero (come è avvenuto nel mondo cristiano). L’esempio più evidente è dato dall’Iran modellato da Khomeini come uno stato ibrido al cui interno sono stati mantenuti alcuni limitati spazi dialettici, il che però non ha impedito a un clero onnipresente e invasivo di controllare tutte le articolazioni politiche e sociali di quel paese, bloccando ogni tentativo di liberare le migliori energie che emergevano spontaneamente nelle università e nella società civile dall’opprimente tutela dell’islamismo scita (la più strutturata e potente tra le diverse confessioni musulmane).

Il quadro che ci proviene dal variegato mondo musulmano è quindi complesso e non si presta ad affrettate semplificazioni: prescindendo dall’Iran, si va dal confronto più diretto con le democrazie occidentali (mutuandone le prospettive politiche e culturali) come avviene nel Magreb (e soprattutto nel Marocco), passando attraverso regimi militari autoritari ostili al radicalismo islamico (Egitto, Giordania, Pakistan, ecc.), per finire in realtà ancora diverse come l’Indonesia (che contiene il maggior numero di musulmani pur mantenendo, almeno in linea di principio, un certo pluralismo religioso). Ho l’impressione, da diversi segnali, che per accelerare la transizione sarà decisiva la rivoluzione femminile che lentamente sta maturando anche nei paesi islamici. Lo sanno anche i talebani di ieri e di oggi e ciò spiega l’accanimento sulla subalternità femminile che li ossessiona.

Insomma, non tutto l’Islam somiglia ai talebani e sarebbe bene non fare di tutt’erbe un fascio. A Kabul l’Occidente ha perso una battaglia ma la guerra tra valori liberali e fondamentalismi di ogni colore continua: bisogna imparare ad attendere e nel frattempo aprire le porte, sollecitare il confronto, inchiodare gli estremisti alle loro contraddizioni, nella speranza che i nostri migliori alleati verranno dalle prossime generazioni musulmane.

 

Franco Chiarenza
19 ottobre 2021

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Forum della rivista Paradoxa.

Appena insediato al vertice Enrico Letta si è posto il problema che sin dalla sua fondazione angoscia il partito democratico, quello della sua identità. Un’esigenza che da sempre tormenta gli ambienti che “guardano a sinistra” per i quali alla mancanza di tale identità si deve il declino anche elettorale di tutti i soggetti che nel tempo hanno cercato di raccogliere in qualche modo l’eredità social-comunista del dopoguerra, dimenticando che essa si fondava sull’idea marxiana di un rovesciamento profondo dei rapporti di classe, sia pure adattata alla particolare realtà italiana.

Anche il PD, nato nel 2007 dalla convinzione di Veltroni che tale retaggio potesse fondersi con quello del cattolicesimo sociale (confluito a suo tempo nella DC per motivazioni storiche ormai superate) e costituire un’alternativa di sinistra legittimata a esercitare il potere in un paese oggi saldamente ancorato ai principi democratici e liberali occidentali, non è mai riuscito a liberarsi dal richiamo identitario di alcune minoranze elitarie (“alla Nanni Moretti” per intenderci) che nostalgicamente rimuginavano la mancata trasformazione radicale degli assetti economici e sociali anche a costo di restare inevitabilmente all’opposizione (e anzi forse proprio per questo, per non misurarsi con le inevitabili complicazioni che comporta il governare la variegata composizione sociale del Paese).

Da sempre innamorato dell’America Veltroni sognava una riedizione del “democratic party” nella sua concezione kennediana. L’Italia però non è l’America; la piattaforma democratica americana ormai da alcuni decenni si configura come un’area elettorale molto composita tenuta insieme soprattutto da una comune visione dei diritti umani allargati alle sensibilità delle nuove generazioni: parità di genere, antirazzismo, ambientalismo, sanità, mentre sul piano economico l’assetto capitalistico non viene messo in discussione (non almeno in maniera significativa).

Il bacino elettorale dei democratici italiani per essere vincente avrebbe dovuto allargarsi considerevolmente rispetto alle componenti originarie, andando a raccogliere consensi in quell’ampio centro democratico che, pur nelle sue notevoli differenze, non si riconosce né nel marxismo né nel solidarismo cattolico; e in effetti questo fu il tentativo compiuto da Renzi nel 2014 che, non a caso, portò il partito al massimo dei voti. Ed è per questo che Veltroni lo appoggiò prescindendo dalle sue intemperanze, dalla sua presunzione autoreferenziale, dalle discutibili compagnie di cui si circondava. Ma, come lo stesso Veltroni aveva già sperimentato, la corda del PD è fragile: se viene tirata troppo al centro si spezza a sinistra e viceversa. La rivolta delle “nomenklature” subito dopo la catastrofe del referendum costituzionale, portò infatti all’espulsione di Renzi ma con lui il PD perse anche la sfida di accreditarsi nell’elettorato di centro.

L’identità di sinistra che Letta vorrebbe rilanciare per superare la logica correntizia urta quindi inevitabilmente contro una verità difficile da rimuovere: venuta meno ogni identità velleitariamente “rivoluzionaria” il partito di sinistra, comunque si chiami, resta un movimento riformista che può soltanto lavorare ai fianchi di un sistema economico abbastanza consolidato e accettato. Un problema d’altronde che non riguarda soltanto l’Italia ma tutti i paesi europei dove i partiti socialisti si pongono le stesse domande. Altre sono le nuove radicalità che occupano il panorama politico determinandone le scelte: la globalizzazione, le emergenze sanitarie e ambientali, le loro ricadute sugli assetti sociali, e in qual misura questi cambiamenti possono essere governati senza compromettere i diritti fondamentali su cui l’Occidente ha costruito la sua egemonia morale e culturale, come invece propongono i movimenti populisti di destra prefigurando modelli difensivi sostanzialmente illiberali quando non addirittura autoritari.

La questione dell’alleanza con i Cinque Stelle va quindi inquadrata in un contesto di priorità diverse dalle contrapposizioni di classe ereditate dalla sinistra storica. Malgrado la loro confusione concettuale e organizzativa i “Cinque Stelle” appaiono più moderni dei loro alleati del PD e non a caso dettano l’agenda del confronto politico: lotta alla corruzione, uguaglianza dei diritti, ambientalismo radicale, grande attenzione ai nuovi strumenti di comunicazione. Il PD li insegue arrancando, cercando di fissare paletti in grado di contemperare le nuove sensibilità con quelle tradizionali, non senza qualche ingenuità demagogica come le quote femminili obbligatorie, il voto ai sedicenni, lo “jus soli”, ecc. Ma così facendo Letta rischia di lasciare libera di fluttuare nel vuoto quella parte di elettorato moderato che non condivide gli estremismi della Meloni e le volgarità di Salvini ma non si riconosce nemmeno in un asse PD-5 stelle a trazione Grillo. Un vuoto che disperatamente (ma almeno per ora con poco successo) cercano di riempire Calenda, Renzi, Emma Bonino e i naufraghi del partito di Berlusconi come Toti, Lupi, Carfagna, ecc.

