Foto: www.confedilizia.it

Molti anni fa, quando militavo e mi agitavo nella Gioventù Liberale degli anni ’50, mi telefonò un certo Sforza Fogliani da Piacenza dove dirigeva un giornale liberale, per invitarmi a tenere una conferenza; ne fui ovviamente lusingato, andai, mi trovai tra giovani motivati e molto attivi in una città dove non era facile fronteggiare le opposte egemonie politiche della sinistra comunista e della Democrazia Cristiana. Ne nacque un rapporto di reciproca stima anche se le nostre strade presero direzioni diverse sempre però riconoscendoci nella cultura liberal-democratica.
Corrado ha svolto nella sua esistenza molti ruoli prestigiosi ben oltre i limiti della sua città (dove è stato presidente della Banca di Piacenza e consigliere comunale) presiedendo tra l’altro per oltre vent’anni Confedilizia, l’associazione nazionale che tutela i diritti e gli interessi dei proprietari di case, convinto assertore della funzione sociale che svolge la proprietà edilizia (soprattutto nelle dimensioni familiari) per la costruzione di un ceto medio di massa.
Ma l’aspetto che più mi interessava della sua personalità, sin da quando lo conobbi, era il fatto che fosse cattolico osservante e non trovasse alcuna contraddizione tra questa dimensione religiosa e una dottrina politica come il liberalismo (di cui era anche un profondo conoscitore) che sulla laicità e sul rifiuto di verità dogmatiche fonda la sua identità. Non a caso il suo principale punto di riferimento era Luigi Einaudi, anch’egli, come è noto, liberale e cattolico.
Con lui scompare un altro grand commis tra i tanti che la cultura liberale ha messo a disposizione della malferma classe dirigente del nostro Paese come Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e, da ultimo, Mario Draghi, Nel generale discredito che circonda in Italia la politica, gentiluomini corretti ed efficienti come Corrado Sforza Fogliani danno spazio alla speranza di una rigenerazione che, comunque la si definisca, non può che essere sostanzialmente liberale.

Franco Chiarenza
14/12/2022

Antonio era figlio di Gaetano Martino, il professore gentiluomo messinese che è stato negli anni ’50 ministro degli Esteri e finchè visse dirigente rispettatissimo del partito liberale. A lui si deve quella conferenza di Messina tra i ministri degli Esteri europei che rilanciò il processo della costruzione europea bloccato dalla bocciatura della CED e che nel 1957 portò ai trattati di Roma e alla creazione della Comunità Economica Europea, primo embrione dell’Unione. Di lui ho un ricordo piacevole per la sua capacità di ascolto quando cercava di stemperare i nostri ardori di giovani liberali anti-malagodiani e per la tranquilla saggezza in cui ritrovavo il meglio di una classe dirigente meridionale colta e paziente.
Antonio Martino fu eletto deputato nel 1993, ereditando naturalmente la base elettorale del padre, ed è stato anch’egli esponente importante del PLI al cui interno ha sempre rappresentato la componente di destra, divenuta minoranza durante le segreterie di Valerio Zanone e Renato Altissimo. Una posizione che derivava anche dai suoi studi economici e dalla condivisione delle teorie neo-liberiste di cui fu sempre convinto sostenitore. Nel breve periodo in cui anch’io feci parte della direzione centrale del partito (1988/89) mi trovai a condividere alcune sue posizioni critiche nei confronti della segreteria e mi chiese cosa mi spingesse ad appoggiare Altissimo. Gli risposi che anche se era vero che entrambi criticavamo la posizione attendista e troppo filo-governativa del partito (anche quando i voti del PLI non erano più determinanti per la maggioranza) io lo facevo per dare ai liberali una libertà di movimento che consentisse di intercettare un elettorato sempre più inquieto in cui affioravano preoccupazioni che il PLI avrebbe potuto rappresentare (ambientalismo, laicismo, rigore contro la corruzione, distanziamento dalla invadenza partitocratica, ecc.) mentre lui pensava alla creazione di un grande partito liberal-conservatore in grado di costituire un’alternativa all’alleanza tra cattolici e socialisti che stava paralizzando la dialettica politica del Paese.

