Foto: sito www.fratelli-italia.it

La vittoria di Giorgia Meloni è stata netta e inequivocabile, inutile girarci troppo intorno.
Vale la pena invece fare qualche riflessione sulle ragioni del suo successo e sui rischi che presenta questo nuovo quadro politico per una società che noi liberali vorremmo aperta e integrata nelle istituzioni europee.
E non a caso dico “vittoria di Giorgia Meloni” e non del suo partito Fratelli d’Italia perché credo che in questo caso la specificità della leadership sia stata determinante.

Perché ha vinto
Tutti (compresi i suoi alleati dello schieramento di destra) attribuiscono la ragione principale del successo di FdI al fatto di essere rimasto sempre all’opposizione, anche nell’intera scorsa legislatura quando si è passati disinvoltamente attraverso maggioranze multicolori tra loro ideologicamente poco compatibili. L’opposizione paga sempre e certamente anche in questo caso il suo peso è stato fondamentale; ma bisogna essere ciechi per non vedere che c’è dell’altro, anche perché la storia, le radici, i punti di riferimento culturali della Meloni sono assai più netti di quelli espressi da movimenti effimeri come i Cinque Stelle, Italia Viva, e la stessa Lega che da “partito del nord” si era trasformata in un movimento populista nazionale. Certamente Giorgia Meloni ha saputo destreggiarsi nei labirinti della politica con maggiore abilità del suo più diretto concorrente Matteo Salvini il quale ha infilato una serie impressionante di errori a partire dal Papeete del 2019 fino alle ambiguità che hanno caratterizzato la partecipazione al governo Draghi, nei cui confronti invece la leader di FdI aveva costruito un rapporto di opposizione responsabile che ricordava il fair play della prassi parlamentare britannica (chiaramente apprezzata dal presidente del consiglio). Anche i Cinque Stelle, concentrando sul reddito di cittadinanza e sugli inceneritori buona parte della loro identità, hanno perso nel centro nord più consensi di quanti ne abbiano mantenuti al sud, lasciando campo libero alla Meloni che i suoi punti di forza in Lombardia li ha sempre avuti. In questo modo si è prodotto un incredibile rovesciamento dei ruoli che ha confinato la Lega “nazionale” a simbolo di un estremismo plebiscitario e sovranista (che fino a poco tempo prima pareva appartenere soprattutto all’estrema destra post-fascista) mentre il movimento fondato da Meloni, Crosetto e Larussa sulle ceneri di Alleanza Nazionale indossava un più rassicurante abito moderato (anche se qualche strappo di fanatismo nostalgico fuori controllo ogni tanto spuntava fuori). Una trasformazione che una parte consistente dell’elettorato leghista delle regioni settentrionali ha colto immediatamente esprimendo col voto alla Meloni il suo dissenso nei confronti di un estremismo anti-occidentale che di colpo era diventato la nuova carta d’identità della Lega nazional-populista; persino nell’aspetto fisico Salvini con la volgarità dei suoi social, con gli slogan di cartapesta insignificanti per chiunque avesse un livello conoscitivo medio, sembrava ricordare il Mussolini dei primi tempi. Anche Berlusconi ha fatto la sua parte: la consistenza parlamentare di Forza Italia deriva dagli accordi preliminari con i partner di destra ma il suo fallimento come punto di raccolta della destra moderata è dovuto alle ambiguità filo-putiniane e alla mancanza di un progetto in cui i ceti medi che avevano appoggiato il governo Draghi potessero riconoscersi. Alla fine la fermezza “senza se e senza ma” con cui la Meloni ha proclamato la fedeltà all’alleanza atlantica è risultata vincente perché rappresentava un’affidabile dimostrazione di serietà.
Molti hanno rilevato l’importanza del fattore “donna”, e hanno ragione. La novità (per l’Italia) di un capo del governo declinato al femminile ha certamente orientato il voto di molte donne soprattutto perché contrapposto al maschilismo volgarmente esibito da Salvini e Berlusconi.

Chi l’ha votata?
Le analisi del voto sono quasi unanimi: pensionati, anziani, prevalentemente ceto medio, distribuiti in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale; pochi giovani. Ma in un paese di vecchi come sta diventando l’Italia tanto basta, anche al netto dell’effetto trascinamento che, come sanno gli esperti della materia, si produce quando un partito è percepito come possibile vincente e che trasforma un successo elettorale in un trionfo. Con la fine dei partiti ideologici e l’affermazione delle leadership personali il fenomeno si è accentuato determinando spostamenti di milioni di voti: è successo con Berlusconi, con Renzi, con Grillo, con Salvini e oggi si ripete con Meloni. Voti però molto fluidi, non ancorati a ideologie né a radicamenti storici, senza chiare e definite priorità politiche e sociali, e quindi instabili e pronti a defluire in altre direzioni. Un contesto in cui i sondaggi contano più delle maggioranze parlamentari e di cui anche la Destra dovrà tenere conto.

Quali rischi?
Non credo che la nostra democrazia e i pochi elementi di liberalismo in essa contenuti corra pericoli nell’immediato. L’interesse di Giorgia Meloni è di proseguire nella strategia rassicurante che l’ha fatta vincere: ne avremo conferma nella composizione del governo dove cercherà di limitare le pretese identitarie di Salvini, nella collaborazione con Draghi per la gestione della fase di transizione (soprattutto per quanto riguarda il PNRR e i rapporti con la BCE), nell’apertura di un tavolo per le riforme costituzionali aperto all’opposizione e nella consapevolezza che le sue radici costituiscono un limite alla possibilità di avviare un rapporto costruttivo con le parti sociali (sindacati, Confindustria, ecc.).
Non temo quindi grandi cambiamenti nella politica economica; l’Italia è inevitabilmente vincolata ai trattati europei e il suo debito pubblico troppo dipendente dalla tolleranza dei partner per consentire colpi di testa che la farebbero finire in bancarotta. Chiunque occuperà il posto di Daniele Franco lo sa e dovrà tenerne conto al di là degli slogan “Italia first” e simili con cui la Meloni ha condito la parte demagogica inevitabile in ogni campagna elettorale (peraltro con molta prudenza in tema di bilancio).
I veri problemi sorgeranno in un secondo tempo quando, consolidata la sua leadership, la Meloni dovrà affrontare questioni che più attengono ai diritti individuali, sapendo che una parte importante del suo nuovo elettorato non si riconosce nell’ideologia familistica, anti-abortista e nazionalista che cova nella pancia identitaria del suo partito. Non saranno certo l’indifferenza narcisistica di Berlusconi, né una Lega a guida salviniana cosparsa di rosari e santini a frenare pericolosi scivolamenti verso i modelli polacchi o ungheresi; al contrario. Quello sarà il momento in cui l’opposizione di sinistra e ancor più un centro depurato dai personalismi e rifondato su una carta liberale che riproponga i valori di una società aperta potranno svolgere un ruolo determinante.

Franco Chiarenza
28 settembre 2022

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