Molto dipenderà ovviamente dalla legge elettorale ma comunque, quale che sia, sarà sempre il centro a fare la differenza, ed è lì che tra un anno si giocherà la partita definitiva.

Franco Chiarenza
24 aprile 2021

Abbiamo intervistato per I Liberali Franco Chiarenza, giornalista ed esperto di comunicazione, fondatore del blog Il Liberale Qualunque. È stato un colloquio molto interessante, in cui sono stati toccati tanti aspetti della sua esperienza politica e professionale ma anche temi di attualità, come la crisi del giornalismo tradizionale e il mutamento delle forme del dibattito pubblico.

Come si presenterebbe Franco Chiarenza ad un lettore del nostro sito, specialmente se giovane?

Intanto mi presenterei come uno che non è più giovane; come una persona che, avendo passato ormai ottantasei anni di vita, si ritiene un buon testimone di ciò che è avvenuto nella seconda metà del secolo passato e nel primo ventennio di questo secolo.

Hai intitolato il tuo libro, che in seguito ha ispirato il blog, Il Liberale Qualunque. Come mai questo nome, che a una prima lettura potrebbe evocare Guglielmo Giannini e l’Uomo Qualunque?

Come ho scritto nella prefazione, il qualunquismo con il mio liberalismo non ha nulla a che fare. L’espressione “liberale qualunque” nasce dal fatto che del liberalismo si parla sempre come di un concetto astratto: una teoria complicata, che alla fine riguarda pochi intellettuali o comunque un numero ristretto di persone con una particolare cultura. Secondo me, al contrario, il liberalismo riguarda tutti. E tutti noi – senza esserne coscienti – siamo o non siamo liberali non tanto in base alla conoscenza delle teorie ma ai comportamenti di tutti i giorni. E il liberale qualunque – che spesso non sa di esserlo – si contrappone a quanti dicono di esserlo e invece dimostrano il contrario.

Oggi ce ne sono molti, a tuo avviso?

Credo proprio di sì. Nel nostro paese, c’è stato un momento in cui tutti si dicevano liberali. Erano cadute le grandi ideologie nelle quali intere generazioni si erano riconosciute. Non crollò solo il muro di Berlino, ma anche l’illusione che si potesse fare a meno dell’economia di mercato. Improvvisamente tutti si sono sentiti orfani di ideologie di riferimento e sono diventati liberali. Ma il liberalismo, pur essendo estremamente elastico e aperto a molteplici interpretazioni, ha alcuni pilastri; alcuni punti che non consentono deroghe.

Che cosa pensa il liberale qualunque Franco Chiarenza delle tante iniziative di (vera o presunta) ispirazione liberale – associazioni, circoli, pagine Facebook – che oggi sembrano proliferare?

C’è un po’ di tutto. Alcuni di questi sono realmente dei liberali; altri non lo sono. Da certi scritti di presunti liberali emergono convinzioni intolleranti, nazionaliste, talvolta addirittura razziste che con il liberalismo non hanno nulla a che vedere. Altri, invece, sono effettivamente liberali: anche se, com’è ovvio, ci sono quelli che interpretano il liberalismo in modo più liberista e quelli che lo interpretano in modo più liberalsocialista. Però, al di là delle singole ispirazioni, ci sono alcune cose sulle quali tutti i liberali non possono non concordare: la tolleranza per le idee degli altri, la preferenza per un tipo di confronto che non deve mai essere sopraffazione. Se non si accettano questi principi, non ci si può dire liberali.

Da dove nascono tutti questi fraintendimenti intorno al termine liberale?

C’è un equivoco di fondo. Molti confondono il liberalismo con il moderatismo. Dicono di essere liberali perché si sentono moderati rispetto a una certa sinistra e a una certa destra, più o meno immaginarie. Si pensa di essere liberali perché si sta al centro. Questo è un modo sbagliato di concepire il liberalismo.

A proposito di tolleranza per le idee degli altri, mi sembra che questa idea sia anche evocata dal logo del Liberale Qualunque, presente anche nella copertina del libro. Sono raffigurate alcune persone sedute attorno a un tavolo. Che cosa vuole rappresentare quel disegno?

Esattamente quello che tu dici: rappresenta l’idea del dialogo. Questa composizione risale agli anni della mia prima gioventù, quando io e un gruppo di altri ragazzi decidemmo di fare un circolo per discutere di politica. Era un tempo – quello degli anni cinquanta – in cui la politica era molto radicata fra i giovani: si usciva da una guerra mondiale, si apriva una stagione di grandi speranze, tutti erano coinvolti nella politica, c’era molta partecipazione. Avevamo costituito questo piccolo gruppo, del tutto dilettantesco; e uno dei componenti, che era un bravissimo disegnatore, concepì il logo. Quando poi anni dopo abbiamo fatto una rivista, che si chiamava “Democrazia liberale”, lo abbiamo riutilizzato. È un disegno a cui sono anche sentimentalmente legato, tanto che poi ho voluto metterlo nella copertina del libro.

Come racconteresti ad un ragazzo di oggi l’esperienza della politica giovanile del tempo?

È un tema – quello della politica universitaria fra gli anni cinquanta e il 1968, quando poi questa esperienza venne meno – di cui si parla pochissimo. Ebbe una grandissima importanza, se si pensa che almeno la metà della classe politica che ha poi diretto il paese sino alla fine del secolo proviene da lì. Si trattava di una palestra politica degli studenti universitari più impegnati: una minoranza degli studenti, che già erano una minoranza della società, visto che allora l’università era molto più ristretta e più selettiva di oggi.

Ad un certo punto hai intrapreso la carriera di giornalista, anche ad alti livelli, sia in radio che nella carta stampata. Hai lavorato in Rai, e alla storia della Rai hai dedicato un libro importante, “Il cavallo morente”. Però non hai mai avuto il mito della televisione pubblica. Oggi si parla spesso – talvolta con accenti nostalgici, soprattutto alla luce del degrado televisivo di oggi – della vecchia tv pedagogica. Che cosa pensi di quel modello? Era una tv conformista, con tratti di paternalismo, oppure era il modo migliore per offrire, nelle condizioni di allora, un prodotto di alta qualità professionale?