Ho ricordato questo episodio perchè, meglio di tante analisi politologiche, esso spiega perchè Antonio Martino sia stato un convinto sostenitore di Silvio Berlusconi quando, con la sua discesa in campo si crearono le condizioni per la creazione di “Forza Italia” (di cui infatti orgogliosamente rivendicava la tessera n.2). La speranza di stemperare le evidenti propensioni populiste del leader ha sempre accompagnato la sua carriera successiva nei governi Berlusconi come ministro degli Esteri (1994/1995) e della Difesa (2001/2006). Emarginato di fatto dai settori in cui avrebbe potuto meglio esprimere le sue competenze (che erano soprattutto economiche), ha mantenuto compostamente il ruolo di rappresentare la faccia pulita di quello che poi si sarebbe trasformato in un partito personale, autocratico nella sua conduzione, con tratti profondamente illiberali nell’azione politica. Resta la sua testimonianza di gentiluomo, la sua ironia, il suo senso dello Stato. Le sue scelte d’altronde erano state quelle di una gran parte del vecchio gruppo dirigente del PLI; con lui condivisero l’illusione di un grande “partito liberale di massa” personaggi autorevoli come Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Raffaele Costa, Gianfranco Ciaurro, Antonio Marzano e molti altri.

Franco Chiarenza
8 marzo 2022


Che Lepri fosse un liberale ho qualche dubbio (e ne spiegherò il perché); che sia stato un personaggio “non qualunque” è invece certo per l’importanza degli incarichi che ha svolto e per il rigore che in essi ha sempre impiegato. Ci conoscevamo e ci eravamo confrontati: lui asseriva e ribadiva in ogni occasione di essere “crociano”, io ne rilevavo le affinità politiche con personalità democristiane (come Fanfani e Bernabei) molto distanti dalla teoria e dalla prassi del liberalismo.
Quando pubblicai “Il cavallo morente” protestò per una nota del libro in cui lo accostavo appunto alle sorti politiche dei cattolici toscani (essendo lui pure, non a caso, di quella regione) ma alcuni anni dopo un suo libro-dialogo con l’ex direttore generale della RAI (“Permesso, scusi, grazie – Dialogo fra un cattolico fervente e un laico impenitente”) confermò pienamente la mia impressione che Lepri avesse in qualche modo accettato (come molti altri) un ruolo di “fiancheggiatore laico” di un disegno politico che derivava dall’integralismo religioso di La Pira e che era esplicitamente contrapposto all’individualismo liberale.

L’insistenza sulla sua connotazione crociana spiega in parte tale contraddizione, rifacendosi alla famosa disputa tra Croce e Einaudi vista come come antagonismo tra idealismo liberale e liberismo economico (il che rappresenta una semplificazione che non corrisponde alla realtà); anche nel libro citato colpisce il silenzio di Lepri a fronte delle tesi anti-capitaliste e complottiste di Bernabei.
Ne ho tratto la convinzione che il legame tra di loro fosse più sentimentale che politico, fondato su comuni esperienze politiche in un territorio come quello toscano dove il conflitto secolare tra fondamentalismo cristiano e individualismo mercantile è sempre stato marcato da precisi connotati politici: guelfi e ghibellini, Savonarola e Lorenzo de’ Medici, tanto per intenderci. Lepri e Bernabei (e Fanfani) forse si riconoscevano in queste radici che ancora producevano contrapposizioni quasi genetiche che tuttavia avevano trovato nell’anti fascismo e nella Resistenza momenti di convergenza.

Come direttore dell’ANSA Lepri si era fatto una meritata fama di intransigenza sia nel proteggere la maggiore agenzia di informazioni dalle inevitabili pressioni politiche sia nel pretendere dai suoi collaboratori il rispetto delle regole deontologiche che devono caratterizzare la professione giornalistica. Il prestigio e la credibilità dei mezzi di comunicazione dipendono anche dalla correttezza nella loro esposizione e dalla capacità di chiarire i difficili passaggi della politica (e dei cambiamenti sociali) senza banalizzazioni ma rendendoli comprensibili anche ai non addetti ai lavori.
Tutti coloro che hanno lavorato con lui riconoscono che fu un grande maestro.

 

Franco Chiarenza
25 gennaio 2022

Trent’anni fa moriva Giovanni Francesco Malagodi, personalità controversa del liberalismo italiano, leader incontrastato del partito liberale per quasi un ventennio. E’ rimasto nella storia della prima repubblica prigioniero di uno stereotipo che in gran parte non corrispondeva alla realtà. Su di lui esiste ormai un’abbondante bibliografia e non tocca a me integrarla ulteriormente, ma non posso esimermi da una dovuta testimonianza per averlo io conosciuto in tre occasioni, traendone impressioni e giudizi ogni volta diversi.

Il primo Malagodi che ricordo è quello della mia militanza nella Gioventù Liberale e nelle associazioni goliardiche degli anni ’50/60. Era il Malagodi bersaglio della nostra insofferenza nei confronti di una politica che consideravamo eccessivamente conservatrice e troppo contigua a posizioni di destra sbrigativamente assimilate al fascismo. In realtà Malagodi era democratico e anti-fascista in maniera intransigente, rifiutando sempre alleanze di grande destra che le nuove leadership del MSI e dei residui monarchici gli offrivano (e che, in termini numerici avrebbero consentito un maggiore condizionamento sulla DC). Era tuttavia convinto che ogni apertura di credito nei confronti dei socialisti (alle prese con un difficile processo di distacco dal frontismo social-comunista) fosse prematura, soprattutto per i prezzi che si sarebbero dovuti pagare nelle politiche economiche, convinto com’era che il problema dell’Italia fosse quello di superare le strozzature all’economia di mercato che persistenze corporative (protette dalla DC) e un interventismo pubblico eccessivamente diffuso e poco trasparente (ENI, IRI, ecc.) facevano del nostro Paese il più condizionato dal clientelismo politico (con ricadute elettorali che certo non premiavano i partiti minori della coalizione di governo). Coerente con tale impostazione legò strettamente il partito al mondo imprenditoriale privato la cui rappresentanza era allora dominata dalla grande industria (Fiat, Edison, Montecatini, Falck e pochi altri soggetti) sfidando apertamente l’ostilità degli intellettuali politically correct in quegli anni tutti simpatizzanti di sinistra. Dal punto di vista culturale però Malagodi era un gigante: conosceva cinque lingue, aveva approfondito durante il suo esilio dall’Italia lo studio di tutti i classici del liberalismo, compresi quelli più recenti spesso ancora poco diffusi in Italia; pochi nel nostro mondo politico, provinciale e mediamente incolto, potevano confrontarsi con lui (tranne forse La Malfa che ne fu sempre polemico antagonista, ma che proveniva dallo stesso staff di collaboratori allevati dal grande banchiere umanista Mattioli). Ricordo una volta, mentre ero in taxi a Milano e l’autista ascoltava una “tribuna politica” in cui parlava Malagodi, questa osservazione bruciante: “Quant’è bravo! Che peccato che stia dalla parte dei padroni!”.
Ma furono proprio i “padroni” a tradirlo; quando apparve chiaro che l’apertura ai socialisti sarebbe stata prima o poi ineluttabile abbandonarono Malagodi e il suo partito per ripiegare sui moderati della DC che sapevano come fare per ridurre alla ragione i socialisti.

Il mio secondo Malagodi fu quello che conobbi nel ruolo di presidente dell’Internazionale Liberale (dal 1958 al 1966), una funzione che gli consentì di svolgere pienamente la sua vocazione intellettuale dimostrando la profondità della sua preparazione non soltanto economica ma anche filosofica e politica. Con la sua presidenza l’Internazionale Liberale si indirizzò verso una interpretazione moderna e socialmente sensibile del liberalismo riprendendo e completando le definizioni che erano state stabilite nel manifesto di Oxford del 1947 (poi aggiornato nel 1997 con il contributo significativo della Fondazione Einaudi di Roma, presieduta allora da Valerio Zanone) in linea con una visione aperta che escludeva qualsiasi identificazione del liberalismo con il conservatorismo moderato. Quando lo interrogai (proprio in una riunione dell’Internazionale dove ero presente come giornalista) sulla contraddizione che sembrava emergere rispetto alle posizioni del PLI mi rispose che l’Italia era un caso particolare dove l’equilibrio tra le spinte legittime del socialismo democratico e il mantenimento dei diritti di iniziativa privata in un’economia di mercato era pericolosamente inclinato verso un interventismo pubblico eccessivo che trovava in una parte del mondo cattolico ampie coperture. “Quando anche da noi i socialisti saranno come i laburisti inglesi o i social-democratici scandinavi, ne riparleremo”.
Me ne ricordai molti anni dopo quando, aprendo il suo discorso al Senato a favore del governo Craxi, Malagodi evocò il fallimento del tentativo di Giolitti di portare al governo i socialisti nel 1921 come una scelta sciagurata che forse contribuì all’affermazione del fascismo.