Come sempre, la risposta non può mai essere o bianco o nero. Alla metà degli anni cinquanta, la tv in Italia fu una grande novità. E non tutte le forze politiche ne compresero subito le capacità di condizionamento. Le capì la Chiesa, che aveva visto ciò che stava accadendo in America. Ed era facile prevedere che ciò che era successo lì sarebbe accaduto anche da noi: nel giro di pochi anni, la televisione divenne una delle cose più condizionanti del panorama sociale del nostro paese. A cavalcare questo cavallo si trovò la Dc. La Chiesa temeva che ci sarebbe stata una secolarizzazione di un paese tradizionalmente cattolico, legato ad antiche consuetudini, prevalentemente agricolo, quasi del tutto estraneo – salvo che nelle sue élite – ai grandi movimenti culturali laici che avevano influenzato la storia d’Europa.

L’Italia stava cambiando, nel frattempo.

Sì, questo modello di paese si stava sgretolando, per una serie di ragioni di natura sociale ed economica. In tutto questo, la televisione doveva rappresentare, agli occhi della Chiesa, uno strumento di freno: si voleva che il cambiamento in corso avvenisse mantenendo fermi quei principi cattolici che consentivano alla Chiesa di esercitare un notevole potere di condizionamento sulle masse. Naturalmente, c’era anche una coincidenza di interessi con la Dc: nei primi anni, la Rai fu uno strumento politico, sociale, morale nelle sue mani. Quindi – come hai detto giustamente – rappresentava un modello paternalistico: era una televisione nella quale non si poteva pronunciare la parola divorzio, una tv su cui poi si è giustamente molto ironizzato negli anni successivi. Ma la Rai non è stata solo questo.

Ha avuto anche un ruolo educativo…

La televisione è entrata in tutte le case, anche quelle dove non era mai entrata alcuna forma di cultura che non fosse quella della tradizione popolare. Malgrado il suo paternalismo, la tv fu una finestra spalancata sul mondo. E, in questo senso, cambiò profondamente la natura degli italiani, i quali scoprirono una realtà diversa da quella delle tradizioni familiari. Questo ha avuto degli effetti sconvolgenti, perché ha spinto molte persone a far studiare i propri figli. Gli italiani impararono l’italiano. Quindi la tv di quel tempo – pur perseguendo scopi politici non condivisibili per un liberale – ha avuto degli effetti estremamente positivi, al di là delle intenzioni di chi la governava.

Un’informazione libera è fondamentale per una democrazia liberale. In questo momento storico sono in corso numerose trasformazioni: i politici aggirano spesso la mediazione giornalistica rivolgendosi direttamente ai loro seguaci tramite i social network, spesso trattandoli più come fan che come cittadini elettori; i giornali sono in crisi di vendite e non hanno più la centralità di un tempo; l’informazione televisiva è schiava dei talk show a basso costo, che spesso informano in modo superficiale e sensazionalistico. Come interpreti questi fenomeni? Che ruolo potrà giocare il giornalismo in questo nuovo scenario?

È una domanda molto impegnativa. La tua descrizione della realtà è perfetta: la condivido totalmente. Abbiamo tutto un sistema di mezzi di comunicazioni di massa – attraverso cui si veicola l’informazione – che è in crisi, che non ha più il rilievo che aveva un tempo (benché non sia completamente scomparso, come invece preconizzavano alcuni profeti di sventura). Certamente l’arrivo dei social ha rivoluzionato il vecchio panorama e ha costretto gli operatori dell’informazione tradizionale a misurarsi con un’informazione diffusa. Questo è un fenomeno che, di per sé, un liberale deve considerare positivo, perché allarga i confini dello scambio di informazioni. Questo è l’aspetto apprezzabile del fenomeno.

Quali sono, invece, gli aspetti negativi?

L’aspetto negativo è che attraverso questo allargamento passa di tutto. Innanzitutto, passano cose inaccettabili sul piano della volgarità e della maleducazione; ma su questo si potrebbe anche sorvolare, perché si tratta di sfoghi che ci sono sempre stati e che ora trovano uno strumento di amplificazione. Il punto fondamentale è che passano delle informazioni sbagliate e non verificate. Questo è un punto fondamentale per un liberale. I liberali hanno fatto sempre una battaglia in favore della corretta informazione.

Che cosa dobbiamo intendere per corretta informazione?

Esistono delle regole di correttezza che garantiscono chi legge: citare le fonti, mettere sempre a confronto le diverse opinioni e possibilmente distinguere le proprie opinioni dalla descrizione dei fatti. Questo meccanismo aveva avuto un notevole successo, soprattutto nel mondo anglosassone, tanto da dare alla stampa una credibilità e un prestigio tali da controllare il potere politico per conto dell’opinione pubblica. Questa funzione di mediazione è stata travolta dai nuovi mezzi elettronici. Meccanismi di controllo e di garanzia che erano stati studiati e imposti con molta difficoltà ai mediatori dell’epoca – i giornalisti – oggi sono saltati. Il risultato è che passa una valanga di cattiva informazione, nei cui confronti i fruitori sono completamente indifesi, perché non conoscono neanche il modo per verificare le informazioni che ricevono.

Stai delineando un quadro molto fosco. Il giornalista non ha più alcun ruolo, in questa nuova realtà?

Ovviamente non bisogna buttar via il bambino con l’acqua sporca: i social restano un fatto importante e utile ai fini della crescita politica, liberale e democratica, del paese. C’è però il problema di cui parlavo. Non so come si potrà risolvere, ma vedo qualche schiarita. I giornalisti – persa la loro funzione di mediatori esclusivi – ne stanno acquistando un’altra, quando sono bravi: quella di verificare la correttezza dell’informazione. Questo forse può limitare il fenomeno gravissimo delle fake news, che come abbiamo visto arriva ad incidere sui risultati delle elezioni politiche.

Ti riferisci all’elezione di Trump?

Sì. Gli Stati Uniti hanno passato un momento estremamente sgradevole della loro storia. Poi c’è stata una reazione. Il problema delle fake news, che oggi è al centro della discussione in America, dovrebbe diventare centrale anche in Europa. Da questo passa il futuro delle istituzioni liberali, delle istituzioni garantiste: che garantiscono cioè il cittadino affinché non venga imbrogliato.

Sei sbarcato su internet a più di ottant’anni. Che cosa ti ha spinto ad aprire il blog?

Internet è la più grande invenzione della storia della comunicazione dopo l’invenzione della stampa. Condizionerà fortemente il nostro futuro. E quindi ho sentito il bisogno di starci dentro, naturalmente con le forze di cui potevo disporre, che erano ben poche. Però internet ha questo vantaggio: consente a tutti, anche a coloro che non posseggono grandi mezzi, di essere presenti in qualche modo nel dibattito pubblico. Una volta non era così: se non avevi il denaro necessario per fare un giornale o mettere su una televisione, ne eri praticamente escluso, se non per piccole nicchie. Internet dà la possibilità di allargare enormemente le possibilità di espressione e cambierà completamente il modo di comunicare delle prossime generazioni. E l’umanità progredisce o regredisce in funzione della sua capacità di comunicare: esperienze, informazioni, sentimenti, tutto ciò che ogni persona ha dentro di sé. Internet è all’inizio di una lunga storia, che durerà per qualche secolo.

A cura di Saro Freni

Franco Chiarenza, giornalista, già docente di scienza della comunicazione all’Università la Sapienza di Roma e alla Luiss, è autore di uno dei saggi del libro “Praecurrit Fatum – arrivare prima del destino“, a cura di Marcantonio Lucidi e Alessandro Orlandi , La Lepre Edizioni. In questa intervista Franco Chiarenza riassume alcuni dei temi trattati nel suo saggio dal titolo: “Da Roma a Bruxelles, breve storia dell’Europa disunita e del suo unico futuro”.

Non sempre le elezioni sciolgono i nodi della politica; spesso il problema non è se votare o meno ma come farlo, con quale legge elettorale, con quali obiettivi, se privilegiando la governabilità oppure rispettando integralmente la rappresentanza del pluralismo delle opinioni. Nè vale l’obiezione, spesso ripetuta, che si possano trovare soluzioni intermedie che salvino capra e cavoli perchè, nonostante i marchingegni dell’ingegneria costituzionale, si arriva sempre al punto di dovere privilegiare uno dei due corni del dilemma. Le soluzioni contorte provocano talvolta esiti paradossali perchè studiate in base ad aspettative che poi si dimostrano infondate. L’esperienza dimostra che ogni cambiamento della legge elettorale produce variazioni nelle intenzioni di voto, dando luogo a un avvitamento indecoroso al quale sarebbe bene mettere fine attraverso una seria riflessione che coinvolga non solo le principali forze politiche (tese a privilegiare le proprie presunte convenienze elettorali) ma anche l’opinione pubblica la quale da tempo reclama regole che garantiscano la governabilità del Paese una volta per sempre. Occorre in sostanza compiere quel passo che l’assemblea costituente settant’anni fa non volle fare: costituzionalizzare la legge elettorale, almeno nei suoi principi fondamentali.

Per procedere in questa direzione sottraendo il dibattito ai conciliaboli degli specialisti di ingegneria costituzionale sarebbe opportuno innanzi tutto ricordare che le leggi elettorali possono grosso modo dividersi in due sistemi: proporzionale oppure uninominale.
Quelle ispirate al principio proporzionale cercano di rispettare principalmente il criterio della rappresentanza per il quale ogni formazione, anche di modeste dimensioni, abbia accesso in parlamento. Corrisponde a un ideale di democrazia partecipata e dialogante in cui il ricorso alla contrapposizione tra maggioranza e opposizione costituisca un fatto increscioso, anche se talvolta inevitabile. In realtà però i sistemi proporzionali – anche con i possibili correttivi – generano sempre instabilità e quindi non sono mai stati in grado di garantire la governabilità, a meno che l’elettorato non sia fondamentalmente costante e concentrato su pochi partiti alternativi, determinando di fatto una sorta di bipolarismo, come accadeva da noi nella prima repubblica (DC vs/PCI) o in Germania (CDU/CSU vs/ SPD). In quest’ultimo paese, per evitare i rischi della frammentazione e garantire la governabilità sono previste una soglia elettorale del 5% (al di sotto della quale non scatta il diritto di rappresentanza) e la “sfiducia costruttiva” (cioè l’obbligo di costituire una maggioranza alternativa prima di mandare a casa quella esistente). Un altro correttivo per limitare i danni di una eccessiva frammentazione è il cosiddetto “premio di maggioranza”, cioè un certo numero di seggi parlamentari da attribuire alle liste o coalizioni vincenti; che però non impedisce la creazione di alleanze fittizie che si dissolvono subito dopo avere conseguito il “premio”.
Ma al di là della difficile governabilità (resa ancor più complicata dal bicameralismo perfetto esistente in Italia) i sistemi proporzionali, rimettendo ai partiti il potere di formare le liste, privilegiano il legame degli eletti con il partito di appartenenza a scapito del rapporto con il territorio che dovrebbe rappresentare il fulcro di ogni democrazia che sia tale nella sostanza e non soltanto nelle forme. Il che non è questione da poco in un momento in cui la democrazia attraversa una fase di crisi di legittimità per la sua (vera o presunta) incapacità di interpretare il “paese reale”.

L’ unica alternativa che garantisce stabilità e credibilità al parlamento è costituita dai sistemi ispirati al principio uninominale (anche in questo caso con numerose variabili che sono state “inventate” per limitarne alcuni aspetti negativi). Il Paese viene diviso in tanti collegi elettorali quanti sono i seggi in palio ed essi sono attribuiti al candidato che prende più voti (talvolta con l’obbligo di ballottaggio quando nessuno di essi supera una soglia determinata). I sistemi uninominali privilegiano il legame tra il candidato e il territorio, consentono agli elettori di conoscere meglio i loro deputati e di controllarne l’operato, spingono a un tendenziale bipolarismo e quindi a una più sicura governabilità; dove sono stati adottati infatti sono rarissime le crisi di governo tra un’elezione e l’altra. Il principio uninominale è generalmente applicato nei paesi anglosassoni dove può accadere – senza che nessuno ne meni scandalo – che le maggioranze parlamentari non coincidano col numero complessivo dei voti riportati dai partiti (come è spesso avvenuto in Gran Bretagna). D’altronde si tratta di un sistema che conosciamo bene per essere stato adottato nel 2000 anche da noi, con generale soddisfazione, nelle elezioni amministrative. I punti di debolezza sono: il rischio di un voto di scambio (peraltro presente anche in altri sistemi), la prevalenza dell’elettorato periferico (spesso arretrato su posizioni più conservatrici) rispetto a quello urbano (maggiormente sensibile ai processi di trasformazione sociale) ma ciò dipende naturalmente da come vengono disegnati i collegi elettorali.