Il terzo Malagodi me lo ritrovai accanto nelle riunioni della direzione centrale del PLI nel breve periodo in cui ne feci parte (1988/89); lui era presidente onorario, io capo-redattore della RAI molto imbarazzato di ricoprire cariche direttive (seppure formali) in un organo di partito. La sua intelligenza, la profondità delle sue osservazioni, il piacere della conversazione (che ritrovai in occasione di una visita alla sua tenuta dell’Ajola in Toscana), una visione politica del tutto diversa da quella che gli veniva attribuita dal clichè della narrazione storica della prima repubblica, mi posero il dubbio: avevo sbagliato io negli anni lontani o era cambiato lui? Probabilmente erano vere entrambe le cose.

Dopo la sua morte un giorno si presentò alla Fondazione Einaudi di Roma in largo dei fiorentini la vedova, proponendoci la cessione di vecchie carte del marito alle quali non sembrava dare molto rilievo. Ne venne fuori invece un archivio di grande importanza e il manoscritto di un libro mai pubblicato del padre Olindo Malagodi, consigliere e amico di Giovanni Giolitti. Affidammo tutto l’incartamento alle sapienti mani di Giovanni Orsina, che in qualità di direttore scientifico collaborava con noi, e ne sono usciti contributi storiografici fondamentali per lo studio di quel periodo della storia italiana.

Franco Chiarenza
4 maggio 2021

Conoscevo Ernesto da molto tempo. Molto attivo, ambizioso, appassionato cultore del pensiero di Benedetto Croce, scrittore fertile, il professor Paolozzi era un assiduo frequentatore dei bei saloni di palazzo Serra di Cassano dove l’Istituto di studi filosofici creato da Gerardo Marotta svolgeva un’intensa attività di studio e di divulgazione delle conoscenze storiche e filosofiche. Lo incontravo nei miei saltuari soggiorni napoletani e le nostre discussioni erano sempre stimolanti.
I nostri liberalismi non erano coincidenti: più crociano il suo, piuttosto einaudiano il mio, giusto per riprendere il famoso dibattito tra don Benedetto e il futuro Presidente della Repubblica che ha animato negli anni il ristretto ma vivace mondo dei liberali. Ernesto Paolozzi era soprattutto un filosofo morale e in quanto tale tendenzialmente ostile al liberalismo di matrice anglosassone che vedeva nell’economia di mercato – sia pure regolamentata e corretta nei suoi eccessi – una condizione inderogabile per ogni sviluppo liberale della società, e tale avversione lo portava ad assumere atteggiamenti molto critici nella valutazione dei modelli culturali che arrivavano dall’America.
Ernesto però non era un pensatore astratto isolato dalla realtà; al contrario aveva ambizioni politiche e non nascondeva questa propensione. Come me militò per un certo periodo nel partito liberale, riconoscendoci entrambi nell’ascendenza zanoniana e nella maggioranza che governò il PLI intorno all’asse Zanone-Altissimo. Nel 1992 fu eletto consigliere comunale; ebbe successivamente esperienze meno fortunate presentandosi in altre liste (di alcune delle quali è legittimo porsi qualche domanda sulla compatibilità con il liberalismo) ma mantenne sempre attiva la sua presenza collaborando con giornali, riviste, e attraverso l’insegnamento nell’università Suor Orsola Benincasa. Da lui raccolsi nel 1995 il testimone della direzione scientifica della Fondazione Einaudi di Roma quando diventò per lui evidente la difficoltà di conciliare i suoi impegni politici e professionali con la gestione di un’istituzione che svolgeva la sua prevalente attività in una città diversa da quella che era al centro dei suoi interessi.

Ernesto Paolozzi ha pubblicato molti libri, diversi saggi su Benedetto Croce e numerosi interventi su temi di attualità politica. Tra tanti vorrei ricordarne due che ben si attagliano alla sua complessa personalità: “Il liberalismo come metodo” scritto trent’anni fa ma assolutamente fondamentale per una concezione dinamica del pensiero liberale che non conosce l’usura dell’età, e uno degli ultimi “Diseguali, il lato oscuro della vita” (scritto in collaborazione con Luigi Vicinanza) nel quale si avverte una contaminazione tra un liberalismo riletto in chiave laburista e conclusioni molto vicine a un marxismo rivisitato che tuttavia – a mio avviso – resta difficilmente compatibile con le stesse radici liberali dell’autore. Una svolta discutibile, confermata da un conseguente impegno elettorale, che testimonia tuttavia quanto Ernesto restasse “metodologicamente” liberale nel rimettere sempre in discussione ogni presunta certezza, cominciando da quelle del suo stesso passato.
Con lui se ne va un interlocutore dialettico che percepiva con sofferenza la difficoltà di realizzare un’etica liberale in un mondo in veloce trasformazione; ne sentiremo la mancanza.