La domanda che sorge spontanea è: se tutto ciò è vero perchè il sistema proporzionale è sostenuto da quasi tutti i partiti? La risposta è semplice: perchè dà più potere ai partiti, non perchè rappresenta un vantaggio per la governabilità del Paese.

 

Franco Chiarenza

 

Questo articolo è tratto da Paradoxa Forum che lo ha pubblicato l’11 febbraio 2021.
Lo storico e politologo Dino Cofrancesco lo ha commentato dicendosi pienamente d’accordo.

Caro Direttore, la recessione senza precedenti causata dalla pandemia da coronavirus rende indispensabile l’intervento dello Stato, adeguatamente supportato – si auspica- dall’Unione europea.
Uno Stato impegnato a sostegno delle famiglie e delle imprese, con l’obiettivo di scongiurarne gli esiziali esiti.
Questo intervento ha comprensibilmente assunto, fin qui, la forma di una terapia palliativa, prevalentemente fatta di sussidi e sovvenzioni e dettata dall’urgenza di dare sollievo alle sofferenze e di attenuare le ansie più immediate e gravi della popolazione . Ma ha il limite di non incidere in alcun modo sulle cause della crisi recessiva che ci affligge e comporta il rischio di dare avvio nel Paese a un’economia sovvenzionata che perduri oltre l’emergenza in atto e degradi – il caveat viene da uno studioso dell’autorevolezza di Giuseppe De Rita – in un’economia sovvenzionata ad personam.

Anche perciò, credo che lo Stato, debba, nel prosieguo, focalizzare il suo impegno sul rilancio degli investimenti,
pubblici e privati, nella scuola, nella ricerca, nelle infrastrutture, materiali e immateriali – la cui carenza e obsolescenza penalizza il nostro sviluppo – e nelle iniziative imprenditoriali.

Mi soffermo sull’intervento – che viene qui sollecitato e che credo sia lecito attendersi, per il superamento della crisi – dello Stato imprenditore, non solo perché è un tema importante, ma anche perché è culturalmente e politicamente controverso.

Angelo Panebianco, in un fondo sul Corriere della Sera del 15 aprile, ha sostenuto che la tentazione dello statalismo
sarebbe di grave impedimento alla ripresa della nostra economia in recessione mentre io ritengo che una exit strategy di successo dalla crisi non possa prescindere dall’iniziativa imprenditoriale dello Stato.

Da quando, nel 1933, Alberto Beneduce, per rimettere in piedi l’industria e la finanza italiane dissestate dalla Grande depressione della fine degli anni ’20, fondò l’Iri – Istituto per la Ricostruzione Industriale – l’Italia ha un’economia mista, nel senso che l’anzidetta iniziativa pubblica si affianca a quella degli operatori privati.

Le conseguenze della pandemia che stiamo sperimentando sono ancora più gravi di quelle provocate da quella terribile recessione d’antan, ma l’Iri, che per decenni ebbe riconosciute benemerenze nell’ammodernamento
e nello sviluppo del nostro paese, non c’è più.

Il suo smantellamento, negli anni tra il 1993 e il 2000, coincise con la crisi politica che determinò la scomparsa di tutti i partiti storici dell’Italia repubblicana e fu motivato – malgrado le obiezioni sollevate e le lungimiranti soluzioni alternative prospettate da Giuseppe Guarino, allora ministro delle Partecipazioni statali e di recente scomparso – con le indubbie disfunzioni e devianze che l’Istituto aveva manifestato, ma che avrebbero potuto e dovuto essere corrette, senza privare il Paese di uno strumento di politica economica così utile ed efficace.

Questa cupio dissolvi fu attuata con la privatizzazione delle grandi società delle quali l’Istituto deteneva il controllo e che per lo più presidiavano settori chiave dell’economia nazionale. Ma, purtroppo, gli operatori privati ai quali furono cedute, risultarono in molti casi inadeguati a questo passaggio di testimone e andarono in crisi e perciò o cessarono le attività o alienarono le imprese loro cedute a operatori internazionali o ne chiesero e ottennero il ritorno
in mano pubblica.

Al tirar delle somme, oggi il nostro sistema-Paese non dispone più della forza e della capacità strategica che il colosso Iri le conferiva, ha visto ridursi numero e dimensione delle sue maggiori imprese e non ha più il presidio (visto che non vi operano più imprenditori italiani) di settori chiave dell’economia nazionale (ad esempio le Tlc e la siderurgia dei prodotti piani e degli acciai speciali): in breve, ha visto notevolmente ridursi la sua competitività internazionale.

Tuttavia, nonostante questa grave menomazione, l’Italia ha ancora un’economia mista perché agli imprenditori
privati si affiancano imprese (Eni, Enel, Fs, Leonardo, Fincantieri), efficaci e competitive anche a livello internazionale. È la dimostrazione del fatto che lo Stato, se si dota di adeguati presidi manageriali, può e sa fare l’imprenditore.

C’è, inoltre nel Paese, un’elevata e non latente domanda di presenza pubblica nel mondo dell’impresa e cioè, fuor di metafora, c’è una gran voglia di Iri, perché si avverte il bisogno di quella sua funzione di supporto e supplenza all’imprenditoria privata che ne giustificò la nascita e che, nella sua lunga vita l’Istituto seppe assolvere.

L’imprenditoria privata italiana ha grandi valenze positive e meriti indubbi (è diffusa capillarmente su tutto il territorio nazionale, ha fatto dell’Italia la seconda manifattura d’Europa ed esporta in tutto il mondo), ma ha anche limiti tipologici, dimensionali, finanziarie di vocazione (essendo fatta, in larghissima prevalenza, di imprese familiari, di piccole e piccolissime dimensioni, poco capitalizzate e poco orientate a impegnarsi nei settori più innovativi e dinamici dell’economia globale), che postulano le ricordate funzioni (di supporto e supplenza)
dello Stato imprenditore.

Per quanto ho ricordato a proposito della nostra storia industriale, questa figura, non può essere considerata in Italia un misterioso e minaccioso Ircocervo e tuttavia è fuor di dubbio che esistano nei suol confronti forti pregiudizi negativi, di natura sia culturale che politica, che credo vadano ragionevolmente superati.

Anche per evitare che il nostro governo debba rinunciare – in questo, difficilissimo frangente della nostra vita, ma anche in prospettiva – ad avvalersi di questo validissimo strumento di politica economica o sia costretto a utilizzarlo solo dopo averlo mimetizzato, quasi che la sua scelta non avesse valenza strategica e piena legittimazione.

 

Mario Lupo

(Articolo pubblicato il 30 aprile 2020 su Il Sole 24 ore)

Vent’anni fa moriva ad Hammamet in Tunisia, dove si era rifugiato dopo la condanna inflitta dalla magistratura milanese per corruzione e finanziamento illecito del suo partito, il controverso leader socialista Bettino Craxi. L’anniversario è stato l’occasione per riaprire il dibattito sul personaggio che, in ogni caso, è stato un protagonista indiscusso dell’ultimo periodo della prima repubblica.
Prescindendo dalle motivazioni della condanna giudiziaria è necessario riflettere sul suo progetto politico, sulle reali circostanze che hanno determinato la sua caduta, sulle conseguenze della sua scomparsa dalla scena politica. Il mio punto di vista – quello di un liberale qualunque – era già chiaro quando ne scrissi nell’omonimo libro e qui di seguito lo ripropongo, con l’avvertenza di leggere tutto il capitolo relativo alla prima repubblica, necessario per inquadrare la personalità di Craxi nell’ultima grande contrapposizione progettuale e ideologica della nostra storia recente.

Le generazioni future sentiranno spesso il nome di Bettino Craxi nelle rievocazioni della prima repubblica italiana: come un lestofante che ha governato per un breve periodo l’Italia per alcuni, come un geniale statista che ha difeso l’onore dell’Italia, travolto da una congiura di veleni giudiziari che l’hanno costretto all’esilio, per altri. Quali furono i suoi rapporti con i liberali e con il liberalismo?

Per i liberali Craxi ha rappresentato un forte punto di riferimento per alcune importanti ragioni:

  1. Egli ha rappresentato dal 1976 al 1990 la prima vera svolta social-democratica del partito socialista facendolo uscire dalle nebbie filo-comuniste e dalle utopie marxiste; la sua strategia era orientata a un riformismo istituzionale e politico in grado di consentire un avvicendamento al governo tra una sinistra democratica e una destra conservatrice, come avviene di norma negli altri paesi occidentali, costringendo il partito comunista a una trasformazione radicale e definitiva. A questo fine Craxi cercò anche di rinnovare l’immagine del PSI sostenendo esplicitamente i dissidenti dell’Europa dell’est (vittime del comunismo) e quelli dell’America latina (vittime dei regimi autoritari di destra) e avviando alleanze organiche con i socialisti spagnoli e francesi e in particolare con i loro leader Gonzales e Mitterrand. In breve creò un partito socialista in grado di costituire un interlocutore credibile anche per la cultura liberale, come riconobbe nel 1984 Malagodi iniziando il suo discorso al Senato in occasione della presentazione del governo Craxi con un incipit rimasto famoso: “E’ un appuntamento che aspettavo dal 1904” (riferendosi all’anno in cui Giolitti aveva invano invitato i socialisti ad entrare nel governo).
  2. Craxi ha inaugurato uno stile di governo, nei due anni in cui lo diresse, diverso per molti aspetti da quello dei suoi predecessori. Ha scelto come ministri personalità reclutate al di fuori della nomenklatura di partito, come Francesco Forte, Franco Reviglio, Renato Ruggiero, Antonio Ruberti. Il suo linguaggio era chiaro e scandito in modo da farsi comprendere da tutti (eccezione assoluta nella comunicazione politica di quel tempo), sapeva difendere senza farsi condizionare dalle chiassose dimostrazioni di piazza orchestrate dai comunisti le priorità di appartenenza a un’alleanza politica e militare come la NATO (come avvenne per la collocazione dei missili americani Cruise e Pershing in risposta agli SS20 installati dai sovietici) e, per contro, rivendicò con forza il principio della competenza nazionale quando rifiutò agli Stati Uniti la consegna dei terroristi palestinesi responsabili del dirottamento della nave “Achille Lauro”, arrivando fino a un confronto molto serrato con lo stesso presidente Reagan. Aveva anche il gusto della sfida, come dimostrò con la riduzione della scala mobile, contro la quale i comunisti lanciarono una dura campagna che si concluse con un referendum da cui uscirono sconfitti.
  3. La spinta impressa dalla nuova politica socialista ha imposto ai comunisti l’esigenza di fare i conti con la propria storia e con le trasformazioni politiche che stavano determinando il superamento della “guerra fredda”, ormai perduta dall’Unione Sovietica. I comunisti lo odiarono soprattutto per questo, perché sentivano sul collo il fiato di una social-democrazia incombente che minacciava di marginalizzarli, come era avvenuto per altri partiti comunisti occidentali. Come ha scritto giustamente Luciano Pellicani “prima che Craxi irrompesse sulla scena nessun leader socialista o social-democratico aveva osato mettere in discussione il marxismo”; averlo fatto con decisione, senza complessi di inferiorità, è costato al leader socialista la damnatio memoriae cui gli estremisti massimalisti di sinistra lo hanno condannato.

Assai diversa la valutazione su Craxi per ciò che attiene le politiche economiche; il leader socialista sottovalutò (come quasi tutta la dirigenza politica del tempo) la crescita indiscriminata del debito pubblico, l’invadenza soffocante del settore pubblico, l’esigenza di rinnovare la normativa sul lavoro. La sua originaria cultura socialista si era certamente annacquata nella contiguità con le social-democrazie europee, ma si era trasformata in un dirigismo politicizzato e clientelare che si inserisce a pieno titolo nelle carenze culturali della classe politica allora prevalente.

Tuttavia Craxi è stato condannato in via definitiva dopo tre gradi di giudizio per corruzione e finanziamento illegale del partito da lui diretto.

E’ un fatto innegabile, e chi è liberale non può essere favorevole al finanziamento illegale della politica (anche quando la legge che lo riguarda è per molti aspetti assai discutibile) e pertanto esige rigore e trasparenza da chi rappresenta il Paese nelle sedi istituzionali e nei partiti. Ma occorre riconoscere che in tutti i partiti era diffusa l’idea che la spartizione di tangenti per finanziare la politica dovesse essere in qualche modo tollerata; si trattò di un errore non soltanto dal punto di vista della moralità politica ma anche per le conseguenze negative di immagine che al primo incidente non avrebbero tardato ad abbattersi sull’intero sistema politico. Il che si verificò puntualmente subito dopo il crollo del muro di Berlino e la successiva scomparsa dell’impero sovietico, quando, venendo meno l’anti-comunismo militante per cessazione di esistenza del nemico, la moralità politica tornò ad essere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.
Craxi non lo capì; Andreotti invece aveva ammonito gli amici che brindavano nel 1989 alla caduta del muro di Berlino: “Attenti a festeggiare, a quel muro eravamo aggrappati tutti”.