Franco Chiarenza
14 aprile 2021

 

PS. Chi voglia approfondire il pensiero e l’opera di Ernesto Paolozzi nella loro evoluzione può trovare un appassionato e lucido approfondimento di Costanza Pera pubblicato sul sito della “Scuola di Liberalismo” http://www.scuoladiliberalismo.it

A 94 anni se n’è andata Gianna Radiconcini. Non era una donna liberale, né diceva di esserlo: la sua stessa passionalità, l’intransigenza un po’ settaria di alcune scelte, le certezze in cui si rifugiava non si conciliavano con lo spirito di tolleranza che del liberalismo è parte essenziale. Tuttavia faceva parte a pieno titolo di quell’ampia area di democrazia laica in cui molti liberali si sono riconosciuti nelle grandi battaglie che anche la Radiconcini ha combattuto, a cominciare da quelle sui diritti. Amica e compagna di partito di Oronzo Reale apportò un contributo significativo alla prima riforma del diritto di famiglia che nel 1975 il ministro repubblicano approntò per superare le norme assurde che erano rimaste invariate dai tempi del regime fascista, per continuare, in sintonia con i radicali e noi liberali le battaglie per il divorzio, l’aborto, il diritto di decidere quando e come morire.

L’altro fronte su cui si è dispiegata l’attività di Gianna Radiconcini è quello europeista, non soltanto per essere stata corrispondente della RAI a Bruxelles, ma anche in quanto amica e collaboratrice di Altiero Spinelli, di cui condivideva la visione federalista espressa nel manifesto di Ventotene. Sosteneva che soltanto attraverso un allargamento progressivo dei poteri del Parlamento Europeo sarebbe stato possibile pervenire alla creazione di uno stato federale sul modello americano in grado di esercitare nei nuovi equilibri globali il peso che gli spettava per la sua storia, la sua cultura e le dimensioni economiche e sociali. Ha passato i suoi ultimi mesi tra una partecipazione appassionata alla campagna elettorale per il Parlamento Europeo e la scrittura del suo ultimo libro, dopo il successo di “Semafori rossi”, un’autobiografia romanzata che aveva già destato molto interesse.

I suoi amici la ricorderanno sempre coi suoi maestosi capelli bianchi, circondata da bellissime orchidee nel suo salotto romano di via Cassiodoro dove organizzava riunioni di ottimo livello su tematiche europee, sempre fiduciosa che la logica delle cose avrebbe infine prevalso mettendo d’accordo i rissosi partner dell’Unione.
Giornalista, scrittrice, animatrice di incontri politici, Gianna Radiconcini racchiudeva nella sua esistenza la complessità di una generazione che ha vissuto sulla propria pelle una trasformazione epocale senza precedenti. Non si arrendeva mai; l’ho vista in difficoltà soltanto di fronte a Internet, di cui comprendeva le potenzialità ma rifiutava la logica dei suoi automatismi. Per lei il computer era soltanto una macchina da scrivere più perfezionata della vecchia Lettera 22 con cui aveva scritto i suoi reportage.

Con me liberale il suo azionismo idealistico spesso non andava d’accordo ma in realtà per molti aspetti era più liberale lei di tanti che dicono di esserlo.

Franco Chiarenza
12 dicembre 2020

Il “gran signore” del liberalismo europeo, Valery Giscard d’Estaing, ci ha lasciato.
E’ stato una personalità di rilievo non soltanto per la Francia ma per l’intera Europa. Eletto presidente della Repubblica francese nel 1974 dopo la morte di Georges Pompidou (il successore di De Gaulle) restò all’Eliseo fino alla scadenza del mandato nel 1981. Una presidenza caratterizzata dalla sua formazione liberale, quindi molto attenta ai diritti umani e al rispetto dello stato di diritto, con in più la consapevolezza che l’unità dell’Europa non andava considerata soltanto un’opportunità da cogliere con cautela ma rappresentava ormai una necessità per la stessa sopravvivenza delle nazioni che ne facevano parte: da qui una linea di politica estera che cercava nell’asse con la Germania e l’Italia il perno su cui costruire forme di integrazione sempre più strette. Quando finalmente nel 2002 i paesi aderenti all’Unione Europea decidono di dotare le nuove istituzioni di una carta costituzionale e viene istituita per elaborarla una speciale Convenzione Giscard d’Estaing viene chiamato a presiederla (vice presidenti Giuliano Amato e l’ex premier del Belgio Jean Luc Dehaene). Il progetto, come è noto, naufragò nel referendum confermativo in Francia e in Olanda e, obiettivamente, per come era stato emendato dagli interventi cautelativi degli Stati, meritava questa fine: era farraginoso, confuso nelle competenze, poco innovativo nelle procedure decisionali, certamente insufficiente a configurare un salto di qualità verso una autentica confederazione europea. Non fu colpa della presidenza che lo aveva abbozzato in modo assai diverso, ma piuttosto di un’infinità di compromessi al ribasso che si rivelarono paralizzanti. Col trattato di Lisbona nel 2007 alcuni punti qualificanti del progetto furono ripresi e l’Unione potè compiere qualche passo avanti, ben lontano peraltro dalle aspirazioni degli europeisti.