Il famoso discorso di Craxi alla Camera del 3 luglio 1992 è passato alla storia per la franchezza con cui il leader socialista ammise le proprie responsabilità. Lo ricorda?

Tutti coloro che lo ascoltarono (me compreso) ebbero la sensazione di uno spartiacque storico, di quelli che segnano la fine di un’epoca e, inevitabilmente, l’inizio di una nuova. Con uno stile asciutto e senza perifrasi Craxi tentò una duplice operazione: la chiamata a correo di tutto il sistema politico che aveva utilizzato per il finanziamento della politica i suoi stessi mezzi (“Non credo che ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo”) ma soprattutto la delegittimazione della magistratura che applicava strumentalmente una legislazione che da tempo non corrispondeva più alla situazione reale e alle esigenze del sistema politico (“Un finanziamento irregolare o illegale al sistema politico…….non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura”).
Il tentativo non riuscì; ma Craxi era stato facile profeta nel prevedere che la furbizia dei topi di abbandonare la barca nel momento in cui affondava non avrebbe salvato né la barca né i topi. Peccato che, invece di contestare fino in fondo l’azione sostanzialmente ingiusta (ma non illegale) della magistratura, egli sia fuggito in esilio; accettando le conseguenze delle sentenze di condanna fino alla carcerazione egli avrebbe trasmesso al Paese un messaggio di ben diversa consistenza, costringendo l’opinione pubblica a interrogarsi sulle ragioni più profonde di una vicenda drammatica e senza precedenti.

Perché l’azione dei magistrati fu “sostanzialmente ingiusta”? Essi – si potrebbe obiettare – non fecero che applicare le leggi.

Ma talvolta l’applicazione formale delle leggi può essere sostanzialmente ingiusta: “summum ius, summa iniuria” dicevano i nostri progenitori romani. L’illegalità dei comportamenti politici era talmente diffusa da non consentire alternative; lo spiega bene lo storico Giovanni Orsina quando scrive che “…essendo quella politica un’arena fortemente competitiva, una volta diventati consuetudinari i comportamenti illegali divengono di fatto obbligatori per chiunque desideri prendere parte alla vita pubblica. Rispettare la legge, infatti, significherebbe collocarsi in una posizione di svantaggio irrimediabile…..l’illecito si trasforma in regola, e la trasgressione di quella regola – ossia il comportamento formalmente legale – è sanzionata con l’espulsione dal sistema”. Craxi aveva quindi sostanzialmente ragione nella sua “chiamata a correo” dell’intera classe politica di governo dato che il sistema tollerava un’ipocrisia di massa come quella del finanziamento illegale dei partiti nella connivenza totale di tutti coloro che partecipavano alla partita, nel tacito sottinteso che quelle regole non sarebbero mai state applicate, tanto più che la prassi illegittima che alimentava i costi della politica era stata denunciata inutilmente già dagli anni ’50.
In tale contesto l’unico modo di uscirne era l’approvazione di un’amnistia calibrata e selettiva, accompagnata da una nuova legge sul finanziamento della politica, meno demagogica e più rigorosa nei controlli. Lo proposero politici ragionevoli come Alfredo Biondi e giuristi di sinistra come Giovanni Conso, in quel momento guardasigilli, ma la magistratura milanese scatenò contro questa ipotesi una campagna mediatica senza precedenti, appellandosi al populismo più deteriore, ottenendo da una classe politica spaventata la rapida archiviazione della proposta. Si trattò di una clamorosa ulteriore invasione di campo delle procure in terreni che costituzionalmente sono loro preclusi. Ricorda Sergio Romano: “Non mi piacque che la magistratura esautorasse le istituzioni politiche. Piaccia o no, quando un fenomeno acquista le dimensioni di Tangentopoli, la terapia deve essere principalmente politica, non giudiziaria.”.

Perché il partito post-comunista preferì accelerare il processo di dissoluzione del vecchio sistema politico, piuttosto che ricercare un ragionevole accordo con il partito socialista per la costituzione di un polo democratico di sinistra?

Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare il clima di quegli anni. L’odio dei comunisti per i socialisti “craxiani” era alimentato da vari fattori:

  1. Craxi era considerato social-democratico, il che, nella terminologia corrente dei partiti comunisti, significava “traditore della causa” e complice della borghesia capitalista;
  2. Le personalità dei leader che impersonavano i due partiti, Craxi e Berlinguer, non potevano essere più diverse: moderno, spregiudicato, sensibile ai nuovi modelli sociali che l’economia di mercato stava determinando in Occidente, il primo; austero, moralista, pessimista, critico di ogni forma di consumismo, paternalista “illuminato”, il secondo;
  3. Il diverso atteggiamento nei confronti del cattolicesimo: improntato a una difesa molto netta della laicità dello Stato da parte di Craxi (cui si deve anche la revisione del Concordato), caratterizzato invece in ampi settori del vecchio PCI dalla ricerca di possibili intese fondate su una comune diffidenza nei confronti del modello americano e nord-europeo della “società del benessere” (alcuni dei più stretti collaboratori di Berlinguer erano molto vicini al Vaticano, come Antonio Tatò, il quale, non a caso, definì sprezzantemente il leader socialista in una lettera a Berlinguer “un bandito politico”);
  4. L’incessante e pervasiva campagna di ostilità anti-craxiana favorita dai vertici del partito comunista: erano gli anni in cui nei festival dell’Unità si serviva la “trippa alla Bettino”, a dimostrazione della cordialità di rapporti tra le rispettive basi.

Naturalmente non tutto il partito comunista si muoveva in questa direzione; vi erano gruppi consistenti che tentarono di cercare un accordo con Craxi, ma furono travolti dall’intransigenza settaria della maggioranza berlingueriana e dalla speranza che “mani pulite” potesse rappresentare un’occasione da non perdere per la “soluzione finale” (anche perché l’amnistia di pochi anni prima aveva messo definitivamente al sicuro il PCI dall’accusa, ampiamente dimostrata, di ricevere finanziamenti dall’Unione Sovietica). Anni dopo, nel 2000, Giorgio Napolitano, intervistato da Pierluigi Battista, ricordò che la via del dialogo era possibile, e che quando, per intercessione di Craxi, il PCI ottenne di entrare nell’Internazionale Socialista, “non arrivammo mai a riconoscere quanto D’Alema ha riconosciuto a Torino” (molti anni dopo). “Avevano ragione loro” è la tardiva e malinconica ammissione del nostro presidente galantuomo.