Ma a noi liberali preme ricordare con quanto vigore Giscard difese una visione laica della cosa pubblica, nazionale o europea che fosse, quando sorse la questione del “preambolo” della Costituzione nel quale si voleva includere un esplicito riferimento alle “radici” cristiane dell’Europa (poi rettificate in giudaico-cristiane per paura delle proteste degli ebrei). L’opposizione di Giscard fu intransigente: un preambolo caratterizzato da un qualsiasi riferimento religioso costituisce la premessa di discriminazioni incompatibili con i principi laici e liberali su cui sin dalle origini si è fondata la comunità europea. Le pressioni della Chiesa (e in particolare di Wojtila e di Ratzinger) furono fortissime ma, nonostante la richiesta fosse stata fatta propria dal governo italiano (allora presieduto da Berlusconi), la proposta non passò.
Si disse di tutto, si interpretò in maniera disinvolta la storia di mille anni di intolleranza religiosa, si fece ricorso al preambolo della Costituzione americana (“In God We trust”) scritto due secoli fa in ben diverso contesto storico e comunque lontano da espliciti connotati confessionali (come poi viene stabilito nel successivo primo emendamento), si paventò l’islamizzazione del Vecchio Continente (rivelando così le reali intenzioni dei proponenti) e dobbiamo all’intransigenza di Giscard se il tentativo non sortì alcun effetto se non quello di aprire un interessante dibattito su come i partiti di ispirazione cristiana intendevano la laicità delle istituzioni pubbliche.
La questione in effetti non era secondaria, come sostenevano quanti la consideravano un innoquo dettaglio su cui si poteva transigere dato che esso non avrebbe comunque trovato nessun concreto riscontro nei successivi articoli della Costituzione. In realtà accettare la formulazione proposta da alcuni movimenti cristiani e dalla Chiesa cattolica significava rovesciare il principio di separazione tra lo Stato e le convinzioni personali, stabilendo che per ragioni storiche una determinata religione dovesse rappresentare una imprescindibile e privilegiata fonte di ispirazione negli orientamenti morali, in piena contraddizione con la concezione laica e liberale scaturita dall’Illuminismo (duramente contestata dalla Chiesa proprio per la sua intrinseca incompatibilità con le verità assolute che nella dottrina cristiana imponevano il rifiuto anche violento di ogni diversità religiosa o filosofica). Una distinzione dunque tra fede religiosa e diritti individuali che Giscard riteneva un punto fermo affinchè nella costruzione europea non trovassero spazio gli integralismi e le intolleranze che già in passato ne avevano minato le fondamenta.
Che il cristianesimo sia parte integrante della storia d’Europa è ovviamente innegabile (così come si può dire della civiltà greco-romana o di altre culture religiose come quella giudaica) ma nulla autorizza a collocarlo in posizione preminente in un testo costituzionale fondato su principi che col cristianesimo – comunque interpretato – poco hanno a che fare.

Non sempre la Francia col suo sciovinismo nazionalista e il suo statalismo invadente può essere considerata un modello per i liberali; ma sulla difesa della laicità delle istituzioni pubbliche Parigi ha sempre tenuto alta l’attenzione. Per questo saremo sempre grati a Giscard d’Estaing per un no che garantisce al Vecchio Continente un futuro non confessionale.

 

Franco Chiarenza
7 dicembre 2020

Giulio Giorello rivendicava la libertà del laico, in un paese di finti laici e laici pentiti. È una libertà difficile da esercitare, perché non si affida all’autorità di alcuna chiesa, fosse pure un’ipotetica chiesa dei laici. Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Raffaello Cortina Editore, 2005) è certamente un manifesto, ma non è un sermone; è un libro colto senza essere pedante. Giorello scriveva in modo limpido e comprensibile, come tutti quelli che hanno le idee chiare. Rifuggiva dalle filosofie arcane e criptiche che si baloccano con giochi di parole e funambolismi verbali, allusioni e rimandi. Era anche – e così i suoi libri – un uomo ironico, come lo sono in genere le persone serie.

Il suo non era un laicismo da mangiapreti, ma la riaffermazione continua di un metodo, fatto di apertura alle ragioni dell’altro e di accettazione della possibilità dell’errore. Riteneva che ogni discussione dovesse avere una base razionale, e che andasse difesa con argomenti confutabili. Scriveva infatti che “la questione non riguarda tanto l’abusata contrapposizione tra fides e ratio, quanto quella tra fallibilismo e infallibilismo, tra una verità che non pretende di salvare neanche se stessa e una verità che promette salvezza a chiunque si sottometta, tra una ragione che misura la propria gratuità e finitezza senza aver nostalgia di un fondamento e una ragione che nell’imposizione del fondamento trova il proprio sostegno e la propria giustificazione.” Esaltava il confronto e la discussione come modo per selezionare gli argomenti migliori e farli prevalere. E soprattutto criticava i molti che, in nome di più o meno precisati valori, pretendevano di imporli anche a coloro che non li riconoscevano come tali. Difendeva le conquiste del progresso scientifico da chi ne metteva in luce i potenziali pericoli, come la distruzione dei legami sociali e lo sgretolamento delle vecchie certezze. “Tali certezze non sono che idoli, cui spesso si sacrificano i destini di esseri viventi che quelle certezze non nutrono. Quanto a una società che non si riveli robusta rispetto alle perturbazioni prodotte dalla crescita della conoscenza tecnico-scientifica, è davvero responsabile difenderla?”. In questo pamphlet, Giorello si richiama a Bertrand Russell, Karl Popper, John Stuart Mill, e anche a quel Luigi Einaudi che esaltava la bellezza della lotta, contro ogni forma di paternalismo e di unanimismo. Eppure si accorge che queste idee suonano spesso inattuali, “perché l’indifferenza e la tolleranza di cui ci parlano sembrano agli antipodi degli stereotipi e modelli correnti.”

Per concludere, è opportuno spendere qualche parola sul tema dell’identità, oggi al centro di parecchie contese. Giorello osserva acutamente che si tratta di un approccio profondamente erroneo, nel modo in cui viene generalmente impostato. “Non ritengo che i rischi legati a una possibile degenerazione della società aperta e libera (o il riconoscimento del suo carattere contingente e storico) siano motivi sufficienti per ripiegare sulla clausura. Sappiamo tutti che la vita finisce con la morte: questa non è una ragione per non vivere.” Per di più, è dubbio che queste identità siano davvero definite come realtà solide e cristallizzate, se non applicando schemi semplicistici e a volte mistificatori. Senza contare che – replica ai paladini dei valori immutabili – “ben da poco sarebbero quei valori se non fossero capaci di resistere non solo a un attacco dall’esterno, ma anche e soprattutto alla critica dall’interno. E se mediante l’esercizio della critica ne troviamo di migliori, ben vengano.”

In un altro brillante volumetto – Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi, 2010) – Giorello spiega molto eloquentemente il suo punto di vista in tema di tolleranza e anticonformismo, di autonomia individuale nei confronti della società. L’ateo è per lui “colui che non aderisce: colui per il quale ogni comunità è al più una locanda dove sostare e non una dimora per tutta l’esistenza; una collettività di cui si impegna a rispettare le norme di coesistenza, ma di cui non necessariamente vuole o deve introiettare i valori profondi – perché ha uno stile diverso, o venera altri dei o nessun dio, o non ritiene che alcun valore sia così profondo da imporgli il sacrificio della propria autonomia o indipendenza di giudizio.” Oggi come ieri, sono molti i censori e gli oscurantisti che pretendono – senza averne alcun titolo – di essere i padroni della locanda, trasformandola nella loro bettola o peggio nella loro caserma. E invece clienti come Giorello – che ci ha lasciato il 15 giugno, a settantacinque anni – avremmo voluto si fermassero di più.