Ha nostalgia della prima repubblica?
No. La prima repubblica è responsabile:

  1. di avere creato una costituzione materiale che annullava l’equilibrio tra i poteri dello Stato concentrandone l’essenza decisionale nei partiti (partitocrazia);
  2. di avere consentito la distruzione di parti importanti delle risorse ambientali del Paese;
  3. di avere accentuato la dicotomia nord/sud aumentando la dipendenza assistenziale del Mezzogiorno dal clientelismo;
  4. di avere distrutto l’efficienza della pubblica amministrazione e la scuola pubblica;
  5. di avere accumulato un debito pubblico tra i maggiori dell’Occidente, un macigno che non soltanto è ricaduto sulle successive generazioni ma che rischia di perpetuarsi a lungo;
  6. di avere consentito alla magistratura di costruirsi un ruolo di “tutoraggio” sulle legittime istituzioni democratiche, incompatibile con una visione liberale dello Stato.

Credo che possa bastare. Qualche volgarità in meno rispetto alle sguaiataggini della seconda non basta ad assolvere le responsabilità politiche della prima repubblica.

 

Franco Chiarenza

Da che mondo è mondo le regole servono per proteggere i più deboli dalla prepotenza di chi potrebbe farne a meno. E’ così che nascono gli stati di diritto sin dall’antica repubblica romana e ancora oggi sono le regole che tutelano i cittadini, tornati ad essere nei paesi democratici la fonte primaria del potere politico, dalle fragilità che possono condizionarne i comportamenti. La libertà di espressione, sacra per i liberali e fondamento del moderno costituzionalismo, va non soltanto enunciata ma anche protetta da chi, magari in suo nome, la distorce per utilizzarla contro la verità dei fatti e spesso anche a danno della dignità delle persone. Un problema che si è posto sin dalle origini degli stati moderni, quando con la stampa il mondo è entrato nell’era della comunicazione di massa dovendosi difendere da due nemici: da chi la voleva utilizzare per gettare discredito sugli avversari in base a false informazioni, ma anche da chi attraverso l’esercizio del potere voleva subordinarla a interessi privati, giustificandone l’intervento come una necessaria tutela del bene pubblico. Se non si vuole gettare il bambino insieme all’acqua sporca (eliminando la libertà di espressione) i possibili rimedi vanno trovati in regole condivise che ne limitino gli abusi mantenendone intatta la funzione di controllo sul potere, da chiunque esercitato. Ma essere “watch dog”, un cane da guardia che non si fa intimidire dai poteri forti, è una cosa (anzi una condizione necessaria per le democrazie liberali), trasformarsi in un cane idrofobo che azzanna indiscriminatamente seminando odio e contrapposizioni irragionevoli è ben altro; ed è quanto sta avvenendo con i social-network diffusi in rete.
La libertà di espressione è sacra per i liberali, ma in nessun caso essa può tradursi in una informazione priva di regole, consentendo di trasformare l’informazione in disinformazione; tanto che in passato, quando essa era gestita quasi esclusivamente dai giornalisti, laddove non arrivavano le leggi che puniscono la diffamazione, l’oltraggio, le false comunicazioni, giungevano i codici deontologici che impegnavano a comportamenti corretti (il primo di essi compilato negli Stati Uniti è del 1926). Al di là delle tante inevitabili complicazioni, si consolidava quindi per qualsiasi mezzo di informazione il principio di responsabilità personale per ciò che si scrive e si pubblica; non a caso i direttori dei giornali (e telegiornali) sono definiti “responsabili”.
Oggi, nel momento in cui gran parte delle informazioni circolanti si serve dei “socialnetwork”, e tutti, in qualche modo, possono fare informazione, possiamo dire che il principio di responsabilità venga rispettato? Evidentemente no, ma ogni volta che si accenna alla necessità di imporre regole di identificazione che facciano capo ai gestori dei “social” insorgono i difensori della “libertà della rete” parificando la responsabilità alla censura. Un’affermazione falsa e non convincente, a meno che per tale non si intenda la libertà di diffamazione, di diffondere false informazioni, di ingiuriare senza limiti di decenza, di violare la riservatezza personale, di commettere in sostanza reati che, non perchè attuati in rete, sono meno dannosi. Falsificare la realtà per dare sfogo a livori e frustrazioni personali non costituisce una novità: lettere anonime, pubblicazioni clandestine, pettegolezzi senza fondamento hanno sempre accompagnato l’esistenza degli uomini, ma in passato non si disponeva di strumenti così invasivi come quelli oggi consentiti dalle nuove tecnologie. Da quando poi si è constatato, con il venir meno delle grandi contrapposizioni ideologiche, che la disinformazione costituisce un efficace strumento di condizionamento elettorale, la politica se ne è impadronita, utilizzandola anche in modo volgare. E poiché in effetti il voto ha ormai perso il suo carattere di scelta programmatica per diventare soltanto un modo di esprimere il proprio malcontento, si capisce perchè le competizioni elettorali siano divenute una gara per catturare un consenso “negativo”, non per un progetto a lunga scadenza (salvo le solite generiche banalità) ma contro qualcuno o qualcosa. Avviando tuttavia questo meccanismo di reciproca continua delegittimazione (personale oltre che politica) si finisce per restare incastrati in un “effetto boomerang” che impedisce qualsiasi seria attività di governo (i Cinque Stelle ne sanno qualcosa).

Per uscire da questa situazione bisogna tornare a regole condivise e alla volontà politica trasversale di farle rispettare. Non entro in dettagli tecnici che richiederebbero altri approfondimenti. Ma ciò che si può fare intanto è stabilire per legge (possibilmente a livello europeo) il principio di responsabilità per chi comunica sui social-network. Può essere facilmente aggirata? Può darsi ma almeno stabilisce un principio e complica la vita ai fabbricanti di fake news. Occorre, utilizzando gli stessi strumenti interattivi, fare capire con chiarezza quali sono i limiti di liceità del loro utilizzo e le ragioni per le quali essi sono necessari a tutela della libertà individuale di ciascuno di noi. Contrastiamo i “fake makers” utilizzando i loro stessi strumenti, convincendo tutti che i reati commessi in rete sono gravissimi, possono uccidere a distanza senza che si sappia da chi e perchè; potrebbe capitare a tutti. Conviene a tutti quindi stabilire delle regole e farle rispettare senza abbandonarsi, ancora una volta, all’arbitrio dei “signori della rete”.

 

Franco Chiarenza
Articolo pubblicato il 9 dicembre sulla rivista Paradoxa.