 

Saro Freni
25 giugno 2020

Leader storico della destra liberale, Alfredo Biondi fu tra i tanti convinti che l’avventura berlusconiana potesse trasformarsi in una proiezione di liberalismo popolare, facendolo uscire dalla condizione di minorità in cui era stato relegato dopo la seconda guerra mondiale. Una grande illusione che si infranse davanti all’evidenza che il culto della personalità e il populismo sono irrimediabilmente antitetici alla cultura liberale di qualsivoglia orientamento.
Per un biennio fu nel primo governo Berlusconi ministro della giustizia dove svolse il suo compito in un momento difficile quando le inchieste del pool di “mani pulite” stavano dissolvendo l’intera classe politica della prima repubblica aprendo la strada a una pericolosa deriva giustizialista; il suo tentativo di restaurare lo stato di diritto riportando il problema del finanziamento illecito ai partiti nell’ambito della rappresentanza parlamentare (seguendo peraltro la traccia già indicata dal guardasigilli che lo aveva preceduto, Giovanni Conso) fu bloccato da una protesta pubblica dei magistrati milanesi che costituì un pericoloso precedente di intrusione nei poteri che la Costituzione attribuisce esclusivamente al Parlamento.

Ho conosciuto Biondi nel breve periodo in cui ho fatto parte della Direzione Centrale del PLI (1988/89) dove, malgrado il mio stretto legame con la maggioranza che sosteneva la segreteria Altissimo (mentre ovviamente lui capeggiava l’opposizione interna), ci trovammo talvolta d’accordo nel criticare la politica sostanzialmente immobilista che il partito svolgeva in quegli anni. Conservo ancora i biglietti che mi passava in quelle occasioni. Era una persona corretta, animata da una profonda buona fede anche nelle sue scelte più discutibili, quando ancora la politica si basava sul confronto delle idee e non sulla contrapposizione di slogan dietro i quali c’è spesso il vuoto.
Altri tempi; non so se migliori o peggiori, certamente diversi.

Franco Chiarenza
24 giugno 2020

Se esiste un Aldilà Luciano Pellicani sorriderà di questa sua postuma iscrizione al liberalismo; lui, socialista doc, consigliere e amico di Craxi e di Martelli. Eppure raramente, anche tra i liberali che credono di essere tali, ho conosciuto una persona che meglio di Pellicani sollecitasse la mia curiosità intellettuale ed esercitasse con le sue teorie sociologiche e politiche un’attrazione del tutto compatibile col mio essere liberale.
Ho collaborato con Pellicani alla scuola di giornalismo della LUISS e in seguito ho avuto occasione di incontrarlo alla Fondazione Einaudi di Roma e a “Mondo Operaio” quando si cercava di immaginare qualche soluzione all’annoso problema del servizio pubblico radio-televisivo.
Colto, intelligente, chiaro nelle sue esposizioni, aperto anche alle contestazioni non pretestuose, era molto apprezzato dai suoi studenti alla LUISS.
Prima che la Fondazione Einaudi sprofondasse avevo cercato di costituire una sorta di “accademia” liberal-democratica (Consulta Liberale) col compito di adeguare concettualmente il liberalismo alle nuove esigenze che scaturivano dai processi che esso stesso aveva innescato nel secolo scorso; gli chiesi di farne parte insieme ad altri esponenti della cultura politica di quegli anni che ritenevo culturalmente contigui ai più recenti sviluppi del pensiero liberale. Accettò senza riserve e si rammaricò quando il progetto fallì per il venir meno della Fondazione stessa, passata poi in mano ad altri meno interessati ad approfondire tali tematiche.

Si deve a Pellicani se il partito socialista, superando l’impasse marxiana e riscoprendo antiche matrici umanitarie e libertarie, riuscì ad approdare con la leadership di Craxi a una concezione democratica socialista molto contigua a quella liberal-democratica. La sua avversione al leninismo, documentata in molti suoi scritti, si traduceva non soltanto in un rifiuto del comunismo come si era storicamente realizzato ma anche dei maldestri tentativi riformisti di quanti dopo il crollo del 1989 si ostinavano a mantenere forma e sostanza superati dalla storia accontentandosi di una sommaria riverniciatura che rendesse accettabile l’alternativa di sinistra in un contesto irreversibilmente pluralista. Fu l’ispiratore della fase migliore del “craxismo”, quando la leadership socialista si propose come soggetto di una profonda riforma istituzionale, politica e sociale, in grado di allineare l’Italia ai paesi più avanzati dell’Occidente. La sua speranza di realizzare anche in Italia un bipolarismo costruttivo fondato su un’alternanza che si riconoscesse in alcuni principi fondamentali dello stato di diritto non si è mai realizzata. Dall’egemonia monopartitica della DC il Paese è scivolato in un’alternanza di maggioranze populiste e ambigue, caratterizzate da leadership personalizzate che si delegittimano reciprocamente; un esito che Pellicani non aveva previsto, come d’altronde nessuno di noi.

Franco Chiarenza